La parola di Dio e la II tappa del cammino diocesano

Siamo invitati a vivere la seconda tappa del cammino diocesano annuale, proposto dal vescovo a tutti i credenti. Si tratta di interrogarsi sul proprio rapporto con la Parola di Dio, inteso come Parola di Dio scritta, quella raccolta nelle Sacre Scritture, letta e pregata personalmente o proclamata e ascoltata in modo comunitario nella liturgia.

Per vivere questa tappa, siamo aiutati in modo creativo e originale da un’idea innovativa del Consiglio Pastorale Parrocchiale, il quale (grazie al prezioso contributo di due giovanissimi) ha prodotto un grazioso sussidietto per aiutarci a porre le domande essenziali.

  • Come è il tuo rapporto con la Parola di Dio?
  • Leggi la Parola di Dio?
  • Perché la leggi?
  • Quando la leggi, cosa accade?
  • La Parola di Dio ti aiuta nel cammino della tua vita?

Seguendo questo piccolo strumento, poi, viene proposto un momento di lettura-preghiera personale accessibile a tutti. Pochi minuti e semplici, perché tutti si sentano coinvolti e tutti possano provare a viverlo.

L’esito è un’esperienza aperta. Non si vuole concludere in qualche modo, ma lasciare il sapore di una cosa bella che potrebbe continuare. Come si dice nel proverbio, che ci si deve alzare da tavola con un po’ di appetito…

Quando la Chiesa ha celebrato il grande Concilio Vaticano II, con tutti i vescovi del mondo, dal 1962 al 1965, uno degli intenti principali di quell’assemblea è stato di rimettere al centro la Parola di Dio. Lo hanno fatto con un celebre documento: la costituzione dogmatica Dei Verbum; lo hanno fatto rimettendo una lettura pressoché completa della Bibbia nel ciclo dell’anno liturgico e lo hanno fatto, infine, proponendo a tutti i cristiani di leggere personalmente e a lungo la Sacra Scrittura, con un fiorire di corsi e di sussidi per sostenere questo proposito.

In quegli anni c’è stato un grande fermento: come per chi riscopre un tesoro, che era stato a lungo nascosto. Il Concilio fece quella scelta con la profonda convinzione che il rapporto intenso con la Parola di Dio potesse cambiare la vita della Chiesa e di ogni cristiano, ma oggi, purtroppo, pare che non sia più così. Sembra quasi che ci si sia abituati a richiamarsi alla Parola di Dio, al punto che nessuno più la legge veramente, perché si dà quasi per scontata, senza percepirne l’incredibile ricchezza.

I giovani non leggono più la Bibbia da soli. Gli adulti la Bibbia ce l’hanno più che altro come abbellimento del comodino da letto.  Prima della messa pochissimi si prendono la briga di arrivare in anticipo, per leggere le letture e prepararsi alla celebrazione.

L’obiettivo di questo piccolo esercizio comunitario, che avrà una coda nelle possibilità offerte durante la Settimana Santa (Lectio divina, celebrazione penitenziale e vespri in famiglia) è proprio quello di riscoprire che la Parola di Dio davvero può trasformare la tua vita e di ringraziarti, perché questa trasformazione fa bene alla Chiesa e al mondo.

Sogno che i giovani inizino a dedicare dieci minuti a questi testi dalla sapienza meravigliosa e insondabile; che gli adulti tengano la Bibbia e i Salmi nelle loro borse di lavoro e prima della pausa pranzo, dedichino dieci minuti a meditarne qualche passaggio. Sogno che gli anziani si consumino gli occhi e il cuore e rileggere le pagine della Scrittura, dove raccogliere il senso della vita e attingere alla sapienza di Dio, che ce l’ha donata.

Don Davide




La preghiera

Avvicinandoci ormai alla Pasqua, prendiamo in considerazione l’ultima delle opere della Quaresima, che mirano a creare in noi le condizioni di una vera conversione.

La prossimità della Pasqua è tanto più significativa, in questo caso, in quanto la preghiera ci mette in relazione diretta con il Dio della vita: il Signore presente e vivo nella nostra vita e il Padre suo, che ogni vita raccoglie nelle sue mani, donando a ciascuna il suo amore.

La preghiera, quindi, specialmente in Quaresima, si intende senza dubbio come fedeltà pratica: l’impegno a partecipare a un’eucaristia settimanale, o il proposito di leggere le letture della messa quotidianamente, o la scelta di qualche momento di raccoglimento in chiesa.

Questa atteggiamento programmatico e concreto è indispensabile nel cammino della Quaresima e riflette anche un bel grado di umiltà: piegarsi a una fedeltà piccola, quotidiana, con la fiducia che il Signore ne farà un’occasione per la sua grazia.

