Il soccorso e la salute

Come sempre, Maria ci spinge a una singolare adesione alla vita della nostra chiesa. Il papa e il vescovo ci hanno ripetutamente detto di uscire dai nostri confini, che preferiscono una chiesa magari un po’ sgangherata, ma che vada fuori, per le strade, e incontri le persone con una testimonianza di fede semplice e gesti di amicizia.

La Madonna, in una duplice veste, aiuta la nostra parrocchia a raccogliere questo invito.

Quest’anno coincidono i due momenti della tradizionale processione della Madonna del Borgo San Pietro, conosciuta anche come Beata Vergine del Soccorso, e la conclusione dell’Ottavario della Madonna della Salute.

Nel 1527, durante l’inizio di un’epidemia di peste, la statuetta venerata nella cappella del Borgo San Pietro venne portata in processione lungo le strade infettate. Al suo ritorno, secondo le cronache, la peste immediatamente scomparve. Il Senato Bolognese allora emise il voto di portare in processione la statua (oggi l’immagine) della Madonna del Soccorso, fino al Borgo del Pratello e all’Oratorio di San Rocco (vicino al quale c’era il cimitero degli appestati e dei lebbrosi), come ringraziamento per essere scampati all’epidemia. Da allora, quella processione, pur sempre più esigua, si ripete ogni anno.

La nostra parrocchia, dal canto suo, usualmente conclude l’Ottavario di preghiera alla Beata Vergine della Salute con una processione.

Si è deciso, pertanto, di unificare i due momenti, e di ravvivare così una delle processioni più antiche della nostra tradizione cittadina. Questa scelta ci spingerà a camminare lungo Via del Pratello, recuperando la storia della nostra città, e offrendo un segno di amicizia semplice a tutti coloro che affiancheremo.

Vorrei, infatti, che non fosse una processione “militante”, ma fraterna e testimoniale: testimoniamo, appunto, il soccorso che ci viene dalla fede, e la supplica per la salute (corporale e spirituale) che tutti cerchiamo e di cui tutti abbiamo bisogno.

In quest’occasione, la nostra parrocchia unita alla comunità del Borgo San Pietro rappresenteranno davvero la chiesa come un ospedale da campo, secondo la nota immagine del papa: un posto dove si cerca un po’ di soccorso per la propria salute e – per chi è più sensibile – per la propria salvezza.

Mi piacerebbe che, oltre la gioia dei palloncini dei bimbi che saranno lanciati al cielo, e i colori dei fiori che saranno regalati come segno di amicizia, lasciassimo dietro ai nostri passi una piccola traccia di gioiosa vitalità per la nostra città.

Don Davide




Le ferite tra le dita

Il Risorto viene ripetutamente incontro ai suoi, riuniti, mostrando loro le mani e il capo con le ferite trasfigurate, per vincere la loro incredulità.

Lo sfortunato Tommaso è l’unico non presente alla prima edizione di questo memorabile appuntamento. Gli altri, e la chiesa dei millenni successivi, gli danno dell’incredulo, perché anche lui vorrebbe vedere e toccare le piaghe del Signore risorto.

È esattamente la posizione degli altri discepoli: loro hanno visto e hanno creduto; Tommaso fa un proclama che potremmo definire “da spaccone”, dice che se non vede e non tocca lui non crede. Ma alla fine, poi, come per tutti gli altri, vedere il Signore risorto che gli viene incontro è più che sufficiente perché sbocci in lui la migliore professione di fede che ci potremmo aspettare: mio Signore e mio Dio.

Quello che chiede Tommaso è di fare anche lui un’esperienza vivida dell’incontro con Gesù risorto, come gli altri che ne avevano già avuto il dono.

Noi abbiamo in mente, grazie a Caravaggio e a molti altri pittori, che Tommaso metta il dito nella piaga del costato di Gesù, ma leggendo il testo del vangelo scopriamo che questo particolare non viene raccontato. Non è così.

