Una scena mozzafiato

Lettera aperta quasi alla fine dell’anno liturgico

C’è un versetto da infarto nel vangelo di questa domenica, quando il terzo protagonista della parabola mette il tesoro che gli è stato consegnato in una buca e lo sotterra.

Se lo immagini interpretato da un bravo attore, in un film al cinema, sul grande schermo, dove potresti cogliere l’atmosfera, i movimenti impercettibili e le emozioni disegnate sul volto, è una scena mozzafiato, ma nel senso da fare paura.

Vorrei farti notare che il racconto della parabola (anche se la versione liturgica ha tolto una parola) inizia così: “Avverrà infatti…”. Questo esempio di Gesù esplicita l’insegnamento della parabola delle vergini. Là la vigilanza era l’impegno di imparare ad amare per andare incontro allo sposo. Qui, i talenti, prima di essere doni specifici come l’essere intelligenti o l’essere bravi in uno sport, sono un simbolo dell’amore di Dio che è stato riversato nei nostri cuori per opera dello Spirito Santo che ci è stato donato.

Ecco allora, la nostra scena terribile: questo uomo seppellisce il suo amore, quello ricevuto e quello che avrebbe da dare e, così facendo, in realtà seppellisce se stesso. Decidendo di non amare decide di morire.

Decidendo di non amare giungerà alla conclusione di non essere stato mai amato, fin dall’inizio: “Ecco qui il tuo talento” dirà alla fine della storia al suo padrone. Come se dicesse: “Io non ho niente da darti, riprenditi ciò che è tuo e che non è mai stato mio.” È la stessa posizione del figlio maggiore nella famosa parabola: “Tu non mi hai mai dato un capretto per fare festa con i miei amici…”

Ma non vero! Nella parabola raccontata da Gesù non c’è nessuna intenzione di riflettere su un’eventuale ingiustizia da parte di Dio che amerebbe qualcuno più di qualcun altro. Semmai è tutto il contrario. La storia si concentra sul fatto che tutti, da qualsiasi posizione partano, hanno la possibilità di ricevere la stessa ricompensa, facendo esperienza dei doni del Signore: “Prendi parte alla gioia del tuo Signore” viene detto a entrambi i primi due, nello stesso modo, indipendentemente dal fatto che uno abbia altri cinque talenti e l’altro altri due. Anzi, c’è una corrispondenza fra cinque dati e cinque ottenuti; due dati, due ottenuti. Nulla di più!

Allo stesso modo, il Padre misericordioso dell’altra parabola svelerà come stanno le cose veramente: “Tutto ciò che è mio è tuo!”.

Perciò – ecco la lettera aperta – chiunque tu sia: non sotterrare il tuo amore! Non morire in anticipo. Tu hai l’amore di Dio. Qualunque sia stata la tua storia nell’infanzia, nella giovinezza o nella tua vita attuale, da Dio tu sei amato/a e tu puoi amare.

Ama. Sii generoso. Se devi amare, corri anche qualche rischio come un saggio investitore: per l’amore ne vale la pena. È un bel modo per portare a conclusione il bilancio di un anno, non credi?

Il testo ci racconta che quel servo si è sotterrato “per paura”. Prova a non ascoltare le tue paure: le paure sono come un fantasma di fumo che si condensa sempre di più, ma se tu gli corri incontri si dissipa in un istante. Prova ad ascoltare, invece, la voce del Signore che ti dice: “Non temere! Non avere paura! Sei invitato alla festa della vita! Non sottrarti!”.

Tutto ciò che è di Dio e di Gesù, è anche tuo. Sì, Gesù ha messo il suo cuore nel tuo perché tu possa amare come lui. Non rimanere come il servo pauroso con il soldino in mano. Non rimanere come il fratello maggiore sulla soglia.

Davvero, per le tue paure non vorrai fare quel passo?

Non entrerai?!

Don Davide




Una sapienza per la vita

La tradizione della Chiesa di fronte alla morte 

Nella cultura di oggi la morte è stata rimossa. Ci illudiamo di poterla quasi eludere, grazie alle conoscenze sul benessere psico-fisico, per l’incredibile sviluppo della medicina, con l’ausilio della tecnologia, ma quando poi siamo costretti a farci i conti siamo impacciati, la nominiamo con imbarazzo, cercando gli eufemismi. 

