Esisto e vivo

Gli occhi di una neonata si spalancano e sembrano grandissimi. Ci si chiede cosa guardi, così meravigliata, mentre comincia a contemplare il mondo, fino a quando non intercetta il viso amato della mamma e del papà. Non li percepisce solo con lo sguardo, ma attraverso una simbiosi con il corpo della madre, e una sintonia con il padre che l’ha amata, prima ancora che venisse alla luce. Sono esperienze prenatali, sfumature della luce, vibrazioni del suono, profumi, movimenti, inflessioni della voce che le permettono di riconoscersi immersa in quell’amore presente fin da quando è stata generata.

È la meraviglia dell’esistere, con cui una bimba, un bimbo prende confidenza.

Può non succedere, purtroppo, ed è il motivo per cui è tanto drammatico che un essere umano non sia amato, perché questo sviluppo è il funzionamento di base della chiamata dell’Essere.

Io esisto. È la sorpresa delle sorprese. Non finirò mai di stupirmi di questa collocazione nella vita.

Cinquant’anni fa, esattamente il 4 giugno del 1973, i miei genitori si sono sposati qui in questa chiesa di S. Maria della Carità. Da quella semplice storia d’amore sono nati i miei fratelli e io. Come succede per ciascuno e ciascuna di noi.

Esistiamo, come frutto traboccante dell’amore.

La Trinità è incomprensibile, ma forse riusciamo a coglierne il mistero come una neonata che apre gli occhi al mondo e intuisce l’origine del suo essere nel volto amato della mamma e del papà.

Dio è un amore fecondo, di cui troviamo riscontro in tutte le cose create.

Genera vita al suo interno, come una madre che porta in grembo il bimbo; è il cielo che alimenta i fiumi, i fiumi che portano acqua al mare e il mare che ritorna alla terra senza mai fermarsi; è un albero frondoso o pieno di frutti e una pianta che gemma, che nutrono senza rivendicazione ogni essere vivente e che spandono i loro semi. Dio è un fiore che sboccia, che lieto accoglie le api che si arricchiscono del suo profumo per produrre la dolce sostanza del miele.

In ognuna di queste analogie scopriamo che ogni realtà che scaturisce dall’Amore è inserita nell’origine che l’ha generata, tutta appartenente a quella medesima origine, e simultaneamente qualcosa di separato.

Siamo immersi in Dio e esistiamo al di fuori di lui.

Abbiamo la vita, l’essere e l’amore come soggetti liberi, persino autonomi se lo vogliamo, con una dignità che ci è conferita totalmente e che non dobbiamo a nessuno.

Sembra strano affermarlo, quasi contrario alla nostra fede. Ma è il vero significato di un Dio che – come leggiamo nelle letture della Santissima Trinità – non rinnega nulla dell’amore con cui ci ha voluto e spontaneamente generato all’esistenza; un Dio che ha voluto e chiamato il suo popolo alla vita.

Su di esso, come su tutto il creato, Dio dichiara la sua tenera fedeltà per sempre.

Tutto quello che noi possiamo fare – e in verità siamo davvero chiamati a farlo: se c’è un dovere morale è proprio questo! – è custodire questa dignità di creature libere e chiamate ad esistere, senza volgarizzarla, senza farne uno strumento per limitare la libertà degli altri o – peggio – di violenza.

Forse questa riflessione risulta un po’ difficile. Molte delle cose che volevo comunicare sono espresse meglio nel linguaggio della poesia e della musica in una canzone degli One Republic, che mi ha fatto conoscere una ragazza della nostra parrocchia che ringrazio.

Nella festa del Dio Amore che ci ha tutti chiamati alla vita, insieme a mio fratello e a mia sorella e a voi che siete la mia famiglia, al mio papà che celebra con noi dal Regno della Vita e alla mia mamma che ricorda i cinquant’anni dal giorno in cui si è sposata con lui, voglio dedicare questa canzone: “I Lived”.

Qui c’è la musica con il testo.