Ma la preghiera, soprattutto, è una questione di fiducia. La preghiera nella luce della Pasqua ci interpella su questo punto: abbiamo fiducia che la nostra supplica non sia vana? (cf. 1Cor 15, 58). Riusciamo a vincere quella resistenza tremenda che ci fa dire che in fondo non conta niente, che noi preghiamo ma tanto il Signore non ci esaudisce, che le cose non cambiano, pensando che un atto di fiducia nel Dio della Vita non può che essere assoluto? Viene in mente la stupenda preghiera dei tre condannati nel libro di Daniele, forse uno dei passaggi più belli sulla preghiera dell’intera Bibbia.

Tre giudei alla corte di Nabucodonosor si rifiutano di adorare la statua d’oro che il re ha fatto erigere. Con la tracotanza che caratterizza i sovrani, Nabucodonosor li minaccia, arrivando a chiedere loro: “Quale dio vi potrà liberare dalla mia mano?” (Dn 3,15). I ragazzi danno una risposta che in un paio di versetti è il miglior trattato sulla preghiera che possiamo immaginare: “Noi non abbiamo bisogno di darti alcuna risposta in proposito; sappi però che il nostro Dio, che serviamo, può liberarci dalla fornace di fuoco ardente e dalla tua mano, o re. Ma anche se non ci liberasse, sappi o re che noi non adoreremo mai i tuoi dei e la statua d’oro che hai fatto erigere.” (Dn 3,16-18).

I punti cruciali sono due.

Il primo: “non abbiamo bisogno di darti alcuna risposta in proposito”. La fiducia in Dio è assoluta: non richiede prove, non esige conferme. Accetta lo scherno e la tracotanza di chi pensa di sottolineare l’evidenza, mostrando che Dio non c’è.

Il secondo: “anche se non ci liberasse”. La fiducia e la forza della preghiera non è per nulla condizionata dal suo esaudimento inteso come lo vorremmo noi. Potremmo rileggere la frase così: “Anche se non ci liberasse come vogliamo noi, noi sappiamo che lui effettivamente ci libererà…”.

Viene in mente l’atroce preghiera di Gesù nel Getsemani, la sua morte senza risposte, il misterioso esaudimento nella resurrezione.

La preghiera è così: un atto puro di dialogo d’amore con il Dio della vita che si svolge in un credito di fiducia totale, per nulla condizionato a un tornaconto. Il gustare l’amicizia con Dio e l’affidarsi a lui, con la fiducia piena, assoluta, mai incrinata, che la sua bontà e sapienza sorpassano ogni cosa.

Don Davide




Digiuno

La seconda opera di conversione della Quaresima è il digiuno.

Non siamo più abituati a digiunare, forse anche perché troppo assuefatti ad avere tutto.

L’astinenza dalla carne, il venerdì, è diventata una pratica più formale che altro, se poi la sostituiamo con dei buoni manicaretti di pesce. Il digiuno di un pasto è quasi insignificante, quando nei ritmi di lavori quotidiani, già accade che si mangia veloce, magari un panino, o in piedi o un piatto di insalata per riprendere il lavoro.

Eppure, il digiuno alimentare conserva la sua efficacia, se ci aiuta a fare un gesto realmente penitenziale e a sentire la fame, la fatica, per condividere questa triste esperienza con chi è costretto a vivere in simili condizioni.

Il digiuno, per essere significativo, dev’essere scelto liberamente. Chi sceglie di fare il digiuno alimentare, in qualche forma umile e realista, deve trovare il modo di viverlo autenticamente, altrimenti è meglio lasciare perdere. Se si deve fare per pura formalità, non vale. Chi lo fa, sperimenta che effettivamente la pratica del digiuno scava nella nostra vita: ci rende più attenti alla preghiera, più sobri e più presenti a noi stessi.

Spesso, il digiuno alimentare, viene accompagnato dalla carità, quando si dà in beneficienza il corrispettivo di quello che si sarebbe speso per mangiare. È una pratica molto buona per dare significato al digiuno.

Oltre a questo, soprattutto nei testi dei profeti, vengono indicati tanti altri modi per praticare il digiuno affinché sia vero strumento e segno di conversione.

Il primo è astenersi dalle parole malvagie, dalle parole violente. Pensiamo a come è il nostro parlare: spesso è animato da rabbia, da verbosità, da grinta, cattiveria e giudizio. Sforzarsi di essere sobri di parole e convertire le parole cattive in parole buone, evitare i giudizi e i risentimenti è una via per praticare il digiuno efficacie, anche se difficile.

Il secondo modo è di limitare tutto ciò che ci fa sottrarre tempo agli affetti che contano. Passare un po’ più di tempo con la persona amata invece che su Facebook o davanti alla tv, giocare di più con i figli, sedersi e farsi raccontare la propria giornata dai ragazzi, scambiare una parola gentile con un collega di lavoro o con i propri dipendenti sono tutte pratiche di vero digiuno, inteso nel significato a cui ci richiama la Bibbia.

Il terzo atteggiamento è di ricordarci dei poveri, di avere presente i loro volti, di pensare che anche se non possiamo aiutarli adesso, non ci dimenticheremo comunque di loro, affinché, come abbiamo pregato domenica scorsa, non diventino trasparenti per noi, e noi per loro.

