Come in una foto di montagna

Nell’atto supremo di Dio di superare l’indifferenziazione e di mettere l’essere umano in relazione, lui – il Creatore – stabilisce un movimento. La relazione viene creata dal lato (la famosa “costola”), ma è pensata e voluta da Dio per essere frontale (quello che viene tradotto correttamente “un aiuto che gli corrispondesse” ho una dimensione di frontalità: “un aiuto che gli stia di fronte”).

Quando le cose vanno bene, insieme, si inizia che ci si sente accanto ed è una bella sensazione. Ci si sente vicini nel cammino, si va nella stessa direzione. Sembra tutto perfetto: cosa volere di più?

La sapienza biblica suggerisce che, da quella posizione, dobbiamo raggiungere una postura frontale.

Guardarsi negli occhi, infatti, è più difficile: può essere più intimo, ma anche più imbarazzante. Può farci sentire ancora più vicini, ma anche smascherare tutte le nostre vulnerabilità.

Poi l’immagine di camminare uno di fronte all’altro è contro-intuitiva. Ci vorrebbe un atto di fiducia, di uno che si lascia guidare senza vedere dove mette i piedi, e sarebbe necessario darsi il cambio, ogni tanto, o alla guida o nella direzione.

Infine, una persona che mi sta di fronte io la posso vedere meglio. Posso accorgermi se piange, anche quando cerca di trattenere le lacrime; leggo le sue emozioni sul volto e sperimento che è un essere altro da me, a cui non posso passare sopra, che non posso assimilare.

Tutte queste cose, stando solo di fianco, non le sperimento, anche se inizialmente sembra una posizione bellissima.

Così mi sento di invitare le coppie di tutte le età ad esercitarsi a stare di fronte e a capire cosa significa creare quello spazio tra noi che ci separa e allo stesso tempo ci unisce, permettendoci di vivere come soggetti e di stare in una dimensione di vera comunione.

Allo stesso modo, esorto tutti noi (me compreso) a camminare a fianco delle persone, come Gesù con i discepoli di Emmaus, ma poi anche di fare il movimento di giungere in posizione frontale, di guardarci negli occhi, di riconoscerci, ringraziarci, accettarci, fidarci e valorizzarci, magari anche di sedere a tavola in uno di quei piccoli tavoli da osteria, in cui si sta di fronte e si parla fitti fitti, come immagino abbia fatto Gesù, ad Emmaus, entrato in casa con i suoi amici.

Mi auguro che nella nostra comunità sappiamo camminare di fianco per arrivare di fronte,

riconoscere i nostri volti e capire che è bello guardare l’orizzonte aperto, ma in questo caso, è più bello se in quest’orizzonte ci sei anche tu, come in una foto ricordo in montagna.

Don Davide




Scrivo a voi

Dopo la “Letterina pastorale” di domenica scorsa, scrivo a voi, catechiste, educatrici e educatori dei gruppi, coordinatrici e coordinatori del gruppo giovani.

Oggi la comunità vi affida il “Mandato”: non ne avreste bisogno, perché lo avete già in virtù del vostro Battesimo. Avete risposto a una chiamata personale non di don Davide, non della parrocchia, ma di Gesù stesso che gradisce avervi in questo servizio.

Tuttavia, celebrando questo “Mandato”, la comunità esprime in realtà un gesto di gratitudine: riconosce il vostro impegno, rende grazie per il vostro servizio, prega affinché possiate farlo con letizia e semplicità di cuore, e si impegna a starvi accanto perché possiate farlo con dignità e bene.

Il “Mandato” quindi, non serve tanto a voi, quanto piuttosto a noi

– a tutta la comunità – per valorizzare quello che fate.

Spesso, in questo ultimo periodo, mi sono fermato a considerare la preziosità del vostro gesto collettivo, o – come direbbero preferibilmente Chiara e Ilaria – “di squadra”. L’essenza di questo gesto è la testimonianza di Gesù risorto, la trasmissione della fede.

