La parola che svela Dio

Dopo la solennità di Pentecoste, l’anno liturgico propone ancora due feste, prima di riprendere effettivamente il ritmo delle domeniche del Tempo Ordinario: la SS. Trinità e il SS. Corpo e Sangue di Gesù (il Corpus Domini).

La Trinità è il mistero di Dio che si svela nella Pasqua di Gesù: un Dio che tutto insieme soffre e che tutto insieme si riappropria della vita e la rigenera.

Il Corpus Domini ci aiuta a ricordare che il sacramento dell’Eucaristia, inteso come celebrazione della comunità cristiana, è il gesto concreto con cui viviamo quella Pasqua nel tempo, è la celebrazione della Pasqua settimanale.

Queste due feste sono intese, quindi, come un compendio della vita cristiana: viviamo nell’amore di un Dio-comunione e facciamo esperienza di questo amore, per metterlo in pratica, nell’Eucaristia.

Nell’anno dedicato dal vescovo all’attenzione per la Parola di Dio, la festa della SS. Trinità, che arriva a conclusione dell’anno pastorale, ci richiama ancora una volta al dono di questa parola che ci viene rivolta, come la parola di una mamma e di un papà, che pian piano svegliano la coscienza della propria bambina.

Dio ci parla proprio così: come due giovani genitori, che parlano alla figlia appena nata, le chiedono le cose, la rassicurano quando piange… anche se sanno che lei (ancora) non può capirli. Non importa. Pian piano, di quelle parole la bimba riconoscerà la voce, il tono… forse anche il profumo che le accompagna, quel senso di essere rassicurati nell’esistenza che i bimbi percepiscono quando sono in braccio ai genitori.

Poi diventeranno parole di amore e di tenerezza, e anche comandi a cui obbedire, non perché la bimba cresciuta si senta schiava, ma perché ha imparato che nel rispetto di quelle parole è rincuorata e protetta e può esplorare la vita con confidenza.

Dopo viene il tempo della ribellione, il processo dell’autonomia, ma poi quando c’è una cosa difficile, o un bisogno di aiuto, o una cosa che fa paura… anche i ragazzi e le ragazze più ribelli si rivolgono a mamma e papà. Tipicamente, gli adolescenti si muovono dentro a questo contrasto: il desiderio di indipendenza e il bisogno che papà e mamma siano lì sempre, a loro servizio. Dio che è padre e madre, lo Spirito Santo che in ebraico è un nome di genere femminile (tipo: “la Forza”) e Gesù, che è maschio, ma soprattutto “uomo” nel senso di modello per ogni persona del genere umano, non disdegnano nemmeno questa posizione nei confronti della propria figlia divenuta adolescente: accettano che si faccia strada da sola e, quando chiama, ci sono.

Infine, la parola che i genitori hanno a lungo rivolto e scambiato diventerà per la figlia il punto di riferimento del proprio sistema valoriale ed emotivo; sarà strumento di dialogo e confronto… e poi anche cura nei confronti dei genitori divenuti anziani, quando si arriva a quell’età in cui si invertono le parti, e mentre non cessa la premura dei genitori, in realtà sono i figli che si prendono cura di loro. Allo stesso modo, arriva anche un’età umana e spirituale in cui “ci si prende cura di Dio”, con una sapienza della vita e una maturità del rapporto che permette di trasmetterne l’esperienza anche alle nuove generazioni.

È la parola accompagnata dai gesti concreti che la realizzano, che anima tutto questo sviluppo.

Il mistero insondabile e vertiginoso della Trinità si fa conoscere così: “si è mai udita una cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio?” (1° lett.). Questa parola risveglia in noi la Forza spirituale che ci fa dire “Papà” ma anche “Mamma” (2° lett.), e agisce con essa. Infine, ci spinge a trasmettere l’amore di Dio, divenuti adulti nella fede, insegnando a conoscere questa parola, dimorare in essa, amarla e sentirsene custoditi.

Don Davide




Pentecoste, energia della Chiesa

Il tempo della Chiesa è accompagnato dallo Spirito del Risorto

La solennità di Pentecoste compie il Tempo di Pasqua e svela pienamente la grazia donata dalla resurrezione di Gesù, ma non chiude un cammino, anzi lo riapre: il dono dello Spirito Santo proietta la vita della Chiesa in avanti e la anima per tutto il tempo rimanente dell’anno liturgico.