Gesù, nel vangelo, in un celebre passaggio afferma che certi demoni non si possono affrontare se non col digiuno. Chiediamo la grazia, attraverso il digiuno, serio e scelto, di poter affrontare i nostri propri dèmoni, e di sconfiggerli alla luce della Pasqua di Gesù.

Don Davide




Quaresima, tempo di elemosina e carità

Elemosina

La Quaresima è caratterizzata, nella grande tradizione della Chiesa, da tre opere, che sono opere di conversione, per lasciare spazio alla grazia di Dio nella nostra vita: l’elemosina (o carità), la preghiera, il digiuno.

In questa e nelle prossime due domeniche, vorrei dare alcuni suggerimenti per vivere ciascuna di queste opere, per chi senta il bisogno di farlo e voglia provare a vivere la Quaresima con intensità.

Iniziamo, in questa domenica, con l’elemosina, che vorremmo tradurre come aiuto concreto nella dimensione caritativa.

 

La carità in parrocchia

Ci sono due modi di aiutare la carità fattiva e la Caritas parrocchiale: uno è molto pratico, l’altro riguarda il proprio tempo.

Come molti sanno, tutti i martedì la parrocchia fornisce un po’ di spesa (la “sportina”) a circa 70/80 nuclei famigliari. In più, grazie alla S. Vincenzo, vengono aiutate altre 25/30 famiglie. Quando si tratta di alimenti, questi aiuti vengono dati:

  1. Con l’approvvigionamento mensile al Banco Alimentare
  2. Con il contributo della raccolta al Conad
  3. Acquistando i generi che mancano

La parrocchia vorrebbe “arricchire” la sportina che diamo alle famiglie. Il modo concreto di vivere l’elemosina nel tempo di Quaresima, dunque, potrebbe essere quello di collaborare, mettendo nel cesto della Carità i generi più essenziali. A questo scopo, chiediamo solo:

  • PASTA
  • TONNO
  • LATTE
  • PASSATA O SUGO DI POMODORO

 

Ci può essere, poi, un modo legato alla disponibilità del proprio tempo. Oggi siamo tutti molto impegnati, quindi molte persone pensano di non potere aiutare, anche se magari lo desiderano, a causa della mancanza di tempo. Ma non è necessario avere sempre tanto tempo e costante a disposizione. Per alcune cose, si può fare tantissimo, con il pochissimo tempo di tanti. È un principio molto contemporaneo: con moltissime persone che danno pochissimo, si può accumulare un enorme capitale. In questo caso non parliamo di capitale monetario, ma del capitale del tempo!

Ecco perciò, alcuni spunti per aiutare la Caritas, facendo l’elemosina – letteralmente con pochi spiccioli – del proprio tempo. Qui vi scrivo che cosa accade e di cosa si tratta; rispetto a questo, ciascuno potrebbe dire anche: io do la mia disponibilità in questa cosa, anche solo una volta al mese, oppure una volta ogni due mesi… ecc. ecc. È come un mosaico: con tante minuscole tesserine, si può fare un disegno bellissimo!

  1. Lunedì pomeriggio, 1 volta alla settimana, 1 ora: è necessario trasferire le cose che verranno distribuite il martedì mattina, dal magazzino della Caritas alla sala dove vengono servite le persone.
  2. Giovedì mattina, 1 volta al mese, di mattina: per collaborare, a seconda della disponibilità, all’approvvigionamento al Banco Alimentare (guidare il pullmino con patente B2; aiutare nello scarico delle merci; accompagnare nel viaggio alla sede del Banco a Imola)
  3. 1 volta al mese, dopo il Banco Alimentare: per aiutare a preparare le sportine per le famiglie assistite dalla S. Vincenzo
  4. Sabato mattina, 1 volta al mese, 2 ore: per aiutare nella raccolta al supermercato Conad.
  5. 1 volta alla settimana, 1 ora: per aggiornare i registri degli alimenti distribuiti (AGEA)

 

Tanto con poco

Come vedete, dietro alla apparentemente semplice attività caritativa della parrocchia, anche considerando soltanto gli aiuti alimentari (ricordo che le persone della parrocchia fanno tanto altro…) c’è un’organizzazione considerevole, ma anche con un piccolo contributo di tempo di un grande numero di persone, possiamo fare tanto.




Quaresima, il tempo della parola

La Quaresima si caratterizza come un tempo in cui disporsi all’ascolto della Parola di Dio, e nel quale la liturgia è particolarmente curata.

Vorrei proporre, perciò, due semplici attenzioni, molto pratiche, per correggere un difetto che è diventato comune nella nostra celebrazione.

