Intelletto

Nell’elenco indicato dal profeta Isaia, che è divenuto l’ordine tradizionale con cui si ricordano i sette doni dello Spirito Santo, il secondo è l’intelligenza o intelletto (cf. Is 11,).

L’evangelista Luca, l’autore sia del Vangelo che degli Atti degli Apostoli, per due volte tratta dell’intelletto nella liturgia odierna.

A proposito della condanna di Gesù, l’apostolo Pietro dice ai capi del suo popolo: “Io so che voi avete agito per ignoranza”; invece il racconto evangelico afferma che il Risorto “aprì ai suoi discepoli la mente per comprendere le scritture” (la traduzione precedente diceva: “aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture”.

Nel linguaggio comune si parla di diversi tipi di intelligenza:

ad esempio l’intelligenza emotiva, o un’intelligenza matematica. Per capire il significato dell’intelletto, dobbiamo pensarlo come l’aiuto dello Spirito Santo per comprendere Gesù e il suo mistero.

Si tratta di mettere insieme tutti gli indizi su di lui, come dei Sherlock Holmes della fede, attraverso tutti i nostri sensi, compresi quelli spirituali ed emotivi, per giungere a dire: “Gesù è vivo, il Signore è veramente risorto!”.

Di conseguenza,

il dono dell’intelletto ci fa vivere sempre nella luce della resurrezione:

plasma il nostro percepire a partire dalle tracce della vita di Dio nel mondo, e ci aiuta a vivere non nelle tenebre del sepolcro, ma nella gratitudine per l’esistenza.

Don Davide




Sapienza

Il primo dei sette doni dello Spirito Santo

Sette domeniche ci accompagnano dalla Pasqua alla Pentecoste. Ho scritto sul sito internet della parrocchia che, nella vita spirituale, questo è il tempo più importante dell’anno, anche se nella formazione cristiana siamo stati abituati a impegnarci particolarmente nella Quaresima. Invece è in questo periodo che la fede cristiana viene illuminata nella sua verità: “Nessun vantaggio per noi essere nati, se Cristo non ci avesse redenti” è scritto nell’Annuncio Pasquale, il grande inno che apre la Veglia Pasquale.

Nell’itinerario di questo periodo approfondiamo la verità della resurrezione, che dà senso al dono della vita di Gesù e nostra, e che sigilla la bontà del Vangelo. Dalla resurrezione di Gesù deriva poi il dono dello Spirito, che anima la vita della Chiesa e la rende testimone efficace del Risorto.

Per questo motivo ho scelto di dedicare le prossime sette domeniche a un percorso di catechesi pasquale, in preparazione alla Pentecoste, attraverso i sette doni dello Spirito Santo. Le domeniche del tempo di Pasqua non sono scandite dall’ordine dei suddetti doni, ma scopriremo che ci sono molti contatti e molte luci che possono derivare da questi collegamenti, che ci aiuteranno a fare un vero percorso spirituale e anche a cogliere, con inedita ricchezza, qualche particolare del Vangelo e degli appuntamenti che vivremo in queste settimane (ad es. i sacramenti del catechismo, la visita della B.V. di S. Luca).

Iniziamo, dunque dal dono della Sapienza che è il primo dei doni dello Spirito, e va a braccetto con l’ultimo: il Timor di Dio.

“Principio della sapienza è il timore del Signore” recita la massima sapienziale più importante di tutta la Bibbia. Il primo e l’ultimo, l’ultimo e il primo dei Sette (guarda caso, il numero perfetto!): la Domenica in Albis – giorno splendente della Pasqua dei neofiti – e la Domenica di Pentecoste – giorno splendente della neofita Chiesa – che annuncia il Cristo senza alcuna paura (il Timore, lo scopriremo, è molto diverso dalla paura!).

Viene in mente l’immagine del serpente che si mangia la coda, antico simbolo dell’Eterno Ritorno, ma qui c’è una differenza sostanziale: Sapienza e Timor di Dio, Pasqua e Pentecoste, non si richiamano in un cerchio chiuso in se stesso, ma piuttosto in un movimento a spirale, dove il cerchio è sempre aperto, sempre un po’ più grande e spinge sempre in alto come un vortice di bene, verso nuovi orizzonti e a un’esplorazione infinita.

Così il dono della Sapienza, a braccetto con il Timor di Dio, ci aiuta a comprendere, nella luce della Pasqua, il nuovo ordine di Dio,

dove la resurrezione sblocca ogni cosa fissa e perduta portando vita, dove il ladro pentito viene accolto nel Regno dei Cieli, la morte è sconfitta dall’amore, la violenza è riscattata dal perdono, i disperati vengono persuasi della speranza, gli sfiduciati della fiducia, ai poveri è annunciata la buona novella e il nostro intimo si apre alla vita spirituale.