In realtà, non c’è nulla di male, in questo. 

Ma la fede in Gesù ci aiuta a confrontarci con la morte, senza sottovalutarla, ma anche senza averne così paura da doverla rimuovere. Anzi, ci permette di nominarla e di farla oggetto di meditazione per la nostra esistenza. 

In questi mesi della pandemia, in modo particolare, la morte è stata vicina. Inevitabilmente, qualcuno si sarà scontrato contro il pensiero che la Cattiva Signora avrebbe potuto raggiungerci, in modo subdolo e inaspettato. Affrontare il pensiero, senza battere in ritirata, ci aiuta a imparare la sapienza. 

Ho vissuto bene, fino ad ora? 

Gesù è risorto, e la grande tradizione ci insegna che nell’attraversamento del Luogo delle Ombre – lo Sheól, in ebraico – lui prende per mano tutti i “prigionieri” e li riporta nel Giardino della Vita. Questo potrebbe essere il secondo elemento per meditare: il ricordo di coloro che abbiamo amato, che ci hanno preceduto e ci aspettano. 

Siamo persuasi che ci rincontreremo? 

Fin dai tempi delle catacombe, l’esperienza della Chiesa insegna che nella messa offerta per la memoria dei defunti, noi meditiamo su queste due domande. Nella messa, infatti, mentre siamo coinvolti in questa mensa collocata tra la terra e il cielo, che ha come commensali i vivi e i defunti, da un lato ci interroghiamo sul senso della nostra esistenza, dall’altro guardiamo alla comunione dei santi, fiduciosi che loro ci accolgano e che di questa comunione possiamo davvero fare esperienza, anche se “da qui” è sempre molto difficile. 




Siate voi, i santi!

Nella festa dei Santi ascoltiamo le Beatitudini, come indicazione di chi siano le persone sante: sono coloro che sono “felici” secondo i criteri di Dio, non quelli del mondo.

Non sono, ad esempio, i ricchi, ma i “poveri nello spirito”, cioè chi sa di dovere ricevere o imparare, chi non si sente superiore agli altri ed è semplice, amichevole e gentile con tutti.

Nelle parole di Gesù, però, c’è anche un altro segreto: un significato nascosto che si palesa solo a chi è disponibile a lasciarsi interpellare, a chi – come dice il prologo della Regola di San Benedetto – alla domanda del Signore: “C’è qualcuno che desidera la vita e brama lunghi giorni per gustare il bene”, risponde prontamente: “Io!”.

In molte delle beatitudini Gesù usa il verbo al passivo, principalmente per indicare che il soggetto di quell’azione è Dio. Nell’esegesi viene chiamato “passivo teologico”. È Dio stesso, dunque, che consola, che concede in eredità e che agisce in tutte le altre beatitudini.

Tuttavia, ricordando l’invito rivolto all’assemblea del Popolo di Dio: “Siate santi, come io il Signore, sono santo” (Lv 19,2), possiamo ascoltare l’invito a… rubare il posto a Dio! Lui lo desidera, ci fa spazio volentieri. Se noi abbiamo risposto: “Io! Io desidero la vita!” lui ci consiglia di seguire una strada non evidente, ma intima e vera.

swdia

Ci dice: “Mettiti tu al mio posto e consola, valorizza la mitezza, concedi giustizia, dona misericordia, costruisci rapporti basati sulla purezza, benedici i pacifici, fai sentire l’amore ai perseguitati.”

Le Beatitudini, dunque, potrebbero essere riscritte anche così, oggi:

“Beati coloro che sono semplici nell’animo, che non si attaccano al potere né lo bramano, ma sanno stare con tutti. Loro vivono costantemente nell’esperienza dell’amore di Dio.

Beato chi consola chi è nel pianto, lenisce le ferite, alleggerisce qualche peso.

Beato chi osa concedere l’autorità e consegnare il mondo alle persone più miti.

Beato chi sazia gli affamati e fa giustizia a chi riceve soprusi.

Beato chi perdona e chi rispetta anche chi ti ha fatto un torto, come fa Dio.

Beato chi tratta le persone con purezza, chi rispetta l’amore, chi non offende il corpo dell’altro e non ne umilia l’anima.

Beato chi custodisce i pacifici e concede loro spazio, togliendolo ai signori della guerra.

