Natale 2016. Il presepe e la carità

Lui non vorrebbe mai che io lo dicessi, ma il presepe che vedete sotto l’altare l’ha disegnato don Valeriano.
A sinistra vediamo il bue, che guarda verso di noi quasi per incoraggiarci. Nonostante la sua mole maestosa, non fa paura a nessuno, nemmeno a un piccolo uccellino che si posa sulla sua schiena. Se ne sta lì acquattato con l’occhio languido a svolgere placidamente il suo compito, non di scaldare il bambino, ma di indicarlo: «Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone» (Is 1,3).
Così anche l’asino sembra accorrere come se fosse in ritardo, affaticato dopo l’ultimo carico e quasi in procinto di inchinarsi con lo sguardo umile al piccolo bimbo.
Appena sullo sfondo, Giuseppe. Sta sempre un passo indietro lui, non ruberebbe mai la scena a Maria e al bambino. Da dietro, veglia su tutti: sulla sua famiglia, ma anche sugli animali. Ha troppa cura della creazione, lui che ha imparato l’arte creativa del falegname. Alle sue spalle, un germoglio, a ricordarci la stirpe regale. E la casa del re, in questa forma semplice, non è dismessa, ma al suo massimo splendore.
Infine, al centro, Maria. Il suo viso emerge dall’oscurità, è definito dalla trasparenza, dalla luce che l’attraversa (questo, a mio parere, è il piccolo grande capolavoro di don Valeriano). È come se tutto il suo essere prendesse sostanza da un’altra sorgente. Mentre ti fissi su lei cerchi il bambino e lo trovi – se guardi bene – fra le sue braccia.

Mi fermo qui, e passo a un altro presepe, diverso, molto meno “tradizionale” ed evidente.

Ci sono le scorte del Banco Alimentare, le sportine ricevute alla Conad per la generosità di tanti, le offerte del cesto della Caritas, i biscotti dei bimbi, i cioccolatini del mercatino; e poi ci sono i pandori e i panettoni e le bottiglie di vino “perché anche le persone che ne hanno bisogno devono fare festa”, e le offerte nelle buste “che mi raccomando, padre, devono andare per la carità e per i poveri…”.
Non è che si voglia ostentare. «Non sappia la tua sinistra quello che fa la tua destra, dice il Signore» (Mt 6,3), ma non è questo il punto.
Non mi ero mai soffermato su questa enorme corrente tesa ad invertire la percezione di un diffuso senso di disinteresse. Non so per quale “oscuro” (è proprio il caso di dirlo) motivo, qualcuno ci vuole convincere che sia così: che la gentilezza sia persa, la gratuità smarrita, e che l’interesse e la solidarietà non stiano più di casa fra noi. Ma non è così.
Forse tutto il bene che circola grazie al Natale è molto perfettibile. Forse non è ancora tantissimo. Forse è ancora poco costante e troppo saltuario. Ma mi sono chiesto: e se non ci fosse? Se non ci fosse tutto questo concreto bene che accade, e non quello ideale, come starebbero le cose?

Sopra tutte queste braccia generose e attraversate in maniera onesta da una sorgente di luce, trovi Gesù. Basta solo cercarlo. Come nel presepe di don Valeriano.

Un affettuoso augurio di buon Natale.

Don Davide




Natale 2016 – messa della notte

LA SIRIA

Secondo la geografia del tempo, Betlemme si trovava in quella regione dell’Impero Romano chiamata Provincia di Siria, anche se non corrispondeva esattamente alla Siria di oggi.

In questo viaggio ideale nella regione di Siria, ci mettiamo in cammino insieme a Giuseppe, quasi chiedendo il permesso di unirci alla sua piccola carovana, composta di una donna incinta e, presumibilmente, di un asinello. Mentre ci avviciniamo le insegne militari si moltiplicano

GIUSEPPE

Io me lo immagino, Giuseppe, concentrato in un profondo raccoglimento. In tutto il Vangelo non dice una parola, eppure è attivo e attentissimo a tutto quello che gli succede intorno.

Credo che ripetesse le parole di Isaia: «Ogni calzatura di soldato e ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati… Ci è dato un bambino… la pace non avrà fine» (cfr. Is 9,1-6).

Voglio fare spazio anch’io, in questa notte, a tutte le guerre. A tutti i bimbi che soffocano nella polvere delle macerie. A tutti i soldati che muoiono e uccidono. A tutte le donne e gli uomini che devono lasciare le loro case e migrare in un altro posto.

Voglio che si levi dal mio cuore un immenso desiderio di pace. Non posso andare in Siria o all’ONU a chiedere la pace, ma posso essere costruttore di pace. A partire da me, dal mio carattere, dal modo in cui mi relaziono, da come mi interesso della politica, dalle scelte che faccio, dallo stile che scelgo. Voglio porre i segni della pace nel dialogo e con le mie azioni.

Non voglio serbare rancore.

MARIA

Di Maria sappiamo invece che serbava le cose meditandole nel cuore.

Penso che alla prima vista dell’Aquila Imperiale abbia cominciato a comporre le tessere del mosaico. Lei, sposata a un uomo della famiglia di Davide; suo figlio, un discendente del re. La promessa dell’angelo e quella preghiera spontanea che le era diventata cara: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52).

Il Magnificat: un inno ribelle di pace. Contro gli stupidi che incrementano le armi nucleari, le vie della pace passano dove le persone più umili svelano una dignità regale.

È più forte un bambino che nasce di una bomba che esplode. Un bambino è vita. Una bomba è solo morte.