Noi non viviamo solo nel tempo. Noi siamo tempo. Il tempo non è qualcosa di esterno al nostro essere: è la percezione della nostra esistenza attraverso tutto quello che siamo. Le feste della Chiesa e il ritmo della liturgia conferiscono al tempo che noi siamo una qualità diversa: non è solo scorrere cronologico, ma esperienza di salvezza e coscienza del significato profondo della nostra vita. Perciò, la Pentecoste ci rimette in cammino e dilata il dono dello Spirito. Sappiamo di vivere con questa forza spirituale che ci accompagna, che determina il modo in cui guardiamo la storia, che ci dà speranza, fiducia e coraggio ad ogni passo del nostro cammino.

È così che lo Spirito del Risorto si manifesta come Spirito della Vita. Esso unifica tutti i nostri sensi, per farci percepire e persino toccare la Vita in cui siamo immersi e che si manifesta nelle forme che arricchiscono la nostra umanità: la bontà, l’amicizia, l’amore, l’emozione, l’empatia, il coraggio, la gioia, il gusto, l’armonia, la bellezza.

Lo Spirito ci consola. Ci ricorda che queste forze sono talvolta come un fiume carsico, non appaiono, ma scorrono sotterranee, finché non trovano uno sbocco e continuano a irrigare la terra.

Infine, lo Spirito ci conferma anche nella verità di questa destinazione buona dell’esistenza. La Chiesa si pone a servizio, con umiltà e abnegazione, sapendo che – nonostante le apparenze contrarie – procede con il vento a favore. Questo è il vento che, nelle sere d’estate all’aperto, fa crepitare la legna e muove la fiamma. Mille sono le volute del fuoco, le sfumature dello Spirito, che a ognuno chiede di lasciarsi guidare per illuminare le notti.

Don Davide

Fuoco di Pentecoste




Spirito e Pasqua

“Vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto e vi insegnerà le cose future” (Cf. Gv 14,26 e Gv 16,13).

L’effusione dello Spirito, a Pentecoste, ravviva la memoria di ciò che è accaduto, guardandolo nella nuova luce pasquale: una luce che illumina di vita le cose e ne fa percepire il senso, tante volte nascosto nel momento in cui accadono. In questo processo, lo Spirito insegna anche il futuro, permette il discernimento, orienta verso ciò che deve venire in modo sapiente e fattivo.

Mi sembra, allora, quella di Pentecoste, l’occasione per fare una verifica e per chiederci cosa possa essere importante per il futuro.

Abbiamo iniziato questo anno pastorale confermati nelle fede di Pietro, dalla visita del Papa. È stata una giornata caratterizzata da una gioia frizzante, nonostante il clima uggioso, in cui si è capito che la Chiesa, i cristiani e forse ogni uomo hanno bisogno di persone autentiche, semplici e di grande carisma evangelico come papa Francesco. Questo insegnamento vale anche per il futuro. Non abbiamo bisogno di cose strane o grandi, ma di essere attaccati al Vangelo come un neonato al seno della mamma.

È stato l’anno della Parola e dei giovani. Abbiamo provato ad impegnarci su questi fronti, anche come parrocchia e come singoli, ma la percezione è che siano stati appuntamenti largamente disattesi. Nella luce del Risorto, incoraggiati dallo Spirito a fare verità, interpretiamo anche questa consapevolezza. Godiamo del grande amore di Dio, siamo consapevoli del dono della fede, abbiamo a cuore che la Chiesa viva anche nel futuro, tuttavia ci scontriamo quotidianamente con la nostra infedeltà o tiepidezza di fronte alla Parola di Dio, e con la fatica di fare spazio e di immaginare pratiche e modelli perché la Chiesa sia veramente giovane. All’ultimo consiglio pastorale, una ragazza ha detto un’affermazione tanto laconica quanto vera: “Nella chiesa di oggi, non sono gli anziani che mancano, sono i giovani.” Chiediamo allo Spirito di insegnarci queste vie, consapevoli che lui è come un allenatore tenace e bravo, che non si rassegna alla sconfitta della sua squadra.

Abbiamo vissuto un piccolo rinnovamento della Caritas, con un aggiustamento dell’organizzazione e l’ingresso di qualche figura nuova. Fare memoria nella luce della Pasqua, in questo caso, significa riconoscere la grandezza umana e spirituale delle persone che in tutti questi anni non solo non ci hanno fatto vergognare, ma ci hanno fatto essere orgogliosi del nome della nostra parrocchia: Santa Maria della Carità. Grazie a loro la carità è stata splendente e c’è solo da ringraziarli, infinitamente, per questa qualità che hanno immesso con sobrietà, spirito di servizio e nascondimento a tutta la nostra pastorale. Ci dà speranza e ci fa guardare alle cose future la continuità che hanno saputo generare.