Beato chi aiuta i perseguitati e gli oppressi, in qualsiasi modo possa o sappia farlo.

Quando uno si infila così nei panni di Dio o accanto a lui, sperimenta, poi, cosa succede a Dio stesso. Perché, ancora una volta, è Dio stesso che si fa povero come un re che voglia stare alla tavola dei suoi sudditi. È Dio stesso che piange, talvolta, perché ci sono così poche persone disposte a consolare. È Dio stesso che non viene incontro a noi nella sua ira, anche se potrebbe, e si fa mite, perché noi possiamo continuare ad abitare la Terra.

È Dio che ha fame e sete che gli uomini siano giusti, e brama che il peccato non travi la percezione della “giustizia” che abbiamo di lui.

È sempre Dio che ha misericordia, per primo.

Dio ha il cuore talmente puro da guardare l’uomo e da trovarlo bello e da pensare che l’uomo e la donna – l’umanità – siano una cosa “molto buona”.

È lui, che pur essendo il Signore delle Schiere, l’Ammiraglio dell’Esercito Celeste, sceglie la via della pace e ne promulga l’editto.

Infine, Dio stesso, in Gesù, è stato perseguitato e continua ad esserlo, in tutti i Crocifissi della storia per dire che di loro, a quelle croci, a quelle sofferenze appartiene il dono supremo dell’amore di Dio e la sua ricompensa.

Don Davide




Il catechismo, la parrocchia e la pandemia

Riprende il catechismo

Mercoledì riprende il catechismo, interrotto alla fine di febbraio per l’esplodere della pandemia. Dobbiamo ringraziare tantissimo i catechisti, che in questi mesi hanno fatto un enorme lavoro, sia per tenere comunque i contatti con i bambini e le famiglie, sia per ripensare una forma possibile anche nel corso dell’emergenza sanitaria.

Questo lavoro è progettato anche in vista del futuro del catechismo: una proposta più adeguata alla condivisione dell’esperienza della fede ai nostri giorni.

80 bambini… e i genitori?

I bambini iscritti al catechismo di 3-4-5° elementare sono 80. Il percorso per quelli di 2° è stato pensato diversamente, anche in questo caso nello sforzo di migliorare l’incontro di queste famiglie con la comunità.

80 è un numero grandissimo per le forze della nostra parrocchia. I catechisti fanno tutto il possibile per permettere che il catechismo si svolga e funzioni, tuttavia c’è bisogno che tutta la comunità si senta coinvolta e responsabile.

Sento il bisogno di richiamare soprattutto i genitori di questi 80 bambini. È necessario che qualcuno si senta interpellato a dare la propria disponibilità per fare il catechista. Non può essere sempre e solo un problema degli altri, che si prendono l’impegno di “tenere mio/a figlio/a”. Ciascuno genitore si deve chiedere: “E io? Perché non io?”.

Senza questa disponibilità reale dei genitori, che devono sentirsi partecipi, di quest’impresa (e non solo fruitori o spettatori), non è detto che si riesca a continuare il catechismo per tutto l’anno.

Condizione indispensabile

La condizione indispensabile, per me parroco, è che ci siano almeno 10 catechisti e 10 aiutanti, per fare si che i gruppi siano composti da non più di 8 bimbi ciascuno.

Se questa condizione non si verifica per mancanza di disponibilità, saremo costretti a sospendere il catechismo. I catechisti fanno tutto il possibile, ma non è ammissibile che tutto il peso gravi su di loro.

E la comunità?

Anche la comunità deve sostenere il catechismo, e non soltanto moralmente, oppure dicendo: “se c’è bisogno di qualcosa chiedete”. Ancora di meno c’è bisogno di dare dei consigli, o fare delle osservazioni e delle critiche, senza conoscere l’impegno dei catechisti e senza impegnarsi quotidianamente (come fanno loro) in questa che è una vera e propria “impresa”. Bisogna rimboccarsi le maniche e garantire un vero aiuto, che semplifichi e non complichi.

Magari non ci si pensa, ma fare catechismo in questa condizione significa pensare attività che non richiedano il contatto, giochi divertenti ma distanziati, studiare come gestire il materiale che non può passare di mano in mano ecc… Significa anche acquistare il materiale igienizzante per ogni spazio utilizzato, sanificare tutte le aule (ben 10!) prima e dopo l’incontro, sanificare la chiesa prima e dopo il ritrovo (perché a seguire c’è la messa), riordinare gli spazi se ci sono state altre attività in parrocchia.