Loro si divertono a distruggere, io no. Vigilerò, agirò, ma non permetterò che mi turbino neanche un attimo. Io voglio solo fare crescere. Non trovo nessuna gioia più grande di questa.

GLI OSPITI

Siamo convinti che Maria e Giuseppe non abbiano trovato ospitalità. Ma proviamo a immaginare le cose diversamente: proviamo a rimanere fedeli al testo.

Il racconto ci consegna una sequenza pacata di fatti, senza alcun elemento polemico:

«Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. / Diede alla luce il suo figlio primogenito, / lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, / perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2,7).

Proviamo a pensare che un uomo dorma sulla soglia della propria abitazione, si accorga di una donna, appoggiata al braccio del marito, il volto preoccupato, piegata dal parto imminente. “Venite, siamo in tanti… la casa è strapiena ma…”. Lui si scansa, i piccoletti occupano il suo giaciglio e si fa posto a Maria. Le donne di casa l’aiutano. Quando nasce Gesù e tutto il trambusto si calma, non c’è davvero un centimetro in più in quello spazio. Il bimbo è quieto, la mamma deve riposare, e anche gli altri. Domani si lavora! C’è lì la mangiatoia degli animali; Giuseppe, con l’occhio capace di trasfigurare le cose, la guarda e gli sembra una culla, quasi come quelle che fa lui. Ecco. Pone il bimbo lì sopra. Non ci pensa neanche che sia una cosa grandiosa. I bimbi lo vedono, gli adulti anche. In seguito ai prodigi di quella notte, lo racconteranno.

NOI

La Siria e il desiderio di pace come contesto. Giuseppe, Maria e gli ospiti come esempi di responsabilità sullo scenario del mondo.

A questo punto è come se il racconto, improvvisamente, voltasse pagina.

I messaggeri di Dio fanno capolino per dire che siamo noi a dover continuare la storia. Abbiamo la responsabilità di guidare da davanti e di vigilare da dietro questo mondo, come i pastori, certi che possiamo assolvere al nostro compito lavorando in pace.

Don Davide




Come gli abissi più belli dei mari

Capita di essere trasferito dalla parrocchia dopo otto anni, e una ragazza che sapevi brillante – certo – ma che era stata quasi nascosta fino ad allora, ti scrive una lettera mozzafiato dove recupera le esperienze condivise, la vita imparata, le parole ascoltate e i passaggi in cui si è sentita accompagnata.

Capita che un gruppo di ragazzi proponga al proprio parroco un’attività; questi è entusiasta e scettico allo stesso tempo: la cosa è bellissima, ma riusciranno ad organizzarsi e a portare avanti l’impegno? Arrivano suggerimenti, loro però sono autonomi, hanno un progetto e le energie per realizzarlo, incassano il permesso ufficiale e declinano gli altri aiuti ringraziando con garbo, guardando l’affettuoso prete come un nonno partigiano che volesse insegnare ad usare l’iPhone 7 al nipotino.

Capita che un giovane prete si ricordi, a una fermata dell’autobus, di dovere benedire i nuovi capi squadriglia. Invece di «ciappinare o uozzapare col telefono» (cit.) si lancia in una versione Facebook delle grandi benedizioni bibliche sul cosmo e sulle persone.

Un tesoro da non sprecare

Sono solo tre esempi, ma chiunque abbia vissuto un’esperienza rivolta ai giovani con un incarico educativo o un ruolo pastorale – e abbia conservato quella minima capacità di stupirsi che si prova di fronte al mare o a una montagna incantata dalla neve – ha potuto intravedere un patrimonio di ricchezze infinito, uno scrigno dell’interiorità che andrebbe valorizzato.

Spesso, infatti, si tratta solo di un riflesso, un indizio in una caccia al tesoro, ma la sorgente di quel bagliore si trova in un luogo assai più profondo, e rischia di rimanere nascosta. Questa è la sfida pastorale: un tesoro non rinvenuto si spreca, come un capitale investito male, che non si può usare e si logora. Tante volte sembra che non ci sia, solo perché quando vi abbiamo inciampato sopra, non abbiamo fatto come l’uomo della parabola evangelica e non siamo andati a vendere tutto, per comprare quel campo e dissotterrare il forziere (cf. Mt 13,44).

Non sarebbe questa un’esperienza del Regno, fatta con i giovani e non ai giovani? Un simile capitale andrebbe portato alla luce e incoraggiato nel vivace contesto della liberalità giovanile, e non frustrato dentro richieste di piccolo profilo, preoccupazioni moralistiche o moraleggianti di buon costume e sforzi di contenimento parrocchiale.

Baricco, in Emmaus, critica un certo modello dei ragazzi cristiani: «Il senso di colpa, sempre. Siamo dei disadattati, ma nessuno vuole accorgersene. Crediamo nel Dio dei Vangeli».[1] Bisognerebbe riuscire a rendere evidente che non è così, che la Chiesa può essere un esempio – nei gruppi, attraverso le proprie iniziative e persino nella liturgia – della capacità di dare rilievo, spessore e maturità all’interiorità bella che cova nei giovani, per i credenti e per tutti.

L’interiorità dei giovani

Sento di poterlo dire con una certa convinzione. La realtà è questa: l’interiorità dei ragazzi come gli abissi più belli dei mari. Tutto il resto è retorica.