Poi c’è la vita dei gruppi: bimbi, ragazzi, giovani e adulti. Un’ambiente vivace, in cui si può sicuramente fare meglio, ma anche segnato da esperienze genuine e liete. La luce pasquale ci dice che il Signore continua a chiamare alla fede, a generare nello Spirito, ben al di là delle nostre capacità, ma che questa consapevolezza rassicurante non è una scusa per tirare i remi in barca o per dire: “Ci pensa lo Spirito Santo”, bensì uno stimolo per mettersi ancora di più in ascolto della sua guida, docili alle sue intuizioni e strumenti energici della sua potenza di vita.

Infine, vorrei ricordare le celebrazioni di Pasqua. Soprattutto tre gesti, che forse sono passati quasi inosservati. Il fatto di essere due preti a fare la Lavanda dei piedi, segno di una dimensione di comunione al servizio. Il fatto di essere tutti giù dal presbiterio in ascolto della Parola di Dio nella celebrazione del Venerdì Santo, davanti all’altare spoglio, segno del Cristo morto. Una chiesa tutta “sotto” la Parola come discepola e raccolta – ministri e popolo – nella custodia tenera e cara del corpo di Gesù. Da ultimo, il gesto della Veglia Pasquale: quel sentire confessare la fede nella resurrezione e l’augurio per la vita della Chiesa da parte dei giovani, quel vedere accendere dalle loro mani il Cero pasquale. Nel bellissimo Messaggio ai giovani al termine del Concilio Vaticano II è scritto: “È soprattutto per voi, giovani, che la Chiesa – con il Concilio – ha acceso una luce.” Oggi, forse, si potrebbe dire il contrario: “È soprattutto per te, Chiesa, che i giovani hanno acceso una luce.”

Don Davide




Omelia 6° domenica di Pasqua

“Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi.” (Gv 15,12)

Esistiamo, perché un atto d’amore ci ha preceduti.

Veniamo generati da un atto d’amore.

Fino dal primo istante della nostra esistenza terrena, è lo sguardo d’amore e di tenerezza che si posa su di noi che ci mantiene integri e ci fa crescere.

Dopo, tutto facciamo nel bene e tante volte anche nel male, col desiderio di ricevere amore. Cerchiamo di compiacere i nostri genitori, di essere simpatici coi nostri amici, di lusingare chi stimiamo per stare nella dimensione rassicurante del loro amore. Oppure, viceversa, siamo ribelli e cerchiamo il nostro spazio, facciamo magari i bulletti e siamo fastidiosi, facciamo finta di disinteressarci dei nostri insegnanti, dei nostri maestri e dei nostri educatori perché speriamo che qualcuno riesca a convincerci che siamo amati così come siamo, che la grande ribellione può finire, che abbiamo trovato casa.

Poi ci si innamora per la prima volta, da ragazzi, e tocchiamo il cielo con un dito. Ogni cosa ci parla, ci parlano i fiori, gli uccellini, una bella canzone, il sole nella nostra città. Ci sentiamo avvolti e coinvolti in una comunione quasi cosmica, universale. Per quel breve e fugace attimo in cui il primo amore si manifesta, così immediato, genuino ancora non corrotto e non sovrastrutturato, con la persona amata siamo le persone migliori del mondo: ogni conflitto sembra risolto, ogni equilibrio ricostituito. Se idealmente potessimo dilatare quel momento per ogni persona, estenderlo, condensarlo in una pozione o formula magica, forse non ci sarebbero più le guerre.

Poi subentra il primo disincanto, a cui ne seguiranno mille altri, che possono o sorprendere la nostra percezione buona dell’esperienza dell’amore, disilluderci – come si dice – oppure confermare le nostre paure, le nostre fatiche, la percezione di non essere noi i fortunati destinatari dell’amore del mondo, e quindi, in ultimo, subentra la rabbia, il rancore.

Cominciamo a scoprire che l’amore è un lavoro faticoso, di ogni giorno, che può partire solo da noi stessi. Se abbiamo la fortuna di incontrare qualcuno che ci guida in questa consapevolezza, nella vita, siamo salvi.

Quando otteniamo un traguardo sperato – una vittoria sportiva, la maturità, la laurea, una professione che ci soddisfa – ci sembra di potere porre finalmente una parola di riscatto definitiva. Ci sembra di poter dire: “Finalmente le cose stanno così: posso essere amato”, ma poi ci dobbiamo subito mettere a lavorare di nuovo a tessere con l’ago e con il filo la nostra capacità di amare e la gratitudine totalmente libera da pretese di essere amati.