In ogni pensiero, azione e sorriso rivolti ai bimbi; in ogni ascolto dei ragazzi e dei giovani,

in ogni battuta con loro, in ogni complicità, siamo portati a quell’istante in cui Maria Maddalena si è sentita chiamata per nome e ha capito che chi le stava parlando al cuore non era uno straniero, ma Gesù, Gesù risorto, ed è andata a dirlo ai discepoli, che a loro volta l’hanno detto agli amici, che l’hanno detto al popolo.

Così la fede, in mille modi misteriosi, è arrivata fino a noi.

Questa trasmissione ci educa a una gratuità e a una larghezza di cuore stupenda. Spesso non sappiamo neanche noi quale traccia lasciamo nella vita delle persone, ma non conta: sappiamo che questo tesoro è conservato in cielo.

Perciò mi permetto di affidare a ciascuna e ciascuno di voi due consigli, ispirati alle parole di Paolo ai Colossesi (3,23-24): “Qualunque cosa facciate, fatela di cuore, come per il Signore e non per gli uomini. Servite a Cristo Signore”.

Fatela di cuore: cioè, metteteci la vostra autenticità e la vostra sensibilità, non ripetete formule o metodi, ma abbiate slancio e passione, entusiasmo e creatività. E se sentite che non riuscite più a farlo “di cuore”, parliamone: può darsi che ci sia qualche problema da risolvere o qualche cosa da correggere insieme, oppure che siete semplicemente stanche/i e basta un po’ di riposo.

Poi fatela per il Signore, non per gli uomini: pensate di mettere il meglio di voi stessi per lui. Con le persone, anche con le migliori intenzioni, ci può essere qualche malinteso, qualche incomprensione e qualche fatica. Gesù non delude, è garbato, ci incoraggia, sa l’impegno che ci mettete ed è pronto a darvi sempre la carica.

Servire a lui, a Gesù, è lo zelo che non ci fa stancare, è l’amore che non ci rende servili, è l’energia che ci ricarica, è la cosa più importante e soddisfacente di quello che facciamo.

A questo punto, non avreste nemmeno bisogno del nostro grazie, perché siete concentrati su Gesù… ma noi ve lo diciamo lo stesso:

Grazie per quello che fate, soprattutto perché mettete le vostre energie per la trasmissione della fede tra le nuove generazioni.

Don Davide




Essere casa

Ospite la speranza

“Anche voi venite edificati come pietre vive, per un edificio spirituale” (1Pt 2,5)

Oggi voglio scrivervi una lettera pastorale, un messaggio personale, cioè, in cui espongo quali sono i riferimenti per il cammino di questo anno. Siccome prevedo di essere preso in giro da chi dirà che “studio da vescovo”, allora dichiaro che questa, in realtà, è una cosa più umile, è una “letterina”: una letterina pastorale, ecco.

Sapete che da più di un anno la nostra chiesa di S. Maria della Carità è in restauro. Era partito come una ristrutturazione esclusivamente strutturale dei danni causati dal terremoto del 2012, ma in corso d’opera ci si è resi conto che non poteva essere così, quindi si è trasformato in un intervento molto importante, non totale, ma quasi.

Sento, perciò, che questo processo non può rimanere una cosa limitata all’intervento dei tecnici, dell’impresa, del parroco, della segreteria e di chi ci aiuta per la gestione concreta.

Sono convinto che il restauro della chiesa, e la sua restituzione alla parrocchia, al quartiere e alla città deve essere un’impresa di tutta la comunità,

un traguardo verso cui ci sentiamo partecipi senza nessuna esclusione.

Voglio dare a questo anno pastorale il tema di “Essere casa”,

perché tutti dobbiamo sentirci partecipi di questa casa, come dice la citazione che ho messo all’inizio, infatti, ognuno di noi è una pietra viva, che viene costruita per un edificio spirituale.