I lettori della Parola di Dio

Al termine dei Riti di Introduzione, nella messa, dopo il canto del Gloria si dice la Colletta. La Colletta è una preghiera importantissima, perché dopo un breve momento di silenzio introdotto dall’invito “Preghiamo” raccoglie (dal latino “collatio”) tutte le intenzioni di preghiera dell’assemblea, in una preghiera comune, che intona tutta la celebrazione con l’ascolto della Parola di Dio che verrà proclamata subito dopo. La Colletta è come il diapason per prendere la nota, per intonare la grande sinfonia di ascolto, preghiera e offerta seguenti. La Colletta è come il riscaldamento di un atleta prima della gara. Sappiamo bene che un’orchestra non può iniziare su tonalità differenti e che un’atleta non può saltare il riscaldamento prima della gara. Durante la Colletta, quindi, ci deve essere il massimo raccoglimento e la massima concentrazione di tutti.

Invece, ho notato che ultimamente i lettori tendono ad alzarsi per recarsi all’ambone durante la Colletta. Quest’uso è assolutamente sbagliato, per due motivi principali. Il primo è che, appunto, durante la Colletta tutti devono essere concentrati e in ascolto di quella preghiera, senza nessuna distrazione. Il secondo è che non c’è nessun bisogno, in quel momento, di anticipare i tempi: l’assemblea risponde “Amen” alla Colletta; a quel punto, mentre l’assemblea si siede e c’è un po’ di inevitabile confusione, i lettori si muovono per andare all’ambone, fanno riverenza insieme all’altare e si preparano a leggere. La breve pausa che ne deriva è perfettamente funzionale a permettere all’assemblea di concentrarsi e di disporsi attentamente all’ascolto della Parola di Dio che viene ora proclamata.

I lettori delle preghiere dei fedeli

Al contrario, per quanto riguarda le preghiere dei fedeli, dopo il Credo, l’introduzione alla preghiera dei fedeli non è così importante, è solo uno strumento di passaggio e un invito alla preghiera. Quindi, mentre il celebrante introduce il momento della preghiera dei fedeli, le persone incaricate di leggerle ad alta voce, si possono già muovere, senza aspettare che lui abbia finito. In questo caso, infatti, quel tempo di silenzio sarebbe inutile. È importante, invece, proclamare le preghiere dei fedeli in modo chiaro, comprendendo il senso della preghiera che, a nome della comunità, si sta elevando al cielo e trasmetterlo all’assemblea nel migliore dei modi possibili. I lettori della preghiera dei fedeli, infatti, esprimono la partecipazione attiva di tutti alla liturgia, perciò il loro compito è molto importante.

Sono piccole note che potrebbero apparire solo stilistiche, o inutili formalismi. Nella celebrazione, invece, è fondamentale sia comprendere bene ed esprimere il significato dei gesti che facciamo, sia seguire il ritmo dell’azione liturgica. Con queste attenzioni, quindi, mi auguro che possiamo vivere bene la liturgia e aiutarci nella dimensione spirituale e sempre più consapevole del cammino di Quaresima.

Don Davide




La Quaresima come cammino

Inizia la Quaresima, che è soprattutto un cammino spirituale.

La nostra parrocchia, rappresentata nel Consiglio Pastorale Parrocchiale, ha deciso di scandire questo cammino con alcune attenzioni, mirate specialmente a vivere bene la Settimana Santa.

Per questo, si è deciso – nei giorni della Settimana Santa – di impostare un percorso che, al termine della Quaresima, ne ricapitoli tutto l’itinerario e, allo stesso tempo, scandisca l’ultima preparazione. Lo indichiamo fin d’ora, perché possiamo esserne pienamente consapevoli.

Si tratterà, quindi, di privilegiare le tre principali celebrazioni eucaristiche (Palme, Cena del Signore, Pasqua) e di sostituire la messa serale del lunedì santo, martedì santo e mercoledì santo, con tre momenti di cammino spirituale a cui convocare tutta la comunità, sempre alle ore 19, in modo da permettere a tutti di partecipare.

Il primo, il lunedì santo, vivremo un momento di Lectio divina, sul vangelo dell’Unzione di Betania, che apre la preparazione alla Settimana Santa. L’intento è di dare spazio al raccoglimento e alla preghiera personale a partire dalla Parola di Dio, cosa che spesso nella liturgia eucaristica è un po’ sacrificata. Guiderà la Lectio Suor Chiara Cavazza, così da ascoltare una voce femminile che ci aiuti ad entrare nel grande gesto della donna che unse Gesù, trascinata dall’amore per lui.

Il secondo, il martedì santo, ci sarà la celebrazione penitenziale comunitaria. L’idea è che tutta la comunità cristiana entri nel clima della Pasqua in un atteggiamento penitenziale condiviso, che sia una cosa fatta insieme, e non un’impresa personale. Ascolteremo ancora il brano dell’Unzione di Betania, cercando di raccogliere dalla meditazione spirituale del giorno precedente, spunti per una revisione concreta di vita. Ci sarà anche la possibilità di confessarsi.