La retorica del “non ci sono più i giovani di una volta”; la fastidiosa autogiustificazione quando li accusiamo di essere attaccati al telefonino o ai videogiochi, perché non li sappiamo integrare in una conversazione; la nostra endemica incapacità di non giudicare, non svalutare, non snobbare, non liquidare le loro ragioni e le loro domande (non parlo dell’atteggiamento tutto melassa e smorfiette che si ha con i bimbi, ma della capacità di riconoscere l’intelligenza emotiva dei ragazzi).

Anche quando si manifestano delle durezze, una forza di opposizione invincibile o delle superficialità, sono convinto che per i ragazzi, ossia in quella fase in cui i giovani si affacciano per la prima volta alla loro giovinezza, sia sempre il riflesso di qualche sensibile – alcune volte troppo sensibile – esperienza interiore.

Germoglio del Regno

Come gli abissi più belli dei mari, così l’interiorità di questi giovani “mondi” – che non ha sempre tutte le parole per dirsi e l’esperienza per farsi – non viene vista e, talvolta, nemmeno percepita da molti. Bisogna avere il coraggio di immergersi in queste acque, come dei sommozzatori dell’anima. Si scende quasi in apnea, perché appena respiri tu, finisce l’incanto loro; come le barriere coralline, che non le puoi toccare, ma solo custodirle, farle risplendere, attendere un tempo lungo perché diventino lo splendore che sono.

Forse, la parabola del seme che cresce da solo (cf. Mc 4,26-29) si riferisce in modo particolare a quella singolare esperienza del Regno che si genera nel cuore dei giovani, quando la loro interiorità e la loro sensibilità – per vie nascoste ed impossibili da seguire – cresce; quando si innamorano di un verso di una poesia o di una canzone, o vergano di getto una pagina di diario, o sognano di scrivere un libro, o si perdono suonando una musica, o si appassionano a un film. Come avvenga questo miracolo non si sa, ci ricorda il Vangelo, ma non deve mancare la fiducia che possa accadere e la prontezza di coglierne il frutto.

[1] A. Baricco, Emmaus, Feltrinelli, Milano 2009, 16.

 

Don Davide

 

Testo scritto per SettimanaNews il 22 dicembre 2016




Sì, Signore, sei davvero tu!

In un mondo che non crea posto alla speranza, non crede che ci sia Qualcuno che sa e può donarla, e quindi la considera solo un’utopia, la Chiesa, oggi, terza domenica di Avvento, ci invita alla Gioia:

“Rallegratevi sempre nel Signore, ve lo ripeto, rallegratevi!
Il Signore è vicino.” (Fil. 4,4).

Del resto quale valore può essere dato alla vita se si esclude o ignora il grande dono che Dio ci dà con Gesù? Si può fare a meno di Gesù?
L’arcivescovo Montini (futuro papa Paolo VI) era convinto di no, quando ancora nel lontano 1955 scriveva: “Oggi l’ansia di Cristo pervade anche il mondo dei lontani quando in essi vibra qualche autentico movimento spirituale. Il mondo, dopo avere dimenticato e negato Cristo, Lo cerca. Ma non lo vuole cercare quale è e dove è. Lo cerca tra gli uomini mortali: ricusa di adorare il Dio che si è fatto uomo, e non teme di prostrarsi servilmente davanti all’uomo che si fa Dio…. È una strana sinfonia di nostalgici che sospirano a Cristo perduto; di pensosi, che intravedono qualche evanescenza di Cristo; di generosi, che da Lui imparano il vero eroismo; di sofferenti, che sentono la simpatia per l’Uomo dei dolori; di delusi, che cercano una parola ferma, una pace sicura; di onesti, che riconoscono la saggezza del vero Maestro; di convertiti, che confidano la loro avventura spirituale e dicono la loro felicità per averlo trovato.”.
E forse in questa lunga categoria di cercatori o indifferenti a Gesù ci siamo noi, anche noi.
Forse anche noi cerchiamo conferme, come Giovanni Battista. Ha detto Papa Francesco in un’udienza generale “Il Battista attendeva con ansia il Messia e nella sua predicazione lo aveva descritto a tinte forti, come un giudice che finalmente avrebbe instaurato il regno di Dio e purificato il suo popolo, premiando i buoni e castigando i cattivi… Ora che Gesù ha iniziato la sua missione pubblica con uno stile diverso; Giovanni soffre perché si trova in un doppio buio: nel buio del carcere e di una cella, e nel buio del cuore. Non capisce questo stile di Gesù e vuole sapere se è proprio lui il Messia, oppure se si deve aspettare un altro.”.
E Gesù lo conferma: il suo agire è la rivelazione del Padre, Dio misericordioso che dà inizio alla manifestazione del suo regno.
Scrive Papa Francesco: “Il messaggio che la Chiesa riceve da questo racconto della vita di Cristo è molto chiaro. Dio non ha mandato il suo Figlio nel mondo per punire i peccatori né per annientare i malvagi. A loro è invece rivolto l’invito alla conversione affinché, vedendo i segni della bontà divina, possano ritrovare la strada del ritorno… La giustizia che il Battista poneva al centro della sua predicazione, in Gesù si manifesta in primo luogo come misericordia. E i dubbi del Precursore non fanno che anticipare lo sconcerto che Gesù susciterà in seguito con le sue azioni e con le sue parole.”.
Poi Gesù chiede a chi lo ascolta quale sia la verità di un profeta, che nulla ha a che fare con le mode e stravaganze o la speculazione sul bisogno umano di sicurezza di tanti… anche oggi. Non è facile voltare le spalle alle tante sirene, alle cose di “quaggiù”, cioè alle cose che non hanno uno slancio verso l’amore di Dio. Come ha detto spesso Papa Francesco, dobbiamo infatti mettere in conto che i profeti “sono tutti perseguitati o non compresi, lasciati da parte. Non gli danno posto!”. Solo in quella ‘via stretta’ possiamo capire come il Natale sia una grande gioia e pace, che sorge da una povertà-libertà dalle cose e che noi vediamo invece realizzata nei segni che manifestano ogni giorno, l’amore del Padre per le sue creature, per ciascuno di noi.