All’edificio di mattoni, deve corrispondere la ri-costruzione del nostro edificio spirituale,

anch’esso in restauro dopo gli anni del Covid, dopo altri due anni in cui non abbiamo avuto gli spazi della chiesa principale, per ritornare a essere una comunità ospitale per tutti.

La speranza deve essere ospitata in questa casa o, meglio, deve essere ospitata, ma anche padrona di casa, perché il prossimo anno siamo invitati, attraverso il Giubileo, a essere “Pellegrini di speranza”. Il pellegrinaggio è un cammino pieno di fede che ha una meta, e questa meta, per noi, è proprio la bellezza di poter tornare a celebrare nella nostra chiesa principale come una comunità ricostituita.

Il nostro Vescovo, infine, ci invita a concentrare l’impegno pastorale sulla formazione alla vita e alla fede degli adulti e credo che il nostro modo di concretizzare questo mandato sia proprio quello di essere pietre vive.

Dobbiamo aiutarci ad esserlo e sentirne la responsabilità: pietre vive e partecipi, pietre che hanno un cuore di carne e non un cuore di pietra.

E tu che pietra sei in questa comunità?

Ci mettiamo quindi in cammino col desiderio di accogliere questi suggerimenti e di essere una comunità partecipe e attiva in questo anno pastorale.

Don Davide




Appuntamento all’alba

«…e dopo tre giorni, risorgere». Gesù faceva questo discorso apertamente. (Gv 8,31-32)

Nel vangelo esigente di questa domenica, ci si concentra spesso sull’annuncio della Passione di Gesù e su quell’invito difficilissimo a «rinnegare se stessi» (Mc 8,34). Ma ci sono alcune sfumature, che ci aiutano ad avere un altro sguardo, luminoso. Gesù insegna che «Il Figlio dell’Uomo doveva soffrire» (Mc 8,31). «Doveva»: vuole dire che la passione di Gesù, insieme a tutte le nostre croci, fanno purtroppo parte della storia ferita dell’umanità. Non è volontà di Dio, ma Dio sa che gli uomini sono inclini a farsi del male e a fare del male, basta guardare la storia delle guerre, che da sempre insanguinano il mondo.

Ogni passione è raccolta nella Passione di Gesù. Quindi, ogni passione è destinata alla resurrezione.

Non dobbiamo mai dimenticarci di questa nota di Gesù: «e dopo tre giorni risorgere». Lui fa questo discorso apertamente, perché siamo sempre testimoni del passaggio dalla morte alla vita, dalla schiavitù alla libertà, dal peccato alla grazia, dalla sofferenza al riscatto.

La Creazione è impressa nello stampo della Pasqua

Per dare speranza alle notti, Gesù ci fa guardare le albe delle resurrezioni.

Penso, ad esempio, alla scuola e all’università che ripartono. Quante cose belle si preparano?! Quali passaggi compiranno gli e le studenti? Quali traguardi raggiungeranno?

Penso alle sofferenze che andranno affrontate, per essere trasfigurate e continuare ad affermare il dono e la gratitudine per la vita. Quante pasque ci attendono?

«Rinnegare se stessi» non significa mortificare l’esistenza.

Al contrario, è il dono abilitante di Gesù, che ci dà la forza di opporci alle inclinazioni mortifere e di essere portatori di vita.

In questo anno pastorale, chiediamo la grazia di vivere così: uomini e donne che si danno appuntamento per guardare l’alba insieme e svegliare l’aurora (cf. Sal 108,3), un’aurora del colore della speranza.

Don Davide




Nascita

Maria della Carità, Maria della Grada…

La nostra comunità ha necessariamente a che fare con Maria, e in una maniera tenera e sorprendente. Come si dice in gergo tecnico, infatti, la “titolare” della chiesa della Carità è l’Immacolata, ossia S. Maria della Carità si celebra l’8 dicembre. Invece la “titolare” della chiesa della Grada è la Natività di Maria, ossia la Beata Vergine della Grada si celebra l’8 settembre.

