I bimbi e i giovani

«Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò» (Mc 10,10). Questa breve citazione del Vangelo ci ricorda che al di là del politicamente corretto, accogliere i bambini non è facile. Tanto meno lo era al tempo di Gesù. La formula è fortissima: Gesù si indignò dell’atteggiamento dei discepoli. 

Questa settimana ricominciamo il catechismo: speriamo non solo che Gesù non si indigni, ma che anzi sia orgoglioso di noi. I bimbi sono allegri e adorabili per tanti aspetti, ma al catechismo sono anche tanti, chiassosi, a volte stanchi. Noi ci proponiamo di fare in modo che il tocco di Gesù raggiunga comunque tutti, che nessuno sia impedito di andare da lui. 

Chiedo, in questo, l’alleanza di tutta la comunità, la complicità delle famiglie, la stima, l’amicizia e la vicinanza per tutti i catechisti, la preghiera di tutti. Sappiate che c’è molto bisogno, perché da noi si verifica questo strano fenomeno: i bimbi aumentano e i catechisti diminuiscono! 

 Domenica scorsa è iniziato anche il cosiddetto Sinodo dei Giovani a Roma, in Vaticano. Anche il nostro vescovo Matteo è stato chiamato dal papa a partecipare. 

Le letture di oggi ci propongono un modello di uomo e di donna che, paradossalmente non è ancora stato raggiunto. Prima ancora di pensare alla dimensione coniugale, infatti, questi testi ci parlano di uomo e donna come costitutivi dell’essere umano. Pienamente uguali nello statuto esistenziale e nei diritti, diversi nella ricchezza della varietà, talvolta complementari. 

Vorrei augurare a tutte le giovani e i giovani, perciò, di diventare donne complete e uomini integri. Se penso a un sogno per ciascun giovane è che oggi si goda la sua giovinezza, in tutte le cose positive che esprime e con tutti i valori che rappresenta, ma che poi sappia essere pienamente donna o uomo adulto. 

E che abbia qualcuno che faccia strada senza sbarrarla, qualcuno che possa essere di esempio senza invidia o volontà di potenza. 

 

Signore Gesù, 

che hai voluto i piccoli con te, 

hai amato i giovani fissando su di loro il tuo sguardo 

e hai riconosciuto le donne; 

per questa preghiera, 

effondi lo Spirito Santo 

sui bimbi, sui giovani e le giovani, 

perché possano fare splendere il mondo 

del tuo amore, 

con la loro umanità. 

Concedi ad ogni adulto 

di stimare i giovani, 

di seguirli, accompagnarli, stare loro affianco 

senza ingombrare lo spazio, 

e di essere così testimoni trasparenti 

della libertà che Dio Padre 

ha voluto per loro. 

Amen. 

 

Don Davide




La Chiesa: “noi” di Ebrei e Gentili

Nella lettera di Benedetto XVI al Gran Rabbino di Vienna Arie Folger riguardo all’intervento dello stesso Benedetto XVI su Communio (4/2018) dal titolo «Grazia e vocazione senza pentimento», il papa emerito fa riferimento a una possibilità di interpretazione di teologia della storia che favorirebbe il dialogo ebraico-cristiano.

La nota è interessante, perché è proprio una certa teologia della storia che ha caratterizzato i rapporti tra ebrei e cristiani per quasi due millenni nello schema della teologia della sostituzione; ed è ancora una teologia della storia che permetterà forse di trovare un posizionamento adeguato della Chiesa e di Israele all’interno del dialogo, sviluppando una teologia coerente con il rifiuto di quella della sostituzione.

Il tempo, la Chiesa, Israele

Egli inquadra il tema all’interno del problema del «già e non ancora», che viene a descrivere come il «tempo della Chiesa». L’utilizzo di questa espressione è ambivalente: per Benedetto XVI sembra essere sia il tempo storico-cronologico seguito alla resurrezione di Gesù, sia l’esperienza soggettiva della Chiesa, si potrebbe forse dire: «il tempo che è la Chiesa». A questo si riferisce l’autore quando scrive: «Il tempo della Chiesa è per i cristiani ciò che per Israele furono i quarant’anni nel deserto. Il suo contenuto essenziale è pertanto l’esercizio di apprendimento della libertà dei figli di Dio, che non è meno difficile per i “popoli” di quanto lo sia stato per Israele».