Comunicare la fede

Si dice spesso che la cartina di tornasole della qualità di una comunità è proprio la presenza e il rapporto con i bimbi. L’impegno con cui la nostra comunità inizia il catechismo vorrebbe essere testimonianza di questa passione di comunicare la fede, che inizia dai bimbi e non finisce più.

Don Davide




Ecologia integrale e Caritas

La Giornata diocesana per la Custodia del Creato

L’immagine del profeta Isaia parla di un banchetto squisito per tutti.

Se pensiamo questa profezia su scala mondiale, appare come un’utopia, come il segno evidente che qualcosa è cambiato nel modo in cui gestiamo le risorse, custodiamo il Creato, apprezziamo la fraternità.

Nella settimana entrante la Chiesa di Bologna recupera l’attenzione all’ecologia integrale, divenuta concetto centrale nella vita della Chiesa con l’enciclica Laudato si’, attraverso la celebrazione della Giornata Diocesana per la Custodia del Creato, mercoledì 14 ottobre.

La giornata si inserisce nel Tempo del Creato, dedicato da tutte le confessioni cristiane alla riflessione sull’ecologia integrale, nel mese di settembre.

Scopo della Giornata è di fare crescere la sensibilità per una vera spiritualità ecologica, che sia un punto di riferimento per la formazione cristiana autentica, un segno di corresponsabilità, e un modo di vivere una profonda vita spirituale, che tocchi realmente la propria esistenza.

L’auspicio è che in questo e nel prossimo anno pastorale, dedicati al Crescere, tutte le zone pastorali – compresa la nostra – vogliano dedicare un po’ di tempo alla presentazione della Piccola guida diocesana per i nuovi stili di vita, e assumerne gli impegni, sia a livello personale, che comunitario.

Il progetto della Caritas: “Rifugiato protetto”

Nella seconda lettura, Paolo parla di un apprendistato alla vita che gli ha permesso di essere solido e maturo. Da qui prendiamo lo spunto per presentare un progetto della Caritas, iniziato già a gennaio e sospeso nei mesi della quarantena e della chiusura.

Nella scorsa settimana è stato definitivamente approvata l’iniziativa del Progetto rifugiato e protetto a casa mia, coordinato dalla Caritas diocesana.

Il progetto prevede l’accoglienza di due ragazzi rifugiati e richiedenti asilo, che vengono accompagnati dalla Caritas in tutte le fasi di integrazione, dall’accoglienza nei centri fino all’autonomia, con il contributo decisivo delle parrocchie nell’ultima fase.

La nostra parrocchia, infatti, offrirà l’alloggio e l’aiuto perché questi due ragazzi, che sono già impiegati in un lavoro, facciano gli ultimi passaggi per maturare l’autonomia necessaria per poi avere una casa e mantenersi.

Tutta la comunità parrocchiale è invitata a rendersi partecipe, ciascuno secondo la propria sensibilità, al buon esito di questo progetto. C’è bisogno di bassa manovalanza (la sistemazione dell’alloggio in questi primi giorni), di contributi economici perché la parrocchia si fa carico di molte spese, di disponibilità a incontrare gli ospiti e a inserirli in un tessuto di relazioni amichevoli e positive.

L’accoglienza inizierà i primi giorni di novembre 2020.

Chi fosse interessato a partecipare, può contattare la segreteria parrocchiale o direttamente anche i responsabili della Caritas o del progetto.




Padre Marella e una lettera per i ragazzi

«Perché andare a cercare altri santi, quando ne abbiamo uno qui a Bologna?» diceva sempre mio nonno, quando gli proponevano dei pellegrinaggi da qualche parte.

Parlava di padre Marella, e questa frase in casa nostra è passata da una generazione all’altra: prima l’ha imparata mia mamma, fin da quando era piccolina, di conseguenza anche i miei fratelli e io.

Per mio nonno padre Marella era un tale santo che quasi esauriva tutta la ricerca di modelli da imitare: come se non ci fosse bisogno di altro. E non c’era volta che mia nonna passasse all’angolo di via degli Orefici, senza mettere un’offerta nel famoso cappello. Anche dopo, quando padre Marella non c’era più e c’erano i suoi successori; al punto che persino a me – che sono nato 18 anni dopo la sua morte – sembra di averlo conosciuto, perché ripetevo quel gesto con la mia nonna.