Dal concepimento di Maria alla sua nascita, questo periodo speciale per le coppie che diventano genitori e unico per ogni mamma abbraccia la nostra comunità, nel simbolo delle sue chiese.

Penso a quando in una famiglia si comunica l’attesa di un figlio:

all’inizio si dice alle persone più vicine, quelle davvero intime. Poi si divulga la notizia e una comunità allargata viene coinvolta in questo tempo sospeso, pieno di trepidazione, che addolcisce tutti.

In questa domenica, quindi, celebriamo la Nascita di Maria e la festa della chiesina della Grada.

Quando nasce una bimba, tutto viene adattato ai ritmi di questa nuova vita.

Cresce infinitamente il senso della responsabilità, la dedizione, il sacrificio. Quando ci si vuole bene, la cerchia famigliare aiuta, si rende presente, non manca occasione di offrire la propria presenza con la piccola. Allo stesso modo,

la nascita di Maria ci invita ad adattare i nostri ritmi alla compagnia di questa sorellina,

che è anche una ragazza, una donna, un’amica e una madre per tutti noi. Adattare i ritmi alla sua presenza in mezzo a noi, pregarla, sentire la responsabilità che ci chiede, la dedizione alla carità che scaturisce dal rapporto con lei, lo spirito di sacrificio in favore della comunità. Oppure, semplicemente, stare un po’ con lei, come si fa quando c’è una piccolina che cattura l’attenzione e si gode beati della sua presenza.

Anche per questo, abbiamo la possibilità di pregare un po’ di più davanti a lei.

In questo anno pastorale, a partire dalla fine di settembre, sposteremo la messa del lunedì alla sera, alle 19, preceduta come anche il giovedì, dal rosario e dai vespri. Per il martedì e il mercoledì stiamo pensando ad alcuni momenti, per tenere aperta la chiesa. Il primo venerdì del mese c’è l’adorazione.

Invito tutti, ma proprio tutti e tutte, a organizzarsi per cogliere ogni tanto l’occasione di pregare in uno di questi momenti.

Per ciascuno il più adatto, ognuno secondo le sue disponibilità di tempo. Anche ai giovani dico: educatevi a pregare, date spazio a questa dimensione dello spirito!

Quest’estate ho passato qualche giorno in compagnia di una famiglia dove c’era una bimba piccola. Le ragazze più giovani, appena sveglie, andavano a cercarla e ogni momento era buono per coccolarla e giocare un po’ con lei.

“Una sorella piccola noi abbiamo” (Ct 8,8):

festeggiamo il compleanno di Maria sentendo la forza di attrazione che esercita su di noi, la sua dolcezza che ci modella, ci plasma e ci trasforma rendendo più lieve l’impegno e più gioioso il tempo passato insieme.

Don Davide




Esterno ed interno

L’inizio di un lungo viaggio

La ripresa dopo le vacanze estive è un vero inizio. Non si tratta dell’anno solare, né di quello liturgico, eppure da settembre all’estate successiva è il periodo in cui si fanno i progetti e si pensano le attività pastorali. Così ci troviamo, in maniera più forte che in qualunque altra situazione, di fronte a un tempo che ci interpella e a nuove sfide.

Questo arco avrà un momento di importanza straordinaria l’8 giugno 2025, data in cui abbiamo chiesto la disponibilità al Cardinale Arcivescovo Matteo Zuppi per venire a inaugurare la Chiesa di S. Maria della Carità, restaurata. Abbiamo fissato la data, perché l’agenda del vescovo, come potete immaginare, va bloccata con larghissimo anticipo e speriamo di potere mantenere la scadenza. Se dovesse accadere qualche rallentamento nei lavori, allora la sposteremo realisticamente a dopo l’estate. In ogni caso, quello sarà l’appuntamento focale di tutto il nostro anno pastorale, del nostro cammino, delle nostre disposizioni spirituali.