Questa lettura è suggestiva dal punto di vista spirituale, ma debole nel fondamento teologico. Paolo parla piuttosto di una libertà in atto, una libertà costitutiva che non va appresa, se non nel senso che la libertà si apprende in quanto si esercita. Nel culmine della polemica di Galati scrive: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi, non lasciatevi dunque imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5,1). È molto interessante per il nostro successivo discorso che Paolo usi il pronome «noi-ci», mettendosi all’interno, come ebreo, di quell’esperienza dell’essere in Cristo che ha reso possibile il «noi» di ebrei e gentili che è la Chiesa.

Papa Benedetto XVI invece parla dei «popoli» e lo fa, del tutto consapevolmente, in riferimento alla Chiesa: «Se si accoglie questa nuova visione del tempo dei popoli, viene offerta una teologia della storia che gli ebrei possono non accettare in quanto tale, ma che forse può offrire un nuovo livello nella comune lotta per il nostro impegno comune».

Teologia della storia

Anche se la Chiesa all’atto pratico e per molti secoli è risultata essere costituita quasi interamente dai popoli, cioè dai «Gentili», è indispensabile non dimenticarsi della sua originaria costituzione da Ebrei e Gentili, poiché questo è il modo in cui il Nuovo Testamento fonda una teologia della storia che riguardi la Chiesa ed è anche l’unico ingresso al problema se non si vuole incorrere in pericolosi vicoli ciechi.

Il tema della teologia della storia, in rapporto a Israele e la Chiesa, è trattato in maniera compiuta in Efesini attraverso la categoria di mysterion – tipico, nel suo uso teologico forte, di questa lettera e di Colossesi – che indica non solo lo svelamento della partecipazione dei Gentili all’adorazione del Dio di Israele, e neppure solo la chiarificazione di come ciò avvenga in Cristo, generando una comunione affatto nuova che costituisce la Chiesa.

La distinzione di Ebrei e Gentili è una realtà teologica, rivelata dall’elezione di Israele, ed è l’asse onnicomprensivo su cui si muove la storia della salvezza e le conseguenti forme dell’attesa messianica. Il fatto dunque che venga meno questa divisione, mantenendo in una realtà nuova le precedenti identità, non significa solo che è superata una distinzione tra le tante, come se i tifosi di Real Madrid e Barcellona decidessero di tifare insieme per una terza squadra; ma che è in atto la fine di tutte le divisioni. Ossia, che la comunione in cui Dio ha da sempre voluto coinvolgere tutto il genere umano attraverso la storia dell’Alleanza e dell’Elezione – e che sembrava impossibile! – è finalmente incominciata, che la riconciliazione del mondo è entrata nella storia e che la Pace, esito di tutte le attese messianiche, è vera.

La comunità messianica

Il mysterion annunciato è tale, quindi, in quanto svelato ora, nel tempo della Chiesa (Ef 3,5). La sua condizione essenziale è di esprimere che la realtà escatologica ha fatto irruzione nella storia. La valenza apocalittica con cui il mysterion costituisce la Chiesa è di marcare questa differenza: essa o è nel presente e nella storia degli uomini in assoluto la comunità messianica, o non è.

L’unità nelle differenze che la Chiesa racconta, non è – e non potrebbe essere – solo la comunione dei Gentili che imparano la libertà come già Israele ha fatto; quell’unità è espressa solo se si tiene conto della sua costituzione originaria da Ebrei e Gentili, che fa appunto cadere ogni altra divisione.

Il mysterion svelato da Dio e interpretato da Paolo è un sinonimo della Chiesa. Intuizione che già il Concilio Vaticano II aveva avuto nelle due famose espressioni della LG: segno e strumento dell’unità di tutto il genere umano (LG 1) e sacramento dell’unità di tutto il genere umano (LG 9).

La Chiesa quindi è nel tempo l’anticipazione di una comunione definitiva di tutti gli esseri umani. Il ruolo della Chiesa è questo: non è che apprenda la libertà, come se fosse una cosa che potrebbe non acquisire. Molto di più, ha il dovere di testimoniare questa libertà: ad esempio la libertà di non avere nemici; la libertà di non avere confini; la libertà di non avere una caratterizzazione identitaria, tantomeno nazionale o peggio nazionalista; da ultimo, la libertà di riconoscere il posto di tutti quegli Ebrei e Gentili che non sono in Cristo, poiché la storia palesemente non è finita e compito esclusivo della Chiesa è di essere quel segno reale della fine della storia, in mezzo a tutti coloro che mandano ancora avanti la storia.

Coloro che non sono in Cristo

La presenza di Israele e dei Gentili che non sono in Cristo è infatti caratterizzata da identità, da confini, da conflitti, da diverse credenze religiose e diversissime culture, finché non ci sia lo svelamento pieno, alla fine dei tempi, della comunione operata nel Messia, attraverso di lui.