Piuttosto che volere mettere noi il dito nelle piaghe di Gesù, è lui che, per vincere tutte le nostre incredulità, mette le sue piaghe fra le nostre dita. Consegna le sue ferite alle nostre mani, perché noi ce ne prendiamo cura.

“Tocca le mie ferite – dice Gesù – e non essere più incredulo, ma credente!”

Se c’è una via per accendere la fede e riconoscere Gesù come nostro Signore, è questa: le sue ferite, che non vengono cancellate nel suo corpo risorto, ma diventano gloriose, sono il peccato che può diventare esperienza di misericordia; sono l’odio che può essere vinto con l’amore; sono la cura per la vita, dove sembrano trionfare le forze di morte; sono la conversione dalla lontananza di Dio alla gioia dell’essere vicini a lui; sono i poveri che vengono accuditi, i malati che vengono consolati, chi ha bisogno che viene aiutato, i ragazzi e i giovani che vengono accompagnati.

Raggiungi le ferite di Gesù con le tue mani; e non avere paura: fra le tue dita non scorrerà il sangue, ma lo Spirito Santo.

Don Davide




L’angelo che smaschera l’inganno

Non ci sono profumi, nel racconto dell’evangelista Matteo. Le donne, diversamente dalla narrazione di Marco e Luca, vanno al sepolcro di buon mattino, all’alba del giorno dopo il riposo del Sabato, perché era il primo momento in cui potevano farlo.

Non sono spinte da adempimenti che rimanevano da fare: sono mosse dalla commozione, dal dispiacere, dall’amore per quell’uomo così caro che era venuto a mancare improvvisamente, nel pieno della sua età, e ingiustamente.

Nel loro intimo pulsavano ancora le ferite provocate dalla violenza, dalle parole aspre e dalla folla sobillante. Avevano bisogno di lenirle, quelle ferite, come quando si va alla tomba di una persona cara per cercare un po’ di conforto, o quando si parla a un’amica per drenare il dolore.

Ma Gesù se n’è già andato, anche se la tomba è ancora chiusa. Tutto quello che accade, nell’intuizione della resurrezione, accade dal vivo: il terremoto, l’angelo che rotola la pietra e che mostra il sepolcro vuoto. Viene in mente l’immagine dei ragazzini di una volta seduti sul muretto dei giardini, mentre aspettano il resto della compagnia per dare una notizia importante. Qualcuno deve avere paura: le guardie che rimangono tramortite; qualcuno no: le donne, che vengono incoraggiate.

La speranza della resurrezione non nasce da qualcosa di speciale, ma da ogni affetto sincero e amorevole che abbiamo per le persone care: questo bisogno di incontro, quest’esigenza di comunione che non può venire meno. Da qui si fa spazio, come un angelo che smaschera l’inganno, un desiderio di vita che incontra risposte.

«Guardate: i sepolcri si svuotano e chi li difende rimane tramortito!

Via! Coraggio! C’è un tempo di vita da vivere e degli incontri, preziosi, che si preparano!».

 Si dirà che Gesù è risorto, e qualcuno avrà fiducia. Lo si testimonierà, e qualcuno crederà. Si cercherà di mettere in pratica l’amore e ogni uomo e ogni donna lo vedranno.

Si potrà raccontare, e anche scrivere, che la morte viene sconfitta.

Don Davide




La felicità è un’impronta

L’orma del sedere sul divano, o l’impronta del piede sulla strada?

Sembra questa la posta in gioco del papa nella sua partita con i giovani. L’anno scorso, durante la GMG a Cracovia, aveva già parlato della “divano-felicità”: “la tentazione di pensare che la felicità dipenda da un buon divano”. L’aveva definita “la paralisi silenziosa che può rovinare di più la gioventù” e si era lamentato di quei giovani che vanno in pensione dalla vita a vent’anni.