Qui c’è il video ufficiale, con qualcosa in più.

Don Davide




Abbeverarsi, in cima

“Tutti siamo stati dissetati a un solo Spirito” (1Cor 12,13).

Siamo arrivati in cima. L’ascensione è stata bella, ma faticosa (chiedetelo a chi ha riportato la B.V. di S. Luca al santuario, in un torrido e improvviso pomeriggio estivo dopo giorni di freddo e di pioggia!).

Come la Pentecoste è la pienezza della Pasqua, perché lo Spirito rendere sempre presente il Risorto, così raggiungere la meta di una gita dà un senso di compiutezza, anche se rimane tutto il ritorno!

Riposo

Ora, però, è il momento di mangiare e di dissetarsi.

Non importa se durante il cammino abbiamo finito l’acqua: c’è una fonte, a cui riempire le nostre borracce.

È acqua di sorgente, fresca, perfetta per accompagnare un buon panino, un frutto e un dolcetto.

Tutti sanno, in realtà, che quando arrivi al traguardo di un bel sentiero, quello che ti ristora veramente è la vista del panorama aperto, la policromia della roccia, dei prati e dei laghetti.

Eravamo idealmente rimasti al Rifugio Locatelli… perciò attingiamo forza ed entusiasmo dalla maestosità delle Tre Cime di Lavaredo.

Le Tre Cime come la Santissima Trinità, spero che mi perdonino i teologi…

ma lo scrive anche Paolo nella Lettera ai Romani: l’amore di Dio viene versato nei nostri cuori per opera dello Spirito Santo che ci è stato dato, grazie a Gesù (cf. Rm 5).

Ritorno

Nei momenti in cui ti senti rincuorato dallo Spirito, ti verrebbe voglia di fermarti in quel calore, di goderti tutta quella pace. Ma i discepoli avevano imparato la lezione sul Tabor. E ora dal Cenacolo, vengono spinti fuori, come quando, dopo il riposo, ti senti ricaricato di energie e sei pronto a scendere a valle e a completare il tuo itinerario.

Non c’è in gioco solo una gita, ma il terminare un’impresa.

Ci sono ancora molti e nuovi paesaggi da contemplare. Gli itinerari belli, sono quelli che ritornano “per un’altra strada” come i Re Magi.

Ho ancora negli occhi, scendendo dal famigerato anello delle Tre Cime, un tappeto di prati irrigati da piccoli ruscelletti, una copia del Paradiso Terrestre – o forse l’originale? – ricamato da una miriade di fiori bianchi e lievi come piccoli batufoli di cotone. Mi fecero pensare alla manna nel deserto: doveva proprio essere così!

Ogni ritorno è caratterizzato da un dono di forze che sostiene il cammino: può essere la meraviglia negli occhi, il cuore grato, una parola che ricevi e che ti accompagna, le gambe – anche quelle spirituali – che ormai vanno da sole o qualsiasi altro segno di bellezza.

Il ritorno è sempre segnato dalla gratitudine per il cammino alle spalle, e dal fatto che non cessano nuove scoperte.

Racconto

Infine, il racconto. Quando hai fatto un’esperienza così bella, non puoi fare a meno di condividerla. Qualcosa racconti, qualcosa rimane nel tuo intimo. Di un paesaggio puoi fare una descrizione, ma alcune emozioni sono come una cassaforte personale, perché non si possono tradurre a parole.

Così è la testimonianza dell’amore di Dio nello Spirito Santo. Non puoi tenerla con te, non per fare proseliti, ma perché semplicemente è impossibile non condividere tanta bellezza. Eppure, l’ampiezza, la profondità e la luce di quel paesaggio incantato, così come gli orizzonti molteplici definiti dalle catene montuose che si inseguono e sovrappongono, possono essere raccontate solo per approssimazione.

Così è anche l’esperienza spirituale.