Il terzo passaggio – il più importante di tutti – il mercoledì santo, sarà un momento di preghiera nelle case della nostra parrocchia. Avete capito bene: nelle case; per essere più precisi: in tutte le case della nostra parrocchia. Vorremmo che ogni famiglia, ogni nucleo familiare e ogni gruppo di amici si riservasse mezz’ora prima di tutto per radunarsi, e poi per vivere insieme un momento di preghiera che sarà uguale per tutti. In quella settimana così ricca e impegnativa, dal punto di vista della richiesta di partecipazione, ci sarà così un momento in cui non si chiede alle persone di uscire di casa per andare in chiesa, ma di respirare un momento di pace nella propria casa, con gli affetti più cari: un incontro che, spesso, magari si dà per scontato e non ci si fa troppo attenzione.

Come nelle case degli antichi ebrei, prima della fuga dall’Egitto, così immaginiamo che quel giorno il Signore possa udire un brusio di preghiera da tutto il nostro territorio parrocchiale, per chiedergli di custodire i nostri legami più cari, di illuminarli con la luce della resurrezione di Gesù e di stringerli in una rete che sappia edificare la Comunità.

Dopo questo breve itinerario, ci auguriamo così di potere raccogliere tutta la ricchezza delle celebrazioni del Triduo Santo e che cresca il desiderio di non mancare a questo appuntamento, che è il più importante dell’anno.

Per vivere bene questi appuntamenti, soprattutto quello del mercoledì santo nelle nostre case, è quanto mai opportuno mettersi nell’ottica fin da adesso di riservare il momento. Talvolta, infatti, è difficile incontrarsi persino in famiglia. Stabilite fin d’ora la mezz’ora in cui trovarvi tutti, per fare questo momento di preghiera insieme. Stabilite fin d’ora chi invitare eventualmente nell’intimità della vostra casa. Guardate se nel vostro condominio c’è qualcuno che potrebbe rimanere solo e invitatelo, organizzatevi perché lo possa vivere con voi e non rimanga solo, affinché nella casa di ognuno possa essere preparata la Pasqua.

Don Davide




La Giornata Mondiale del Malato

Domenica prossima, giorno della B.V. di Lourdes, celebreremo la Giornata Mondiale del Malato, con una messa (quella delle 11) dedicata all’Unzione degli Infermi.

Già di per sé, celebrare la Giornata “del Malato” risulta essere un atto in controtendenza: primo, perché la malattia, come la morte, tende a essere rimossa, ad essere considerata un’infamia e una vergogna, oltre che una sfortuna, e quindi chiamare qualcuno “malato” risulta essere poco delicato, non rispettoso o discreto. In secondo luogo, perché associare la parola malattia all’idea di una celebrazione, potrebbe essere sgradevole, quasi blasfemo, come se fosse un rigurgito masochista della fede cristiana.

Invece, tenacemente, la Chiesa continua a non rimuovere le parole più scomode della nostra cultura, quali ad esempio “malattia”, e a celebrare questa giornata, per renderci sensibili ai problemi, e non farci percorre la via più facile, che sarebbe quella di trascurarli.

La prima cosa che la Giornata del Malato smaschera è il nostro rapporto difficile con la malattia, perché rischiamo di avere un approccio distorto alla vita. La malattia, quando compare, materializza tutte le nostre paure più recondite. Se compare in noi, rende concreta la percezione di essere più sfortunati degli altri, di non essere benedetti, di essere delle vittime. Se compare in qualcuno che ci è vicino, ci terrorizza per quello che potrebbe accadere, ci fa toccare con meno le nostre debolezze, quando vorremmo fuggirla eppure dobbiamo avvicinarla. La malattia, in qualunque modo, incrina la nostra speranza di una vita perfetta, priva di dolore, non toccata dalla difficoltà. Soprattutto, infrange il mito della vita per sempre, l’idea che il corpo non declinerà mai… La malattia, quindi, ci chiede di avere un rapporto onesto con l’esistenza e con la nostra vita. Spesso, oltre al dolore che diventa insopportabile, può essere questa mentalità sbagliata che crea le sofferenze più inaccettabili.

La seconda cosa su cui la presenza della malattia ci interpella, è che visione abbiamo di Dio. Perché è con lui che la facciamo, non appena siamo colpiti. Ci immaginiamo un Dio che tenga in mano un mondo dove non c’è nessuna esperienza negativa, ma non è così. Il mondo è creato, avviato e lasciato libero. Nemmeno il Figlio di Dio è stato risparmiato dall’ingiustizia, dalla sofferenza insensata, dalla violenza gratuita e dalla morte. E tuttavia, Dio prende posizione accanto a noi e ci dice che lui non sta mai dalla parte della sofferenza, ma sta dalla parte nostra, in questa lotta. Dio non vuole la malattia, ma lotta con noi, toccando il nostro cuore e la nostra libertà, per vincerla. La malattia, quindi, interpella la nostra responsabilità: ci mette in gioco nella solidarietà, nella cura, nella compassione… come fa lui stesso con noi. Lui non ci lascia soli; noi non dobbiamo lasciare solo nessuno. Lui si prende cura di noi; noi dobbiamo prenderci cura dei nostri fratelli e sorelle. È così che funziona.