La Sapienza viene donata a noi quando abbiamo rispetto dell’opera di Dio e ci accostiamo ad essa con umiltà e fiducia: “Ecco l’opera di Dio: una meraviglia ai nostri occhi!”, esclama un salmo (117,23).

Non basta vedere fisicamente, si tratta di guardare con gli occhi del cuore e dell’amore. Esattamente come è accaduto ai discepoli, che vedevano Gesù risorto e non lo riconoscevano, poi quando cominciavano a guardare con gli occhi del cuore, tutto diventava chiaro.

La Sapienza, dunque, è il dono dello Spirito Santo che ci fa vedere con uno sguardo penetrante la vita risorta nella vita vecchia del mondo.

È il dono che ci rassicura che l’ordine nuovo è quello della resurrezione, e anche se ci sembra che non ci siano pace, amore e armonia, in realtà esse ci sono, sono state seminate nel cuore di chi crede nella resurrezione, e sono destinate a crescere, e – come in un vortice di bene – ad avvolgere tutto.

Don Davide




Omelia Veglia di Pasqua

In questi giorni, la liturgia del Triduo ci ha fatto meditare sul dono della comunità e sulla grazia della verità. 

C’è un terzo dono che ci porta la celebrazione della Veglia Pasquale: il dono della vita. 

Tutti noi siamo qui a celebrare la Pasqua, perché osiamo sperare nella resurrezione. 

Da questo punto di vista siamo più audaci delle donne, che vanno al sepolcro con la sola speranza che qualcuno ne apra l’ingresso, per ungere il cadavere di Gesù. 

Loro non riescono nemmeno a immaginare che Gesù sia risorto, noi invece siamo qui per essere confermati in questa fiducia. 

Non si tratta di crearci una nostra consolazione dai mali del mondo e dalla paura della morte.  

Non vogliamo illuderci e non siamo illusi. 

La resurrezione non è una cosa che ci siamo inventati noi. 

C’è un segnale indicatore molto forte: una pietra rotolata sulla sua guida. 

Ci sono delle pietre che rotolano dal sepolcro.  

Io l’ho visto quest’anno, preparando i 21 catecumeni adulti che hanno chiesto il Battesimo, con le loro testimonianze. Lo sperimento tutte le volte che vado ad accompagnare il weekend di Retrouvaille, quando confesso, quando vedo la grazia sconfiggere il peccato. Lo sento quando l’amore si spande nel mondo come un profumo intenso o quando la gentilezza e la gratuità rischiarano l’ombra di tante difficoltà. 

Ma questo non basta. Rotolare via la pietra è solo il primo passo. 

Poi bisogna vivere. Ritornare sui passi di Gesù, perché ci istruisca di nuovo nel vangelo. Sì, perché il Vangelo noi non lo impariamo in un raro momento di slancio spirituale, ma lo apprendiamo nella vita quotidiana, nella vita di tutti i giorni. 

In realtà, siamo immersi nel Vangelo e nell’amore di Dio, che ne è come il condensato concreto, anche se spesso siamo distratti e non lo vediamo, oppure lo diamo per scontato. 

Ieri abbiamo ascoltato alla fine del racconto della Passione questa affermazione: “Chi ha visto ne dà testimonianza” (Gv 19,35). Permettetemi perciò di applicare un metodo della spiritualità ebraica ai testi che abbiamo ascoltato, e di raccogliere in un piccolo midrash – uno scenario interpretativo – la testimonianza di tre “testimoni oculari” della vita: l’angelo dell’accampamento, la pietra del sepolcro, il giovane. 

L’angelo 

Io ho ricevuto il comando per la strategia di battaglia dal generale degli eserciti celesti. Mi sono mosso per bloccare l’esercito degli Egiziani. Non pensate alla guerra con la vostra sensibilità, io ho compiuto un’azione per separare gli oppressi dagli oppressori, per ostacolare chi fa il male e favorire le vittime. In questo io sono testimone della vita: che il Dio delle schiere schiera la sua forza perché ci sia un argine a tutti gli eserciti della morte. Purtroppo non è una cosa da prendere alla leggera. È una vera battaglia e io la combatto perché gli eserciti delle guerre sprofondino nel caos e risulti salva la vita dei popoli.  