Le letture di questa domenica sono perfette per entrare in questo percorso.

Il restauro della Chiesa di S. Maria della Carità, con lavori così importanti, deve essere il simbolo di una comunità spirituale, non di mattoni, che accoglie la grazia di essere rinnovata dallo Spirito del Signore.

Volesse il cielo che si possa dire della nostra parrocchia che osserva e mette in pratica il Vangelo, come testimonianza della saggezza e dell’intelligenza cristiana! (Cf. I lett. Dt 4,6)

Mi auguro proprio che, guardandoci indietro fra un anno, potremo dire che siamo stati generati dalla sua parola di verità, che avremo accolto con docilità (cf. II lett. Gc 1,18.21).

Desideriamo essere di quelli che mettono in pratica il Vangelo,

non soltanto ascoltatori, in modo da non illudere noi stessi (cf. II lett. Gc 1,21-22).

La preghiera per accogliere e realizzare il Vangelo e lasciarci trasformare da esso è in fondo una supplica perché ci sia corrispondenza tra la bellezza esteriore e quella interiore; perché ci sia una purezza religiosa alleata con l’autenticità della vita; perché il lavorio spirituale si manifesti in una vita concreta di carità e di grazia.

Gesù ci ammonisce di non purificare solo l’esterno e che saremmo ingenui, facendo solo così.

Guai a noi, quindi, se facessimo tornare allo splendore la nostra chiesa, senza sentire un imperativo coerente a rinnovare noi stessi, la nostra comunità, la nostra parrocchia! (cf. Vg.)

Supplichiamo che il chiarore che illuminerà la nostra chiesa, con il nuovo impianto, possa corrispondere allo Spirito che avrà illuminato il nostro intimo, e che così possiamo essere degni, con gratitudine e responsabilità, di ogni buon regalo e di ogni dono perfetto che il Padre ci vuole dare, lui che è il creatore della luce. (II lett. Gc 1,17).

Don Davide




Un prato sbruciacchiato dal sole

A guardarlo dall’alto, sembrava un prato in mezzo alla terra color ocra dell’Africa. Su quel verde acido, sbruciacchiato dal sole, c’era una corona di fiori di calendula, di quell’arancione vivo che pareva persino innaturale.

La calendula, si sa, è una pianta che fa bene… a tante cose.

Lenisce, soprattutto, le bruciature, ma è ottima per qualunque esigenza di medicazione, quando si ha bisogno di sollievo.

In un tardo pomeriggio di fine giugno questi fiori di calendula, forse anche loro investiti dal vento che aveva accompagnato i naviganti tra mille avventure, si aprirono, mostrando al cielo le cose che di solito nascondono.

“Sono felice come un bambino che scarta i regali a Natale” disse la prima.

“Io sono felice come quando mangio una pizza” gli fece eco il secondo.

“Io invece sono tranquillo come dopo una verifica”

“E io nostalgica come quando finisce l’estate”

“Ah no – disse uno, più sportivo degli altri – io sono felice come un goal al 98’!”

“Io sono felice come quando non ho avuto il debito a scuola” gli fece eco una che quell’anno era stata un po’ meno diligente alla scuola dei fiori.

C’era, però anche chi era triste, non perché la vita di quei fiori fosse brutta o andata male, ma perché quella giornata di sole era finita.

E poi c’erano i fiori stanchi: tutto quell’aprirsi alla luce e chiudersi alla sera col buio, per tutti quei giorni, avevano intorpidito le giunture dei loro petali. Una di loro disse: “Sono stanca come se non dormissi da due settimane…” Ma un fiore, viene da chiedersi, non si riposa mai?!

In modo particolare c’era qualcuno che si lamentava di avere combattuto con un moscerino pestifero per tre settimane, e chi era stanco per tutti i giochi fatti con gli altri fiori.