Come scrive in modo emblematico e suggestivo Jacob Neusner: «Il racconto che Gesù faceva del regno di Dio attirava i miei occhi verso l’alto, verso il cielo. Ma io vivevo, e vivo tuttora, in questo luogo e in questo momento, dove i buoi danno cornate e le famiglie litigano. Il regno dei cieli potrebbe venire, forse non troppo presto, ma finché è sopra di me, la Torah mi insegna che cosa significa vivere qui e ora nel regno di Dio» (Un rabbino parla con Gesù, San Paolo 2007, 187-188).

La Chiesa, invece, ha il compito di essere una cosa completamente diversa. Se rinnega questo compito, tradisce se stessa e disconferma la sua testimonianza e persino la sua esistenza. Quella parte della Chiesa che proviene da Israele, è una porzione all’interno di Israele che non ambisce alla totalità, ma che sente nella voce del maestro Gesù una chiamata ad essere segno e strumento di quest’anticipazione del Regno, pienamente coerente con le aspettative di Israele: «Gesù non si rivolge all’Eterno Israele, ma ad un gruppo di discepoli» (Ivi, 58).

In questo senso la nota di Benedetto XVI è felice perché intuisce che il rapporto tra ebraismo e cristianesimo è legato alla teologia della storia, ma non coglie forse il punto cruciale che è il passaggio storico salvifico dell’inserimento in Cristo della distinzione originaria e permanente nella Chiesa di Ebrei e Gentili che possono vivere ora in comunione: non più, cioè, e in realtà mai solo una Chiesa «dei popoli».

 

Testo scritto per SettimanaNews del 6 ottobre 2018




Chi vuole seguirmi…

Carissimi amici e amiche,

molti di voi hanno già ripreso a pieno regime il ritmo del lavoro, ma l’inizio della scuola scandisce un vero e proprio ricominciamento, così come la tradizionale Tre Giorni del Clero bolognese stabilisce ufficialmente l’avvio di un nuovo anno pastorale.

Tutto ricomincia: le famiglie sono alleggerite nel vedere tornare a scuola i figli, allo stesso tempo riprende la frenesia degli sport e delle altre incombenze. La città si riempie, diventa impossibile trovare parcheggio, ci si dà appuntamento nei tradizionali luoghi di ritrovo, sapendo che non mancherà (quasi) nessuno; che sia lo stadio o la messa domenicale o il proprio locale preferito, si sa di avere di nuovo dei luoghi di “comunità”.

C’è qualcosa di rassicurante e bello nel riprendere i ritmi conosciuti e la scansione degli impegni e dei propri riti. Allo stesso tempo c’è anche un’inquietudine di fondo, per quell’ombra che si alza nel nostro spirito al ricordo dei momenti frenetici, delle fatiche e delle angustie provocate dalla vita quotidiana.

Guardiamo al tempo che ci sta davanti con i migliori propositi, ma anche con trepidazione.

In questa domenica, la liturgia ci offre un prezioso consiglio nell’invitarci ad aprire l’orecchio senza opporre resistenza e a stare dietro a Gesù, a metterci nella posizione della sequela con il desiderio di sentirci rassicurati dalla sua guida.

Abbiamo questa grande opportunità che nessuno ci può togliere: invece di lasciarci angustiare o intimorire, cogliamo l’occasione per discernere ciò che Gesù ci vuole comunicare in ogni circostanza. Lui ci vuole bene, vuole farci sentire custoditi e vuole che la nostra vita sia positiva e piena di senso. Proviamo a credere che in quello che ci capita c’è comunque Gesù che ci sta davanti e ci rassicura dicendo: “Anche se il sentiero è difficile, segui i miei passi e andrà tutto bene!” come farebbe un’abile guida alpina su un sentiero di alta montagna.

Agli studenti vorrei dire: il mondo del futuro si prepara a sfide che non possiamo neanche immaginare. Gli scenari mutano e si trasforma il modo della nostra conoscenza. Cambieranno le competenze richieste per abitare la complessità del mondo. In questo piccolo cosmo, sarà necessario essere lucidi e non perdere la tenerezza. Perciò, cari studenti, vi invito a cogliere il tempo della scuola come un tesoro per voi: pensate soprattutto a quello che potete imparare! Nulla è superfluo, arricchite il vostro tesoro interiore, imparate le associazioni e le connessioni, apprendete alla perfezione la parola scritta e orale, testimoniate la correttezza e il rispetto tra voi e coi professori. Gli uomini e le donne che guideranno il mondo con più giustizia e più compassione di quanta ce ne sia al presente, siete già voi oggi.