Quando incontriamo l’amore della vita e decidiamo di portarlo all’altare, oppure di consacrarlo, intuiamo sì qualcosa di definitivo. Io ti voglio amare e mi sento amato o amata nel modo giusto così, nel modo che mi fa bene e che ti fa bene. C’è una scintilla di verità profonda in quella scelta. A questa verità bisognerebbe cercare di stare ancorati e di essere fedeli.

Ma anche in questo caso, il lavoro dell’amore è solo all’inizio.

Sentiremo che ci alterniamo fra il desiderio di essere amati e il bisogno di amare, e che quando riusciamo a fare vincere il bisogno di amare, sul desiderio di esserlo, viene svelato un segreto nascosto, tocchiamo un mistero e scopriamo tesoro. Quando veniamo all’esistenza, l’amore ci precede e ci segue e ci circonda, ma in realtà non abbiamo tanto bisogno di essere amati, quanto di amare. Essere amati è una pedagogia per amare. Essere amati è l’inizio, amare è la meta.

Quando staremo per chiudere gli occhi, non ci rimarrà più niente a rassicurarci, se non questo conforto: “Ho amato”, oppure questo dramma: “Non ho amato”.

Se le cose stanno così, perché allora facciamo così tanto – talvolta in maniera scomposta – per essere amati e così poco per amare?

Il comando di Gesù va a intercettare questo punto onnicomprensivo dell’esistenza umana. Non è un comando oppressivo, sconveniente e privativo. La parola decisiva è ridotta all’essenziale, l’unica cosa necessaria: amate, amatevi! È un comando per la vita.

Lo Spirito Santo spinge la Chiesa ad assumersi nessun altro compito che tenere viva la memoria di questa via. Anche superando barriere o convenzioni che ci autoimponiamo.

Beata Vergine della Salute, Maria, nell’attimo in cui ti sei sentita amata e hai deciso di amare, non solo hai avuto la vita, ma l’hai generata. Sei stata costituita come donna completa: ragazza, giovane, adulta, donna, madre, anziana. Dona a ciascuno di noi, quasi come una fata delle favole, il tocco dell’amore che ci indica il tuo figlio, Gesù.

Don Davide




La preghiera a Maria e ai giovani

La preghiera dell’Ottavario, nella settimana appena trascorsa, avrebbe meritato anche solo per ascoltare i giovani in quei pochi minuti durante i quali, ogni sera, hanno commentato un testo della Scrittura, mettendosi in gioco personalmente.
Simbolo di ogni speranza per la Chiesa, i giovani che prendono parola nell’assemblea e dicono: “Questa parola mi riguarda e mi legge” sono stati, con la loro semplicità e la loro emozione, il segno di un’esistenza possibile per il Cristianesimo futuro.
Insieme a loro, voglio mettere in risalto l’atteggiamento di alcuni adulti, che hanno mostrato in questo ascolto dei giovani simpatia e cordialità e hanno avuto l’attenzione, al termine delle varie serate di preghiera, di andare a ringraziarli, di scambiare qualche parola con loro, di incoraggiarli e di abbattere in un solo colpo quella distanza a volte siderale tra l’universo giovanile e il mondo degli adulti. Voglio ringraziarli sinceramente per questo stile, che considero positivo e costruttivo e mi auguro possa crescere in tutte le direzioni nella nostra parrocchia: la capacità di fare crescere un’attenzione a tutto tondo per la cura di quello che accade, la complicità con chi si mette in gioco, l’affabile amabilità e amicizia di sostenere i percorsi e gli impegni anche quando non mi coinvolgono direttamente. In una parola, l’espressione di una paternità e maternità generativa degli adulti nei confronti dei giovani.
Se una comunità si edifica in questo modo, sono certo che troverà la via per continuare a testimoniare la fede anche di fronte alle molte, talvolta preoccupanti sfide che ci attendono.
In questa domenica si conclude l’Ottavario di preghiera di fronte alla Madonna della Salute. A lei affidiamo certo la salute di tutti i nostri ammalati, ma affidiamo anche la salute e la cura della nostra testimonianza, delle nostre attività pastorali e, in definitiva, della Chiesa, che tutti noi amiamo e vogliamo viva.

Don Davide




Parola e speranza ai giovani

Passata la Domenica in Albis, in questa domenica di festa in cui 28 bimbi della nostra parrocchia fanno la Prima Comunione, desidero riproporre le due belle testimonianze di Maria Clara e Anna Giulia – in rappresentanza dei giovani – all’inizio della Veglia Pasquale.

Abbiamo dato parola ai giovani perché lo ha chiesto Papa Francesco, in quest’anno dedicato al Sinodo dei Vescovi sui giovani, che si celebrerà a ottobre.