Qual è la vastità e il miracolo dell’opera di Dio nella vita di una persona, magari di un giovane nei passaggi decisivi della sua esistenza? Che cosa accade, davvero, tra Dio e ciascuno di noi?

Raccontare è come scrivere la pagina della Pentecoste. E tuttavia, quello che è successo avrà sempre il “di più” che trabocca in ogni storia d’amore.

 

Don Davide




Più del Nanga Parabat

Prima parte

L’Ascensione di Gesù evoca una salita al cielo lieve, eterea, senza fatica, mistica. Ma il termine è anche lo stesso delle grandi imprese alpinistiche: l’ascensione all’Everest, al K2, al meno alto ma più terribile Nanga Parbat.

Questo secondo tipo di ascensione richiede preparazione, ritmo e costanza, è sempre lunga e faticosa.

Voglio leggere il mistero dell’Ascensione insieme a quello della Pentecoste, in una inedita meditazione in due puntate:

  1. L’Ascensione, che comprende l’allenamento, la fatica e la gioia di avere raggiunto la cima.
  2. La Pentecoste, che riguarda la seconda parte: il riposo in vetta, il ritorno, il racconto dell’impresa.

Organizzare la propria vita come se fosse una grande impresa alpinistica.

Questo significa ascendere con Gesù, essere quindi resi partecipi della pienezza della gioia pasquale nello Spirito Santo: non verso meravigliose cime montuose, ma puntando alle vette dell’esistenza.

È questo il vero significato, anche nella tradizione spirituale cristiana, della parola “ascesi”.

Allenarsi

Significa rafforzarsi nella vita: abituarsi a sostenere e ad affrontare le difficoltà, non fermarsi appena viene il fiatone, non rinunciare allo sforzo quando fanno male le gambe, esercitare la propria forza di volontà. È desueto questo stile, ma rimane importante se uno vuole “ascendere”.

Altrimenti si può decidere di rimanere alla malga a farsi uno Spritz, perché una Radler sarebbe già cosa troppo da montanari.

Allenarsi significa anche diventare un po’ più leggeri, tonificare i muscoli che sprigionano energia e eliminare i grassi che ci appesantiscono. Fuori di metafora, penso al nutrimento sano: la vita spirituale, le letture, la formazione personale, la preghiera, le buone relazioni: in una parola, le virtù. Al contrario, ci sono la pigrizia, la mancanza di cura di sé e degli altri, la tv spazzatura: ossia l’accidia.

Infine, allenarsi significa selezionare cosa portarsi nello zaino, che non può essere troppo pesante: che cosa ci fa da zavorra, che cos’è essenziale? Mi pare che tra le cose essenziali ci siano l’amore e la dedizione per la famiglia, la condivisione con una comunità di appartenenza, l’impegno onesto, leale e qualificato nel proprio lavoro. Ognuno, invece, deve essere attento a individuare le proprie zavorre.

Fatica

La fatica è un tratto inevitabile di ogni ascensione che si rispetti. Anche gli atleti più allenati, anche quelli che appaiono invincibili nel loro sport, quando compiono un’impresa mettono in campo uno sforzo ineguagliabile, che appunto hanno imparato a sostenere.

Nella parabola della casa sulla roccia, Gesù non dice che questa casa, a differenza dell’altra, non va incontro alla tempesta. Dice che la tempesta arriva comunque, ma la casa con buone fondamenta l’affronta e rimane salda.

La fatica c’è, nella vita di ciascuno. Molti preferiscono tenerla nascosta, invece sarebbe più importante condividerla con qualche persona amica, fidata e cara.

Ci si aiuterebbe. La cosa più importante è non scoraggiarsi, e non pensare che la fatica sia segno di qualcosa di sbagliato: è come reagiamo alla fatica che definisce se siamo nel giusto o nell’errore.

Vetta

Quello che vorrei trasmettere, soprattutto ai ragazzi e ai giovani (ammesso che ci sia qualcuno che legge, nel caso… fateci contenti: date un cenno!), è che per godere le vette il cammino della vita va preparato e strutturato.