La pietra 

Il mondo che conoscevo è andato sottosopra, quando ho sentito qualcosa che mi spingeva. Non era la solita forza di un uomo o di una leva. Questa volta era lieve, come se io fossi una piuma. Non ho potuto vedere quel che accadeva, ma so che di solito la luce entra attraverso la porta quando è aperta, invece in quel momento uscì. Fu un’eclissi al contrario. Sentii aria fresca che mi accarezzava, come se non avessi più dovuto accogliere la morte. In questo io sono testimone della vita: che ci sono forze, spesso lievi, come la fiducia o una carezza, che muovono macigni bloccati e che nessuna presenza mortifera è autorizzata ad avvelenare il mondo. 

Il giovane 

Non so come io sia arrivato qui, ma so perché ora mi ritrovo qui. Fuori dal tempo e dallo spazio, ero seduto con il capo di Gesù sulle gambe. L’ho accarezzato, come una madre col suo bambino, fino a che ha aperto gli occhi e ha ricominciato a respirare. Il suo sguardo e il soffio della sua vita hanno rinvigorito il mio corpo e reso i miei lineamenti distesi e morbidi. In questo io sono testimone della vita: prima di uscire lui mi ha ringraziato. “Vado a ricominciare tutto” ha detto, “perché tutto possa ricominciare, in tutte le vite. Per questo tu sarai sempre giovane, perché è l’età in cui si inizia”. 

Rendo, allora, anch’io la mia semplice testimonianza al Vangelo e, con esso, alla Vita. 

L’incontro con il Vangelo e il dono della vita mi fanno provare un intenso sentimento di gratitudine e un’emozione fiduciosa di affidamento e di responsabilità. 

Per me, se la vita fosse una sinfonia, sarebbe qualcosa di armonioso, risolto e disteso, con degli intermezzi in maggiore e delle strofe dissonanti, che trasmettono energia e sorpresa. Se fosse musica contemporanea, sarebbe un misto di tutti i generi, dal pop al rock peso, con le barre rap, degli stacchi acustici e indi, e delle improvvisazioni di jazz. 

Se fosse un paesaggio, sarebbe forse un panorama di montagna, con i suoi contrasti tra il verde dei boschi e le rocce maestose, e il cielo che ammanta di pace una valle; oppure il sorgere del sole all’alba, sul mare. 

Nelle persone, per me la vita si esprime nel sorriso dei ragazzi e delle ragazze, nell’affetto di un bimbo, nella premura di una mamma, nella tenerezza di un papà, nella complicità di due sposi e nell’affabilità degli anziani. 

Alla vita penso quando vedo l’albero in fiore di fronte alla mia finestra, in mezzo a tanto cemento, quando una giovane mi racconta che va a fare volontariato, quando scopro che i legami creati sono variopinti e ricchi, e si rigenerano nel tempo come gli alberi a primavera. 

La vita mi insegna il vangelo quando le persone fanno dei sacrifici per amore, dove ci sono le pazienze, la resilienza, la tenacia di non disperarsi e di affidarsi alla provvidenza. 

Il vangelo mi insegna la vita dove c’è impegno per la giustizia, costruzione della pace, cura delle ferite, perdono, superamento tenace di tutte le discriminazioni. 

(Pausa) 

Io ho proposto un piccolo esempio, a servizio della liturgia. Ma tutti dobbiamo chiederci: come rendo testimonianza al Vangelo della Resurrezione? Credo che la cosa più importante sia non cercare lontano. Forse, un giorno, il Signore ci condurrà lontano, ma per adesso si tratta di prendere consapevolezza che siamo già qui, ora, immersi nella Vita.   

 Don Davide




Omelia Venerdì Santo

Nella prima scena di questo racconto, si fronteggiano Gesù e Giuda. Sono amici, anche se Giuda non è rimasto nel cenacolo fino ad ascoltare le parole di Gesù: “Non vi chiamo più servi, ma amici”. Gesù lo aveva voluto personalmente tra quegli amici che erano destinati per primi a conoscere l’amore di Dio per il mondo, gli aveva lavato i piedi e gli aveva offerto il suo affetto, perché si allontanasse dal suo proposito e si affidasse all’amore. 

Ma, nel momento in cui aveva accolto quel boccone e aveva deciso di andarsene, Giuda era sprofondato nella notte, in balia di Satana. 

Il loro incontro al Getsemani è impressionante. È un posto che Giuda conosce, perché era un luogo di preghiera condiviso. Com’è possibile che si sia tramutato in uno spazio di lacerazione così profonda? 

Gesù è lì con i discepoli. Giuda arriva con il suo seguito. Non è un assalto, ma uno schieramento di due fronti opposti: Gesù davanti ai suoi, Giuda con i soldati e le guardie. 