Come un abile giocatore di poker aveva detto: “Ci sto, gioco!”. Aveva messo sul piatto un bel centone e aveva provocato i giovani a raccogliere la sfida. E loro, i giovani, l’hanno fatto. In mille modi, da Cracovia al recentissimo incontro a Milano, hanno risposto all’appello, trascinando il papa a tirare fuori le sue migliori energie, e raccogliendo parole e suggestioni che in più di un’occasione sono parse indimenticabili.

Ma ora che è finito il primo giro, il papa si prepara a vedere le carte. Anzi, rilancia sullo stesso tema: “Maria non era una giovane-divano!” dice nel suo videomessaggio per la Giornata mondiale della Gioventù di quest’anno. Implicitamente, chiede: e voi? Sembra quasi di sentirlo, con la sua tipica inflessione spagnoleggiante: Non siatelo anche voi, dai!

Il montepremi che papa Francesco, come i migliori e più temibili giocatori di poker ha fatto accumulare, è niente di meno che la felicità. Dando come tema il grido di esultanza di Maria che apre il Magnificat: “Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente” (Lc 1,49), ha ricordato ancora una volta ai giovani che non c’è esperienza della felicità possibile, se non restituendo ciò che Dio ha fatto per noi. Non seduti sul divano, ma mossi dall’entusiasmo e dalla gratitudine! Viene in mente la terribile immagine di Nietzsche dell’Ultimo Uomo, “il più spregevole”, quello che siede in poltrona, strizza l’occhiolino e dice: “Noi abbiamo inventato la felicità!” (Così parlò Zarathustra, Prefazione, par. 5). Ci possiamo illudere che la felicità sia lasciare la nostra bella orma calda sul divano, ma non è invece la nostra vita un desiderio quasi inconfessato di lasciare un’impronta? Il papa dice: c’è un modo di farlo bene, con onestà, non schiacciati da inutili ambizioni.

La felicità non è già data una volta per tutte, è itinerante, si scopre nel cammino, cambia di forme, si accompagna all’inedito. La tradizione della Chiesa ci consegna l’Eucaristia come cibo dei pellegrini: nutriti da questo cibo, che ci fa rendere lode e trasformare in salvezza ogni giorno il vissuto quotidiano, siamo invitati a saltare giù dal divano e lasciare la nostra impronta nel mondo.

Don Davide




Le Palme, i mantelli, i tappeti

Mentre Gesù entrava a Gerusalemme, osannato come un re, lo coprivano con rami di palma e lo festeggiavano scuotendo rami di ulivo e stendendo mantelli e tappeti al suo passaggio.

Il vangelo non lo dice mai, ma in quel giorno a ridosso della festa di Pasqua, Gesù deve avere pensato, da buon ebreo osservante, anche ad un’altra festa: quelle delle Capanne, che si celebra molto più avanti, in autunno.

Gli ebrei costruivano capanne con rami di palma e frasche, per ricordare di avere dimorato in capanne, durante il cammino nel deserto, e per celebrare i frutti del raccolto.

Osservando quella folla esultante, Gesù deve avere meditato ancora sulla sua vita itinerante – “il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Lc) – un cammino di uscita da se stesso per amare ogni uomo e ogni donna. Deve avere ammirato, con una certa tenerezza, gli effetti di un primo raccolto, che aveva conquistato tante persone, anche se lo deve avere guardato con quella benevolenza che si ha con i bimbi, quando ti raccontano un traguardo precario e solo iniziale.

Forse, in quel momento, gli è balenata l’intuizione di un altro itinerario, dentro e fuori Gerusalemme: dalla sera dell’ultima cena, attraverso la veglia nel giardino degli ulivi e la notte dell’arresto, poi di nuovo dentro al pretorio, di fronte a Pilato, e ancora fuori, nel luogo della crocifissione.

Una folla di tutt’altro segno.

Questa è la settimana dei paradossi.