Oltre alla scuola e alla cultura, che già è una cosa importantissima, bisogna a tutti i costi acquisire delle competenze emotive, relazionali e spirituali. È bella la spensieratezza, il divertimento, la gioia della giovane età.

Insieme a queste cose stupende, bisogna avere cura di preparare l’appuntamento con le cime.

Ricordo la gita più bella che ho fatto: l’anello alle Tre Cime di Lavaredo, dalla Val Fiscalina. Ho chiesto qualche consiglio e ho studiato le mappe. Poi sono partito presto. Vi dirò, che i panorami delle prime luci sono per me ancora indimenticabili. Per questo vi consiglio di partire “presto”. Ci sono momenti di vera estasi, come l’alba sulla Croda dei Toni. Poi mi sono goduto momenti di svago e di relax: una magnifica colazione con una mezza Sacher senza sensi di colpa.

Dopo, anche qualche momento in cui la salita è spianata; una volta arrivato in quota, addirittura qualche passaggio in cui ho mosso i passi in discesa e poi… la sorpresa.

Può capitare che ti accorgi che sei arrivato in vetta quasi all’improvviso, nonostante la metà sia maestosa e impareggiabile come le Tre Cime di Lavaredo, non nel senso che hai finito il percorso, o hai raggiunto il massimo dei traguardi, ma la tua ascensione ti sperimenta una tappa di inedita meraviglia.

Tutto quello che hai fatto fino a quel momento, ne è valsa la pena.

Il percorso non è finito. Ma questa è un’altra storia…

Nella prossima puntata: la Pentecoste! Non perdetevela!

Don Davide




Un altro consolatore

“Vi darà un altro Consolatore” (Gv 14,16).

Evidentemente Gesù sapeva che il mondo ha un immenso bisogno di consolazione.

Etty Hillesum, nel suo meraviglioso Diario scrive: “Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite.

Questa frase interpreta magistralmente l’intenzione di Gesù: non solo lo Spirito Santo è un “altro” consolatore, ma anche tutti coloro che questo Spirito lo accolgono e se ne lasciano trasformare, al punto di essere balsamo, per molte ferite.

Vorremmo rubare le parole attribuite a S. Francesco nella Preghiera semplice e parafrasarle:

“O Signore, fa di me uno strumento della tua cura.

Dove c’è una ferita, che io possa essere balsamo; dove c’è la guerra, ispirami la pace. Dove ingiustizia, rendimi giusto. Dove manca l’amore, aiutami ad amare.”

Allo stesso tempo, Signore, fa’ che io stesso sappia di avere bisogno di consolazione, per essere umile e affidato e sentire che il conforto è sempre essere gli uni assieme agli altri, e ciascuno insieme con te.

Don Davide




Come i sentieri di montagna

“Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per servire alle mense…” (At 6,2).

Non è che gli apostoli fossero restii al servizio, ovviamente, ma avevano riconosciuto con precisione la loro vocazione, soprattutto in un momento delicato e di possibile disorientamento della comunità. Quindi, decidono con coraggio e consapevolezza di custodire il dono che avevano ricevuto.

Era la loro “parte migliore”.

Quella che – secondo le parole del Maestro (guarda caso riportate proprio nell’opera di Luca, lo stesso autore degli Atti) – non poteva essere tolta (Lc 10,42).

Gli uomini che vengono scelti come diaconi, erano ben conosciuti dalla comunità, apprezzati per il loro servizio e la loro fede, autorevoli. Non erano certo lontani dalla Parola di Dio. Semplicemente, l’ascoltavano in quella forma particolare e la mettevano in pratica così.

In questo modo, il racconto degli Atti ci mostra l’apertura delle vie della santità.

Sono i tanti fiori belli che sbocciano dai semi del Battesimo, e abbelliscono il prato della Chiesa e del mondo.

La via è Gesù, ma ben lungi dall’essere univoca, è poliedrica: si concretizza nelle tante forme di seguire, imitare e ascoltare Gesù.