Ma padre Marella non era solo il prete stravagante, fermo per ore a chiedere l’elemosina col suo cappello in quel cantuccio del Quadrilatero bolognese, come lo ritrae la sua foto più celebre. Quell’uomo era anche un esperto di diritto, un pedagogista e un filosofo.

Quando scoprii che padre Marella era stato un filosofo e professore del Liceo Minghetti rimasi esterrefatto. Quel vecchietto barbuto che sembrava un mendicante era, in realtà, una mente sopraffina e un visionario della pedagogia. «Ma allora, perché faceva il mendicante?!». Fu così che imparai che non chiedeva l’elemosina per sé, ma scuoteva la coscienza dei bolognesi, ed era amico dei poveri e un padre per i ragazzi e i giovani di Bologna. Lo ha sempre fatto nel nome di Gesù.

Questa scoperta che ha attraversato le generazioni di famiglia, mi ha spinto a scrivere un pensiero proprio a voi, ragazzi e giovani.

Padre Marella, infatti, ha per così dire iniziato la sua carriera da santo proprio attraverso l’educazione dei ragazzi e dei giovani. Era un antesignano e un profeta. Credeva fermamente nella formazione della coscienza, nel suo primato e – di conseguenza – nella libertà personale, quando ancora prevaleva l’idea che i giovani dovessero solo obbedire. Pensate cosa avrebbe potuto rappresentare questo – se fosse stato preso ancora più sul serio – di fronte ai drammi della Prima e della Seconda Guerra Mondiale! Per rimanere fedele a questi principi che insegnava e testimoniava ha accettato di pagare di persona, ingiustamente, per sedici anni.

Cosa voglio dirvi, allora, in questo giorno in cui lui viene proclamato esempio di vita cristiana nella piazza della nostra città? Che la beatificazione di padre Marella non è solo una roba per gli anziani che l’hanno conosciuto. Non è una cosa come le tante che non vi riguardano.

La giornata di oggi è come una stele issata in mezzo a Piazza Maggiore che vi ricorda questi tre passaggi fondamentali per la vostra esistenza.

1)La vostra coscienza è la cosa più preziosa che avete. Questa misteriosa sensibilità di sintesi tra le esperienze, quello che capiamo e quello che sentiamo che si chiama appunto “coscienza” va formata: va nutrita ogni giorno come il vostro organismo, va allenata con metodo come i vostri muscoli, bisogna cercare la perfezione come nelle vostre storie Instagram o nei video di Tik Tok che vogliono più follower.

2)La coscienza ben formata – non quella che si fa imbambolare da qualunque imbecille – ha un primato che nessuno le può togliere. È la via per essere padroni della vostra vita. Non è vero che siamo per forza condizionati; è vero, piuttosto, che pochi si curano di avere una coscienza forte e ben formata, capace di decidere e di orientare consapevolmente la propria esistenza.

3)Non c’è cosa più preziosa, per Dio e per ogni persona seria, che uomini e donne liberi. Ma la libertà, quella vera, quella di amare, di servire, di rendere gli altri migliori mentre allo stesso tempo si edifica il proprio cammino, è ancora una volta frutto di un grande lavoro su se stessi, sulla propria coscienza e sui propri comportamenti.

Ricapitolando, il giorno di padre Marella vi riconsegna queste tre cose: la coscienza, la formazione, la libertà. Abbiatene cura. Coltivare la fede cristiana vi aiuterà a farlo.

E se non credete che quel vecchio mendicante col cappello in mano fosse davvero così e avesse la grande cura per i ragazzi di cui vi ho parlato… beh, chiedetelo a uno di loro.

Uno di quelli che padre Marella ha cresciuto, che ha accompagnato nei passi importanti della vita e che è diventato anche suo vero amico lo conoscete: è don Valeriano.

Con amicizia,

d. Davide




Fare, credere, convertirsi

Gesù propone un insegnamento sul “fare la volontà di Dio”, perfettamente coerente con la tradizione di Israele. Come ormai sappiamo bene, infatti, per Israele le Parole del Signore – che sono le indicazioni divine per la Vita – prima si “fanno” e poi si “ascoltano e comprendono”. È una sapienza molto pratica, che non prevede che il rapporto con Dio si possa apprendere solo intellettualmente. È il contrario: la pratica della vita, l’esperienza, permette di aprire il cuore e la mente a quei misteri che, altrimenti, sarebbero inaccessibili e incomprensibili.