L’uomo che fa il suo esodo non più nel deserto, ma nella città, e il Dio che viene espulso dal Santuario; l’ “Osanna” e il “Crocifiggilo!”; il Figlio di Dio rifiutato e il “figlio del Padre” (= Bar-abba) redento; l’offerta di sé e la paura; la flagellazione e l’Ecce Homo; la morte e la vita; la notte delle tenebre che risplende come luce.

Entrando a Gerusalemme, Gesù, in realtà, inaugurava la festa di Pasqua, la festa che ricordava l’immolazione dell’agnello e il passaggio del Mar Rosso. Gesù vi entra come Re, per finirvi come Agnello.

In questo abissale e mesto gioco di paradossi, la grande festa cristiana ci ricorda che in un mondo pieno di contraddizioni, dove ancora si fanno le guerre e si uccidono i bambini, nonostante tutto e sempre, con una tenacia irreversibile, noi desideriamo allargare gli spazi dell’amore e servire la vita con gioia pacificata.

 

Don Davide




La Parola che fa rotolare le pietre

Signore Gesù, sembra quasi che tu li sfidi i sepolcri.

I pesi sul cuore, i “non ce la posso fare” e in generale i massi che chiudono le tombe tu proprio non li sopporti.

Sarà forse per questo che ti diverti sistematicamente a farle saltare via, le pietre?

Viene da invidiarti, Signore: a noi non riesce così bene di togliere i macigni.

Ciascuno di noi ti raggiunge, ogni settimana, qualcuno ogni giorno, in chiesa, o con la sua preghiera o con il pensiero. Abbiamo le nostre vite, piene di cose belle, e anche faticose. Alcune le conosco, di altre intuisco solo qualcosa, ma so che possono essere molto pesanti. Ci sono macigni nel cuore e nell’anima.

Sarebbe bello se la tua parola che risuona ci convincesse che ce ne possiamo liberare, o che – portandoli con te – si possono alleggerire. Come disse Francesco d’Assisi quando abbracciò il lebbroso, scoprire che anche ciò che è amaro e insopportabile si potrebbe trasformare in dolcezza di anima e di corpo.

Sai cosa ci impressiona del racconto di Lazzaro? Che quando incontri Maria, sua sorella, ti commuovi come faremmo noi. Come se pensassi che se anche Maria non regge una situazione così – lei che era buona e credente – allora deve essere davvero insostenibile. E quando ti dicono che non c’è più speranza, tu piangi perché per te non può essere così, che la forza dei macigni sia così grande.

Non è il pianto della disperazione il tuo, è il pianto della sfida e della ribellione.

E così, per il tuo amico, ordini: «Togliete la pietra!».

Sento che lo dici a ciascuno di questi amici: togliete la pietra! Sento che lo dici agli educatori per ciascuno dei loro fratelli e sorelle più piccoli: togliete le pietre! Sento che lo ripeti agli adulti, alle famiglie, agli anziani… a chi ha dei sogni e pensa che siano bloccati.

Quando una pietra rotola via dal sepolcro, una vita si rimette in cammino.

Allora ti preghiamo, Signore: se dobbiamo dare nuovo smalto alle nostre liturgie, e valorizzarne le parti, fa che ogni volta che proclamiamo e ascoltiamo la tua parola dall’ambone, che è simbolo del Sepolcro aperto e vuoto, fa che risuoni il tuo ordine: via la pietra!

Per tutti quelli fra noi che hanno del male nel corpo o, peggio, nell’anima: perché possano tirarlo fuori dal buio, trovare qualcuno con cui parlarne, guarirne ed esserne guariti.

Per tutti quelli fra noi che sono nel buio e non vedono via di uscita, perché ci sono massi enormi che sigillano le nostre speranze: facci udire una parola che ci chiami alla vita.

Per tutti quelli fra noi la cui felicità degli affetti più cari è stata ostacolata da un sepolcro vero, da una morte vera: da un lutto. Tu che sei la resurrezione e la vita non solo nell’ultimo giorno, fa sentire fin da adesso la tua presenza concreta: che ci sei, vicino a loro.