Tra tutti, una disse semplicemente: “Io sono esausta” e si poggiò su una foglia per dormire.

Nonostante fosse l’inizio dell’estate, alcuni si sentivano ancora fra i banchi di scuola e forse erano troppo privi di energie o timidi per parlare a lungo, e riuscirono soltanto a dare dei voti: “Io sono felice 9”, “Io ho sonno 8”, “Io sono felice 9”.

“9 è troppo, io sono felice, ma 8”.

“Io sono soddisfatta 8” dissero in due all’unisono, facendosi un sorrisino per la complicità.

“Io son proprio serena… voto 9”.

“Eh, addirittura dissero gli altri!”.

“Io sono nostalgica…” disse una poggiandosi un petalo sulla guancia.

“Io sono stressato” replicò un altro.

“Io sono felice e triste al contempo”.

La nostalgica e lo stressato, felici e tristi al contempo.

Sembrava una buona sintesi della loro avventura, ma saltarono su altri a dire:

“I’m as happy as when I get a good grade in English!”. Si alzò un boato per lo slego in lingua che aveva fatto la loro compagna.

“Io sono felice come un gatto che mangia i cioccolatini” disse una, leccandosi una foglia.

Si arrivò, quindi, a raccontare della propria soddisfazione:

“Io sono soddisfatto come quando dico agli altri fiori petulanti di stare zitti, e loro finalmente lo tacciono!”.

“E io sono soddisfatta come dopo un lungo pellegrinaggio” disse una particolarmente spirituale. “Io come al termine di una gita” si attaccò subito un’altra, parlando della sua di soddisfazione.

“Io infatti sono felice di essere arrivata fin qui” le fece eco un’amica.

“Già, anch’io – disse l’ultimo rimasto – È come avere raggiunto un rifugio di montagna… e ora ci godiamo anche la discesa!”.

Beh, forse non era un prato in mezzo alla brulla terra africana, ma un vecchio cortile tra i tetti rossi di Bologna. Si crede che i fiori di calendula non crescano tra il cemento e le strade. Ma se guardi bene, con gli occhi non della fantasia o dell’immaginazione, ma con quelli della dedizione, allora li troverai.

Di solito non si mettono in mostra, non si fanno notare, non si aprono. Ma ci sono e nascondono segreti.

E noi li ringraziamo, perché colorano di bello la nostra città.

Don Davide

 

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La Trinità col grembiule

La Trinità è una questione di intimità.

Noi tutti abbiamo un grandissimo desiderio di intimità. In fondo, l’amore stesso è questo: desiderio di intimità.

Dio che si svela vuole esaudire e soddisfare questo bisogno di intimità e di appartenenza. Ci ama, è lieto di stare con noi, si intrattiene alla nostra presenza.

Ci apre la porta della sua stanza segreta e ci rende partecipi del suo amore, della sua storia.

È vertiginoso parlare di Trinità e storia.

Eppure, invitandoci nella sua stanza, ci mostra le foto di quando ha costruito la casa in cui abitiamo, di quando ha visitato Abramo nel deserto e ha poi fermato il suo braccio su Isacco, di quando ha parlato a Mosè nel roveto, lo ha accompagnato nella colonna di fuoco e di fumo, ha inciso il cammino sulle tavole di pietra. C’è una foto stupenda di lui, grande e onnipotente, mascherato da angelo, con una piccola, ma tenace ragazza di Nazareth. Ci parla poi del battesimo del Figlio, delle sue nozze con l’umanità e dello Spirito Santo che faceva da testimone e che dopo, conquistava tutti i suoi amici. Ci racconta la sofferenza di quando suo Figlio è stato incompreso, offeso, bullizzato e ferito, e lo sgomento di quando era stato perduto nella morte, e della gioia incontenibile di quando poi è stato ritrovato nella potenza dello Spirito della vita.