Da ultimo la malattia associa chi soffre alla sofferenza di Cristo, e Gesù stesso viene a portare quella sofferenza. Gesù diventa il Buon Samaritano e il Cireneo al tempo stesso. Non significa che la malattia è una cosa buona. Significa che come la Croce di Gesù, che non era buona, ma Gesù l’ha cambiata per il bene degli uomini, così anche chi vive la sofferenza può scegliere di cambiarla in un cammino di purificazione, in un esercizio di pazienza, in un’offerta associata all’amore di Dio per la salvezza di qualcuno… Come avvenga questo, è un mistero che solo chi l’attraversa lo può dire. Tuttavia, molti santi e persone comuni hanno testimoniato che, ad un certo punto, anche la sofferenza peggiore poteva essere vissuta in modo buono.

A tutti quelli che non sono malati nel fisico, spetta il compito della vicinanza e dell’aiuto, perché nessuno sia lasciato solo, nessuno si senta troppo fragile o in difficoltà. Il senso del Sacramento dell’Unzione degli Infermi è esattamente questo: la sollecitudine della Chiesa che, nella fede, e con un sacramento del conforto, prova a fare sentire la sua vicinanza a tutti i malati, li affida alla grazia di Gesù e infonde loro la capacità di vivere la sofferenza come un’esperienza dell’esistenza, come una cosa che ci chiede di fare verità su noi stessi e su Dio e come una cosa che possiamo vivere insieme alla Croce di Cristo.

Il Sacramento dell’Unzione, nella fede della Chiesa, ha il potere di guarire. Alcune volte guarisce nel corpo e protegge. Ma sempre guarisce nel senso che infonde questa capacità di visione, che permette di affrontare quello che è, spesso, il più doloroso dei viaggi.

Don Davide




L’autorità di Gesù

Gesù ha iniziato ad annunciare l’amore di Dio Padre. Ha chiamato i suoi discepoli, è appena entrato in sinagoga e subito la sua autorità travolgente si manifesta e non può non essere riconosciuta.

È un’autorità che comunica un amore che trasforma, una parola che guida alla verità (prima di tutto del cuore) e che ha il potere di strappare dalla nostra vita le inclinazioni maligne. È la parola che ci apre alla fraternità e alla guarigione.

Questa autorità di Gesù è quella che produce gli effetti del Vangelo. Gesù compare sulla scena e succede di tutto: gli spiriti maligni vengono scacciati, i lebbrosi accolti e guariti, i malati sanati, gli ipocriti smascherati, i poveri diventano oggetto di attenzione, gli sconsolati recuperano un senso alla loro vita.

Oggi abbiamo il dono essere richiamati a questa autorità di Gesù, quasi come premessa dei tanti discorsi che sono stati fatti, e che faremo, sui grandi temi del mondo di oggi: i poveri, gli emarginati, i migranti, le sfide della carità, il rinnovamento pastorale della nostra diocesi, la chiesa “in uscita”.

Al centro di tutto, come fonte irradiante; prima di tutto, come inizio generativo, ci sta Gesù, l’incontro con lui, il risuonare della sua parola nella nostra vita, il fatto di vedere raccontato nel suo essere l’amore del Padre. Siamo messi di fronte alla sua autorità: è quest’esperienza che ci trasforma e ci dà l’energia necessaria.

È l’incontro con Gesù che ci spinge ad essere discepoli-missionari autentici. È l’assiduità con lui che ci rende più sensibili alle esigenze dei poveri, a cui “è annunciata la buona novella”. È lo sguardo posato su di lui che ci fa vedere negli emarginati, nei migranti il suo stesso volto. È assimilando i suoi criteri che noi possiamo rinnovare la Chiesa perché sia ancora e sempre testimone della resurrezione.

Mentre ci dedichiamo e ci preoccupiamo giustamente delle tante sfide concrete che ci si pongono come credenti e come comunità cristiana, la domenica di oggi ci dà l’opportunità di ricordarci che tutte queste cose trovano la loro unica risposta autorevole a partire da Gesù, dalla fede e dal nostro rapporto con lui, di cui ci dovremmo preoccupare in maniera NON meno concreta del resto.

Colgo pertanto l’occasione, pertanto, di proporre una piccola verifica del nostro legame personale con Gesù come suoi amici e discepoli.

  1. Che intensità relazionale ho con Gesù? Lo credo una persona viva e presente? Ho un modo concreto e personale (come si ha con tutti gli amici) di stare con lui?
  2. L’amicizia con Gesù orienta la mia vita? Determino le mie scelte, i miei comportamenti, il mio stesso modo di amare, in base a quello che riesco a capire di Gesù, dal Vangelo?
  3. La mia preghiera ha una dimensione affettiva con Gesù? Quando prego, prego magari con fede, ma solo in maniera precisa o comunitaria, oppure riesco a metterci qualcosa di mio? Dialogo con Gesù? Gli dico i miei sentimenti, i miei stati d’animo, le mie emozioni, i miei progetti, il bisogno di chiarezza nelle mie scelte?