La meta è unica: il Padre e l’esperienza commovente del suo amore.

C’è chi ama leggere, studiare, meditare e pregare la Parola di Dio scritta; c’è chi questa Parola la legge nei poveri e la impara nei poveri; c’è chi adora fare l’adorazione e chi, dopo cinque minuti che è in ginocchio davanti al SS.mo comincia a pensare a quale sugo preparare per la cena, ma in compenso è un fenomeno all’oratorio. C’è chi organizzerebbe mille incontri di formazione in parrocchia, e chi ha la pazienza di ascoltare fino all’eroismo chi ha bisogno anche solo di parlare o di compagnia…

È come salire sulla vetta di una montagna, raggiunta da molti sentieri, magari anche una via di scalata.

Qualcuno preferirà fare il sentiero più diretto e ripido; un altro sceglierà il percorso più panoramico; un gruppo si fermerà alla malga a rifiatare, gli altri non vedranno l’ora di mangiarsi il panino in cima. Qualche intrepido preferirà fare la scalata, ma ad alcuni farebbe venire le vertigini, e quindi percorreranno il lento percorso a zig-zag che si configura negli ultimi tratti di salita.

La cosa stupenda è che, a pensarci bene, man mano che si raggiunge la cima, i percorsi sono più vicini e, a un certo punto, magari proprio sotto la croce di vetta, convergono.

Così è la vocazione cristiana.

È importante che sia un saggio equilibrio: che chi ama la Parola di Dio dedichi spazio alla carità, e che chi farebbe centomila partite a biliardino in oratorio vada a dire i vespri in chiesa con la comunità.

Ma sia benedetta la passione che ciascuno mette per vivere il proprio Battesimo e percorrere una vita santa. E sia benedetto il momento meraviglioso, in cui ci si siede insieme dove il mondo sembra finire e rimane solo il cielo sopra di noi a rifiatare, ristorarsi, ricordare il cammino fatto e raccontarlo a chi ne ha percorso uno diverso.

Don Davide




Il cuore trafitto

Il prodigio più grande operato dallo Spirito nel giorno di Pentecoste, non è probabilmente il miracolo delle lingue, ma la conformazione degli uditori della Parola a Gesù.

“Si sentirono trafiggere il cuore.” (At 2,36).

È Gesù l’uomo dal cuore trafitto (Gv 2,34): un varco per accogliere le ferite del mondo, da cui ne viene un parto di vita.

È, dunque, il suo cuore trafitto la porta delle pecore (Gv 10,7): non abbiamo altra possibilità, come dei novelli Tommaso, che entrare nel cuore di Gesù e imparare i suoi sentimenti, la sua sensibilità.

“Che voi avete crocifisso – dice Pietro – e si sentirono trafiggere il cuore.” (At 2,36).

Don Tonino Bello parlava dei «crocifissi della storia». Papa Francesco parla degli «scarti».

Chiediamo la grazia di sentirci trafiggere il cuore, perché ne venga un parto di vita.

Che il dispiacere sia così insopportabile da spingerci a fermare le guerre, da anelare alla giustizia, da farci carico del destino dei fratelli e delle sorelle in difficoltà e del pianeta avvelenato.

Chiediamo la grazia di sentirci trafiggere il cuore per la tanta sofferenza che ci circonda, l’amore ferito e tradito, l’amicizia affaticata, le vite che invece di espandersi incontrano difficoltà e i giovani angustiati o bloccati.

Chiediamo, infine, la grazia di sentirci trafiggere il cuore per i nostri peccati, perché possiamo riconoscerli e non restarne indifferenti, e perché la vita in abbondanza (Gv 10,10) entri in questo cuore trafitto, e quindi aperto, come esperienza e conferma della grande amorevolezza di Dio.

Don Davide




Camminare, conversare, sostare

Tre verbi che ci permettono di accostarci al mistero della resurrezione.