(mons. A. Riboldi)




Il microscopio dell’anima

Avevo la tentazione di fare dei bilanci, poi ho pensato che sarebbe come se un bimbo che ha appena cominciato a camminare e a dire qualcosa volesse riflettere su cosa ha imparato dalla vita. No, lasciamo stare i bilanci. Due anni sono troppo pochi. Però è vero che ci sono stati dei primi passi, se vogliamo un po’ goffi, e delle prime parole, che magari vanno precisate.

Questo mi rincuora. Insieme a tutti voi abbiamo camminato e siamo riusciti a dire, almeno inizialmente, come vorremmo essere chiesa in questa via che percorriamo, uno accanto agli altri.

Poi rimane la sorpresa: sì, perché dopo il primo anno uno si guarda intorno e cerca di capire come sia girato; alla fine del secondo, invece, viene da dire: “Wow! Sono ancora vivo! E tutto sommato, sono ancora vivi anche i parrocchiani! Bene, buon risultato!”.

Con grande semplicità, ma sentita autenticità, perciò, ringrazio per questi due anni insieme: per la pazienza di chi l’ha portata e l’entusiasmo che mi ha sostenuto. Desidero continuare il nostro cammino di vita ancora più obbedienti alla Parola di Dio che ci guida, con il desiderio di celebrare le sue lodi e la sua gloria con maggiore passione, con la passione di uscire “fuori” incontro alle persone che desiderano incontrare Gesù, come Francesco (papa) e Matteo (vescovo) ci chiedono ripetutamente.

La liturgia della I domenica d’Avvento ci dà lo slancio: la sapienza del tempo, si apre con una prospettiva mozzafiato. Per la fede nel messia, molti popoli conosceranno il Signore e desidereranno spontaneamente camminare nei suoi sentieri. E gli uomini compiranno il desiderio di ogni utopia: i soldi che vengono spesi per gli armamenti, o per imparare la guerra, saranno spesi per creare strumenti di lavoro e stabilire la pace.

Visione sublime, quanto mai attuale. Gli orrori in Siria sono davanti ai nostri occhi. Mentre prepariamo con gioia il Natale dei nostri bambini, non ci dimentichiamo di quei piccoli, che come Gesù, non hanno nemmeno un’incubatrice, e devono essere scaldati… chissà… magari dal fiato di un asino e un bue. Il Natale, che è vicino, è alle porte del nostro mondo.

Perciò è quanto mai puntuale l’invito a “svegliarsi, consapevoli del momento”. Tutte le letture della fine dell’anno liturgico ripetevano lo stesso ritornello: nei tempi difficili, lì la testimonianza.

Chissà che il silenzio d’Avvento, il desiderio di pace e l’esempio della piccolezza non ci aiutino davvero a cogliere “il giorno” della luce.

Il segreto è il discernimento. In questi giorni c’è un acceso dibattitto all’interno della Chiesa, sull’interpretazione di Amoris Laetitia, l’esortazione post-sinodale promulgata dal papa (in comunione con i vescovi del sinodo) dopo la duplice assemblea sinodale sulla famiglia. Il papa rimanda continuamente al discernimento delle situazioni e chiede questa attitudine abituale al discernimento illuminato dallo Spirito del Signore.

Nell’immagine del vangelo, è ancora il discernimento che al centro. Due saranno allo stesso posto, nella stessa occupazione, con le stesse caratteristiche. Uno preso, l’altro lasciato. Perché? Evidentemente c’è qualcosa “dentro”, che l’uomo non vede, ma Dio sì. Come un microscopio per l’anima.

Chiediamo al Signore che possano corrispondere alla sua volontà il cuore e il braccio, l’intimo e l’azione, affinché possiamo cogliere con gioia un nuovo inizio, con grandi prospettive, ma desiderosi di cogliere il kayros, fin da adesso.

Don Davide




Giovani: il difficile vissuto emotivo

L’ultimo romanzo di Jonathan Franzen, Purity (Einaudi), ha un finale folgorante, nel quale – come solo i grandi autori sanno fare – evoca in poche parole un mondo intero legato ai giovani.

Una scena emblematica

La scena è questa: la protagonista, Purity Tyler, chiamata Pip, dopo molte peripezie ha ricongiunto la madre e il padre che si odiano, per poter disporre di un ingente patrimonio che le spetta di diritto, con cui intende saldare il debito degli studi e aiutare un amico a riprendersi la propria casa. Pip, vincendo le proprie resistenze e difficoltà, ha da poco accettato di stare con Jason, un ragazzo semplice e onesto che le vuole bene veramente; con lui sta aspettando in auto l’esito dell’incontro dei genitori. Qui l’autore scrive: «Pip richiuse la portiera per non fare entrare le parole, ma l’alterco si sentiva anche con lo sportello chiuso. Le persone che le avevano lasciato in eredità un mondo rovinato stavano litigando furiosamente. Jason sospirò e le prese la mano. Lei gliela strinse forte. Doveva essere possibile fare meglio dei suoi genitori, ma non era sicura di riuscirci. Solo quando il cielo riaprì le cateratte, quando la pioggia arrivata dall’immenso, buio oceano occidentale cominciò a battere sul tetto della macchina e il suono dell’amore coprì gli altri suoni, solo allora Pip pensò che forse ce l’avrebbe fatta».[1]

Un mondo consumato

Gli adulti litigano, quello che lasciano in eredità è un mondo consumato, pieno di rovine presenti o future. Esiste la possibilità di fare meglio? E come riuscirci con un fardello sulle spalle? Vengono in mente le severe parole di Gesù: «Guai a voi, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito» (Lc 11,46).