Per chi è stato tradito, per tutti i segreti nascosti nei cuori, per le fatiche con le persone che dovremmo amare e che ci dovrebbero amare, per la paura di rimanere soli o di non riuscire nella vita, per le nostre colpe di cui ci vergogniamo e i desideri troppo belli che non abbiamo il coraggio di esprimere, aiutaci a trovare una strada da seguire e un percorso da fare… perché la tua parola ci sciolga e ci lasci liberi di andare.

Don Davide




Contemplare la meraviglia

Dopo l’intermezzo, dovuto, per commentare la presenza della grande rete in chiesa, riprendiamo l’approfondimento di alcuni aspetti della liturgia eucaristica.

Ricordo che siamo nell’anno del Congresso Eucaristico e che nel tempo di Quaresima viene chiesto alle comunità di chiedersi come si possano rendere più partecipate ed autentiche le nostre assemblee eucaristiche.

La consacrazione è il momento più alto della celebrazione dell’Eucaristia insieme alla proclamazione del Vangelo. Dopo il prefazio, che indica il rendimento di grazie specifico per quella celebrazione, inizia la preghiera eucaristica vera e propria. A seconda di quale formula si usi, la consacrazione avviene quasi subito o anche dopo un lungo memoriale e le intercessioni per la vita della Chiesa e del mondo.

La riforma liturgica ha voluto conservare un’indicazione di quando inizia la consacrazione – come forma di particolare riverenza e NON perché siano parole magiche, quasi che potessero valere senza le altre – attraverso il suono delle campanelle, che richiamano – appunto – un’attenzione e una devozione speciale per le parole di Gesù nell’Ultima Cena.

Il primo momento della consacrazione è l’epiclesi, o invocazione dello Spirito Santo sul pane e il vino perché diventino il Corpo e il Sangue del Signore. Quando il ministro dell’Eucaristia stende le mani sul pane e sul vino, è quello il momento in cui l’assemblea è invitata a inginocchiarsi.

È fondamentale, lo ribadisco ancora una volta, capire che non è un momento staccato dagli altri, ma in piena continuità con le parole che vengono dette prima e dopo: tutto il memoriale dell’opera di salvezza e dell’Ultima Cena è la preghiera che ci riporta a quell’unico sacrificio di Cristo, ma questa attenzione speciale riservata alla Consacrazione è come un invito a contemplare le meraviglie di Dio, a vedere il vero miracolo che si compie quotidianamente per mezzo della celebrazione della chiesa, l’unico vero miracolo di cui abbiamo bisogno: la presenza reale del corpo glorioso di Gesù Cristo risorto in mezzo a noi.

Diversamente dall’uso che avveniva prima della riforma liturgica, invece, l’ostensione del pane e del vino consacrati non si sottolinea più con il suono delle campanelle, perché rimane per l’adorazione silenziosa e stupita del mistero che è velato dalle specie del pane e del vino.

Le campanelle si suonano di nuovo dopo che il ministro proclama il “Mistero della fede”, per sottolineare che con la risposta dell’assemblea che si rialza in piedi si conclude l’atto della consacrazione.

Queste sfumature, che potrebbero apparire rubriciste, mirano invece a cogliere il significato spirituale del vertice celebrativo dell’Eucaristia, senza però staccarlo dal resto della celebrazione, affinché possa essere vissuto non solo come atto devozionale, ma di vera partecipazione all’offerta di Gesù, e in piena unità di cuore, di intenti e di sentimenti da tutta l’assemblea celebrante.

Don Davide




Una rete gettata dall’alto

L’immagine della rete è molto usata da Gesù nella sua predicazione: all’inizio della sua predicazione invita i pescatori futuri discepoli a gettare le reti al largo; dopo la resurrezione li invita ancora a gettare la rete in luogo preciso, per una pesca miracolosa; il regno dei cieli è paragonato a una rete che prende ogni genere di pesci…

Le reti, nel vangelo, servono per pescare.