Dallo scambio che segue, pare che Giuda non riconosca Gesù: Gesù è lì davanti ai suoi occhi, con tutta la loro storia condivisa e chiede: “Chi cercate?” e Giuda parla di lui in terza persona: “Gesù il Nazareno”. 

Come è stato lo scambio di sguardi tra Giuda e Gesù? 

La passione degli uomini e delle donne inizia quando uno non riconosce più l’altro, con il quale ha condiviso una storia insieme e una speranza di bene per il futuro. 

Le croci del mondo cominciano ad essere piantate quando in una coppia che ha deciso un progetto di vita insieme non ci si riconosce più, si diventa avversari e nemici; quando due popoli che parlano una lingua simile come i russi e gli ucraini, o che vivono da decenni nella stessa terra come gli ebrei e i palestinesi, cominciano vedere nell’altro nient’altro che un nemico; quando un essere umano non riconosce più un essere umano, con la stessa dignità e lo stesso bisogno di essere rispettato e amato; quando fra amici si litiga e non ci si riconcilia più, dimenticando tutto ciò che di bene c’è stato. 

Si tratta di non riconoscere la verità sulla nostra vita, sugli incontri che abbiamo fatto e le relazioni che abbiamo costruito. 

Che cos’è la verità? Chiede Pilato a Gesù, ma poi non si ferma ad ascoltare la risposta.  

Che cos’è la verità? È una domanda che sta letteralmente al centro di questo racconto e avrebbe potuto segnare una svolta. Pilato sa che Gesù è senza colpa. Per tre volte lo dice di fronte agli accusatori e per altrettante volte cerca di liberare Gesù, ma alla fine volta lo sguardo dall’altra parte.  

Questo accecamento di fronte alla verità delle cose stordisce tutti quelli che hanno a che fare con Gesù e non si lasciano illuminare dalla luce che potrebbe riportali a se stessi:  

  • Pietro, che nega platealmente di conoscerlo; 
  • i suoi accusatori, che possono voler uccidere ingiustamente un uomo con il consenso dell’Impero, ma non si vogliono contaminare calpestando il cortile del governatore; 
  • i capi dei sacerdoti – la classe dirigente, il governo del popolo – che proclamano di avere come unico re l’Imperatore di Roma. Questa affermazione è un tale infarto teologico, che tutte le Scritture di Israele potrebbero bruciare al sentirla. 

Tutte le croci e la passione del mondo sono simboleggiate nella passione e croce di Gesù, proprio in questo stare di fronte alla realtà, riconoscere la verità… e fare finta di niente. È una obliterazione totale della coscienza e del senso della propria esistenza. 

Di fronte a questo scenario Gesù svela a sua madre e al discepolo la verità della loro esistenza, così che lo stesso discepolo possa finalmente dare testimonianza della verità. 

Qual è, dunque, la nostra verità? È generare ed essere generati. È essere madre e figli e riconoscere la Chiesa, madre e discepola, come lo spazio di comunione dove possiamo rispondere alla nostra vocazione.  

Credo che sia importantissimo sentire questo dovere di generare, ma allo stesso tempo di lasciarsi generare; di proporre un esempio e di lasciarsi educare; di insegnare e di apprendere; di guidare e farsi condurre; di trasmettere vita e accettare che la vita si riceve sempre in dono dagli altri. 

È così che ogni discepolo rende una testimonianza vera dell’amore di Gesù e della rivelazione di Dio. In tutta quella confusione e allontanamento dalla verità di se stessi, il cuore aperto del Crocifisso ci riporta alla possibilità di affermare che questa è la verità, non un’altra: l’amore incondizionato di Dio riversato senza misura su ogni uomo e su ogni donna. 

Fra poco faremo il rito dell’adorazione e, per chi vuole, del bacio della croce. Al termine della processione e del canto vorrei poi lasciare uno momento di silenzio per stare davanti alla croce e chiedere al Signore di aiutarci a fare verità in stessi. 

Che Gesù possa illuminare i nostri sentimenti, rischiarare i pensieri, aiutarci a riconoscere chi siamo, cosa abbiamo costruito, quali sono i nostri desideri profondi. 

Che la sua croce ci aiuti a riconoscere le nostre paure e ad affrontarle, e ad apprezzare il senso della nostra vita e la nostra vocazione. 

Non basteranno questi pochi minuti, ma potrebbero essere un inizio verso un contatto sempre più vero con noi stessi 

C’è un’ultima verità, da scoprire. Gesù viene deposto in un giardino, in una tomba in cui nessuno era stato ancora deposto. Una tomba nuova, che non aveva ancora conosciuto la morte.  

