Invitare alle nozze

«Mandò i suoi servi ad invitare alle nozze» (Mt 22,2).

In questa domenica, viene conferito il Mandato a tutti i catechisti, educatori e responsabili della nostra parrocchia. È un rito festoso, in cui, a nome di tutta la comunità, si affida ufficialmente l’incarico alle persone disponibili, si ricorda loro che sono al servizio e non dentro un’impresa personale, e che il Signore manda i suoi servi ad invitare alle nozze, non a una cosa triste.

Il servizio ecclesiale dovrebbe essere come quegli amici che organizzano i giochi festosi per gli sposi: richiede impegno, ma con quanto entusiasmo e affetto lo fanno!

Ancora di più, l’appartenenza alla chiesa dovrebbe essere come una festa di nozze: un’esperienza gioiosa, estremamente curata, dove si mangiano cibi succulenti e bevande deliziose – talvolta spirituali, come l’ascolto della parola di Dio, un ritiro, una bella celebrazione; talvolta materiali, come le merende o i bei pranzetti che ogni tanto si fanno.

Ci dobbiamo chiedere: stiamo invitando alle nozze o a un funerale? L’invito è curato? La partecipazione è bella o assomiglia di più a un necrologio? L’abbiamo spedita come si fa a un capo azienda che non possiamo non invitare per buona educazione, o c’è un rapporto personale e riusciamo a dire: “ci tengo che tu ci sia”?

E poi: la festa è pronta? O abbiamo cibo precotto, patatine confezionate, tovaglie sporche, location brutte e sedie scomode?

È interessante notare, nel vangelo, che tutto ciò non basta. Nonostante un invito alle nozze fatto come si deve e un banchetto eccellente, molti invitati rifiutano.

Niente paura. Timone dritto e obiettivo chiaro: qui c’è pronta una festa di nozze, non una merendina. La merendina la puoi rimettere nella scatola e mangiarla un altro giorno; la festa di nozze va goduta e ci sarà sicuramente qualcuno che ha il piacere di farlo. E allora: apriamo le porte! Oltre che una chiesa in uscita, che sia anche una chiesa aperta! Che tutti coloro che vogliono il privilegio di partecipare siano accolti! E che goda chi ha fame e sete!

E alla fine, si scopre che i servi stessi sono invitati alle nozze! Che strana festa, questa! Il padrone è così buono che, pur avendo servi numerosi, ha organizzato un catering esterno, in modo che anche i servi possano fare festa, essere serviti e mangiare leccornie!

Mi auguro davvero che tutti, tutti possiamo avere la chiara consapevolezza di essere invitati a una festa di nozze; che nessuno di noi ritenga il non esserci una cosa di poco conto; che non ci sia bisogno di insistere come il padrone nel vangelo e, anzi, ciascuno desideri non perdersi questa festa per nulla al mondo.

Don Davide




Non ci ardeva forse il cuore?

Non ci ardeva forse il cuore, sabato scorso, quando tutta la città era in fermento e si sentiva l’aria frizzante per l’arrivo del papa? Non ci ardeva di carità quando, al centro per i rifugiati, papa Francesco ha ricordato quelli che non ce l’hanno fatta e che non ci sono più? Non ci ha fatto ardere di buoni propositi quando, all’Angelus, ha chiesto alla città di Bologna di rimanere un esempio nella testimonianza del Vangelo o quando ha raccomandato ai preti e ai religiosi di essere con il popolo, semplici e poveri, per condividere il Vangelo?

E non ha fatto come Gesù, riattualizzando d’un colpo le parole dei profeti, sedendo a mensa con i poveri e tutti coloro che avevano bisogno di riscatto?

E non ha letteralmente infiammato i nostri cuori con il suo discorso all’Università, parlando di cultura, di speranza e di pace, nell’orizzonte di un’Europa unita, contro tutti i populismi e le retoriche, come non si sentiva fare da anni?!

Sì, l’abbiamo riconosciuto nello spezzare il pane… ma non lui, cioè papa Francesco. Grazie al papa, e soprattutto grazie al suo rapporto così schietto e sulle stesse corde con il vescovo Matteo, nel catino suggestivo e trepidante dello stadio, trasformato in una cattedrale contemporanea, abbiamo riconosciuto Gesù risorto! Sì, Gesù risorto, vivo, presente in mezzo e insieme alla sua Chiesa, che ci ha confortato, ha fatto risuonare la sua parola con mille sfumature e ci ha dato la direzione.

Una Chiesa non clericale, fatta di pastori davanti, in mezzo e dietro al popolo; una Chiesa richiamata ai tratti (non ai valori) inconfondibili del Vangelo: i poveri, l’annuncio del Regno agli ultimi, la misericordia data e ricevuta. Una Chiesa tesa a raggiungere tutti e ad aprire una via per ciascuno.

Il vescovo Matteo, il giorno di San Petronio, ha ringraziato la città, per la preparazione della visita del papa, lo svolgimento della giornata e l’accoglienza profonda che Bologna gli ha riservato. Era da tempo che il giorno del patrono non si sentivano parole gentili nei confronti della città, piuttosto che rimproveri, provenienti da una supposta posizione di superiorità. È uno stile che, inequivocabilmente, i nostri pastori ci consegnano. Non perché non ci siano i problemi o perché la Chiesa debba abdicare al suo compito critico e di vigilanza, ma per costruire rapporti di vera amicizia, aiutarsi e camminare insieme.

Così, oggi, giorno della conclusione del Congresso Eucaristico nelle nostre parrocchie, il vescovo ci consegna la sua nota pastorale, per confermarci nella direzione di questo cammino, dal titolo: Non ci ardeva forse il cuore?

Incoraggiati da questa consegna, iniziamo il nuovo anno pastorale con l’immagine bellissima di Gesù che, dopo avere spiegato il significato profondo delle Scritture, essere stato ospitato a tavola e avere spezzato il pane con i segni dell’Eucaristia, ci fa percepire nitidamente che cosa fa ardere il cuore e brillare il volto.

L’egoismo ci spegne, il Vangelo ci infiamma. La divisione perde, la comunione vince. L’odio ci fa morire, l’amore ci fa vivere.

Don Davide




La Scuola di Formazione Teologica

Il grande Aristotele, nella sua opera più famosa scriveva che la teologia è la scienza più importante di tutte e la meno utile.

Forse è questo il motivo per cui tanti sarebbero interessati a conoscere la teologia, magari anche a studiarla seriamente, ma poi non si sceglie perché non si veda come possa tornare utile (come si dice in gergo) per portare a casa la pagnotta…

È anche per venire incontro a queste esigenze che la Scuola di formazione teologica di Bologna, sotto l’alto patrocinio della Facoltà di teologia dell’Emilia Romagna, propone un corso base di teologia strutturato in modo che ciascuno possa partecipare, senza dover rinunciare ai suoi oneri quotidiani. Il corso base prevede infatti lezioni serali, un giorno alla settimana, di una o due materie a semestre. I quattro corsi che compongono il corso base sono: Teologia fondamentale; Mistero cristiano; Introduzione generale alla Sacra Scrittura e Ecclesiologia. Tradizionalmente, la scuola di formazione teologica (sigla SFT), oltre alla sede principale del seminario, ha altre sedi dislocate sul territorio.