Rientrando in chiesa, dopo i lavori di messa in sicurezza, non si può non notare questa grandissima rete che ci sovrasta offre la massima garanzia di protezione. (C’è da dire, che è proprio un modo per “stare dalla parte dei bottoni”, per dirla in modo proverbiale, perché dopo avere controllato tutte le componenti – crepe, intonaco e cornicioni – e rimosso le parti fragili, abbiamo comunque voluto mettere una rete, per attendere “comodamente” la presentazione del progetto e i grandi lavori di restauro).

Guardare questa rete bianca ci deve richiamare continuamente alla missione della chiesa, fin dalla chiamata dei primi discepoli: “Sarete pescatori di uomini!”.

L’importanza di una chiesa grande, possibilmente bella, è quello di poter essere “pescatori di uomini”: non per mania di grandezza o perché confidiamo nei numeri, ma perché lo spazio sia adeguato all’assemblea liturgica presente in un luogo; perché si possa celebrare insieme e non frammentati in tante celebrazioni; perché ci possano stare tutti quelli che desiderano esserci; perché la messa sia animata, cantata e partecipata nel migliore dei modi.

Allo stesso tempo, in realtà, guardando a questa rete dal centro della chiesa, dove c’è la stella disegnata sul pavimento, mi è venuta in mente un’altra immagine, forse ancora più suggestiva. Noi siamo abituati alla metafora di Dio come Pastore… ma forse possiamo guardarlo, attraverso la rete sopra le nostre teste, come Pescatore.

Un Dio pescatore, che getta lui la rete per pescare gli uomini, perché ci siano tutti, nessuno escluso. Un Dio pescatore, non per imprigionarci in una rete, ma per “pescarci” per il Regno di Dio. Così noi possiamo guardare in alto e pensare a questa rete come una rete gettata da Dio, dall’alto, nel mare del mondo, per “prenderci” per il suo regno, per rapirci nel suo amore e non lasciarci più.

Don Davide




La Consacrazione e la Trasfigurazione

La terza tappa del Congresso Eucaristico ci invita, nel tempo di Quaresima, a riflettere su come possiamo rendere le nostre liturgie più partecipate.

Nell’intenzione del Concilio Vaticano II e della riforma liturgica che ne è seguita c’era in primo luogo, sicuramente, la volontà di affermare che la liturgia è partecipata e celebrata bene quando ne comprendiamo il significato profondo, lo gustiamo e viviamo i vari momenti della celebrazione eucaristica accompagnando con il nostro corpo e il nostro spirito il significato simbolico dei gesti che compiamo.

L’invito del vescovo, quindi, rappresenta una preziosissima opportunità per riscoprire la ricchezza della nostra liturgia.

In questa seconda domenica di Quaresima, nella quale ci guida il Vangelo della Trasfigurazione, vorrei partire da alcune riflessioni sul momento della Consacrazione, a cui seguirà una seconda parte, sempre su questo momento fondamentale della messa, domenica prossima.

Analogamente a quanto succede nella Trasfigurazione, nella Consacrazione noi vediamo nei segni del pane e del vino il corpo glorioso del Signore, così come i discepoli videro nel corpo umano di Gesù la manifestazione della sua gloria.

Mentre abbiamo la sensazione che la Consacrazione sia quasi un momento magico, in cui grazie all’unione di una formula e di un gesto accade qualcosa di incredibile (e in visibile agli occhi), il vero significato della liturgia eucaristica è che la Consacrazione non è affatto un momento a sé, ma è connessa a tutta la grande preghiera eucaristica che inizia dopo il Santo, anticipata dal Prefazio che dice qual è il motivo specifico della preghiera di ringraziamento di quella celebrazione.