Il giardino richiama il dono della Creazione. Gesù viene deposto in un giardino, in una tomba vergine che rispedirà la morte al mittente, perché sia chiaro a tutti che, in verità, non c’è proprio più posto per la morte in questo giardino. 

Don Davide




Omelia Giovedì Santo

La cena pasquale degli ebrei aveva assunto un valore rituale importantissimo. Era celebrata come la fonte di vita per tutta la comunità di Israele. L’inizio da cui derivava l’esperienza di appartenere al Signore e la libertà di essere popolo, che potrebbero essere due aspetti significativi anche per noi, tradotti nel modo seguente: che cosa significa essere cristiani? Che cosa significa essere chiesa?  

Nella cena pasquale l’aspetto rituale è fortissimo: l’agnello non deve avanzare fino al mattino e se uno mangiasse il lievito dovrebbe essere escluso dalla comunità, perché in quella notte il passaggio del Signore è avvenuto prima del mattino e il popolo di Israele parti dall’Egitto in gran fretta, prima che il pane fosse lievitato. 

Tutto deve essere racchiuso in quella notte. 

Come abbiamo sentito dalla II lettura, anche per i cristiani è rimasta questa impronta rituale fortissima: Gesù ha detto le parole di quella che sarebbe diventata la Cena del Signore – l’Eucaristia – nella cena pasquale. 

La comunità di Giovanni e, con essa, il redattore del IV vangelo – riflettendo molti decenni dopo su cosa distingua la vita cristiana dal mondo – ricordano che in un contesto rituale molto importante, quello della cena pasquale, Gesù ha compiuto un’azione totalmente irrituale: un servizio che doveva essere compiuto prima di prendere cibo, appena entrati in casa, perché era la soglia di passaggio tra l’impurità e la purità.  

Quindi nel solenne rito della Pasqua assistiamo a questo impressionante atto di Gesù, che sintetizza l’insegnamento del Maestro e Signore: lavare i piedi.  

Lavare i piedi: gesto ospitale per eccellenza (che vuol dire: ti accolgo e sei il benvenuto nella mia casa) e gesto di servizio nel ruolo del servo, anche se sei il padrone di casa. 

Questo fanno i cristiani come segno distintivo della loro fede e opera sorgiva del loro essere chiesa e comunità. 

Pietro, invece, esprime perfettamente la logica del mondo: “Io sono un servo fedele al suo capo”. Ma è esattamente l’opposto che conta: il capo vuole insegnare a servire, non se ne fa nulla di qualcuno che dica: “Io darò la mia vita per te”. È lui che ha dato la vita per noi una volta per tutti, e noi dobbiamo darla per i fratelli e le sorelle. 

Molto diversamente dai capi e dai potenti del mondo, Gesù non ha bisogno di sottoposti, ma di amore-posti. Gesù non vuole schiavi, ma persone libere e fraterne. 

Mentre si consuma la terza guerra mondiale a pezzi, sperando che i pezzi non si congiungano, ma anzi diminuiscano, e che i focolai si spengano, sento la grande responsabilità di essere una comunità cristiana autentica ed originale nel vivere la fede, il servizio fraterno e l’amicizia reciproca. 

Di fronte ai poveri, all’individualismo, alla solitudine e all’indifferenza, sento il bisogno di essere una comunità cristiana che fa spazio nella propria casa, insegna lo stile di lavarsi i piedi e di servirsi, invece di sopraffarsi. 

Qualche giorno fa, è stato celebrato qui in questa chiesa il funerale di Pilar, una ragazza di 22 anni, non della nostra parrocchia, morta di anoressia. Al cospetto delle sofferenze dei giovani (e delle loro famiglie e amici), e pensando alla vitalità esplosiva che potrebbero esprimere e alla loro capacità di fare nuovo il mondo, sento il dovere di stare vicini, di essere una comunità cristiana affettuosa, un cenacolo dove si dicono e si vivono le cose più vere e dove si può aprire il cuore all’amore e a un’incoraggiante promessa di vita.  

 Fra poco ripeteremo il gesto della lavanda dei piedi. Dobbiamo ricordarci che io lavo i piedi a te, mentre a me li ha già lavati Gesù. Coloro che si lasciano lavare i piedi da Gesù la smettono di pensare a quello che possono fare per lui, accettano il grande dono di imparare l’amore, e che sia lui il modello di cui abbiamo bisogno. 

“Lo capirai dopo” dice Gesù a Pietro. Questi sono i giorni di ricevere l’esempio da Gesù e di dare amore alla comunità. Nell’Eucaristia, noi celebriamo continuamente questa sorgente zampillante che permette la vita nostra, della comunità cristiana e anche del mondo intero, se accettiamo questo insegnamento di deporre le vesti e di lavare i piedi nel ruolo del servo. 