In questo modo vogliamo anche fare una specie di augurio ai bimbi che vivono in questa domenica il loro primo incontro con Gesù nell’Eucaristia.

Ci auguriamo di saper dare loro spazio all’interno della comunità cristiana; che trovino una chiesa giovane e viva, accogliente per la loro fede e la loro umanità, e che loro – i bimbi di oggi, uomini e donne di domani – possano concorrere a renderla sempre più bella.

Don Davide

 

(Prima testimonianza) Cosa ti auguri per la Chiesa in rapporto ai giovani?

In questa notte in cui Gesù, dopo averci svelato nella sua vita terrena la sua natura di uomo debole, fragile e mortale, e aver condotto il suo amore fino all’estremo sacrificio sulla croce, è risorto per guidarci nella vita…

In questo anno 2018, in cui Papa Francesco ha scelto di porre al centro della riflessione e della preghiera della Chiesa, i giovani, tutti i giovani, qualsiasi sia la loro vicinanza a questa istituzione, dicendo loro: “Ho voluto che foste al centro dell’attenzione perché vi porto nel cuore” …

Mi auguro che tutti gli uomini di chiesa, dai parroci ai vescovi, sappiano pienamente accogliere le indicazioni del Papa,

  • promuovendo iniziative volte a valorizzare la vitalità, l’entusiasmo e l’idealità dei giovani,
  • e incanalando le loro potenzialità per arricchire la grande comunità ecclesiale che, a sua volta, deve saperli guidare e sostenere.

Mi auguro che la Chiesa sappia mostrarsi come un porto sicuro in cui sempre poter ritornare, senza sentirsi in alcun modo giudicati.

Tutte le differenze individuali dovrebbero essere accettate e apprezzate, perché ogni giovane possa sentirsi veramente accolto e, in questo modo, sia più libero di dare un contributo sincero al camminare insieme e si senta rappresentato e ascoltato nella progettazione delle proprie speranze per il futuro.

Maria Clara Chionsini

 

(Seconda testimonianza) Cosa significa, per te, credere nella resurrezione?

Per me credere nella resurrezione significa credere nella resilienza. Credo che la resurrezione ci metta davanti alla possibilità di scegliere tra le cose giuste e quelle sbagliate, tra l’agire e l’essere passivi; ci chiede di scegliere da che parte stare.

Credere nella resurrezione significa, per me, sapere di avere sempre una speranza e una possibilità, se so essere abbastanza forte da accoglierla e sceglierla.

Credere nella resurrezione significa avere fiducia nell’essere sempre accompagnata da lui, da Gesù che è vivo e presente, che mi rassicura di potere superare le difficoltà che la vita mi ha posto, mi pone e mi porrà davanti.

Anna Giulia Ballardini




Lieti nella speranza grati per il dono della vita

Abbiamo tutti bisogno di scoprire che la nostra vita è preziosa e ha una destinazione bellissima

Alla fine del capitolo 15 della Prima lettera ai Corinzi, dopo una riflessione serrata sul mistero della resurrezione, Paolo scrive una frase di una bellezza struggente: “Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore” (1Cor 15,58).

Le cose non sono vane.

Dopo una meditazione così intensa, uno si sarebbe aspettato una conclusione solenne e aulica, invece l’apostolo ci consegna un incoraggiamento semplicissimo e vero. La fede nella resurrezione di Gesù non toglie gli ostacoli, non evita le difficoltà e non risolve tutto magicamente, eppure ci dà le motivazioni per essere saldi e irremovibili, tenendo il timone ben saldo e la rotta dritta, sapendo che nessuna fatica è vana, che tutto viene custodito da lui. Il Signore raccoglie con il suo amore ogni istante e ogni passo della nostra vita, rendendola preziosa e conferendole senso.

Non c’è consapevolezza più lieta e serena di questa. La Pasqua, in fondo, è la parola grazie detta sulla nostra esistenza.

In modo particolare, quest’anno, siamo grati per la vita giovane, per la vita dei giovani. La Chiesa ha voluto metterli al centro del proprio Sinodo, affinché possano essere ascoltati da tutti e protagonisti del rinnovamento ecclesiale. Nelle catacombe romane, spesso, il Signore risorto è rappresentato come un giovane: la resurrezione è giovane. Uno dei segni della Pasqua è la vitalità nello Spirito delle prime comunità cristiane: piccole “parrocchie” con energia, dinamismo, fantasia da vendere, entusiasmo e coraggio.

Vogliamo che la speranza divampi dalla nuova vivacità che i giovani sapranno infondere alla Chiesa, una vivacità che deve essere fatta a modo loro e non contenuta dalla tradizione. Vogliamo colmare le chiese di giovani e vedere nei loro volti quello del Risorto, ed essere grati ancora una volta per il dono della vita, che rinnova le proprie energie attraverso di loro.