Quest’anno, per la prima volta, si apre una sede anche nel vicariato ovest, che prevede un corso di Teologia fondamentale il martedì a partire dal 16 di febbraio, presso le nuove strutture della parrocchia di Ponte Ronca.

A questo punto, a molti verrà la domanda: e perché studiare teologia?

Per rispondere al nostro amico Aristotele, diremmo noi! Studiare teologia, infatti, da una parte ci permette di uscire dalla logica delle cose che ottengono un risultato a breve termine, dall’altra ci permette di dare un respiro alla nostra fede. Nella vita delle nostre parrocchie, soprattutto per chi è più impegnato, si rischia sempre di fare una formazione finalizzata ad acquisire capacità di fare qualcosa: un incontro, un’animazione ecc. Lo studio della teologia ha una finalità di più ampio raggio: esso intende dare al credente disponibile qualche struttura fondamentale per operare un discernimento evangelico, di fede ed ecclesiale in maniera minimamente attrezzata alle grandi sfide dei nostri giorni. Studiare un po’ di teologia, quindi, è un investimento a lungo termine, sia per i singoli – che ne avranno sicuramente da guadagnarci – sia per le parrocchie – che possono solo beneficiare da un investimento a lunga scadenza. A questo proposito, sarebbe bello che per ogni parrocchia non ci fossero solo dei singoli a frequentare questi corsi, ma magari un piccolo gruppo, in modo che possa diventare anche un’esperienza condivisa e da riportare nella propria comunità.

Credo che la scelta molto forte e voluta del vicariato ovest di avere una sede nel proprio territorio vada in questa direzione.

La seconda domanda che a qualcuno potrebbe saltare fuori è la seguente: e che cos’à la teologia fondamentale? Beh, per questa risposta… vi rimandiamo al corso! Possiamo solo dire che è la disciplina che si interroga su come si fa a rendere ragione della speranza che è noi (cfr. 1Pt 3,15).

Rendere ragione della speranza è la sfida delle sfide, come vedremo. Il papa stesso ci ha richiamati nelle ultime due encicliche alla dimensione della speranza e alla dimensione di una carità fattiva. Bisogna cioè sperare e credere in maniera che sia credibile la testimonianza del nostro amore. La teologia fondamentale prova a capire quali sono le sfide di oggi e quali sono stati i percorsi della chiesa nella storia per corrispondere a questa responsabilità.

In genere, un corso di teologia riserva piacevoli sorprese, anche per la propria fede.

Speriamo vivamente che questa occasione possa fare riscoprire anche la gioia, l’entusiasmo e la convinzione di essere credenti.

Don Davide




Generazione Selfie

Una fotografia dei giovani a fine estate non può trascurare la canzone di Lorenzo Fragola e Arisa dal titolo Generazione Selfie, che ha imperversato in tutte le spiagge e in tutte le radio accese nei giorni del solleone. Perché i giovani scattano i selfie e, a dire la verità, anche i meno giovani, gli adulti e qualche anziano, secondo quel principio contemporaneo che tutti tendono a ciò che è giovanile.

Una coincidenza interessante accompagna queste considerazioni, almeno per chi si sta impegnando in questi giorni a programmare l’attività pastorale dei gruppi nelle proprie parrocchie. L’Azione cattolica italiana, infatti, ha proposto come immagine guida dei sussidi dei ragazzi proprio quella della fotografia, con lo slogan: “Pronti a scattare”. Metafora ricchissima, ci basti pensare che, quando Gesù raccontava le parabole, faceva la stessa operazione di un bravo fotografo: fissava una realtà che era davanti ai suoi occhi, osservandola sotto una particolare luce e con una specifica angolatura e messa a fuoco. Se avesse avuto in mano una Canon, o uno smartphone, avrebbe scattato una foto.

Il selfie è più bello

Sono stato testimone qualche giorno fa della passione per i selfie. Un gruppo di ragazzi ammucchiati decide di farsi una foto, più precisamente un selfie, con lo sfondo delle Dolomiti. Inquadratura impossibile, loro sono troppi, il telefono a distanza di braccio è troppo vicino e l’orizzonte invisibile. Dico: “Dai ragazzi, ve la faccio io la foto!”. Risposta: “Ma il selfie è più bello!”.

Il selfie è più bello?! Dal punto di vista tecnico non c’è una sola ragione che renda un selfie più bello di una foto scattata da un altro. Inoltre, l’elemento paradossale è che, a dispetto del titolo, che si è imposto come una sorta di consacrazione del selfie, la canzone di Arisa e Fragola esprime in maniera intelligente una notevole problematizzazione di quest’esperienza:

«Siamo l’esercito del selfie, di chi si abbronza con l’iPhone,
e non abbiamo più contatti,
soltanto like a un altro post…
Ma tu mi manchi, mi manchi, mi manchi,
mi manchi in carne ed ossa».

A dispetto di tutto ciò, il selfie è davvero in grado di raccontare una generazione o almeno qualche suo riflesso.[1] Che cosa dunque fa percepire il selfie più bello, a parte la moda?

La percezione

Quello che fa la differenza, prima di tutto, è la percezione. Nel selfie c’è la percezione di essere infinitamente più protagonisti di quello che sta accadendo, la convinzione di potere curare se stessi fino a creare un personaggio, la suggestione di mostrare di sentirsi vivi. A ben guardare, è più che altro questione di percezione, ma è appunto questa che fa la differenza. Lo ripeto: la generazione selfie ci insegna che la percezione fa la differenza.

Tutto ciò non è esente da problemi, ma almeno inizialmente dovremmo assumerlo con tutta la serietà del caso. A dispetto della tentazione retorica per cui la Chiesa non si curerebbe della percezione perché baderebbe alla sostanza, dobbiamo preoccuparci di non allontanare i giovani con la prima impressione che diamo. Ambienti brutti, incontri scialbi e quell’alone di non vero interesse per le loro cose: non si può scaricare la colpa su di loro, dicendo che sono superficiali e che non è giusto giudicare frettolosamente. Questo è vero, ma va insegnato di nuovo e non certamente come primo atto.

L’impatto iniziale, immediato, irrazionale, emotivo è il primo ponte gettato verso quel famoso nuovo annuncio di cui ancora stiamo abbozzando i primi passi. C’è un modo altezzoso o trasandato, formale o eccessivamente scialbo che caratterizza ancora un certo stile di Chiesa e degli ecclesiastici che va curato con più attenzione, senso dell’opportunità e bellezza. Non si tratta certo di legittimare la moderna ossessione per l’apparenza, ma di permettere che il processo dell’incontro, che va sempre dall’esteriorità all’interiorità, non trovi ostacoli prima di potere giungere alla meta.