 Che cos’è dunque l’eucaristia? È la scuola dove impariamo l’amore. 

Che cosa significa celebrare? Significa allenarsi a servire. 

Come si vive da cristiani? Accogliendo l’altro nella casa che edifichiamo insieme, la chiesa, e scoprendo la bellezza della nostra vita che serve. 

Don Davide




L’equazione della vita

Che cosa può fare di decisivo una comunità cristiana nel mondo di oggi?

Vincere le paure.

Le paure caratterizzano gli scenari geopolitici, la percezione del futuro e l’interpretazione della vita personale, e culminano nella grande illusione di rimuovere la morte, per paura.

Il grande testimone di Gesù risorto, nel Vangelo di Pasqua, esorta a non avere paura.

Le donne, apprendiste discepole ancora sul margine della resurrezione, sono invitate a non avere paura.

Al centro l’annuncio: Gesù il crocifisso, è risorto (Mc 16,6).

Questo contrasto tra la crocifissione e la vita, tra il pungiglione della morte e il suo più grande antidoto, è la ragione sufficiente per non avere paura.

Ma qual è il cammino per non essere più schiacciati dalle paure?

Il punto di partenza è esprimere una cura concreta per Gesù, non in senso molto spirituale, ma pensando al suo corpo, a una relazione vera con lui: volevano andare a ungerlo (Mc 16,1).

In maniera sorprendente, quando diamo seguito a questo proposito, la strada si spiana sotto i nostri passi: la pietra era già stata rotolata via. Non c’è ostacolo che ci possa bloccare, benché molto grande (Mc 16,3).

Qui, però, accade qualcosa di strano: Gesù non si palesa.

La resurrezione è annunciata da un testimone orale, e noi stessi siamo invitati a diventarne testimoni.

Non è tanto una questione di vedere fisicamente Gesù, quanto il fatto di seguire le sue tracce e scoprire che si fa esperienza della resurrezione per la testimonianza autorevole e piena di fiducia di qualcuno, che poi facciamo nostra.

Tuttavia, il timore non passa.

La versione liturgica del vangelo non lo riporta, ma il racconto finisce con la nota enigmatica delle donne che “non dissero niente a nessuno perché avevano paura” (Mc 16,8).

Sembra, dunque, che non sia vinta quella maledetta, atavica paura e risulta straziante che il racconto del mattino della resurrezione concluda così. Invece è un bellissimo finale aperto. La testimonianza della resurrezione è giunta fino a noi. Quelle donne, a un certo punto, sono state trasformate e hanno annunciato Gesù.

Dalle parole di un giovane, dunque, inizia il processo di erosione della paura, che è anche un occupare spazio della fiducia.

Lì, piano piano, sorge la fede, così che vale l’equazione: V = +F -p (Vita uguale: più Fede, meno paura).

Possiamo allora fare un fagotto delle nostre paure, e buttarcele alle spalle.

Sentiremo così dilatarsi, simultaneamente, la verità della resurrezione.

Voglio invitare, pertanto, la mia comunità parrocchiale a non avere paura. Preoccupiamoci di essere buoni testimoni di Gesù, con le parole e l’esempio, lui farà germogliare la fede, come, dove e quando vuole.

Invito i giovani a non avere paura. Cercate in modo sincero Gesù, gli ostacoli saranno rimossi lungo il cammino, nel mondo ci saranno cose nuove e potrete cercare una vita piena e realizzata nel vostro cammino.

Dico a me stesso e a tutti gli adulti di non avere paura. Il mondo si rinnova sempre. Il dono dello Spirito lo rinnova. A noi essere tramiti dello Spirito del Risorto, senza pensare alle cose vecchie, che sono passate, mentre ne nascono di nuove.

Infine, vorrei invitare la chiesa e il mondo a non avere paura.

La chiesa a non avere paura di aprirsi: non si tratta di adattarsi allo spirito del mondo e del tempo, ma di scoprire che il vangelo può dire cose originali e ancora inedite, che ci danno una migliore comprensione della realtà.

Il mondo a non avere paura di rovesciare le pietre tombali. Se solo avessimo il coraggio di farlo, scopriremmo un’altra prospettiva. Capiremmo che l’unico nemico è la morte e che per il resto possiamo vivere da fratelli e in pace.

Don Davide




Tre ore di buio

Tre ore di buio su tutta la terra, nella parte più luminosa del giorno, subito dopo l’inizio della primavera, quando la luce, di solito, è più carica di promesse.