Anche la catechesi di oggi e il tentativo di comunicare la fede dovrebbe sempre tenere presente questo criterio.

Il tema dell’insegnamento di Gesù, nel vangelo di questa domenica che ci propone l’esempio dei due figli, è dunque questo: che uno dice, ma non fa e l’altro fa, senza dire.

Sorprendentemente, però, Gesù associa il significato di questa storia al “fare” dei pubblicani e delle prostitute, che non è un fare, ma il credere.

Anzi, a ben guardare – leggendo tra le pieghe della narrazione evangelica – spesso queste persone considerate peccatrici, impure ed escluse dal culto, si trovavano nella posizione di essere affascinate dalle parole di Gesù, senza riuscire effettivamente ad uscire dalla loro miserevole e contraddittoria condizione.

Ma la predicazione di Gesù apriva comunque uno squarcio, lavorava sotterranea, come un torrente carsico o una goccia che scava la roccia. E così, infine, era proprio il loro credere, credere che quell’annuncio di vita, di bene, di nuove possibilità che si radicava nella vicinanza di Dio attraverso Gesù potesse riguardare anche loro, che pian piano, ma inesorabilmente, li cambiava.

E si convertivano.

Il racconto delle figure come Levi, come Zaccheo, come la donna che lava i piedi di Gesù con le sue lacrime sono simbolici di quello che poteva accadere a tutti loro.

Dunque, raccogliamo due insegnamenti.

Il primo è che possiamo puntare a mettere in pratica qualcosa del Vangelo fin da oggi. Questo fare e mettere in pratica ci aiuterà a scoprire che le visioni che la fede ci offre sono vere, autentiche e penetrano il senso profondo dell’esistenza. La sorpresa e la profonda consonanza con i nostri bisogni più veri aprirà il nostro cuore alla fede e, di conseguenza, a convertirci in tutti quegli aspetti che hanno bisogno di essere illuminati dall’amore di Dio.

Il secondo è che credere nelle possibilità di bene instillate dalla vicinanza di Gesù ha il potere reale di cambiare in meglio la nostra vita. Di migliorare le nostre relazioni, di amicizia e di amore; di fare scattare qualitativamente la nostra crescita e la nostra maturazione; di ottimizzare il nostro studio, la nostra professionalità; di vivere con più lucidità sui nostri buoni propositi, con meno, ansia, più pace e consapevoli della pienezza verso cui tendiamo.

La porta è aperta e il cammino della vita è davanti a noi.

Don Davide




Quattro filari

La storia dei lavoratori nella vigna ci parla di quattro filari, dove si coltivano uve diverse, da cui produrre altrettanti vini pregiati.

È una storia in cui Gesù, nascosto nelle pieghe di un racconto, vuole parlarci di un risveglio. Il risveglio della nostra vita. Il dono di mettersi all’opera per servire l’amore del Padre.

Ecco questi quattro filari da percorrere, con l’uva da assaggiare e da lavorare perché ci allieti un vino sublime, “il vino che rallegra il cuore dell’uomo” (Sal 103/104,15).

Il Signore è in cerca

Il Diavolo va in giro come leone ruggente, cercando chi divorare (1Pt 5,8). Il Signore va in giro come agnello mansueto, cercando chi assumere. Sappi che il Signore è in cerca; che il “regno di Dio” passa e ripassa dalla tua vita, è prossimo, non è lontano. È così poco distante che è a suono di voce, che le occasioni non ti mancano. “Cercate il Signore mentre si fa trovare – ci ricorda Isaia – invocatelo mentre è vicino!” (Is 55,6).

Ascolta la chiamata

Ascolta la sua chiamata, senti che qualcuno ti sta parlando: “cosa fai lì?”. Dedicati all’ascolto di una guida, di un punto di riferimento, di qualcuno che ti ispiri e ti illumini.