Il primato del dirsi

L’altro elemento che fa la differenza è il primato del “dirsi” piuttosto che dell’essere detti. Il selfie è un modo di raccontarsi in cui l’azione soggettiva (e la successiva possibilità di essere riconosciuti, magari con un «like a un altro post») vale più di tutti gli altri elementi della comunicazione.[2] Pensiamo a Gesù che dilata il dialogo con il giovane ricco per farlo parlare e venire allo scoperto, oppure quando chiede: «Che cosa vuoi che io faccia per te?».

La nostra pastorale, invece, sottovaluta in molti aspetti – talvolta inconsapevolmente, talvolta colpevolmente – questo bisogno. Il famoso metodo esperienziale, che intercetti in modo non banale la loro domanda di vita, è ancora messo in discussione o solo balbettato. I documenti ufficiali, così come molti sussidi catechistici, dicono tantissime cose dei giovani, con il dubbio che li abbiano mai lasciati parlare veramente.

Infine, mentre i viceparroco sono una razza in via di estinzione e le risorse pastorali in favore dei giovani vengono razionalizzate (magari affidando al clero molteplici incarichi), si mantiene saldamente una struttura e un’organizzazione ecclesiale che impedisce in ogni modo ai preti di perdere tempo coi giovani, di ascoltarli e di accompagnarli a lungo.

La mia amara, personale esperienza è il rischio di risolvere le cose con qualche consiglio e poche istruzioni moraleggianti… e così continueranno con i selfie, in scenari ben diversi dai nostri. E qualcuno condannerà ancora la loro autoreferenzialità e lasceremo che Apple, Facebook o qualcos’altro intercettino i loro stili e i loro bisogni.

Il desiderio di avere in mano una reflex

Invece sarebbe bello potere reagire e riuscire a comunicare ai giovani che la foto vogliamo farla insieme, come vogliono loro, ma con una reflex, in modo che si vedano bene i volti, i sorrisi e la luce dei loro occhi, e anche le Dolomiti sullo sfondo, e poi farne un ingrandimento e tenerla tra le nostre cose più care.


[1] [Redazione], Selfie. La cultura dell’autoscatto che racconta una generazione, in Wired 20/11/2017.
[2] A questo proposito è impressionante digitare su Google: “generazione selfie” per vedere quanti articoli molto critici o addirittura catastrofici si trovano scritti dagli adulti, e poi scovare un intervento fresco, positivo e pieno di energia che riporta, guarda caso, la prospettiva dei ragazzi di Radio Immaginaria: vd. F. Taddia, Selfie di una generazione: “Vedrete, diventeremo adulti felici”, in La Stampa 25/08/2017.

Don Davide

 

Testo scritto per SettimanaNews il 12 settembre 2017




Il virus benefico dell'”Estate Ragazzi”

Estate è tempo di centri estivi, un meraviglioso virus che colpisce i ragazzi dopo la scuola, provocando in loro sintomi di incondizionata generosità, serenità, allegria e voglia di vivere che, alle volte, pare soffocata tra i banchi delle loro aule. Perciò, come se fossimo in un laboratorio di microbiologia, procedo in questa riflessione estiva con un’osservazione sperimentale di questo virus di cui i giovani sono portatori sani.

Un’osservazione sperimentale

La scena è quella della verifica delle attività a fine giornata. Li osservi, i ragazzi e le ragazze: sono le 6 del pomeriggio ed è ancora un caldo che ti sciogli e pensi che loro sono stati lì a correre e a giocare con i marmocchi da almeno sette ore. Hanno la maglia lercia, nelle mani residui di vernice, terra e ogni altro materiale utilizzato. Stanno abbracciati gli uni con gli altri, qualcuno poggia la testa sulla spalla di un’amica, qualche sentimento si manifesta in modo palese dalle posture dei corpi.

Non importa se sono ufficialmente impegnati, immorosati (come si dice a Bologna) o fidanzati. Quello che conta è che vivono spontanei; per una volta non hanno timore che il don li rimproveri. Infatti fumano, anche. Non tutti, ma alcuni, liberamente, in questo momento di relax al riparo dei bambini, fumano, recuperando immediatamente la loro tensione all’età adulta.

Nel frattempo si confrontano su come sia andata la giornata, talvolta anche aspramente. Ogni tanto pare che litighino. Il don, che cerca di supervisionare tutto senza ingerire, nutre qualche timore che le cose siano andate male.

Invece, appena i responsabili dichiarano chiuso il momento di verifica, partono le battute, tutti sorridono, arrivano i gelati e le merende, scattano tornei mondiali di calcetto, basket, pallavolo o il mitico schiacciasette. E pronti per una nuova giornata, si riparte.

Tre osservazioni

Da questa esperimento raccolgo alcune osservazioni.

1. Il sudore (che non è mai un problema) dice quante energie i giovani abbiano da tirare fuori. Penso a tre ambiti in cui quest’esperienza contrasta completamente con la vita di fede che offriamo loro.

a) La liturgia. Sembra che non ci sia niente di meno energetico o dinamico di una liturgia cattolica. Talvolta pare quasi che ci si compiaccia di una certa pesantezza e lentezza, come se fosse l’unico modo di elevarsi a Dio, quando invece è l’unico modo di schiacciare un sonnellino. E si vedono le energie dei giovani implodere, come se non desiderassero altro che questa tortura finisca al più presto.

b) Gli incontri di formazione. Più che di incontri, bisognerebbe parlare di modelli: i nostri modelli di formazione sono per lo più teorici, concettuali, mentali. È rarissimo che ci siano delle dinamiche che coinvolgano il corpo in maniera non artificiosa, e diventa quasi impossibile che l’esperienza della fede passi dalla mente al corpo, dalla testa alla vita.

c) La carità. Dovremmo trovare modi e tempi per proporre esperienze attive di carità, roba da fatica di muscoli e sudore sulla pelle. Qualcosa che però faccia poi toccare tangibilmente il frutto di questa fatica: l’incontro con la famiglia per la quale si è fatta la raccolta o l’utilizzo dello spazio che si è andato a risanare.

2. Il gruppo. L’incredibile differenza tra l’impegno dei giovani durante l’anno e quello nei centri estivi è la presenza di un gruppo molto numeroso. In questo fenomeno si riconosce il bisogno di coinvolgimento, ma soprattutto il sentirsi parte di qualcosa di più grande. Allo stesso tempo, si vede la necessità di fare un’esperienza di Chiesa che sia vivace e ampia, non ridotta agli spazi angusti del gruppo parrocchiale, che talvolta – pur con tutto il bene che porta – appare più che altro una riunione di sopravvissuti.