In un’altra parete, vediamo le immagini dei suoi viaggi, non solo nel mondo, ma attraverso il tempo. Lo vediamo sempre con abiti diversi, alla moda, insieme a tanti amici famosi e a tante persone sconosciute. Ecco una foto con Agostino di Ippona, mentre gli sussurra “Tolle et lege!”, e quella con Francesco d’Assisi, quando gli spiega chi vale la pena servire. Eccolo che guida la penna di Caterina da Siena e mentre fa due chiacchiere con Teresa d’Avila. Mi piace quella in cui è chino su Martin Luther King mentre dorme e gli ispira un sogno, che è anche il suo. Per non parlare di quando suggerisce a Papa Giovanni XXIII in persona: “Indici un Concilio e parla di pace”. Ci sarebbe stato ancora il mondo, se non gli avesse dato questo suggerimento?

Ma quelle che mi piacciono di più, a dire il vero, sono le foto in cui è accanto al soldato semplice prima della battaglia, o alla nutrice che accudisce un bimbo non suo. E quella bellissima immagine con la ragazza che lavava i pavimenti nella sala del re, e anche quella mentre spinge il carrello della spesa di fianco a quella donna con due gemelli in braccio.

E che dire, ancora, di quella in cui è vestito da infermiere, e di quella in cui fa l’insegnante in una scuola del Pakistan? E quella in cui muove di nascosto la mano dell’artista o aggiunge un pizzico di lievito all’impasto del fornaio?!

Forse, tra tutte, scelgo proprio questa: quella di Dio col grembiule del panettiere, un po’ infarinato, mentre modella la pasta del mondo.

L’ingrediente segreto è la sua determinazione di portare avanti il mondo e la storia attraverso l’amore e tutte le sue fioriture.

Capisco che, riguardo alla Trinità, non c’è tantissimo da capire, o meglio c’è troppo, davvero “troppissimo”. Meglio abbandonare l’impresa e godersi la contemplazione.

Ogni tanto, spero, tornerò a visitare questa stanza.

Nel resto del tempo saprò che questo amico, Dio, ha anche lui – come tutti noi – un suo spazio sacro, un luogo dell’intimità, una sorgente dell’amore, in cui ogni tanto è bene ritornare e sostare.

Don Davide




Timore del Signore

C’è un moto ellittico che si chiude con l’ultimo dei doni dello Spirito Santo, che ruotano attorno al Sole di Dio come i pianeti.

Il primo è la Sapienza, l’ultimo il Timore del Signore. Abbiamo ricordato all’inizio il principio cardine di tutta la meditazione biblica sapienziale: “Principio della sapienza è il timore del Signore” ed ecco che, una volta giunti alla fine di queste meditazioni, tutto riparte con nuovo slancio dal Timore del Signore, che genera la Sapienza e apre ancora lo spazio nella nostra vita per accogliere lo Spirito Santo, che vuole prendere sempre più dimora in noi.

In quanto dono dello Spirito Santo, il Timore del Signore non è una facoltà solamente umana, ma letteralmente un dono di Dio, una cosa che l’uomo non può darsi da solo e senza la quale non potrebbe mai vivere la stessa qualità dell’incontro con Dio.

Già solo parlare di “incontro con Dio” dovrebbe farci venire le vertigini. Nella Bibbia siamo frequentemente ammoniti sul mantenere consapevolmente la distanza qualitativa fra Dio e noi: chi vede o tocca Dio, muore, ci dice l’Antico Testamento. Chi potrebbe trattare con Dio, senza venire meno?

Al catechismo veniamo istruiti con attenzione sul fatto che il “timore” non è la paura di Dio, il che è giusto quando semplifichiamo le cose per i fanciulli. Ma in un certo senso, il Timor di Dio è proprio anche la paura di Dio, la consapevolezza che Dio è altro da noi, e terribile, e veramente onnipotente. O meglio,

il Timore di Dio è quel dono che ci fa tenere insieme la paura che dovremmo avere, e la meraviglia che effettivamente abbiamo,

nello scoprire l’indicibile condiscendenza di Dio con la quale lui si spoglia della divinità che potrebbe e dovrebbe consumarci e avvicina se stesso e noi.