In queste tre ore di buio Gesù è esanime.

Le sue ultime forze si consumano dopo lo sforzo di ogni respiro. È una prova durissima, in cui il dolore lo spinge a sperimentare persino il dubbio dell’abbandono di Dio. Ma quel grido, Gesù lo sapeva bene, è anche un atto di affidamento: il salmo inizia con quelle parole e finisce con la fiducia nella vita donata da Dio.

In queste tre ore di buio c’è la nostra vita,

quando accogliamo Gesù con entusiasmo di fronte a illusioni di regale potere, e poi andiamo in stato confusionale quando prospetta l’amore nel tradimento, il perdono per la comunione, la pace nella violenza, la verità di fronte alla menzogna, il rifiuto dei troni per diventare il re dei consumati.

In queste tre ore di buio c’è anche la storia del mondo,

quando si perseguono consapevolmente pensieri e azioni malvagi, quando la religione si esprime con accusa e condanna, quando l’autorità diventa ipocrita, quando ci si scaglia contro i poveri e i sofferenti, quando i soldati abusano della forza, quando – infine – non si riesce nemmeno a vedere la sofferenza di un uomo, una persona.

In tenebre spaventose e sospette, si irradia invece un atto d’amore di consegna e di abbandono a Dio, talmente lucente da indurre la prima fede proprio in un soldato, uno lontano, uno di quelli che prima si erano divertiti a perseguitare Gesù, a giocare con le sue vesti e a schernirlo.

Non c’è oscurità, dunque, che possa opporsi a questa luce dimessa, silenziosa, gentile e vera,

che Gesù ha acceso nella parte più nascosta del buio, dove le tenebre di solito inghiottono il chiarore, invece questa volta vengono soffocate.

Entriamo nella Grande Settimana, la Settimana Santa, muovendo i passi dentro queste ombre, nostre e del mondo, per imparare da Gesù, che lava i piedi perché la comunità non sia distrutta dalla prova, e che si offre perché davanti alla croce lasciamo che il suo mistero inafferrabile tocchi qualcosa del nostro cuore, quello di cui abbiamo bisogno, quello che il Signore sa.

In questo percorso, non impaurito, ma fiducioso e sereno, una piccola luce ci guida:

la luce di una candelina con un paravento.

Ci spingeremo fino a metà della notte, per prenderla in mano e scoprire che tutto si riaccenderà.

È per me, insieme con quelli che considero nemici e lontani, per i miei fratelli e sorelle, per la mia comunità, la mia chiesa e il mio mondo, che Gesù ha posto una piccola luce nel buio.

La Luce della Vita sta per illuminare tutto.

Don Davide




San Valentino

Santo dei malati o degli innamorati?

Nel giorno di S. Valentino, nella chiesa dedicata al nostro patrono, preghiamo per gli uni e per gli altri.

Sembra che questo accostamento stoni: non è carino pensare alle tenerezze degli amanti, di fronte alla sofferenza e al dolore; viceversa, pare di voler fare i guastafeste a proporre la preghiera per le persone malate, quando si festeggia la letizia dell’amore.

C’è un versetto nel Cantico dei Cantici, che sembra mettere insieme i due aspetti: “Io sono malata d’amore” dice la donna innamorata (Ct 2,5c).

Nella letteratura l’amore è stato rappresentato come una malattia,

una trappola o qualcosa di insidioso, mai invece la malattia è stata raccontata come qualcosa da amare, se non nella vita di alcuni santi.

Io penso invece che sia opportuno che li teniamo insieme.

Ci aiuta ad apprezzare la grazia dell’amore, soprattutto la freschezza di quello giovanile o lo splendore di quello longevo, senza essere sdolcinati e senza dimenticarci di chi non è così fortunato.

Ci aiuta ad uscire dal vortice della malattia e a educarci a riconoscere le cose belle del mondo, ad essere grati anche per la vita di altri, sfuggendo alla morsa dell’egoismo, ma soprattutto ad imparare ad amare nella malattia.

Amare chi e che cosa, in questo caso?

Amare Gesù, amare la vita, amare le persone che sono importanti per noi, quelle che ci sono vicine e ci assistono, e anche quelle che ci hanno fatto del male, perché nella malattia si relativizzano gli assoluti e si capisce che ci sono cose più importanti nella vita che quella di portare rancore.

Allora in questo ricordo che abbraccia tutti e tutte le sensazioni, dalla felicità e l’entusiasmo fino alla sofferenza e la preoccupazione, vogliamo festeggiare il nostro patrono come comunità unità, comunità che si ricorda gli uni degli altri, che attiva una vicinanza reciproca e la capacità di rallegrarsi con chi gioisce e soffrire con chi è addolorato, proprio come chiede l’inizio della Gaudium et Spes, il documento più importante della Chiesa sul rapporto col mondo contemporaneo.