Ricorda la vigna

Non sei chiamato ad andare in un posto indefinito, poco piacevole, dove non sai cosa fare. Sei chiamato nella sua vigna, dove ci sono tanti operai e dove il Signore vuole tutti. Non importa che tu sia il primo o l’ultimo, la prima o l’ultima, conta che sei invitato. Chiama altri! Aiuta qualcuno a sentirsi coinvolto, non ragionare solo in termini di “giustizia”, di “cosa ci guadagno”, di “chi se lo merita”, ma pensa al regno di Dio: un grande spazio di bene, in cui siano coinvolti tutti.

A giornata

Non c’è l’assunzione a tempo indeterminato e non si vive di rendita. La chiamata con cui il Signore ti risveglia dal tuo torpore è un lavoro “a giornata”. Ti devi dedicare tutti i giorni, quotidianamente, anche poco, ma sempre. A che cosa?! A quello che ti serve per “risvegliarti”. Vuoi crescere nella fede? Inizia a lavorare “a giornata”. Vuoi raggiungere risultati nello studio? Inizia oggi. Vuoi migliorare la tua relazione? Fai qualcosa di meglio a partire da adesso. Rammenta che uno dei drammi della nostra società e della maturità umana di questi tempi è che c’è una grandissima superficialità proprio su questo punto. Non si prende sul serio che bisogna lavorare quotidianamente, se si vuole “ricevere” in dono il “regno”. E non ti scoraggiare: le piccole vittorie contano. Anche se hai fatto ancora pochissimo, hai incominciato. Il traguardo non mancherà.

Don Davide




L’anomala normalità

Della compassione come via

L’insegnamento di Gesù, nel vangelo di questa domenica, ruota attorno al tema della compassione. “Il padrone ebbe compassione del servo” e, al termine del racconto, chiede allo stesso servo: “non dovevi anche tu avere compassione del tuo compagno?”.

Questa domenica fa da spartiacque: iniziamo un periodo importantissimo e difficile. Domani riprendono le scuole, con le complicazioni enormi e i rischi inevitabili legati al perdurare dell’emergenza sanitaria. Tuttavia, i nostri ragazzi andranno finalmente a scuola, nel loro luogo più proprio. Era un assenza che durava dal 27 febbraio, una situazione davvero impressionante a pensarla in circostanze normali. Qualcuno ha vissuto i passaggi della fine dei cicli scolastici, che sono tra i più indimenticabili della vita, senza nemmeno potere fare una festa o salutare “in balotta” (come diciamo a Bologna) i propri amici.

Ci piacerebbe che tutti gli studenti e le studentesse sentissero una speciale vicinanza a quest’esperienza così difficile: una tenerezza per quello che è stato e come l’hanno affrontato, e quasi una commozione a vederli di nuovo varcare i cancelli dei loro istituti, in compagnia degli amici.

Anche il mondo universitario riprende con coraggio le lezioni in presenza. In generale, la fine delle vacanze estive segna inconfutabilmente un confronto con quella “normalità” che, dai mesi della quarantena nazionale, non era più stata piena: un’anomala normalità, nei mesi che ci attendono.

Ugualmente, anche la nostra parrocchia si cimenta con l’orario ordinario delle messe, che non era più stato tale dal 27 febbraio, con la ripresa del catechismo, la programmazione dei gruppi, il tentativo di fare ripartire il doposcuola, l’impegno della San Vincenzo e lo sforzo di non fermare gli aiuti della Caritas.

Vorrei che tutti avessimo uno sguardo di compassione su questi sforzi – nostri, del mondo ecclesiale, e quelli di fuori, dell’impegno della società civile – pensando che ognuno stia provando a fare il meglio che può, con la consapevolezza di sé, la maturità e l’equilibrio che è riuscito a raggiungere fino a quel punto della propria vita.

Questo atteggiamento esige che la compassione entri in circolo. Nelle istruzioni di Gesù, il rimprovero per quelli che arrestano questa circolazione della bontà è severo: “Non dovevi anche tu avere pietà del tuo compagno?”.

Non abbiamo bisogno di durezze, ma di un’umanità tenera.

Non abbiamo bisogno di convinzioni granitiche, ma di cuori aperti.

Non abbiamo bisogno di affermare noi stessi, ma di capire come possiamo fare i passi insieme.