In questo modo, la nostra amicizia con Gesù non sarà come quella con qualsiasi altro maestro, ma come quella con uno che ha autorità sulla nostra vita: un’autorità che ci rende liberi e che ci inclina al desiderio di amore… e DI AMARE.

Don Davide




La Giornata Mondiale della Pace dell’AC

(I ragazzi del catechismo e dell’ACR vivono oggi la Giornata diocesana della Pace. Noi li accompagniamo con questa riflessione)

«Sono un fotografo di guerra che spera di essere disoccupato»: è una delle amare considerazioni che ricorrevano spesso nelle interviste rilasciate da Robert Capa, il più famoso fotografo di guerra del Novecento, testimone, suo malgrado di una serie interminabile di episodi tragici, di morti ingiuste, di dolori incommensurabili. Eppure la carriera di Capa è costellata da una miriade di presenze sui campi di battaglia: dalla guerra civile spagnola alla seconda guerra mondiale, dalla guerra arabo-israeliana alla prima guerra in Indocina, il fotografo ungherese non ha smesso mai di gettare il suo sguardo su una delle più brutali manifestazioni dell’umanità che ancora oggi continua a segnare il presente della nostra Terra. L’esperienza di Capa, testimonia come nel cuore del noto fotoreporter fosse vivo il desiderio di raccontare al mondo l’assurdità della guerra perché appunto presto ci si rendesse conto della sua inutilità ed egli potesse restare a tutti gli effetti senza occupazione. […] È lo stesso desiderio di pace che renda ancora necessario oggi celebrare e vivere un mese dedicato alla pace nei nostri contesti civili ed ecclesiali. […] Anche quest’anno l’AC vuole farsi portavoce di un messaggio di pace che proclami l’inutilità della guerra, che racconti della bellezza di un mondo senza guerre, che aiuti l’umanità a guardare a se stessa per scorgere quei barlumi di bellezza che nemmeno il più orribile dei mali potrà mettere a tacere, e che hanno il nome di solidarietà, voglia di vivere, aiuto umanitario, progetto di solidarietà.

Sguardo attento e cuore aperto In questi mesi ci stiamo confrontando con la pagina del Vangelo di Marco nella quale, dentro il Tempio, Gesù offre ai suoi discepoli un insegnamento a partire dagli atteggiamenti delle persone sulle quali si posa il suo sguardo. Nel Mese della Pace anche lo sguardo dei ragazzi, dell’Azione Cattolica vuole, per quanto possibile, farsi ancora più attento alla realtà. Anche questo possiamo imparare da questo Vangelo: è a partire dalla realtà che Gesù fa emergere tanto le contraddizioni (gli scribi) quanto i semi di Vangelo sparsi nella vita degli uomini e delle donne di buona volontà (la vedova). Davvero noi siamo invitati ad invocare dal Signore questa capacità permanente (che cioè sa andare ben al di là di un tempo circoscritto come il “Mese della Pace”) di saper osservare la realtà come il luogo attraverso il quale Dio si manifesta; come il luogo nel quale siamo chiamati ad essere segni della sua presenza; come il luogo nel quale siamo impegnati ad arginare il male, diversamente dilagante. […] Sì: uno sguardo attento è il segno di un cuore aperto!

L’invito del Vangelo ad avere “sguardo attento e cuore aperto” si traduce, durante il Mese della Pace, nell’impegno da parte di tutti a guardare alla realtà che li circonda e, in una prospettiva allargata, a quella mondiale con l’occhio di chi si fa attento ai bisogni – soprattutto il bisogno di pace – e, nel contempo, riesce a scorgere il bene, il bello laddove esso si manifesta. Per i ragazzi, quest’anno l’invito è quello di assumere uno sguardo “fotografico” per individuare l’impegno di uomini e donne che costantemente si adoperano per la pace, raccogliere le loro azioni di gratuità, di dono spontaneo di sé, di condivisione fraterna e tensione alla carità.

È proprio questo richiamo alla fotografia che genera lo slogan dell’impegno di Pace 2018: SCATTI DI PACE, uno slogan che racconta una realtà missionaria articolata e rappresenta il dinamismo del cristiano che vuole portare la causa del Vangelo fino agli estremi confini della Terra. “Scatti di pace” perché in un’era dominata dalle immagini, dai ritratti naturali o artefatti della realtà per mezzo di fotocamere e smartphone, diviene sempre più importante allenare il proprio occhio per gettare lo sguardo “oltre” (sulla scorta dell’esempio di Gesù con la vedova) e cogliere l’esigenza di pace di uomini e donne, bambini e anziani, in ogni parte del mondo. […] Ma “scatti di pace” vuol dire anche altro: il dizionario definisce lo scatto come «il liberarsi rapido e improvviso di un congegno tenuto in stato di tensione da una molla o da un’altra forza»; nel Mese della Pace, quest’anno, siamo chiamati a liberarci rapidamente da quelle situazioni che ci imprigionano nei nostri dubbi, nelle nostre insicurezze, che frenano il nostro andare incontro agli altri e scattare, muoverci, correre verso chi oggi cerca la pace per offrire il nostro impegno appassionato e generoso.