Don Davide




Suoni di guerra e fondamenta preziose

Ripetutamente, in quest’anno dedicato al Sinodo dei Vescovi sui giovani, il Papa ha chiesto alle chiese di dare parola ai giovani e che tutti si mettano in ascolto. Lo ha fatto anche di recente, nella fase preliminare del Sinodo, chiedendo ai giovani di parlare con coraggio e di dire quello che pensano davvero.

Seguendo l’itinerario della Veglia Pasquale (attraverso le tre letture su sette che sono state scelte) abbiamo un paradigma, anche per chi celebra ad altri orari, del nostro itinerario spirituale in queste feste.

La celebrazione di questa Pasqua inizia per la nostra comunità cedendo la parola ai giovani. All’inizio della Veglia, il primo annuncio della Resurrezione e anche l’accensione del Cero Pasquale sono affidati alla testimonianza di due giovani donne, unendo così entrambi i dati del Vangelo di Marco: la presenza di un giovane ri-vestito di bianco (ricordarsi il giovane che è fuggito via nudo all’arresto di Gesù!) e delle donne.

Il lungo ascolto della Parola di Dio incomincia poi da una domanda rivolta da Dio a ciascuno di noi (3° lettura): “Perché gridi? Smettila di gridare – sembra dire – e attraversa i flutti. La fede non è forse affrontare cammini apparentemente impossibili, chiamati dalla Parola?”. Seguiamo così il racconto del passaggio del Mar Rosso, dallo stile militare e dai toni epici, imprescindibile per la sua forza di prefigurare un’altra vittoria, in un’altra guerra ben più radicale: quella contro la morte. Dobbiamo ascoltare questo racconto non ponendoci i problemi morali di oggi, ma lasciandoci trascinare nella narrazione e nel suo ritmo incalzante, sentendo lo sgomento di Israele e il terrore dei nemici. Solo così potremo intuire la verità delle parole di San Paolo: “O morte, dov’è la tua vittoria?”.

Si prosegue con una delle letture più belle di tutta la Bibbia (4°) che descrive l’inarrestabile forza d’amore di Dio per il suo popolo, personificato nella figura della Gerusalemme sposa. “Afflitta, percossa dal turbine, sconsolata, ecco io pongo sullo stibio le tue pietre e sugli zaffiri le tue fondamenta…” (Is 54,11). Basterebbe la lancinante bellezza di questo versetto per innamorarsi di tutta la Sacra Scrittura.

La terza e ultima tappa nel percorso dentro l’Antico Testamento è la lettura del profeta Baruc (6°). Essa contempla la Sapienza di Dio. È l’esito che possiamo augurarci, quando usciremo dalla celebrazione della Pasqua: di essere innamorati della Sapienza, di desiderare, di cercarla, di iniziare a meditare la Parola di Dio ogni giorno, di sapere che abbiamo un tesoro imparagonabile che aspetta solo di essere trovato.

Il passaggio al canto dell’Alleluia, trattenuto fino a questo punto della celebrazione, viene accompagnato da San Paolo, che ci ricorda che l’uomo vecchio è morto e vive il nuovo. Siamo uomini nuovi quando siamo orgogliosi del nostro Battesimo, non timorosi quasi che fossimo i pochi ad avere mantenuto un retaggio religioso/spirituale. Noi siamo orgogliosi di essere cristiani, perché con Gesù partecipiamo di una responsabilità mozzafiato per la vita del mondo. Lo facciamo con gli orizzonti più ampi possibili, ma sapendo di dovere partire dai noi stessi. I suoni di guerra contro la morte e le fondamenta preziose dell’amore di Dio, per noi e per tutti, sono l’essenza di questo cammino.

Lo facciamo lasciandoci rinnovare il cuore e cercando di aprirlo, di spalancarlo il più possibile. Siamo uomini nuovi.

Don Davide




La Maddalena nel film di G. Davis

Intuisce lo scoramento di Gesù, vede le cose prima degli altri, le sente più profondamente, è l’unica a discernere l’originalità amorevole del Maestro e ad accogliere la verità delle sue parole. È la Maria Maddalena del film di Garth Davis, girato per la maggior parte in Italia (piccola nota d’orgoglio), ed è difficile pensare, nonostante le poche, pochissime testimonianze del Vangelo, che non fosse così.