3. La responsabilità. Nelle mie evoluzioni da giovane cappellano (sempre in prima linea, armato di braghini corti, cappellino e t-shirt degli animatori) a parroco (costretto, volente o nolente, a delegare molta responsabilità), ho visto che i giovani, accordandosi fra di loro e guidati da qualcuno appena più grande, sono in grado di fare cose impensabili se solo solo gliele chiedesse il parroco, tipo lasciare il cellulare per un’intera giornata, darsi appuntamento prestissimo al mattino, dividersi fra di loro per essere più distribuiti nel pranzo o nelle varie attività. È il prodigio della responsabilità consegnata, quella molla che ti fa capire che vali, che la tua presenza è importante, che puoi fare la differenza. Forse, da questo laboratorio di osservazione, possiamo quindi anche ricordarci che niente è così decisivo, nella formazione dei giovani e nella loro esperienza di fede, quanto la consegna di un ruolo da protagonisti.

Conclusione

Sono le 8 di sera. Sono passate quasi due ore dall’inizio dell’osservatorio sperimentale. Il don è andato a dire la messa ed è tornato per salutare gli ultimi rimasti. Negli occhi dei responsabili nota la stanchezza, ma anche la soddisfazione per un altro giorno messo a bilancio… e un po’ di questo orgoglio lo condivide con loro. Ancora qualche accordo per una birra o un gelato alla sera, poi tutti si disperdono… “Ciao don, a domani”.

“Ciao, a domani!”. Il portone si chiude e anche il cancello del cortile. “Ehi, sono rimasti fuori i palloni! E i vassoi della merenda?! Quante volte vi ho detto di rimettere a posto i vassoi della merenda!?”. Sbam! Sbatte una finestra del primo piano che non è stata chiusa. “Chi va a chiudere?”. Il don si guarda intorno, ma ormai non c’è più nessuno. “Accidenti!”.

Il virus ormai ha terminato il suo effetto. Almeno per oggi non sono più infetti e, per fortuna, nemmeno perfetti.

Don Davide

 

Testo scritto per SettimanaNews l’8 agosto 2017




La felicità è un’impronta

L’orma del sedere sul divano, o l’impronta del piede sulla strada?

Sembra questa la posta in gioco del papa nella sua partita con i giovani. L’anno scorso, durante la GMG a Cracovia, aveva già parlato della “divano-felicità”: “la tentazione di pensare che la felicità dipenda da un buon divano”. L’aveva definita “la paralisi silenziosa che può rovinare di più la gioventù” e si era lamentato di quei giovani che vanno in pensione dalla vita a vent’anni.

Come un abile giocatore di poker aveva detto: “Ci sto, gioco!”. Aveva messo sul piatto un bel centone e aveva provocato i giovani a raccogliere la sfida. E loro, i giovani, l’hanno fatto. In mille modi, da Cracovia al recentissimo incontro a Milano, hanno risposto all’appello, trascinando il papa a tirare fuori le sue migliori energie, e raccogliendo parole e suggestioni che in più di un’occasione sono parse indimenticabili.

Ma ora che è finito il primo giro, il papa si prepara a vedere le carte. Anzi, rilancia sullo stesso tema: “Maria non era una giovane-divano!” dice nel suo videomessaggio per la Giornata mondiale della Gioventù di quest’anno. Implicitamente, chiede: e voi? Sembra quasi di sentirlo, con la sua tipica inflessione spagnoleggiante: Non siatelo anche voi, dai!

Il montepremi che papa Francesco, come i migliori e più temibili giocatori di poker ha fatto accumulare, è niente di meno che la felicità. Dando come tema il grido di esultanza di Maria che apre il Magnificat: “Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente” (Lc 1,49), ha ricordato ancora una volta ai giovani che non c’è esperienza della felicità possibile, se non restituendo ciò che Dio ha fatto per noi. Non seduti sul divano, ma mossi dall’entusiasmo e dalla gratitudine! Viene in mente la terribile immagine di Nietzsche dell’Ultimo Uomo, “il più spregevole”, quello che siede in poltrona, strizza l’occhiolino e dice: “Noi abbiamo inventato la felicità!” (Così parlò Zarathustra, Prefazione, par. 5). Ci possiamo illudere che la felicità sia lasciare la nostra bella orma calda sul divano, ma non è invece la nostra vita un desiderio quasi inconfessato di lasciare un’impronta? Il papa dice: c’è un modo di farlo bene, con onestà, non schiacciati da inutili ambizioni.

La felicità non è già data una volta per tutte, è itinerante, si scopre nel cammino, cambia di forme, si accompagna all’inedito. La tradizione della Chiesa ci consegna l’Eucaristia come cibo dei pellegrini: nutriti da questo cibo, che ci fa rendere lode e trasformare in salvezza ogni giorno il vissuto quotidiano, siamo invitati a saltare giù dal divano e lasciare la nostra impronta nel mondo.

Don Davide




I giovani, maestri dell'”et et”

Celebriamo la Veglia, che non è breve, con le sette letture in versione integrale e i salmi cantati. Alla fine, ci si ritrova tutti a mangiare una colomba e un uovo di cioccolato. Ben oltre la mezzanotte le due ragazze si avvicinano per salutarmi: «Noi ci fermiamo solo un attimo, perché abbiamo una festa…».

Quattro pensieri

Primo pensiero: «Una festa? A quest’ora?! Dopo la Veglia di Pasqua?!».

Secondo pensiero: «E perché no?!».

Terzo pensiero: «Hanno celebrato la festa con la comunità cristiana. Cosa dovrebbero fare di più? Dovrebbero andare a casa a mantenere il clima spirituale?!».

Quarto pensiero: «Proprio ieri sera, Venerdì Santo, moltissima gente della mia parrocchia è venuta alla Commemorazione della passione di Gesù, e poi è andata a vedere il derby cestistico cittadino…».

Lo confesso: il derby il Venerdì Santo è una condizione limite. Il giovane parroco, che ha la chiesa affianco al Palazzo dello Sport, aveva qualche riserva e non ha ceduto alla tentazione. Ma il resto… perché no?!

Retaggi

In un baleno divento consapevole dei retaggi della mia formazione: alcune cose, solo ad immaginarle, non eri un buon cristiano. E se eri un giovane e volevi essere cristiano, quasi quasi dovevi guardarli un po’ dall’alto in basso quelli che si divertivano veramente… E se proprio volevi essere “moderno” e “vivo”, al massimo pensavi di fare “balotta” (= festa in allegria, nello slang) in parrocchia.

In un baleno, mi si apre anche il cuore: ma che belli questi giovani, che non rinunciano alla Veglia Pasquale, e poi raggiungono i loro coetanei per divertirsi. E magari si trovano a rispondere alla domanda: «Come mai sei arrivato solo ora? Dov’eri?» – «Ero in chiesa, alla Veglia di Pasqua!». E fanno in un secondo quella nuova evangelizzazione riguardo alla quale noi (Chiesa istituzionale) sappiamo solo riempire dei documenti.