Infatti Mosè e i profeti sono stati graziati dopo l’incontro con lui. I pastori e i Re Magi hanno contemplato Dio nelle spoglie di un infante piccolo e innocuo. Le donne lo hanno visto morire come noi. L’apostolo Giovanni scrive di avere visto, udito e toccato il Verbo della Vita.

Il Timore di Dio è una facoltà spirituale anti vertigine.

È quel dono speciale, che l’uomo da solo non potrebbe darsi, di tenere insieme la consapevolezza della grandezza di Dio e della piccolezza con cui si avvicina a noi, di concepire in uno sguardo la distanza e la vicinanza, la sua autorità di giudice e il suo amore di padre misericordioso, la durezza che lo legittimerebbe e la tenerezza con cui si legittima realmente.

Come lo stupore è considerato l’inizio della filosofia, così il Timore di Dio può essere considerato il principio della vita spirituale, quando noi attoniti e grati gli domandiamo: “Che cos’è l’uomo, perché te ne curi?!”.

Don Davide




Pietà

La Pietà è il sentimento religioso autentico, l’amore per Dio infuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo. È l’amore di Dio in noi, che rende possibile per noi amare Dio.

In questo senso, la Pietà è davvero il dono per eccellenza. Una cosa che non ci possiamo dare, senza la quale non potremmo mai essere capaci di fare una cosa indispensabile. Stiamo vedendo, infatti, che i doni dello Spirito Santo sono energie che ci abilitano, quando riceviamo l’effusione dello Spirito.

Queste sono anche le parole di Gesù: “Riceverete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi…” (At 1,8).

Il cammino di questo tempo pasquale ci prepara alla Pentecoste, facendo crescere nella nostra interiorità il desiderio di Dio.

Ci sono tre caratteristiche che rivelano il dono della Pietà, e lo distinguono da una falsa religiosità, che frequentemente si insinua e contamina la nostra vita di credenti.

La prima è la comunione. Non c’è vera dimensione religiosa che non abbia a cuore la custodia e la crescita della comunione. Il Diavolo divide, mentre lo Spirito crea la sintonia degli spiriti.

Ognuno e ognuna di noi ha una grazia specifica per aiutare, con i propri carismi, la comunione ecclesiale.

Quando generiamo divisione, puntiamo il dito e siamo autoreferenziali invece che pensare all’edificazione, allora in noi non opera il dono della Pietà, ma una vaga religiosità che non potrà mai esprimere l’amore per Dio ispirato dall’amore di lui in noi.

La seconda è la compassione. La vera Pietà si riconosce quando c’è compassione umana. Il dono della Pietà, infatti, slancia i sentimenti del cuore verso il cielo, ma i sensi del corpo verso la terra. Non si può stare solo lì “a guardare il cielo” (At 1,11). C’è un’umanità quanto mai bisognosa.

Come scriveva meravigliosamente Etty Hillesum: “Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite”.

“Nessuno – infatti – può amare Dio che non vede, se non ama il proprio fratello che vede” (1Gv 4,20).

La terza, infine, è l’affidamento. La Pietà esprime una vita veramente affidata, oseremmo dire consegnata al Padre, come nella bellissima preghiera di fr. Charles de Foucauld: “Padre mio, mi abbandono a te”. È questo il senso delle parole forti di Gesù: “Scacciare demòni, parlare lingue nuove, incantare i serpenti, neutralizzare i veleni e operare guarigioni”.

Significa vivere in un affidamento a Dio talmente consegnato e umile, da accedere alla sua potenza.

La Pietà, in definitiva, è il dono che forse più di ogni altro esprime la vita divina in noi.

Don Davide