Concretamente, credo che ci siano alcuni atteggiamenti molto pratici che possiamo tenere presenti.
1) Attenzione e delicatezza per chi si sente ancora poco sicuro rispetto alla pandemia e magari affaticato da qualche turbamento o ansia. Non bisogna sminuire affatto questi nostri fratelli e sorelle e non bisogna farli sentire in difficoltà. Occorre fare uno sforzo ulteriore di rispettare le norme sanitarie: l’utilizzo della mascherina, il rispetto della “giusta vicinanza”, il garbo e l’attenzione di mettere a proprio agio l’altro.

2) L’esercizio della comprensione. In parrocchia, a scuola, negli uffici e nei posti di lavoro… sicuramente c’è stato lo sforzo di provare ad affrontare le difficoltà. Anche dove l’organizzazione non fosse perfetta, magari c’era qualcuno che anelava al meglio. Non bisogna “farsi andare bene tutto”, ma provare ad essere radicalmente costruttivi.

3) Una sigla: ARP. Assoluta – responsabilità – personale. Cosa posso fare io? Questa domanda dovrebbe essere come una giaculatoria, o un mantra. Come posso dare una mano? Cosa posso fare io per migliorare la situazione o impedire altre difficoltà. Cosa devo fare io per tenermi centrato, in forma fisicamente e spiritualmente, per essere pronto a fare la mia parte in questa sfida che tutti stiamo vivendo?

Il padrone della parabola risponde a queste domande dicendo: “Io sono ricco e potente, una cosa posso esercitare: la compassione.” E lo fa.

Vale anche per noi.

La compassione è la nostra via.

Don Davide




Riprendere

Quattro parole per darci fiducia:
presenza – comunità – coraggio – ascolto

Cosa significa riprendere?

Che valore ha e che cosa mette in gioco riprendere la vita ordinaria, inevitabilmente caratterizzata dalla riapertura delle scuole e delle università; riprendere la vita lavorativa, dopo la pausa estiva; riprendere la pastorale, che praticamente si è arrestata a inizio marzo, con qualche eccezione che però non può surrogare l’incontro tra le persone?

E cosa chiede a ciascuno di noi lo sforzo di riprendere dopo la terribile esperienza della pandemia e della “chiusura”, consapevoli tuttavia che l’emergenza sanitaria non è alle spalle?

Abbiamo bisogno di incontrarci, di dare ritmo quotidiano alle nostre esistenze e di avere cura dei bimbi, ragazzi e giovani, che sembrano i più colpiti da questa situazione, come se li avesse sfiduciati ancora di più; dobbiamo assolutamente permettere che le loro energie rifioriscano.

La sfida è più che mai impegnativa, perché richiede alcune attenzioni, che decliniamo in quattro parole.

    1. PRESENZA. Non bisogna perdere l’importanza di quella dimensione di meno frenesia di cui l’emergenza ci ha fatto rendere conto, e che ci ha resi più presenti a noi stessi, come quando ci si riprende dopo un risveglio.
    2. COMUNITÀ. Non dobbiamo rinunciare all’incontro con la nostra comunità, per quanto piccola e scalcagnata che sia, e non possiamo accontentarci. Vibra l’urgenza di rianimare la vita di una comunità cristiana in senso evangelico, sfrondando le tante cose inutili e cercando di radicarsi in ciò che fa davvero bene alla vita delle persone.
    3. CORAGGIO. La pandemia non ha avuto solo degli effetti negativi visibili e quantificabili. In molti ha lasciato un senso interiore di disagio, di paura e di ansietà. Non dobbiamo pensare che siano esagerati o che non conti questa dimensione psicologica non conti eccessivamente. È preziosissimo anzi, accorgerci di chi è in difficoltà e aiutarlo, incoraggiarlo, stargli vicino, infondere una nuova fiducia. Possiamo e dobbiamo aiutare tutti a rifare i propri passi sentendosi sicuri, quindi si tratta di garantire la serenità di incontrarsi e fare le cose anche a chi è stato più turbato in questi mesi.
    4. ASCOLTO. Nel silenzio della pandemia, spesso la Parola di Dio ha brillato come luce e risuonato come lettura del nostro vissuto. La comunità cristiana, che ambisce ad incontrarsi dopo una simile terribile esperienza, si deve confrontare all’altezza delle sfide, senza ripiegarsi sulle abitudini e la tradizione.

A tutte e a tutti coloro che si sentiranno motivati a “riprendere”, anche in mezzo a tutte le fatiche e paure, va il nostro autentico grazie.