L’asprezza e la nettezza di queste considerazioni raccontano la radicalità del conflitto tra le generazioni in cui i giovani, loro malgrado, sono coinvolti. Non si tratta più delle lotte per l’emancipazione o per le utopie di un mondo nuovo. La frattura di oggi non è attiva, dettata dal desiderio di cambiare le cose; questo aspetto, indubbiamente, è presente, ma è più una reazione di resistenza passiva, come chi sta per soffocare e cerca di respirare, o come uno che deve eseguire un lavoro con strumenti rotti.

Non è che il mondo di oggi sia peggiore di quello di ieri. I giovani di oggi (almeno nella contemporaneità occidentale che ci diamo come punto di osservazione) hanno più diritti, più libertà, più possibilità di quanto non sia mai stato prima, e godono di un rapporto con l’autorità (almeno le autorità “visibili”) più accessibile e dialogico. Tutto questo, però, si colloca in uno spappolamento emotivo senza precedenti – ereditato e che si continua ad aggravare – che è il fardello spesso non riconosciuto da nessuno (adulti o giovani che siano) che grava sulle spalle delle nuove generazioni. Non si intende solo l’ambito degli affetti, ma di tutti quei vissuti emotivi che intrecciano la fatica del vivere e la impastano con il nostro universo affettivo.

Tale sgretolamento emotivo logora anche le cose più semplici, fa apprezzare meno le possibilità che il nostro tempo dischiude e getta in una condizione di instabilità personale nella quale non si riesce ad attingere a nessuna sorgente interiore.

È difficile fare delle generalizzazioni: ci sono molti giovani che hanno migliorato drasticamente le condizioni culturali rispetto ai propri genitori, e indici di abbandono scolastico ancora altissimi; ci sono i giovani che si realizzano nel lavoro con brillanti risultati, e quelli che dipendono o sono bloccati dagli adulti che li hanno preceduti; il futuro che ha cambiato dal segno “promessa” al segno “minaccia” non è tale per tutti, e coglie solo un aspetto del problema.

Uno spappolamento emotivo

Il filosofo Alain Badiou, in un recente saggio dal titolo La vera vita (Ponte alle Grazie), propone una chiave di interpretazione di questa divergenza, affermando che la dialettica in cui vivono i giovani si muove tra due esiti: «la passione di bruciarsi la vita, la passione di costruirla […] il desiderio di una vita che si consuma nella sua stessa intensità e il desiderio di una vita che si edifica pietra su pietra per arrivare a possedere una casa solidamente piantata».[2]

Da una parte, lo slancio faustiano, il desiderio di vivere – in un’esistenza che si presenta senza alcun senso unificato – il maggior numero di istanti più o meno accettabili; dall’altra, lo sforzo architettato di trovare il proprio posto nell’ordine esistente, la somma degli stratagemmi utili al successo, la lotta per sottomettersi meglio di ogni altro al regime vigente. Un esito di ribellione, un esito di adattamento, che partono però da una condizione comune.

Anche quelli che apparentemente si adattano e stanno bene nella situazione presente sono accomunati agli altri dallo stesso spappolamento emotivo: affetti frantumati e parcellizzati, l’esperienza dell’amore completamente disillusa, relazioni costrette dentro la logica della competizione, dell’utilitarismo, del contrattualismo, il tempo del vivere che prosciuga ogni forma di gratuità, ferite che aprono voragini e non guariscono. Perfino la tendenza apparentemente contraria dei padri e delle madri a togliere tutti i pesi ai loro figli, ad appianare la strada caricandosi su di sé difficoltà che invece dovrebbero essere affrontate, risponde alla logica della medesima frantumazione.

I “genitori” di Purity, nel romanzo di Franzen, non sono solo mamma e papà. Sono il simbolo di un mondo precedente e la domanda implicita della protagonista può essere parafrasata: è possibile per un giovane fare meglio del mondo che è stato consegnato? È possibile farlo con un fardello sulle spalle che complica tutto? Nella strada dei giovani si profila una doppia fatica, con il rischio che, prima della meta, si risolva nella rinuncia e, dopo il traguardo, si estremizzi nella rivalsa. Per sostenere questa fatica, che nessuno può loro togliere, quella dei vissuti emotivi è una grammatica che tutti, attingendo alla sapienza creativa delle proprie tradizioni migliori, dovremmo sapere di nuovo imparare.

[1] J. Franzen, Purity, Einaudi, Torino 2016, 655.

[2] A. Badiou, La vera vita, Ponte alle Grazie, Milano 2016, 16-17.

 

Don Davide

Testo scritto per SettimanaNews il 24 novembre 2016




Bisogno di silenzio

La scena del vangelo della solennità di Cristo Re, fa da cerniera tra l’anno appena concluso sotto il segno della misericordia e il nuovo anno liturgico, che riprende con l’invito a una maggiore attenzione alla presenza di Gesù tra noi nell’eucaristia.