Alla nostra comunità parrocchiale dico che ci attendono molti grandi cambiamenti. Dovremo aprire il cuore all’amicizia e alla comunione tra le parrocchie. Dovremo avere stima di chi porta avanti un lavoro comune e incoraggiarlo, anche con il nostro appoggio. Dovremo liberarci dalle abitudini pastorali, dalle comodità, dai sentieri già conosciuti, e tracciarne di nuovi obbedendo alla parola di Gesù che ci dice: “Stai dietro a me”.

È molto consolante potere essere certi che sia il Signore a fare strada. A noi aprire l’orecchio, ascoltare e seguirlo.

Don Davide




La Preghiera, per dare voce allo Spirito

Tutti affannati ad esistere, ma c’è qualcosa che ci fa vivere davvero?

La presenza delle chiese di S. Maria della Carità e di S. Valentino della Grada, affacciate sulle strade che tutti i giorni percorriamo, sembra porre continuamente questo interrogativo.

Siamo presi dalle nostre incombenze, lo facciamo cercando di essere fedeli alle nostre responsabilità – e questo ci fa onore – ma c’è qualcosa che unifica tutto questo, conferendogli senso? C’è uno Spirito che anima il nostro vivere, facendo diventare ogni nostra relazione, ogni nostro impegno e il tempo che scorre inesorabile, sorgente di vita?

Una chiesa se ne sta lì – come nel caso delle nostre, da secoli – aperta la maggior parte delle ore del giorno, umile, silenziosa, accogliente. Non strepita, non dice: “Ehi, venite qui a trovare ristoro!” ma c’è.

La preghiera, per dare voce allo spirito

Qualcuno attende le sette di mattina per entrare puntuale, ad accendere una candela. Qualcuno, nelle mattine d’estate, non vede l’ora di ammirare il portone principale spalancato. Qualcuno, passando davanti, si fa il segno della Croce… Qualcuno non ci fa nemmeno caso che ci sia una chiesa. Si gode la protezione del portico che si confonde con gli altri di Bologna, ed è bello anche così: che ci sia una chiesa che vuole essere pienamente “dentro” la sua città.

La comunità cristiana gode della presenza di questi luoghi, dove dare voce allo Spirito, per sentirsi amati e imparare ad amare.

Vorrei che pensassimo ai molti gesti umili di preghiera che si compiono, quotidianamente, nelle nostre chiese. Certo, non si esauriscono in esse: si prega anche a casa, a scuola, nel luogo di lavoro, mentre viaggia… ma quello che avviene nelle chiese è simbolico e rappresentativo di tutto il resto.

Chi entra nelle nostre chiese ha la percezione di essere in un’altra dimensione: a S. Maria viene accolto dall’abbraccio della penombra e da un’aula maestosa, che ci fanno sentire allo stesso tempo umili e custoditi dalla maestà del Signore. Siamo come quei poveri che vengono accolti sotto il mantello di Maria, nell’antica immagine della Madonna della Carità. A S. Valentino, invece, si viene accolti da un abbraccio affettuoso e intimo, protetti in una piccola aula, dove sentiamo di potere dire ogni confidenza a Gesù.

Poi, si consumano tanti riti e pensieri. Le candele accese, le preghiere in ginocchio, il ricordo per una persona cara, le preoccupazioni per i figli, l’affidamento della propria salute, la tenerezza per la persona amata, le speranze per il lavoro o gli esami dell’università, le preoccupazioni della vita.

Tutto questo viene raccolto nella liturgia, che è la preghiera della chiesa, perché la raccoglie tutta, ogni parola detta, ogni pensiero elevato a Dio, in ogni parte del mondo. Nulla viene lasciato fuori.

Così il nostro spirito si dilata. C’è come un grande alito di vita che attraversa la nostra esistenza, la unifica, la rende coerente nei mille gesti quotidiani con cui cerchiamo di dare la vita per le persone che amiamo.

Ogni cristiano è testimone di questo: pregare è il primo atto dell’esistenza cristiana e, ancorché trascurato, è il più importante.




“Entrerà e uscirà e troverà pascolo” (GV 10,9)

La benedizione del Signore sia su di te quando entri, la benedizione del Signore sia su di te quando esci

Benedire è uno degli atti più antichi dell’umanità, un gesto che sfida la nostra inclinazione al male, mentre va ad attingere alle forze più importanti che ci legano e ci avvicinano agli altri: la benevolenza, la stima, la disponibilità all’amicizia, la fiducia.