Da San Valentino impariamo dunque a vivere la fede, l’amore e la speranza con i piedi ben saldi in tutte le esperienze degli uomini e delle donne di oggi, dall’amore al dolore, andata e ritorno.

Don Davide




Irrompe il Vangelo

A Ninive era dilagato il male, tanto da ricevere una sentenza che non è una condanna, ma una profezia: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta” (I lettura). Se Ninive avesse continuato così, l’esito della sua convivenza come città sarebbe stata l’autodistruzione.

Purtroppo questa descrizione è più attuale di quanto pensiamo:

quante sono le città degli uomini o in generale le realtà umane così tanto devastate da prospettare un esito di autodistruzione? Per questo motivo, innanzitutto, dobbiamo prendere seriamente il nostro convivere civile e sociale e impegnarci per il bene, la rettitudine e l’amicizia.

Ci incoraggia la testimonianza di San Paolo: “Passa la scena di questo mondo” (II lettura). Non è, infatti, un invito alla rassegnazione. L’apostolo ha sperimentato che c’è qualcosa di nuovo e potentissimo all’opera nel tempo che ci è dato, tale da convincere il re di una città a vestirsi di sacco e cenere, e da mettere nel cuore di poveri pescatori il desiderio di cambiarlo, questo mondo.

Irrompe il Vangelo.

Stupisce che nel periodo di Natale abbiamo celebrato i misteri tra i più alti della fede, ma la liturgia ci dice che il Vangelo irrompe nelle parole di un uomo adulto, consapevole di sé, nella ferialità delle giornate di pescatori e di ciascuno di noi.

Irrompe il Vangelo, quando i ragazzi vanno a scuola.

Irrompe il Vangelo nel traffico cittadino, mentre si raggiunge il lavoro.

Irrompe il Vangelo nel tempo di una casa, di una parrocchia, di un’associazione di volontariato o sportiva.

Irrompe il Vangelo nelle ferie dei nostri giorni e nell’ordinarietà della nostra vita.

Voglio proporre chiasmo dell’annuncio di Gesù: “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino” e trasformarla così:

“Il tempo è vicino e il Regno di Dio è compiuto”.

Ogni attimo è l’istante per scegliere ancora il Vangelo, come se fosse la prima volta.

Ogni attimo e il momento per riconoscere l’amore di Dio che ci trasforma.

Don Davide




Abitare e ospitare

“Maestro dove abiti?” (Gv 1,38)

Riprendiamo l’anno pastorale con il tempo ordinario e tutto il cammino che faremo frequentando il vangelo di Gesù secondo Marco è un tentativo continuo di trovare dimora presso di lui, cioè di abitare stabilmente con lui. Come succede a chi abita insieme, si tratta di salutarlo al mattino, di ritrovarlo quando torniamo a casa, di sapere che abbiamo un punto di riferimento durante la giornata, di “avvisarlo” quando facciamo qualcosa e di contattarlo quando succedono cose belle.

Significa cercare questo rapporto con Gesù che ci dà una casa.

L’inizio di questo tempo liturgico è caratterizzato dall’impegno di stabilire un legame al quale possiamo sempre ritornare e nel quale trovare rifugio e riposo (cf. Mt 11,25-30).

È un’esperienza emozionante, perché sappiamo di poter riprendere a muovere i nostri passi con lui:

se siamo neofiti c’è tutta la scoperta del dell’incontro con Gesù, se siamo cristiani da tanto tempo possiamo sentire la gioia di sentirci nuovamente messi in gioco, di conoscerlo più profondamente, di sperimentare con più sorpresa la sua grazia e la sua provvidenza. E poi si tratta anche di fare sentire questa vicinanza di Gesù a tutti coloro che ancora non la conoscono e non l’hanno sperimentata.

Questa esperienza spirituale ci spinga a ricambiare l’ospitalità

e, come accadde ai discepoli di Emmaus, a fare spazio a Gesù nella nostra casa: nella nostra casa interiore, cioè il nostro spirito, e nella nostra casa esteriore, cioè nelle nostre vite.

Così possiamo rendere tutta la parrocchia una casa in cui Gesù è nostro gradito ospite,

sia per i nostri fratelli e sorelle che sono invitati nello stesso amorevole clima domestico, sia riconoscendo Gesù in loro stessi come presenza del Maestro che chiama ciascuno di noi.

Don Davide