Oggi contempliamo Gesù sulla croce, nell’ennesimo atto di misericordia regale, con cui si fa precedere dal suo amico ladro – nuovo amico ed ex ladro – in Paradiso. È come se il suo sguardo, dall’alto, spingesse il nostro e ci invitasse a non dimenticare questo stile di misericordia, e a portarlo ancora e sempre di più nelle nostre vite, perché l’Eucaristia è il modo di Gesù di continuare la sua incarnazione tra noi.

L’apertura del Congresso Eucaristico diocesano è un richiamo a migliorare la qualità delle nostre celebrazioni e farne una sorgente per incarnare l’amore di Gesù nelle nostre giornate.

Sono da poco stato qualche giorno in un eremo camaldolese, dove la preghiera è sobria e raccolta, e la messa estremamente essenziale. In quel contesto privilegiato, ho potuto apprezzare quanto il silenzio fecondi la celebrazione.

Con questo ricordo ancora nell’animo, fermandomi questa domenica davanti alla scena della crocifissione di Gesù, la cosa che più mi colpisce è questa situazione caotica, di grande chiasso e confusione. Le persone che gridano, i sacerdoti che lo provocano, la voce sgraziata del ladro impenitente.

Oggi guardiamo alla croce come a un trono regale, e mi sono chiesto chi mai entrerebbe nel salone del trono di un grande re, con urli e schiamazzi. Di fronte a questo contrasto sentiamo la supplica del ladro pentito elevarsi da un silenzio che, evidentemente, gli ha permesso in un ultimo istante di grazia di capire quello che stava avvenendo. Lì sorge l’atto di fede, lì sorge una preghiera di salvezza, una preghiera che guarisce.

Se dovessi esprimere qual è il senso delle nostre liturgie direi proprio questo: che da un silenzio (prima ancora intimo, che esteriore) posto di fronte a Gesù, sorga un atto di fede schietto, e si possa elevare una preghiera di salvezza che ci cura e conforta in tutti i nostri bisogni.

La gioia della vita cristiana, il senso di comunione e fraternità, l’incoraggiamento a vivere la carità risultano da quel primo e più fondamentale passaggio.

Ho notato con piacere che anche il sussidio liturgico proposto dalla CEI per vivere l’Avvento nelle nostre comunità, fa leva su questa attenzione al silenzio.

Mi propongo, allora, che le celebrazioni dell’Avvento siano uno spazio privilegiato per il silenzio, con alcuni piccoli accorgimenti liturgici che vanno nell’ordine di togliere, e di sottolineare alcune attenzioni, per poi godere della pienezza nella celebrazione del tempo di Natale. In un foglietto a parte da queste brevissime riflessioni, indico quali sono le attenzioni che vorrei provare ad avere, per ora solo per il tempo di Avvento, con il proposito di verificare su quale stile migliore possono istruirci.

Se mi si passa l’esempio, è la differenza tra entrare in vecchio negozietto stile bazar e in un moderno Apple Store. Nel negozio moderno non troverai niente di superfluo, perché possa risaltare ciò che è prezioso. Ecco, nella liturgia noi abbiamo qualcosa di molto più importante che un iPhone o qualche altro strumento. Noi abbiamo qualcosa che non è da usare, ma da godere. E dobbiamo testimoniarlo come il nostro più grande tesoro.

Don Davide




Tra l’Eucaristia e il mondo

Il Congresso Eucaristico Diocesano, che inizia oggi, si apre in mezzo a sconvolgimenti e false promesse messianiche. Abbiamo sempre la tentazione di rifugiarci in qualche sicurezza a basso costo, purché nessuno ci obblighi a interrogarci seriamente sulla storia che, come cristiani, siamo chiamati a vivere e a interpretare.

Invece, tante volte abbiamo l’impressione che il nostro cristianesimo sia inefficace, collocato marginalmente rispetto alle grandi sfide del mondo, incapace a raccoglierne fino in fondo le provocazioni.

La seconda lettura, però, ci propone l’atteggiamento degli apostoli come modello: segnatamente Paolo. Un uomo che, dopo l’esperienza dell’incontro con il Risorto, non è rimasto ozioso. Ha lavorato seriamente per annunciare il vangelo, ma anche custodendo la pace e la tranquillità. Mi sembra che noi abbiamo oggi un esempio di questo stile in papa Francesco, che entra continuamente e con coraggio nei nodi dell’esistenza di oggi, e a farlo con sollecitudine e segnalando l’urgenza, ma allo stesso tempo lavorando con grande serenità e pace. La terribile diseguaglianza delle povertà mondiali; il problema delle migrazioni che – su scala mondiale – è ben più ampio e più drammatico di quello che noi percepiamo nel Mediterraneo; il bisogno di creare ponti e vie di incontro, in un vivere che è sempre più connesso tra tutti i popoli, le razze e le culture, e che si vorrebbe sempre più definire con muri e confini; la questione ecologica seria, per la salvaguardia del pianeta e il diritto di vivere delle generazioni future; l’esperienza di ferite micidiali nel mondo degli affetti personali, che hanno bisogno di essere curate; infine, la percezione netta della misericordia, come unica strada per sanare la rovina dell’esistenza, e collaborare alla redenzione del mondo e all’instaurarsi della nuova creazione di Dio.

Di fronte a tutto questo, Gesù ci dice di non farci spaventare, che non è la fine del mondo – perché “la fine” non sarà quando il mondo sfuggirà dalle mani amorevoli di Dio, ma quando lui deciderà di raccoglierne i destini – e che possiamo invece cogliere tutte queste sfide per dare testimonianza, anche con una certa semplicità e immediatezza.