Ad Abramo, il Signore, proprio mentre lo benedice, augura: “Possa tu essere una benedizione!”. Sii benedetto tu e possa tu essere considerato una benedizione per gli altri! Possa tu essere quell’uomo dalla cui radice viene l’amicizia tra tutti gli uomini! Possa tu farlo non mettendo alla prova, ma dando fiducia.

In questo – così afferma la riflessione cristiana su Abramo – c’è qualcosa di profondamente giusto.

I cristiani di una comunità parrocchiale ambiscono a generare questo clima di benevolenza reciproca. Vorrebbero essere, nei loro desideri migliori, una benedizione; ma vogliono anche accogliere l’estraneo, colui che non appartiene alla comunità e ogni nuovo incontro come una benedizione.

Chi viene in parrocchia e chi ne esce possa ricevere una parola buona ed edificante e portarla fuori.

In tale clima di benedizione, desideriamo vivere la nostra presenza nel mondo senza paura. Non vogliamo essere preoccupati di questo tempo, come se fosse molto peggiore dei precedenti, ma lo cogliamo come un momento opportuno per vivere il Vangelo. Non siamo spaventati dalla cultura e dall’abbandono della fede, perché percepiamo l’opportunità di condividere nuovamente la grazia di Cristo. Non ci arrocchiamo in parrocchia o, peggio, nelle sagrestie, ma offriamo la bellezza della preghiera e il tesoro dell’esperienza spirituale cristiana a tutti coloro che abbiano voglia di scoprirlo.

Entrerà e uscirà e troverà pascolo

Entrando e uscendo attraverso Gesù, la porta delle pecore (cf. Gv 10), sappiamo di potere trovare pascolo dentro e fuori. Ci muoviamo tra chiesa e mondo contaminandone i confini: mentre proviamo a testimoniare il regno di Dio, viviamo con umiltà nella Chiesa e ci ricordiamo a vicenda che il Signore si è incarnato ed è entrato in questa nostra esistenza per parlare dell’amore di Dio, non ne è uscito per trovare una dimensione rassicurante. Sappiamo che la chiesa è sempre anche mondo, e che nel mondo si possono trovare chiese più autentiche che al nostro interno. Cerchiamo la via della santità imparando a sedere a tavola con chi è chiamato peccatore, apprendendo che i pubblicani e le prostitute passeranno davanti nell’essere accolti dall’amore di Dio. Non abbiamo paura dello scambio delle ricchezze: siamo consapevoli di avere dei tesori da dare e accettiamo volentieri chi vorrà condividerli con noi.

In questo movimento di entrata e uscita, in noi stessi, nella chiesa e nel mondo, vogliamo trovare alimento spirituale per l’esistenza cristiana e per il cammino di santità, perché sappiamo che il sacro e il profano ora sono definiti da ciò che plasmato o meno dalla carità di Cristo e consideriamo tutto questo una benedizione.




“Venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv. 1, 14)

Il senso dell’intera storia della parrocchia è la sua capacità di “abitare” un territorio

È una frase bellissima, quella del Prologo del Vangelo di Giovanni, che letteralmente dice: “Ha messo la sua tenda in mezzo a noi” (Gv 1,14). In un testo che vuole richiamare l’Esodo di Israele nel deserto, in una cultura che ha radici nomadi, questa affermazione potrebbe essere tradotto ai nostri giorni scrivendo: “Ha messo la sua casa tra le nostre case” o, ancora meglio: “Ha preso il suo appartamento nel nostro condominio.” Ve lo immaginate, Gesù, il Verbo Incarnato, alla nostra riunione di condominio?

Venne ad abitare in mezzo a noi

Gesù fa proprio così! Partecipa alle nostre cose, discute con noi, non vuole imporre la sua, collabora a ciò che è necessario per migliorare la nostra casa.

Così deve fare anche una comunità cristiana. La parrocchia non è la chiesa, o la canonica, o i cosiddetti “locali parrocchiali”. La parrocchia è la capacità della comunità di abitare il territorio. In un certo senso, potremmo dire che i nostri locali parrocchiali devono essere i nostri bar, i parrucchieri, gli uffici, la farmacia, i ristoranti, i negozi… insieme alle nostre abitazioni.

Paradossalmente, uno dovrebbe poter dire: “Vado in parrocchia” e poi uscire fuori. Questo è il sogno di Papa Francesco, il sogno di una “Chiesa in uscita”, il sogno di discepoli-missionari.