Riconosco in questi miei retaggi una tentazione a cui gli operatori pastorali spesso non sanno resistere: quella di fare proposte valide, ma in opposizione alla vita concreta dei giovani. Un esempio lo riscontro nella recente Marcia della pace che si è celebrata nella mia città: la sera del 31 dicembre 2016, occupando dal primo pomeriggio alla sera inoltrata. Era una bellissima iniziativa, e sappiamo che la chiesa celebra la Giornata mondiale della pace il primo gennaio. Ma mi chiedo: c’era proprio bisogno di porre un mare di giovani, appassionati della causa della pace, di fronte alla scelta se festeggiare l’ultimo dell’anno insieme agli amici, magari in cose organizzate da tempo, o partecipare all’evento? Avrebbe davvero perso così tanto di significato farla, ad esempio, il 6 gennaio?! Alla marcia, per nota di cronaca, c’era molta meno gente di quanta avrebbe potuto essercene.

L’uno e l’altro

Si potrebbe definire una regola: l’uno e l’altro, ossia del non creare opposizioni. Un conto è un sano atteggiamento penitenziale il Venerdì Santo, o nei momenti giusti. Un conto è l’arte del discernimento che ci educa – dentro percorsi e sapientemente – alla radicalità della fede. Un conto sono i retaggi.

Allora penso a quel meraviglioso principio della dottrina cristiana dell’et et che regge i migliori dogmi che ci siamo dati, da quello cristologico: «vero Dio e vero uomo», a quello sacramentale: «natura e grazia», fino alle dimensioni pratiche: «misericordia e giustizia».

Ricordo quando ai ritiri spirituali o ai campi estivi non potevi portare la musica… Oggi non c’è minuto della vita di un giovane che non sia accompagnato da una qualche canzone. Ci viene la tentazione di pensare che così siano dispersivi, che non tengano il raccoglimento, appunto… ma è tutto diverso. Magari stanno operando una nuova sintesi e nuovi processi interiori. Sequeri ha scritto che «la musica è il luogo di vero discorso per l’intelligenza degli affetti».[1] Loro elaborano qualcosa di cui i grandi sono analfabeti, e lo fanno da maestri dell’et et, laddove noi, ancora, culliamo nostalgie per l’out out, in nome di una presunta radicalità che non convince.

Quale nuova radicalità, invece, si può trovare in questa capacità di abitare spazi e attraversare mondi diversi? Con una certa naturalezza, loro – i giovani – rendono testimoniale la forma di vita ordinaria del cristianesimo, senza farla percepire importuna e inopportuna, ma anzi con un tratto di amicizia che porta il vangelo in quelle famose periferie dell’umano che, altrimenti, raggiungiamo solo nei nostri proclami pastorali.

Non è questo un modo di vivere l’incarnazione? Un vero segno dei tempi.

Don Davide

 


[1] Sequeri, Gregoriano contemporaneo, in «Luoghi dell’Infinito», n. 169, gen. 2013, 19-23, p. 22.

 

Testo scritto per SettimanaNews il 28 giugno 2017




Il cristiano e la città

Il cristiano non possiede la città, la serve.

Il nemico è l’individualismo

Il cristiano vuole combattere il vero nemico che è l’individualismo, il demone che ci mette gli uni accanto agli altri, ma senza gli altri. L’individualismo rende lontano o addirittura pericoloso quello di cui abbiamo tutti bisogno, il prossimo; oppure ce lo fa accettare solo come lo vogliamo noi e quindi ci fa allontanare chi non conosciamo, facendo crescere l’inimicizia.

Non vogliamo nemmeno un individualismo di campanile o di gruppo, che ci fa credere sufficiente alzare un muro per risolvere i problemi, che non accetta la complessità e la sfida di un mondo che è davvero piccolo e che entra anche nel nostro giardino. Il campanile ci aiuta a collocarci nel grande mondo, ma senza questo ci isola! Quanto sono prive di senso le beghe da campanile! E che responsabilità abbiamo, invece, verso i tanti che soffrono nel mondo! Solo imparando a stare assieme la città degli uomini vive e gli uomini con lei.

«L’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita che indebolisce lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone, e che snatura i vincoli familiari. L’azione pastorale deve mostrare ancora meglio che la relazione con il nostro Padre esige e incoraggia una comunione che guarisca, promuova e rafforzi i legami interpersonali. Mentre nel mondo, specialmente in alcuni Paesi, riappaiono diverse forme di guerre e scontri, noi cristiani insistiamo nella proposta di riconoscere l’altro, di sanare le ferite, di costruire ponti, stringere relazioni e aiutarci “a portare i pesi gli uni degli altri”» (EG 67).

L’individualismo produce nella città degli uomini tante patologie di solitudine. Basti pensare alle dipendenze. Uno degli inganni dell’individualismo è che illude di potere vivere bene da soli. Invece senza la comunità non c’è individuo. E la comunità non è una somma di individui! Non stiamo bene quando siamo isolati. La persona, l’uomo è relazione. Il male ci vuole divisi, magari con tutti i confort, ma individualisti. Anzi. Perché l’uomo è relazione e senza questa si perde, si dispera, si chiude. La Chiesa non vuole una città di individui senza il noi, ma una piazza dove impariamo tutti a riconoscerci ed aiutarci.

Indifferenza, sorella dell’individualismo

L’individualismo ha una sorella: l’indifferenza. Si trucca molto bene. Non la si distingue subito. Anzi. Qualcuno pensa che non la ha «perché soffro tanto» o che basti un po’ di bonomia per dimostrare interesse verso l’altro. L’indifferenza si rivela nel non fare, nell’accontentarsi (per gli altri!), nel difendersi con la logica di Caino: «A me che importa?», «io che c’entro?», «non è possibile!». Non fare niente, anche se con eleganza, fa sempre male!

A volte insinua il banale assuefarsi al dolore degli altri. «Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cf. Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, “zoppi, storpi, ciechi, sordi” (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo» (Discorso di Papa Francesco a Firenze). Piazze e ospedali da campo. C’è bisogno. La folla non può aspettare, ha bisogno di pane.

 

Don Davide




Discorso del Vescovo

Cogliendo la ricorrenza del Corpus Domini, nell’anno del Congresso Eucaristico, vorrei proporre in queste domeniche la lettura di alcune parti del discorso del Vescovo al termine dell’Assemblea Diocesana dell’08/06/2017.

IL CORPUS DOMINI E LA CHIESA IN USCITA

Oggi abbiamo allargato ancora di più il nostro dialogo. E questo è oggi il grande valore di questa Assemblea! Farlo è faticoso, ma è l’unico modo perché cresca tra noi qualcosa di vero e che ci unisca nel profondo.

La comunione è fondamentale per la Chiesa e per la città. Non vogliamo sia solo in alcuni momenti straordinari, come per esempio avvenne nel terremoto o di fronte a tragedie incancellabili come le ferite delle stragi che la nostra città porta.