Il momento che ci riporta all’Ultima Cena di Gesù e che ci mette alla sua presenza non sono solo le parole della Consacrazione, ma tutta la lunga preghiera memoriale che introduce la Consacrazione stessa e che la segue. A questa preghiera, l’assemblea si unisce dopo il rendimento di grazie finale: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo” con la risposta importantissima dell’ “Amen” che è come il sigillo di un notaio, l’autentica sul fatto che quella preghiera sale dal popolo che celebra al Padre; mentre noi, a quel punto, siamo quasi assonnati o distratti e si risponde “Amen” come riprendendosi da un torpore che ci ha presi per il fatto che in quella lunga parte aveva fatto tutto il prete, ma adesso bisogna destarsi perché “finalmente” tocca anche a noi con il Padre nostro. Niente di più sbagliato, ovviamente.

La Consacrazione è uno dei momenti più importanti della celebrazione, e viene accompagnato con due gesti che ne sottolineano la solennità – il suono delle campanelle e il gesto di inginocchiarsi – ma non bisogna per questo pensare che sia una cosa a parte. È proprio come il cuore pulsante della liturgia, insieme alla proclamazione del Vangelo: ma sappiamo che il cuore dà energia vitale all’organismo eppure sarebbe insignificante senza il corpo che lo circonda.

Don Davide




Tempo di ricominciare

Ogni Quaresima ci rimettiamo al seguito del Signore Gesù. Ogni Quaresima ripartiamo, chiedendo la grazia di seguirlo nella faticosa salita della via crucis, fino al monte della sua croce. Ogni quaresima ripartiamo dal racconto della sua vita offerta, così come hanno fatto i discepoli quando hanno tramandato le prime memorie di Gesù, e rinnoviamo anche noi il desiderio di essere suoi amici.

Ricominciare, spesso, è un sogno. La vita non concede quasi mai di ricominciare, ossia di esaudire il desiderio di riprendere le cose che abbiamo fatto, e correggere gli errori e magari farle meglio. Possiamo andare avanti; ogni tanto abbiamo l’occasione di fare delle svolte, e di cominciare qualcosa di nuovo, ed è la cosa più simile alla possibilità di “ricominciare”.

La grazia di ricominciare ci è concessa solo dentro a quel mistero di salvezza, che è l’anno liturgico con i suoi ritmi, che occupa il tempo e lo ricrea, rinnovandolo. Non è che tornano indietro le lancette dell’orologio, o azzeriamo i calendari, o resettiamo le agende dei nostri telefonini. Ricominciare è una grazia spirituale: è l’irruzione dell’amore di Dio nella nostra vita, che – attraverso la forza creatrice del suo perdono – ci rifà nuovi.

Con il Mercoledì delle Ceneri, noi abbiamo il dono di ricominciare il nostro cammino dietro e accanto a Gesù, per l’ennesima volta nella nostra vita e senza che il Signore ce lo faccia pesare. Forse qualcuno aveva iniziato con grande spinta e si è un po’ stancato; forse qualcuno, dopo un periodo di grande fervore, è stato ferito da tante delusioni e avversità e ha perso la speranza; forse ci ritenevamo bravi, e ci siamo scoperti peccatori.

Coraggio!

È tempo di ricominciare!

Abbiamo la possibilità di rimetterci in cammino. Cosa c’è di più bello che riconoscere con umiltà che abbiamo sbagliato, che abbiamo bisogno di essere ricreati, ma che desideriamo vivere e incontrare il suo amore?

Le Ceneri sono il segno di questo ricominciamento, un segno di conversione, ma nell’amore e con gioia. Possiamo forse ricordare le ceneri della Fenice, che risorge dai propri resti. Ma vorrei dire ancora di più: le Ceneri, che usiamo per l’austero e sobrio rito all’inizio della Quaresima, sono quelle degli ulivi benedetti dell’anno precedenti: un simbolo di pace e di gioia, che preannuncia il mistero pasquale. È bello pensare che nella potenza del perdono di Dio, le ceneri che accettiamo sul capo siano un segno che deriva da un grandissimo gesto d’amore –  il Signore che guarda alla nostra miseria – e che preannunciano il nostro ricominciamento nella luce graziosa del mistero pasquale.

Don Davide