Lo si deduce dalla conferma univoca in tutti i quattro vangeli di lei come prima testimone della rIsurrezione; e come potrebbe essere altrimenti – che una donna sia scelta, in una società patriarcale, quale prima testimone dell’unico vero Evento della Storia – se non per quel “sentire col cuore”, eccelsa qualità femminile; se non per quell’intuizione che ha la capacità di andare sempre al di là dell’immediato, del dato oggettivo, di ciò che accade e della parola detta per coglierne l’essenza più profonda e misteriosa? Chi altri potrebbe dire: «Ho visto il Signore!» (Gv 20,18) se non una donna così?

In questo senso il ritratto che ne fa il regista, pur non avendo la preoccupazione di una ricostruzione storico-critica e, anzi, facendo il lodevole sforzo di rileggere e rielaborare il dettato evangelico, è un’interpretazione ben più che coerente ed efficace di Maria Maddalena.

Dal punto di vista esegetico e della ricerca storica, infatti, l’identificazione di Maria Maddalena non è facile come sembra. I passi che parlano di lei in maniera inequivocabile sono esigui, ma la figura di Maria Maddalena ha come assimilato i racconti di altre donne presenti nel Vangelo, alcune volte in base al nome Maria, in altri casi per la forza della scena, tale da indurre molti commentatori a credere che la protagonista dovesse essere lei.

È il caso di una delle sequenze più belle del film, quella della rIsurrezione di Lazzaro. Nulla ci permette, in base ai testi evangelici, di identificare con certezza Maria di Betania, sorella di Lazzaro, con Maria Maddalena e quindi di affermare senza ombra di dubbio che Maria Maddalena fosse presente a quel miracolo. Invece, nel film, è proprio lo sguardo di Maria Maddalena a mostrare il prodigio allo spettatore.

Ne deriva una scena magistrale e sontuosa, dove il regista, fedele al suo compito e alla sua arte, si svincola dalla rigidità performativa del testo evangelico, che è di per sé talmente forte da schiacciare o rendere ridicolo qualunque tentativo di rappresentazione fedele.

Qui la sequenza è composta di occhi che si aprono vacui, sguardi che vengono attratti – come richiamati – e diventano pieni tornando ad incrociarsi, narici che si dilatano, fiato nei polmoni che viene restituito come con un bacio per permeare la vita dell’altro, vita – infatti – che viene condivisa per essere data e quindi anche morte che raggiunge chi ha dato la vita.

Mi sembra un’interpretazione suggestiva e penetrante dell’esito del racconto di Lazzaro che, nella trama evangelica, conclude con la decisione irrevocabile di uccidere Gesù (Gv 11,53).

Maria Maddalena, nel film, pare essere l’unica a rendersi conto che quel donare la vita costa il morire a Gesù. Ne nasce un dialogo struggente dove Maria pone la caparra per essere profetessa della risurrezione.

Da quel momento, il regista costruisce una sorta di corrispondenza tra Gesù e Maria: prima tra lo sguardo supplice di Gesù con il patibolo sulle spalle e lo sgomento di Maria tra la folla; poi indugiando sul respiro di Gesù crocifisso, mentre Maria desidera spegnersi; infine, seguendo il ritorno di Maria, riflessa nell’ombra sotto la croce, per permettere all’amico e Maestro di morire in pace e non triste.

Ho ascoltato migliaia di volte il racconto della Passione ricordare la presenza delle donne sotto la croce e non avevo mai inteso, per un uomo che muore, quale conforto sia la presenza della madre e di un’amica.

A questo punto non seguiamo Maria approssimarsi al sepolcro al mattino del terzo giorno, secondo la narrazione dei vangeli: la vediamo non allontanarsene mai, come in preda a un appuntamento. Il regista ci risparmia vesti luminescenti e scene strappalacrime, e proprio l’incontro con il Risorto, il tratto più identificante dell’esistenza di questa donna, è appena accennato perché già descritto compiutamente in tutto ciò che ne è la premessa.

L’ultimo regalo di questa lettura non convenzionale di Maria Maddalena ci viene offerto nel dialogo tra Maria e Pietro che chiude la storia. Con una sceneggiatura implacabile, che meriterebbe un’analisi approfondita, si evoca in pochi scambi la difficoltà della Chiesa di fare i conti con questo dato: il Risorto ha voluto mostrarsi per primo a Maria. L’unica assoluta novità che raggiunge la storia è consegnata per prima a una donna.[1]

La posizione del regista appare netta e severa, indicando nell’esclusione dal ruolo apostolico di Maria Maddalena una riduzione della qualità della Chiesa nascente nella sua funzione di comunità inedita e alternativa.