Siamo nel pieno del Congresso eucaristico, un momento importante, con il quale misuriamo il nostro cammino. Siamo aiutati a contemplare il mistero della presenza di Cristo nell’eucaristia, di Dio che si offre, pane di amore, di vita che non finisce e che insegna a vivere, presenza che orienta e rafforza. Riscopriamo lo stesso corpo nei suoi fratelli più piccoli. Condividiamo il pane del cielo e questo ci aiuta a condividere quello della terra. Nella città si nasconde la presenza di Dio. I cristiani aiutano a svelare questa presenza e la cercano perché quella che contemplano nel mistero del Corpus Domini la riconoscono concreta nel Corpus pauperum e nel prossimo.

San Petronio è il nostro protettore. Di chi? Di tutti! L’amore dei cristiani non filtra mai gli interlocutori, non pone condizioni, fa sempre il primo passo verso il prossimo, non considera nessuno straniero. Tutta Bologna si identifica con lui e con questa sua casa da sempre civica, in un’appartenenza che unisce profondamente la Chiesa e la città degli uomini. La Chiesa non può pensarsi senza la città degli uomini. È il luogo in cui essa vive, potremmo dire, dove trova se stessa. Tutti, anche la Chiesa, capiscono chi sono solo incontrando l’altro e uscendo all’aperto.

Perché Petronio protegge? Non era certo il più potente secondo la logica di forza degli uomini! San Petronio protegge perché discepolo di Cristo, aiuta tutti, non si preoccupa di difendere il suo ma si preoccupa del noi e trasmette quella forza e quella intelligenza di amore che lo Spirito ha donato. Il cristiano non possiede la città, la serve.

[…]

Questa assemblea contiene le piazze di tutte le nostre città e paesi, anche i più piccoli. Tutte le comunità sono importanti e amate. A Gerusalemme i discepoli uscirono sulla piazza ed iniziarono a parlare e rendendosi così conto che sapevano parlare a tutti, che tutti ascoltavano e soprattutto capivano. Certo, all’inizio avevano paura, tanto che stavano chiusi, tra loro. Ci sarà stato chi pensava inutile uscire, che farlo li avrebbe confusi tanto che non avrebbero più saputo chi sono. Qualcuno avrà elencato tutti rischi possibili, i pericoli, invocando la necessità di restare al chiuso come se sono i muri a proteggere e non l’amore. Qualcun altro voleva un programma dettagliato, chiaro, definitivo, sicuro, per paura dell’imprevisto. Qualcuno pensava che il mondo non si meritava nulla, studiava solo le parole per spiegargli gli errori perché andava punito per quello che aveva fatto a Gesù. Qualcuno sperava di continuare le discussioni tra loro, perché prima bisognava finire quell’interminabile ma appassionante confronto su chi fosse il più grande oppure imparare bene quello che è necessario per affrontare la piazza. Qualcuno avrà pensato che tanto tutto era inutile, che non sarebbe cambiato nulla, che era meglio pensare banalmente a quello che li riguardava. Qualcuno si era attrezzato bene dalla finestra e osservava e giudicava tutto e tutti dalla sua stanza.

Lo Spirito, che è l’amore, spinge invece ad uscire. La Chiesa non vuole guardare da lontano, paurosa e orgogliosa allo stesso tempo. Anche se avessimo le idee giuste, senza l’incontro non nasce nulla. E l’incontro riguarda ognuno e tutte le nostre comunità. Se non siamo per strada, se non visitiamo, se non ascoltiamo, se non guardiamo negli occhi, se non tocchiamo, se non ci facciamo carico, non capiamo per davvero, il prossimo non ci capisce. Prossimità per riconoscere l’altro. E perché accada bisogna uscire da quelle mura che sono i pregiudizi, le abitudini, la scontatezza, il narcisismo religioso. Il luogo della comunità è la strada. Lì dobbiamo affrontare gli imprevisti, ma anche troviamo la nostra vera forza, quella per cui ogni incontro diventa grande se siamo piccoli, cioè umili.

Matteo Maria Zuppi,

Arcivescovo di Bologna

 

Continuiamo a proporre il discorso del Vescovo a conclusione dell’Assemblea Diocesana del Congresso Eucaristico, che ha un forte sapore programmatico per la pastorale della Chiesa di Bologna.

DUE NEMICI: INDIVIDUALISMO E INDIFFERENZA

Il nemico è l’individualismo

ll cristiano vuole combattere il vero nemico che è l’individualismo, il demone che ci mette gli uni accanto agli altri, ma senza gli altri. L’individualismo rende lontano o addirittura pericoloso quello di cui abbiamo tutti bisogno, il prossimo; oppure ce lo fa accettare solo come lo vogliamo noi e quindi ci fa allontanare chi non conosciamo, facendo crescere l’inimicizia.

Non vogliamo nemmeno un individualismo di campanile o di gruppo, che ci fa credere sufficiente alzare un muro per risolvere i problemi, che non accetta la complessità e la sfida di un mondo che è davvero piccolo e che entra anche nel nostro giardino. Il campanile ci aiuta a collocarci nel grande mondo, ma senza questo ci isola! Quanto sono prive di senso le beghe da campanile! E che responsabilità abbiamo, invece, verso i tanti che soffrono nel mondo! Solo imparando a stare assieme la città degli uomini vive e gli uomini con lei.

«L’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita che indebolisce lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone, e che snatura i vincoli familiari. L’azione pastorale deve mostrare ancora meglio che la relazione con il nostro Padre esige e incoraggia una comunione che guarisca, promuova e rafforzi i legami interpersonali. Mentre nel mondo, specialmente in alcuni Paesi, riappaiono diverse forme di guerre e scontri, noi cristiani insistiamo nella proposta di riconoscere l’altro, di sanare le ferite, di costruire ponti, stringere relazioni e aiutarci “a portare i pesi gli uni degli altri”» (EG 67).

L’individualismo produce nella città degli uomini tante patologie di solitudine. Basti pensare alle dipendenze. Uno degli inganni dell’individualismo è che illude di potere vivere bene da soli. Invece senza la comunità non c’è individuo. E la comunità non è una somma di individui! Non stiamo bene quando siamo isolati. La persona, l’uomo è relazione. Il male ci vuole divisi, magari con tutti i confort, ma individualisti. Anzi. Perché l’uomo è relazione e senza questa si perde, si dispera, si chiude. La Chiesa non vuole una città di individui senza il noi, ma una piazza dove impariamo tutti a riconoscerci ed aiutarci.

Indifferenza, sorella dell’individualismo

L’individualismo ha una sorella: l’indifferenza. Si trucca molto bene. Non la si distingue subito. Anzi. Qualcuno pensa che non la ha «perché soffro tanto» o che basti un po’ di bonomia per dimostrare interesse verso l’altro. L’indifferenza si rivela nel non fare, nell’accontentarsi (per gli altri!), nel difendersi con la logica di Caino: «A me che importa?», «io che c’entro?», «non è possibile!». Non fare niente, anche se con eleganza, fa sempre male!