Predicatelo sui tetti

Così scriveva papa Giovanni Paolo II nel 2001:

“Il tema che ho scelto per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali 2001 riprende le parole di Gesù stesso. Non potrebbe essere altrimenti perché noi predichiamo Cristo soltanto. Ricordiamo le parole che rivolse ai suoi primi discepoli: «Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti» (Mt 10, 27). Nel segreto del nostro cuore, abbiamo ascoltato la verità di Gesù. Ora dobbiamo proclamare quella verità dai tetti.

Nel mondo attuale i tetti sono quasi sempre caratterizzati da una foresta di trasmettitori e di antenne che inviano e ricevono messaggi di ogni tipo verso e da i quattro angoli della terra. È di importanza vitale garantire che fra questi numerosi messaggi vi sia la Parola di Dio. Oggi proclamare la fede dai tetti significa proclamare la Parola di Gesù nel mondo dinamico delle comunicazioni sociali e attraverso di esso.”

Quel messaggio fu profetico. Era iniziata l’era di internet, ma non ancora quella degli smartphone e di YouTube, eppure il papa aveva già intuito che la Chiesa avrebbe dovuto confrontarsi col mondo sul grande areopago digitale.

Oggi, più che mai, raccogliere questa sfida è imprescindibile.

È per questo che la nostra parrocchia si è impegnata nell’ultimo anno a preparare un sito web adeguato. Non una cosa improvvisata, ma studiata e sottoposta al vaglio attento di un professionista, per produrre un risultato moderno e accattivante.

Questi i numeri: 68 pagine web, un logo, un anno di lavoro, cinque collaborazioni e molte molte ore di rifinitura e revisione. In questa stagione estiva che inizia, esorto perciò tutti a fare una “navigata” nel nostro sito: www.parrocchiasamac.it

SAMAC, come potete immaginare, sta per Santa Maria della Carità. È un acronimo che permette di avere un indirizzo più breve, facile da ricordare e impattante. Nel logo, come avete visto, trovate il volto stilizzato di Maria e la M fatta a forma di cuore, a simboleggiare e richiamare la Carità, l’amore di Cristo che ci spinge (cf. 2Cor 5,14). Il logo sta in alto, in tutte le pagine del sito.

Cos’altro troverete nel sito?

Nella Home, c’è una sequenza di cinque foto. A ciascuna è connessa una riflessione, che indica l’ispirazione spirituale della nostra parrocchia. Sotto, troverete un piccolo “manifesto della vita parrocchiale”, le schede dei preti della comunità, l’agenda, alcune foto e un blog che raccoglie tutti gli interventi che mettiamo sull’Agenda domenicale e altri testi… Chi vuole potrà trovarli tutti!

Nel resto del menù, diviso in categorie, trovate una spiegazione della storia della parrocchia, delle attività, dei gruppi e infine dei sacramenti, che sono la cosa essenziale per la vita della chiesa.

Il sito beneficia di tutti i suggerimenti possibili, al fine di renderlo vivo e perfezionarlo.

Infine… se per caso salta fuori un riquadro di PayPal… non spaventatevi! È messo apposta per dare a tutti la possibilità di fare un’offerta. Sapete com’è… di questi tempi…

www.parrocchiasamac.it

Il sito web della parrocchia.

Don Davide




Il whatsapp di Dio

Rilanciamo, in questa domenica, l’impegno comunitario di ascolto della parola di Dio. La liturgia odierna ci favorisce enormemente in questo intento, così come la sospensione delle attività pastorali ordinarie (eccezion fatta per l’Estate Ragazzi) ci permette di concentrarci tutti insieme su questo progetto.

Come sappiamo, il Vescovo ci ha chiesto di mettere al centro la riflessione sull’ascolto della parola di Dio: un ascolto personale e pregato, non tecnico e non riservato agli esperti, ma condiviso e capace di coinvolgere tutti.

In Quaresima avevamo proposto e offerto a tutti un foglio blu, in cui si trovava un invito, un suggerimento per la riflessione e alcune indicazioni di metodo. Vogliamo continuare nello stesso stile, ma in forma più articolata e moderna.