Nello scambio di battute con Pietro, dopo la risurrezione, si concentrano i nodi irrisolti dell’interpretazione della vicenda di Maria Maddalena nell’oggi: donna che riconosce il ruolo degli apostoli con lei e, perciò, non può e non vuole cedere di un passo al ruolo di apostola che le ha affidato il Risorto. Donna che indica come questa situazione non sarebbe un problema, se non lo creassero i maschi, in nome della presunta fedeltà al Maestro. Donna che, con la sua sola esistenza, mostra l’ovvietà di questo fatto nella testimonianza uniforme della Rivelazione scritta. Donna, infine, che proprio in virtù di tale permanenza nella Parola della Rivelazione, assumerà finalmente la posizione che le spetta fin del primo giorno della nuova storia del mondo (e della Chiesa).

E così la vediamo – mentre all’inizio del film era una donna orientata e determinata dagli uomini – camminare nella sequenza finale a testa alta, con la sua magnifica soggettività finalmente acquisita, come testimone – grazie anche all’interpretazione di Rooney Mara – eccelsa.

Davide Baraldi

 


[1] A ben guardare, anche l’altra novità che ha raggiunto la storia era stata consegnata a una donna. Donna Madre per partenogenesi e donna amica Testimone della vita risorta: ce ne sarebbe abbastanza per fare impallidire tutta la teologia al femminile (e tutta la teologia in toto) prodotta fin qui.

 

Testo scritto per Settimana News il 27 marzo 2018




Un ragazzo con un lenzuolo

Nella scena dell’arresto di Gesù nel Getsemani, l’evangelista Marco inserisce un particolare enigmatico: un ragazzo, vestito solo di un lenzuolo, che prova a seguire Gesù anche dopo il suo arresto. Le guardie sono indisposte da questa presenza, lo afferrano ed egli, lasciando il lenzuolo, fugge via nudo.

È una figura che non ha alcun collegamento con la narrazione, almeno apparentemente, tanto da destare le più svariate interpretazioni, fino a fare immaginare che sia la firma dell’autore del vangelo stesso, con un’ammissione di umiltà: quel ragazzo sarebbe Marco, che prova a seguire Gesù anche nella Passione, ma anche lui scappa nella sua nudità.

C’è un tentativo estremo di seguire Gesù, anche nel momento della Croce, di non lasciarlo solo e di non fare come tutti gli altri discepoli, ma anche questo tentativo fallisce.

È un’immagine potentissima del nostro bisogno di vita, dell’urgenza di celebrare la Pasqua non solo liturgicamente, ma togliendo via il vecchio dalle nostre vite e accogliendo il nuovo che lo Spirito del Risorto si accinge a portarci.

Nella figura di «un ragazzo», però, scorgiamo anche un altro significato. Vediamo l’estremo tentativo di qualche giovane di seguire Gesù, in una ricerca di radicalità, prima di venire definitivamente confuso.

I giovani se ne vanno, non solo dalle nostre chiese, ma dalla fede, dal rapporto con Gesù, dalla dimensione religiosa della vita. E anche quelli che provano resistere tenacemente in un tentativo di radicalità di vita, vengono poi «afferrati», invece che accompagnati; «spogliati», invece che riempiti; spaventati e confusi, invece che incoraggiati a confermare la direzione.

Non vedo simbolo più eloquente della “passione” che si consuma – insieme a quella di Gesù – della Chiesa e del mondo.

La chiesa senza giovani morirà, e non bisogna risolvere la cosa troppo superficialmente rifugiandosi nella provvidenza dello Spirito Santo, il quale si fa sentire… se i cristiani ascoltano. Bisogna piuttosto pensare a quanto è accaduto alle chiese del Nord-Africa o dell’Asia Minore dopo i primi secoli del cristianesimo.

In questo gesto di ultima spoliazione, si manifesta l’esito di tutte le trivialità e le superficialità dentro e fuori la Chiesa: la miopia di chi si lamenta perché la vita della Chiesa cambia; le proteste di chi non ha la messa all’ora e al minuto che vuole lui e nella chiesa che piace a lui; la mancanza di comprensione di chi si lamenta perché deve fare 100 mt in più per raggiungere una funzione… L’ottusità di chi pensa che tutti i problemi del mondo derivino dalla Chiesa; la disonestà intellettuale e spirituale; la severità con cui vengono giudicati i preti e i ministri della chiesa quando non sono brillanti, attivi e capaci; la banalizzazione di tutte le cose.

Nel giovane resistente, spogliato persino dell’ultimo lenzuolo e fuggitivo, ci specchiamo in un salutare bagno di purificazione, con la speranza che a Pasqua lui, la Chiesa e ciascuno di noi possiamo essere di nuovo vestiti.

 Don Davide