A volte insinua il banale assuefarsi al dolore degli altri. «Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cf. Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, “zoppi, storpi, ciechi, sordi” (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo» (Discorso di Papa Francesco a Firenze). Piazze e ospedali da campo. C’è bisogno. La folla non può aspettare, ha bisogno di pane.

 Matteo Maria Zuppi,

Arcivescovo di Bologna

 

Continuiamo a proporre il discorso del Vescovo a conclusione dell’Assemblea Diocesana del Congresso Eucaristico, che ha un forte sapore programmatico per la pastorale della Chiesa di Bologna. – 3° parte.

 ACCOGLIENZA E CONDIVISIONE

Questa sera abbiamo ascoltato anche tanti problemi. Sono sempre nuovi. Noi non vogliamo affatto immaginare una città che non esiste e pensiamo che ogni città degli uomini può cambiare! E parlare dei problemi che ci sono non significa mai minimizzare le cose che facciamo già! Anzi. Siamo consapevoli di appartenere ad una delle regioni del nostro paese e dell’Europa con tantissima storia e più in crescita. L’accoglienza è la nostra forza e ereditiamo tanta sapienza umana e spirituale! […] Questo è il metodo con cui si possono affrontare i problemi. Finite le ideologie non vogliamo inizino i personalismi! E dobbiamo anche dire: quante occasioni sprecate, quando non dialoghiamo e sciupiamo i tanti mezzi per “scarsi e rachitici fini”.

Per noi la città degli uomini non potrà mai essere un luogo anonimo. Al contrario! (EG 210). «Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!».

Bologna e tante nostre città, scusate se insisto ancora su questo, da sempre hanno avuto, anche nella loro stessa caratteristica architettonica, il gusto di essere accoglienti e protettive per tutti, ad iniziare dal forestiero. Humanitas e Dignitas fanno tanto parte di essa. I portici altro non sono che i corridoi di questa casa comune.

Ecco cosa vuole la Chiesa, con fermezza e con tanta vicinanza. Perché Dio è nella città. (EG 71). «La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero, sebbene lo facciano a tentoni, in modo impreciso e diffuso».

Le nostre città sono cambiate. Per certi versi dobbiamo scoprirle di nuovo e interrogarci sul loro futuro e che cosa questo ci chiede! A Bologna ogni dieci anni cambia uno su cinque dei suoi abitanti! Quasi la metà degli appartamenti è abitata da un single. A Bologna risiedono 60.000 stranieri, che lo sono come definizione, ma non possono esserlo per i discepoli di Colui che si riconosce nei forestieri e dice che qualsiasi cosa abbiamo fatto a uno di loro la abbiamo fatta a lui. Ottomila ci sono nati e speriamo abbiano presto regole chiare per diventare anche di diritto quello che sono già, italiani.

C’è tanta mobilità. Ogni anno da Bologna vanno nell’area metropolitana più di 4.000 persone. La mobilità spesso significa anonimato.

Non possiamo accontentarci di risposte burocratiche. Queste sono le più pericolose, perché danno la convinzione, la presunzione, di avere fatto. C’è tanta sofferenza nascosta. La vediamo solo se ci fermiamo, se andiamo vicino, se non la accettiamo come normale o se non aspettiamo solo che passi.

Quante sfide! Quanta insopportabile ineguaglianza. Sentiamo la passione che nasce dalla sofferenza di tanti!

Matteo Maria Zuppi,

Arcivescovo di Bologna

 

Continuiamo a proporre il discorso del Vescovo a conclusione dell’Assemblea Diocesana del Congresso Eucaristico, che ha un forte sapore programmatico per la pastorale della Chiesa di Bologna. – 4° parte.

IL VANGELO CHE POSSIAMO ESSERE NOI

Oggi diciamo che le risposte dipendono anche da noi! L’invito di dare da mangiare è rivolto a “voi”. Cioè “noi”. «Voi stessi date loro da mangiare». In un momento in cui è facile credere che il problema non ci riguarda o che debbo pensare a me, la Chiesa vuole dire che sente tutta la responsabilità di trovare il pane per chi ha fame e che lo offre gratuitamente.

La gratuità è una dimensione fondamentale per vivere bene nella città, soprattutto quando sembra che tutto abbia un prezzo e il consumismo ci ha reso tutti più diffidenti e calcolatori. La gratuità non è un problema di mezzi! Mi ha sempre sorpreso l’avarizia dei ricchi! La Chiesa ha sempre solo cinque pani e due pesci, ma crede che solo dividendo il pane si moltiplica. Vorremmo che tutti possano contemplare nelle nostre comunità e nelle nostre persone quel volto di una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza che papa Francesco ha indicato come programma alla Chiesa italiana.

Lo aspettiamo qui a Bologna, in quella che sarà la prima giornata della Parola e la conclusione del nostro CED. La Parola da cui nasce e si ricrea tutto, voce di quel Corpo che contempliamo! Vorremmo che il 1° ottobre ci confermi in questa scelta e vogliamo presentargli una Chiesa così. «Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà. L’umanesimo cristiano che siete chiamati a vivere afferma radicalmente la dignità di ogni persona come Figlio di Dio, stabilisce tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria e l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura», ci chiedeva a Firenze. Farlo inizia da chi resta ai margini. Le nostre comunità possono essere ancora di più una geografia affettiva nella città per tanti che hanno bisogno di protezione e relazione. La Chiesa non pensa affatto in termini buonisti, come quelli che in nome di falsa misericordia fasciano le ferite senza prima curarle; che assistono, ma senza capire e combattere le cause e senza trovare le soluzioni, anche a costo di sacrificio.

Abbiamo bisogno di vere belle notizie! Non sono quelle che hanno gli onori della cronaca, ma quelle che cambiano la vita per davvero. Tutti possiamo dare questa bella notizia. Infatti c’è in ogni uomo il desiderio di essere accolto come persona e considerato una realtà sacra, perché ogni storia umana è una storia sacra, e richiede il più grande rispetto.

Diceva papa Benedetto: «La città, cari fratelli e sorelle, siamo tutti noi! Ciascuno contribuisce alla sua vita e al suo clima morale, in bene o in male. Nel cuore di ognuno di noi passa il confine tra il bene e il male e nessuno di noi deve sentirsi in diritto di giudicare gli altri, ma piuttosto ciascuno deve sentire il dovere di migliorare se stesso!

I mass media tendono a farci sentire sempre “spettatori”, come se il male riguardasse solamente gli altri, e certe cose a noi non potessero mai accadere. Invece siamo tutti “attori” e, nel male come nel bene, il nostro comportamento ha un influsso sugli altri. Spesso ci lamentiamo dell’inquinamento dell’aria, che in certi luoghi della città è irrespirabile. È vero: ci vuole l’impegno di tutti per rendere più pulita la città.