Il Congresso Eucaristico Diocesano ci offre la sorgente per questo atteggiamento, nella celebrazione dell’eucaristia, che passa dal culto alla vita ordinaria. La tradizione dei Congressi Eucaristici non mette tanto al centro l’adorazione dell’ostia consacrata, come spesso erroneamente si pensa, ma il valore complessivo della celebrazione dell’eucaristia, di cui la Chiesa di Bologna è stata per molti decenni maestra ineguagliata riconosciuta a livello mondiale. I congressi eucaristici, si propongono, infatti, di recuperare il significato dell’atto del celebrare il culto in spirito e verità e in santità di vita, migliorando certamente lo stile della celebrazione, ma anche permettendo di raccoglierne la ricchezza da portare nella propria vita personale e nella pastorale della comunità.

Vorrei perciò, tra le altre cose, provare cogliere questa opportunità, radicandoci nell’essenziale della celebrazione, soprattutto nella celebrazione feriale. Sono appena stato un paio di giorni in un eremo camaldolese, dove l’eucaristia ruota attorno nella maniera più sobria possibile alle due mense: l’ascolto della parola e l’offerta del pane e del vino, in modo che ci sia più spazio per il silenzio (dopo l’ascolto della Parola e un breve commento radicato nella forza dei testi) e per unire la propria preghiera all’efficacia delle parole e dei gesti dell’offerta eucaristica. Non nascondo che alcuni accorgimenti in questa direzione mi sembrano interessanti, e che il tempo del Congresso Eucaristico Diocesano potrebbe essere l’occasione per tentare di caratterizzare ancora meglio lo stile della nostra messa feriale, in modo che anche la celebrazione festiva – che raduna tutta la comunità – possa guadagnarci e offrire la gioia di una preghiera e di una festa vissute intensamente.

 Don Davide




L’amicizia nel nome di Dio

La parabola del fariseo e del pubblicano tocca uno degli aspetti più importanti in assoluto per i discepoli di Gesù e per chi voglia costruire la Chiesa così come lui l’ha voluta.

Gesù si confrontava spesso con i farisei, proprio perché il suo stile era quello di proporre un’autentica interpretazione della Legge; lui stesso, mentre prendeva radicalmente le distanze dai sadducei (i capi del popolo, la classe sacerdotale legata al culto del Tempio), si inseriva piuttosto nello stile dei grandi maestri e interpreti della Torà. Per questo prende un tema fondamentale come quello della santità di vita, che era fortemente legato al bisogno di non “mischiarsi” a chi aveva una condotta lontana dalla Legge, per riorientarlo al suo significato originale, più vero e più giusto.

Il pubblicano sta di fronte a Dio con l’intima presunzione di essere giusto, e disprezzando l’altro. Innanzitutto Gesù vuole correggere questa comprensione della fedeltà ai precetti della Legge come possibilità di autogiustificazione. La fedeltà e la condotta morale, infatti, neanche nelle Scritture di Israele sono un modo per rivendicare dei diritti di fronte a Dio, o per mettersi al pari di lui. Al contrario, se pensiamo al Decalogo e alla promulgazione della Legge a Mosè, sono una via concreta per cercare di custodire l’amore che Dio ha rivelato per il suo popolo e la libertà che gli ha donato. Questa tipica sensibilità risuona, aggiornata, nelle parole di San Paolo ai Galati: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi! State dunque saldi e non lasciatevi dunque imporre il giogo della schiavitù!» (Gal 5,1). Si cerca di fare il bene, dunque, perché siamo consapevoli che questa è una via per custodire quanto di meglio la vita ci può offrire.

In secondo luogo, Gesù ci dice che non si può stare di fronte a Dio da antagonisti con il nostro fratello. È il peccato originale di Caino, che il Signore vuole redimere. La storia di Israele, che attraverso l’Elezione è certamente anche una vicenda di separazione e di scelta, è finalizzata alla comunione di tutti i popoli. Questo esito è precisamente l’evento scatenato dal Messia. Non c’è alcuna possibilità quindi, di schierarci orgogliosamente tra le fila di Dio, quando questo atteggiamento è accompagnato dal disprezzo per chi è “fuori”. Non possiamo presumere che Dio stia dalla nostra parte, se in noi non c’è quell’acuta sensibilità che ci fa sentire partecipi della storia e del destino dei nostri fratelli e sorelle, e voler bene a ciascuno senza limiti né giudizio.

La cosa è tanto più forte in quanto il pubblicano era veramente un peccatore. Commetteva un’azione spregevole conosciuta da tutti, sbagliava pubblicamente. Proprio per questo Gesù dice che bisogna essergli ancora più vicino.

Ma chi è il vero pubblicano? È colui che sta in fondo al tempio battendosi il petto. Non c’è tracotanza, in lui. Solo la conoscenza dei propri limiti, la consapevolezza della contraddizione, l’amara esperienza di sbagliare. Ecco: a tutti costoro, che bevono ogni giorno il calice amaro della propria ingiustizia, Gesù è inequivocabilmente vicino. Ma chiunque non si pente, chi opera il male con superbia, chi pensa di ingannare Dio così come inganna gli uomini, costoro sono come il fariseo. Hanno la presunzione di potere stare davanti a Dio pensando di legittimarsi, invece se ne torneranno umiliati.