Dall’iniziativa annuale per la Pace dell’Azione Cattolica




Benedire: tanto importante da volere farlo bene

Carissimi/e,

nonostante le “benedizioni” siano un rito ormai decennale e appartenente alla nostra tradizione, molti – in occasione della visita nelle case per la benedizione pasquale – tradiscono un certo imbarazzo, come se non sapessero bene come comportarsi; capita soprattutto ai giovani, magari meno abituati a vivere questo momento.

Nel tentativo di alleggerire questo incontro e di togliere questo imbarazzo, vorrei consegnare alcune indicazioni.

Primo. Le “benedizioni” sono soprattutto un incontro. Un incontro che avviene nelle vostre case, dove il prete o i ministri della parrocchia praticamente si “auto-invitano”. Una volta, nessuno si sognava di non accogliere il prete o un suo rappresentante, ma oggi non è più così. Noi perciò, prima di tutto vi siamo grati per l’attenzione che ci dedicate, per il fatto di aprire la porta, di parlarsi cortesemente. Non lo diamo per scontato e – laddove siamo accolti – entriamo umilmente e senza pretese. L’incontro non è formale, ma amichevole, come in famiglia. Ci salutiamo, scambiamo due parole e ci si aiuta a sentirsi a proprio agio. Perciò non vi preoccupate se la casa non è perfetta o se eravate impegnati in altre faccende! Prima di tutto vi ringraziamo per il tempo che dedicate all’incontro e per la disponibilità a pregare per voi e per la vostra casa.

Secondo. Il rapporto prete/ministri nei confronti della parrocchia è schiacciante: 4 a 6900. Nel caso non ci si conosca perfettamente, se ci aiutate a focalizzare chi siete, se avete vissuto qualcosa di particolare e se c’è qualche necessità, ci aiutate enormemente. Vi chiedo, soprattutto, di segnalarci se c’è stato qualche lutto in famiglia nell’ultimo anno, in modo da potere ricordare i defunti nella preghiera; oppure se c’è qualche malato, che abbia bisogno di una visita o dell’assistenza spirituale; infine, se c’è qualche situazione che vi sta a cuore, per cui la parrocchia potrebbe fare qualcosa.

Terzo. Il sogno di tutti noi preti e ministri incaricati sarebbe quello di potere dedicare più di qualche minuto a ciascuno. Purtroppo non è possibile, per il ritmo serrato che ci è imposto. Abbiamo piacere di fermarci per un breve dialogo amichevole, anche laddove non ci siano situazioni particolari, ma vi chiediamo in anticipo un po’ di comprensione se, ad un certo punto, non possiamo dilungarlo oltre, perché dobbiamo proseguire con le visite. Allo stesso modo, vi chiedo un po’ di pazienza… perché so bene che gli ultimi sono quelli che aspettano di più, ma ovviamente tra l’inizio e la fine può passare un lasso di tempo anche di qualche ora. Purtroppo nessuno di noi ha il dono dell’ubiquità! Per agevolarvi, per quanto possibile cercheremo di seguire l’ordine di progressione indicato sul calendario delle benedizioni.

Quarto. Dopo avere creato le condizioni perché si possa vivere come momento famigliare o amichevole, avviene quindi la preghiera con la benedizione. Diciamo insieme alcune preghiere della tradizione, quelle che sappiamo tutti, per intenderci. In alcuni casi si può leggere un breve passaggio del Vangelo e dire qualche intenzione di preghiera spontanea. Poi chiediamo la benedizione di Dio sulla vostra famiglia, prima di tutto, e sulla vostra casa. Se avete piacere che si benedica dappertutto, basta dirlo: lo facciamo volentieri. Altrimenti, in genere, ci si limita a benedire nel luogo dove siamo accolti, perché magari qualcuno può non avere piacere che si giri per casa! Accompagna questo momento, la consegna di un ricordo, che ha valore soprattutto perché unisce tutte le famiglie cristiane con lo stesso simbolo e perché vi porta il saluto del vescovo. Dopo di ché ci si saluta, così noi continuiamo il viaggio!

Spero che queste poche indicazioni, ci aiutino a vivere le “benedizioni” di quest’anno come un bel momento per tutti. Soprattutto, vi chiedo il massimo della collaborazione per non banalizzare questo momento; di comunicare magari a chi non viene in chiesa queste informazioni, di consegnare questo foglietto e di incoraggiare chi non ha piacere di ricevere la benedizione a dirlo semplicemente.

Il gesto di benedire è una delle cose più belle, più preziose e solenni che possiamo fare nei confronti delle altre persone, e noi vogliamo che sia così per tutte le famiglie e per ogni singolo che lo desiderino.

Vi saluto con amicizia e vi do l’appuntamento a presto,

Don Davide