Viene riproposto un foglio, sulla copertina del quale troverete un evidente richiamo agli strumenti della tecnologia. Tale foglio, come già quello precedente, serve per riprendere il proprio confronto con la parola di Dio insieme alla comunità e può essere usato così com’è. Oltre a questo, però, chi vuole può lasciare la sua mail o il suo numero di cellulare e ricevere quotidianamente una frase del Vangelo del giorno su Whatsapp o l’intero brano sulla propria mail. La frase viene selezionata da una persona della commissione parrocchiale che ha preparato questa iniziativa e verrebbe spedita tutti i giorni circa alla stessa ora, in modo che ci sia un appuntamento comunitario attorno alla stessa Parola, per offrire uno spunto di meditazione condiviso nel trambusto frenetico delle nostre vite.

La parola di Dio come faro, dunque, secondo la grande tradizione della Chiesa, ma anche come messaggio di Whatsapp… perché no? Ai nostri giorni, forse, la voce di Dio ci raggiunge anche meglio così, con discrezione e con l’autorizzazione a violare la nostra privacy, piuttosto che con una luce accecante.

Questa proposta è un test iniziale. Vorremmo provarla, con chi ci sta, per il tempo dell’estate, poi a settembre aggiornarla e adeguarla se necessario. Quindi i suggerimenti o i riscontri di tutti sono necessari e preziosi.

L’obiettivo è segnatamente coinvolgere anche i più giovani nell’ascolto della parola di Dio e in un’esperienza comunitaria che possa essere meglio vissuta nei loro linguaggi, ma al Consiglio Pastorale questa idea ha riscosso l’entusiasmo dei più, anche fra i meno giovani.

La liturgia di oggi, dicevo, è un saggio perfetto di quanto possa essere ricca la parola di Dio per la nostra vita. La prima lettura ci propone la vicenda del peccato di Adamo ed Eva: ben oltre le banalizzazioni ignoranti della profondità di questi testi, in poche righe si descrive con precisione e dovizia di particolari la condizione umana segnata da un rapporto corrotto con l’esistenza. Una parola che, senza usare tante parole, ci legge nel modo più profondo possibile.

Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo afferma: “Ho creduto, perciò ho parlato” (2Cor 4,13). Se vogliamo nutrire la nostra fede ed esserne testimoni, se vogliamo essere discepoli missionari come ci chiede Papa Francesco, non possiamo che ascoltare assiduamente la parola di Dio e lasciare che essa generi in noi la fede e la testimonianza.

Infine, nel vangelo, di fronte all’apparente potere del Male, Gesù ribadisce che solo l’ascolto che si traduce con pratica della parola di Dio ha il potere di sconfiggere le dinamiche maligne che si annidano nell’esistenza e che ci fanno allontanare dalla famiglia di Dio; mentre chi fa la volontà del Padre e mette in pratica i suoi inviti all’amore, al servizio e alla gioia, riacquista la dignità di fratello, sorella e madre per Dio, attraverso Gesù.

 Don Davide

 

Gli interventi di don Davide riprenderanno dopo la pausa estiva.




Gratitudine

Eucarestia vuole dire ringraziamento.

Sono molte le ragioni per ringraziare oggi, nel giorno in cui la tradizione della Chiesa mette al centro l’Eucarestia, il Corpus Domini.

Non so se sia usuale dire a una comunità quanto le si vuole bene, però è così: in questa giornata io voglio dire alla mia comunità quanto le voglio bene, perché l’ho vista in gran spolvero in occasione della Coppa ACR – quest’anno OlimpiACR – e nella serata di festa, dove tutti hanno collaborato e si sono aiutati, e abbiamo gestito l’organizzazione con grande disinvoltura, valorizzando il protagonismo dei bimbi, dei ragazzi e dei giovani. Una comunità che cresce è il corpo di Cristo che si edifica, quindi siamo in perfetta sintonia con la festa di oggi.

In realtà, la gratitudine si estende alla considerazione di tutto l’anno e ai tanti obiettivi raggiunti, da ultimo anche il sito internet della parrocchia www.parrocchiasamac.it che, dopo un lungo e delicato lavoro, è ufficialmente pronto. Visitatelo!

Alle persone a cui si vuole bene e che si vogliono ringraziare si fanno regali, si fanno volentieri e belli, perché si possano sentire valorizzate. Mi stava a cuore che in questa solennità del Corpus Domini la nostra comunità potesse ricevere e custodire il trittico dal titolo In memoria di me di Ettore Frani: è un regalo che ci facciamo a vicenda, per valorizzarci, per rendere lo spazio delle nostre celebrazioni ancora più ispirato e per lasciare ai giovani una promessa di futuro importante.