“Camminava con loro” (Lc 24,15)

Anche se il trekking sta tornando di moda e si capisce l’importanza fondamentale delle passeggiate all’aria aperta, possibilmente in mezzo al verde dei prati o ancora meglio di un bosco, abbiamo ancora molto bisogno di recuperare questa consapevolezza del camminare, che ci aiuta a sfuggire dalle spire del traffico quotidiano, e a ritrovare lentezza, tempo di distensione, stacco tra un’attività e l’altra. In realtà, lo faccio io stesso, camminiamo con il viso rivolto al display del cellulare: sfruttiamo il tempo di rispondere ai messaggi e alle mail, oppure di controllare i feed dei nostri social.

Camminare dovrebbe essere il modo di sedersi accanto al reale

Sembra paradossale, ma è proprio come facevano una volta gli anziani, fuori dalle latterie di paese, sulle sedie intrecciati coi fili di plastica e la struttura in ferro.

Da Gerusalemme a Emmaus è un lungo cammino, circa 11 km. In quel tragitto i discepoli hanno avuto il tempo di tirare fuori le loro delusioni e amarezze, ripercorrere i ricordi, sentire dei moti dell’animo e prendere confidenza con il pellegrino sconosciuto.

“Conversavano” (Lc 24,14)

“Conversare” è molto più di “parlare” o “scambiarsi delle informazioni”. Spesso, la fretta ci induce a queste ultime due modalità, sia nella vita professionale, che in quella famigliare. Capita, poi, che con gli amici manchino argomenti, e anche se ci sarebbe il tempo di conversare, lo sprechiamo in discussioni e comunicazioni vacue.

Conversare significa arrivare a mettere in sintonia le nostre emozioni profonde.

È un processo articolato e delicato, che richiede lentamente di abbassare le difese e superare le diffidenze, e aprirci per poterci muovere dalla posizione in cui eravamo noi alla dimensione in cui si trova l’interlocutore. Spesso, invece, la conversazione è intesa come un portare l’altro dove siamo noi, ma in questo caso perde la ricchezza della possibilità di versare il cuore l’uno nell’altro e arricchirsi reciprocamente.

“Resta con noi” (Lc 24,29)

Sostare… Chi si ferma più? Il filosofo Pascal sarebbe seriamente preoccupato per la salute spirituale della nostra generazione, perché anche quando ci fermiamo, rischiamo di farlo non per “condividere” qualcosa, ma per “fare” qualcosa. Sostare è l’unica via per dare spazio ai ricordi, e permettere loro che si incidano, come nel marmo, nel nostro spirito e nella nostra memoria.

Sostare sostanza la nostra esistenza reale.

Mettersi su una panchina e contemplare le montagne. Sedersi sulla spiaggia e ammirare il mare. Annusare il profumo di un fiore. Stare a tavola qualche minuto dopo che si è finito il pasto. Si può sostare anche facendo qualcosa, senz’altro, l’importante è avere la consapevolezza di chi c’è con noi e di cosa stiamo facendo in quel tempo condiviso e prezioso.

Gesù conduce questi passaggi come la migliore guida spirituale possibile.

Più abile di Socrate nella maieutica (non me ne vogliano i classicisti e i filosofi!), più resistente di un maratoneta, e buontempone come un bolognese a tavola!

In questa esperienza del reale, vissuta con calma, tempo disteso, e pacatezza, accade una cosa prodigiosa. La vita vissuta si riaccende in un ricordo sensibile – quella benedizione, quel pane spezzato… – improvvisamente acquista di significato e diventa promessa di una vita futura e tanto desiderata.

L’amore espande i sensi e apre la finestra della resurrezione: il cuore ardeva e lo riconobbero.

Era vivo, e non avevano più bisogno nemmeno di vederlo.

Don Davide




Misericordiate

“Sia benedetto Dio, per la sua misericordia!” (1Pt 1,3)

Questa esclamazione della seconda lettura si intona perfettamente con il senso dei giorni di grande festa che viviamo.