E tuttavia c’è un altro inquinamento, meno percepibile ai sensi, ma altrettanto pericoloso. È l’inquinamento dello spirito; è quello che rende i nostri volti meno sorridenti, più cupi, che ci porta a non salutarci tra di noi, a non guardarci in faccia… La città è fatta di volti, ma purtroppo le dinamiche collettive possono farci smarrire la percezione della loro profondità. Vediamo tutto in superficie. Le persone diventano dei corpi, e questi corpi perdono l’anima, diventano cose, oggetti senza volto, scambiabili e consumabili. La più bella notizia per noi è Gesù. Lui ci insegna a credere e ad essere noi stessi, tutti, una buona notizia di amore per gli altri, per i tanti che abitano la città degli uomini.

Abbiamo bisogno di buone notizie, vere, per combattere la paura e per prevenire il male. Non vogliamo restare prigionieri della disillusione che porta ad accontentarsi e a non cercare il futuro. Siamo in un tempo di paura. I rischi, le minacce, la crisi, i mutamenti. Noi vogliamo costruire oggi quello che saremo domani.

Matteo Maria Zuppi,

Arcivescovo di Bologna

 

Siamo arrivati alla conclusione del discorso del Vescovo all’Assemblea Diocesana del Congresso Eucaristico, che ha un forte sapore programmatico per la pastorale della Chiesa di Bologna. – 5° parte.

 SIAMO SOLO ALL’INIZIO

Il cristianesimo è vicinanza, comunità, popolo, insieme. La missione è incontro e costruzione di amicizia su scenari del mondo che si scoprono nuovi o almeno rinnovati. Vogliamo trasformare deserti in foreste! Quanti deserti nelle città. Avvicinarsi a qualcuno è sempre un rischio, ma anche un’opportunità: per me e per la persona alla quale mi avvicino. Facciamo che non manchi mai la relazione, la prossimità, cioè l’amicizia sociale. Il nostro parlare sia semplice e amico verso tutti. Apriamo il cuore.

La prima bella notizia possiamo essere ognuno di noi, con il nostro sorriso, con la nostra gentilezza, con la visita, con l’ascolto, con l’elemosina, con l’aiuto concreto. Non restiamo sempre ad aspettare, non calcoliamo tutto, non restiamo diffidenti e non ci arrendiamo alle prime difficoltà. Vogliamo città degli uomini dove tutti si comprendano e nessuno sia straniero.

I prodigi della Pentecoste che si possono realizzare sono una solitudine sconfitta, l’abbandono riempito, lo scarto che diventa al centro delle attenzioni, lo straniero che diventa un fratello, un disilluso che rinasce. Questo non è il libro dei sogni, ma proprio i cinque pani che già abbiamo, che non dobbiamo andarci a cercare e possiamo distribuire a tutti.

Niente è impossibile a chi crede! Apri le porte del cuore e il mondo si aprirà all’amore. Non avere paura di sbagliare, non fare nulla è il vero sbaglio. Non cercare subito i risultati. Farlo è già la risposta e l’efficacia! Noi non siamo dei volontari che si sacrificano, ma operai di umanità toccati dall’umanità di Gesù.

Chiesa e città sono compagni di viaggio, che tendono alla stessa meta di salvare la persona. Il dialogo di oggi non è una tattica o una strategia. È la visione del futuro e la scelta di iniziare a costruirlo. Sento la consolazione di vedere già tanti frutti, la conferma del talento che abbiamo e anche di come i cinque pani regalati sfamano tanti e producono frutti di accoglienza, di solidarietà.

Sento l’urgenza di farlo per i tanti che aspettano. Sarà la sfida del nostro futuro. Sento anche la gioia di poterlo fare e di poterlo fare assieme, anche se a volte la fatica e la stanchezza ci invitano a chiuderci. Diceva spesso mons. Capovilla: «Tantum aurora est». Sì, siamo solo all’inizio.

Matteo Maria Zuppi,

Arcivescovo di Bologna




Pentecoste

Pentecoste: si compie la rivelazione della Pasqua e si compie, nel vero senso della parola, un lungo e denso cammino che ha riguardato la nostra comunità.

Vale la pena di ripercorrerlo, perché ha coinvolto quasi tutto il tempo liturgico di Pasqua: le Cresime dei nostri ragazzi, la festa della B. V. della Salute con la processione delle “due” Madonne, i due turni delle Prime Comunioni che ci hanno fatto intenerire e la festa di don Valeriano. Senza contare tutto il “prima”: dall’inizio della Quaresima, in stato di nomadismo, per la messa in sicurezza della nostra chiesa principale, è stato davvero un anno pieno.

E anche oggi abbiamo due cammini che si compiono, segnando un traguardo e un nuovo inizio.

Padre Alberto ci saluta, dopo 17 anni di servizio encomiabile nella nostra comunità. La sua disponibilità parla da sola. Ma soprattutto vorrei sottolineare la dedizione alla Confessione, che per molti era diventata un punto di riferimento sicuro nel proprio cammino spirituale. Padre Alberto ha fatto amare e toccare con mano l’esperienza della riconciliazione a tantissimi di noi, e questo è il regalo più grande che ci ha fatto, di cui non lo ringrazieremo mai abbastanza. Il suo percorso con noi finisce, ma inizia un nuovo ministero, ancora più immerso in presa diretta nella vita pastorale, e noi siamo sicuri che lo Spirito continuerà a ravvivare i tanti suoi carismi a servizio della comunità in cui viene mandato.

Oggi si compie anche il percorso di catecumenato di Ylenia Abigàil, che riceve e celebra i sacramenti dell’Iniziazione Cristiana. Siamo contenti di avere l’onore di accoglierla noi nella Chiesa, attraverso la nostra parrocchia. La gioia di vedere che lo Spirito continua a fare nascere nuovi cristiani è incomparabile. Garantiamo anche a Ylenia la nostra preghiera, e che qui in parrocchia si potrà sentire sempre a casa propria.

L’effusione dello Spirito sulla Chiesa, in questo giorno di Pentecoste, compie spiritualmente anche il cammino del Congresso Eucaristico. Lo Spirito Santo spinse gli apostoli ad uscire dal Cenacolo e a testimoniare Gesù con coraggio e con forza di persuasione. Gli incontri erano diventati un’occasione per la presenza del Regno.

Lo stesso fa lo Spirito con la Chiesa di Bologna oggi e, segnatamente, vogliamo pensare che lo faccia con la nostra parrocchia.

Accogliamo volentieri il dono della pace, con una certa serenità non presuntuosa di avere fatto il nostro lavoro. Ringraziamo il Risorto per la responsabilità di essere una comunità che cerca di riconciliare e di vivere la comunione. Con gratitudine guardiamo indietro e con coraggio avanti, chiedendo ancora la forza e l’entusiasmo per uscire, incontrare e testimoniare.

Don Davide