Davanti ai nostri occhi stanno un calice e un pane semplicissimi, materici. Illuminati da una luce gentile sono esposti, ma non fragili, vigorosi di una concretezza che li rende veri. Inizialmente sembrano essere offerti, ma la posa garbata in cui emergono dall’oscurità si rivela insistente, attrae, pretende il coinvolgimento. C’è un momento sospeso, un’attesa, in cui prendiamo contatto con la materia, con le cose più umane nei simboli del vino e del pane: l’amicizia, l’amore di qualcuno che li ha preparati, la fame, la sete, il profumo, il gusto e i desideri, portando nella mente e nel cuore parole di benedizione. Allora accade qualcosa di misterioso e indicibile. È una luce che prende tutta la nostra realtà e la trasfigura e disegna la nostra esistenza come una mensa.

Don Davide




La parola che svela Dio

Dopo la solennità di Pentecoste, l’anno liturgico propone ancora due feste, prima di riprendere effettivamente il ritmo delle domeniche del Tempo Ordinario: la SS. Trinità e il SS. Corpo e Sangue di Gesù (il Corpus Domini).

La Trinità è il mistero di Dio che si svela nella Pasqua di Gesù: un Dio che tutto insieme soffre e che tutto insieme si riappropria della vita e la rigenera.

Il Corpus Domini ci aiuta a ricordare che il sacramento dell’Eucaristia, inteso come celebrazione della comunità cristiana, è il gesto concreto con cui viviamo quella Pasqua nel tempo, è la celebrazione della Pasqua settimanale.

Queste due feste sono intese, quindi, come un compendio della vita cristiana: viviamo nell’amore di un Dio-comunione e facciamo esperienza di questo amore, per metterlo in pratica, nell’Eucaristia.

Nell’anno dedicato dal vescovo all’attenzione per la Parola di Dio, la festa della SS. Trinità, che arriva a conclusione dell’anno pastorale, ci richiama ancora una volta al dono di questa parola che ci viene rivolta, come la parola di una mamma e di un papà, che pian piano svegliano la coscienza della propria bambina.

Dio ci parla proprio così: come due giovani genitori, che parlano alla figlia appena nata, le chiedono le cose, la rassicurano quando piange… anche se sanno che lei (ancora) non può capirli. Non importa. Pian piano, di quelle parole la bimba riconoscerà la voce, il tono… forse anche il profumo che le accompagna, quel senso di essere rassicurati nell’esistenza che i bimbi percepiscono quando sono in braccio ai genitori.

Poi diventeranno parole di amore e di tenerezza, e anche comandi a cui obbedire, non perché la bimba cresciuta si senta schiava, ma perché ha imparato che nel rispetto di quelle parole è rincuorata e protetta e può esplorare la vita con confidenza.

Dopo viene il tempo della ribellione, il processo dell’autonomia, ma poi quando c’è una cosa difficile, o un bisogno di aiuto, o una cosa che fa paura… anche i ragazzi e le ragazze più ribelli si rivolgono a mamma e papà. Tipicamente, gli adolescenti si muovono dentro a questo contrasto: il desiderio di indipendenza e il bisogno che papà e mamma siano lì sempre, a loro servizio. Dio che è padre e madre, lo Spirito Santo che in ebraico è un nome di genere femminile (tipo: “la Forza”) e Gesù, che è maschio, ma soprattutto “uomo” nel senso di modello per ogni persona del genere umano, non disdegnano nemmeno questa posizione nei confronti della propria figlia divenuta adolescente: accettano che si faccia strada da sola e, quando chiama, ci sono.

Infine, la parola che i genitori hanno a lungo rivolto e scambiato diventerà per la figlia il punto di riferimento del proprio sistema valoriale ed emotivo; sarà strumento di dialogo e confronto… e poi anche cura nei confronti dei genitori divenuti anziani, quando si arriva a quell’età in cui si invertono le parti, e mentre non cessa la premura dei genitori, in realtà sono i figli che si prendono cura di loro. Allo stesso modo, arriva anche un’età umana e spirituale in cui “ci si prende cura di Dio”, con una sapienza della vita e una maturità del rapporto che permette di trasmetterne l’esperienza anche alle nuove generazioni.

È la parola accompagnata dai gesti concreti che la realizzano, che anima tutto questo sviluppo.

Il mistero insondabile e vertiginoso della Trinità si fa conoscere così: “si è mai udita una cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio?” (1° lett.). Questa parola risveglia in noi la Forza spirituale che ci fa dire “Papà” ma anche “Mamma” (2° lett.), e agisce con essa. Infine, ci spinge a trasmettere l’amore di Dio, divenuti adulti nella fede, insegnando a conoscere questa parola, dimorare in essa, amarla e sentirsene custoditi.

Don Davide