È grande festa perché è la Domenica in Albis, la Domenica della Misericordia – appunto – che si celebra ancora con tutta la solennità di Pasqua.

È grande festa perché abbiamo le Prime Comunioni dei bimbi – ben 48! – e il Battesimo di quattro bimbi.

In questo periodo abbiamo celebrato abbondantemente la misericordia, sia attraverso il sacramento della Riconciliazione, sia nelle traboccanti liturgie del Triduo Santo.

Ricevendo grande conforto, ho incontrato tante persone in sincera ricerca della verità sulla propria vita e autentiche nella loro richiesta di perdono ricevuto e di riconciliazione data, anche quando quest’ultima è particolarmente difficile.

Gesù risorto, in mezzo ai suoi, consegna un mandato molto preciso: “A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi.” (Gv 20,23)

In altre parole: se non «misericordiate» voi, chi lo farà?

Se non testimoniate voi la compassione e la tenerezza di Dio, come potrà essere conosciuto?

Tutti questi bambini che fanno la Comunione e le loro famiglie, e i pupetti e le pupette che ricevono il Battesimo ci inteneriscono.

Abbiamo un compito preciso: testimoniare a loro, come chiesa e comunità parrocchiale, la bontà di Dio, la sua guida sicura, l’amore concreto di Gesù, il calore interiore dello Spirito Santo. Da questa meraviglia verranno educati.

Siamo certi che cresceranno orgogliosi e grati di essere figli e figlie di Dio.

E che questa compassionevole benevolenza della misericordia, che ricostruisce la fiducia nella vita, raggiunga ogni persona che conosciamo e si allarghi al mondo intero.

Troppi dolori e troppe atrocità, nascondono il vero volto di Dio.

Gesù risorto, che sta in mezzo a noi augurando e affidandoci pace e misericordia, vuole che tutti lo possano incontrare.

Don Davide




Com’era quel giorno?

Chissà com’era il mattino del giorno di Pasqua, nei pressi del sepolcro di Gesù, poco fuori Gerusalemme.

Mi sono sempre chiesto se c’erano dei segnali, ai quali le donne non avevano prestato attenzione, o che non erano in grado di percepire a causa del turbamento che ancora agitava il loro animo.

C’era forse un silenzio surreale – quasi meravigliato – oppure gli uccellini volavano più festosi del solito e le rondini facevano le loro evoluzioni tra il porticato del Tempio?

Le persone che si svegliarono presto percepirono qualcosa di diverso? L’aria era frizzante o lieve?

Ci fu almeno un soldato rapito da un presagio di pace o un sacerdote ammansito dalla dolcezza del pentimento?

E l’alba com’era? Rossa come il fuoco, rosa come i fori di pesco, gialla come un campo di girasoli o azzurra come lo specchio del Mare di Galilea circondato dai colli?

Infine, la pietra rotolata era luminosa od oscura? La luce entrava nel sepolcro aperto, oppure usciva da esso un bagliore più chiaro del giorno, come l’acqua dolce quando si mescola con quella salata nell’estuario di un fiume?

A queste mie curiosità non c’è risposta.

In quel misterioso tempo intermedio, una cesura è avvenuta nella storia del mondo, il sepolcro è diventato una porta d’accesso tra l’uomo e il divino, una frattura nella crosta dura dell’esistenza, attraverso la quale Dio è entrato nel tempo.

Credo che tutto annunciasse la resurrezione, pur essendo tutto perfettamente uguale agli altri giorni.

Era una vibrazione improvvisa, inattesa, come un colore fuori dallo spettro visivo, come una melodia oltre il nostro campo uditivo.

Una sorpresa, che da allora in poi chiede di essere riconosciuta attraverso la fede.

È un senso spirituale, che si aggiunge ai nostri cinque sensi e che non è solo un sesto senso, ma una facoltà che va allenata, riconoscendo le ferite che diventano feritoie, come le piaghe di Gesù, e le porte chiuse che vengono aperte, ogni volta che l’amore trova un pertugio.

Celebriamo la Pasqua con la consapevolezza di questa sorpresa, che può sempre raggiungere la nostra vita, mentre ci chiede di allenare la fiducia che ci permette di accoglierla.

Don Davide




Il privilegio di Dio

Tu sei magnifico e onnipotente, Signore. Nella tua dimora regale, seduto sul trono di gloria, come ogni sovrano, chissà quanti privilegi hai!

Eppure, sei sceso ad abitare in mezzo a noi e non hai scelto un hotel a 5 stelle, ma il retro di un’abitazione, e anche i cherubini e i serafini – che di solito popolano il tuo palazzo – non hanno disdegnato, come te, la compagnia di qualche animale: un asino, un bue – chissà – forse anche due conigli, una capretta, qualche gallina e tre pecorelle.

L’apostolo Paolo ha preso pezzi di una canzone orale del tempo e ne ha composto un inno, su questo viaggio che hai compiuto, Gesù, dall’alto al basso e poi di nuovo verso l’alto, in un livello intermedio tra la terra il cielo, quello della croce. Noi l’abbiamo un po’ ammansita questa meditazione, ma potremmo renderla così: “Pur essendo Dio, non ritenne un privilegio essere Dio, ma svuotò se stesso” (Fil 2,6-7).

Cosa si può pensare di più atroce della situazione degli uomini e donne che vengono venduti, ancora oggi, in molte parti del mondo?

La fine del tuo viaggio – di questa discesa dal trono del cielo, al pagliericcio della terra, fino al giaciglio della croce a mezz’aria – inizia proprio così: sei venduto, per farti morire. Come gli schiavi, come le vittime dei trafficanti di organi, come i giovani e inesperti soldati mandati al macello da chi ha le ville con la piscina.

Qual è dunque il privilegio di Dio?

Qual è il tuo privilegio, Gesù?

Che cosa ritieni degno, tu, dell’esistenza di Dio?

Per rispondere a questa domanda, i narratori del tuo ultimo tratto sulle nostre strade, elencano una serie di situazioni vertiginose.

Sentirsi ingiustamente motivo di scandalo, solo per essere stato testimone di un Dio libero, mite e amorevole; fare parte dei rinnegati, i dissidenti dalla loro patria, gli omosessuali dalle loro famiglie, gli inefficienti dalla società dei consumi, i malati e gli anziani lasciati soli, chi si sente cacciato e rifiutato dagli affetti più cari.

Inoltre, il privilegio che scegli per te è, Gesù, condividere la sorte di quelli che vengono bullizzati, sostituirti ai prigionieri e ai carcerati, giungere perfino ad affiancarti nel dolore di chi viene torturato.

Infine, fermare il braccio di chi usa la violenza nel nome Dio.

Tutto questo è il privilegio di cui ti fregi, proprio perché sei Dio.

Ed ora, camminare di nuovo in quello che era il Paradiso Terrestre deturpato dal peccato, senza più fare paura agli esseri umani, anzi, facendoti vicino ad ogni uomo e ogni donna soli, che soffrono in terra, in mare e in ogni luogo, per consolarli come una madre che prende in braccio il suo bambino, per alleviare il dolore, perché nessuno abbia più paura del buio e degli orchi.

Il privilegio che rivendichi, Gesù, è entrare in tutte le sofferenze e coccolarle d’amore.

Ma il privilegio di Dio è anche sedere a tavola con gli amici, benedire il pasto e i doni della terra, scoprire – meraviglia inattesa – che ci sono fratelli e sorelle sconosciuti, pronti ad asciugarti il sangue e il sudore dal volto, disposti ad aiutarti a portare la croce.

Alla fine di questa contemplazione, ti preghiamo Signore Gesù – noi che siamo guardinghi e prudenti, e magari un po’ timorosi – insegnaci ad essere “invidiosi” dei tuoi privilegi, anzi a “morire di invidia” per te, nella Settimana Santa.

Don Davide