Don Davide




Stazione da una camminata

Con gli occhi dietro le colonne degli splendidi portici di Bologna, quasi giocando a nascondino, ho osservato in un pomeriggio qualunque i giovani della mia città. Ho colto quattro aspetti, con la stessa caratteristica delle colonne della volta sotto Palazzo Re Enzo: quello che si dice vicino a una di esse, anche se sussurrato, si ode nitidamente presso quella opposta. Sotto alla volta, inoltre, ci si trova in un incrocio suggestivo, che si apre in tutte le direzioni sul centro storico.

Analogamente, ciascuno di questi quattro tratteggi che vorrei delineare è collegato e rimanda al suo opposto, e definisce uno spazio di passaggio in cui i ragazzi entrano ed escono continuamente, sempre affacciati su tutti i lati della loro vita. Perché “i giovani” non possono essere definiti, né tantomeno inquadrati; si può solo cercare di raccontarli.

Quattro tratti

La prima cosa che balza all’occhio sono i ragazzi seduti sui gradini davanti alla Sala Borsa. Un tempo erano più che altro la scalinata e il sagrato di San Petronio ad accogliere drappelli di chiacchiere amichevoli, ora i cordoni di sicurezza scoraggiano la sosta all’ombra del patrono, e le persone si spostano in un luogo più neutro e più moderno della vita della città.

Da quel punto di vista privilegiato, che permette osservare la piazza, l’incrocio delle vie più importanti del Centro, le Due Torri e, soprattutto, l’Apple Store, sono spettatori del mondo che passa. Non nel senso che sono fuori dai giochi; hanno piuttosto la convinzione di poterlo dominare, non appena lo decidono. Non sono ancora condizionati dalle disillusioni dei trentenni e ostentano un potenziale che chiede di essere scovato… se solo ne fossero consapevoli. Inoltre hanno tempo, non hanno bisogno di correre e così provocano un’invidia tremenda a coloro che col tempo cominciano a farci i conti in tutti i sensi.

Mentre ammiro con nostalgia questa sfrontata sicurezza, mi passa accanto un ragazzino non tanto alto, quattordici anni a dir molto, da solo. Biondissimo e con una faccia ancora da bambino nascosta sotto un’aria tesa, indurita. Non è più nella posizione dello spettatore: ora gli tocca attraversarlo, il mondo, e lo fa a passo svelto. C’è qualcosa di artificioso che mi fa capire che ha paura… La sicurezza di prima cede il passo all’insicurezza e mi sento improvvisamente in sintonia con le sue difficoltà, presenti e future. Ma come possono, i giovani, vivere nella città di oggi? Sono esposti a una complessità che disorienta e schiaccia, e l’età della loro formazione – soprattutto per i più deboli – appare una giungla, una battaglia feroce. Chi li aiuta a gestire la complessità e ad abitarla? Chi è che li protegge, senza risparmiare loro il compito di buttarsi nel mondo?

Mi sposto nel portico di Via Indipendenza. Di fronte ad H&M noto una famigliola: lui e lei, e la figlia. Difficile darle un’età: ha quella curvatura morbida nei lineamenti che tradisce il suo essere adolescente, ma non sai se è la bimba che è passata o la donna appena arrivata, in ogni caso c’è in lei qualcosa di nuovo. Noto la scritta di perline sulla sua maglia: FVCK. E mi si riapre un ricordo di adolescenza, quando a Londra indossai una t-shirt con una parolaccia in inglese e mi beccai una sgridata epocale da mio zio. Ma nella maglietta di questa giovane donna, con la V usata alla maniera latina, la ribellione di una parolaccia scritta sugli indumenti ha qualcosa di originale, un che di sofisticato. Un perfetto mix delle due lingue universali (quella nuova e quella antica), una sintesi di antico e moderno, di ribellione e snobismo. Esteticamente geniale e vincente. Qui, però, non c’è più l’austero e tradizionale zio londinese, ma la coppia di genitori indulgenti e questo contrasto, così vivido in me, mi fa pensare a come sia delicata e appassionante la ricerca di un equilibrio tra vicinanza e distanza, tra complicità e rimprovero, tra spontaneità e sforzo educativo riguardo alla vita dei giovani.

Sono ancora immerso in questo dilemma, quando vengo superato ad ampie falcate da due uomini in erba che si stanno confrontando sulla fine dell’università e l’inizio del lavoro. Mi sembra un déjà vu: il loro linguaggio esprime dubbi d’un tempo, roba che una volta si trattava nei saggi sull’adolescenza: “Non so cosa mi piace di più… Preferisco un lavoretto che mi piace, piuttosto che passare tutta la vita in ufficio dietro a una scrivania… Non voglio rinunciare ai miei sogni in anticipo… E comunque prima che mi paghino ne passa di tempo …”.

Ne passa di tempo

Questa è esattamente la domanda che mi viene: come è stato possibile che la vita dei “giovani” sia diventata così lunga? Com’è accaduto che si studi, ci si formi, poi ti venga chiesta della competenza prima di cominciare a lavorare, o una fideiussione che non ti puoi ancora permettere? Come è stato possibile che gli adulti si siano appropriati impunemente di un’età e un linguaggio non loro, sì che quando uno muore a settant’anni si dice: “Era giovane!”?

Come nel gioco delle quattro colonne, sento il sussurro che viene dalla prima: la vita dei giovani è la vita che tutti vorrebbero. Solo alcuni hanno il coraggio di congedarsi da essa con sapienza. E nella tensione generata da questo conflitto, si giocano molti degli aspetti che potrebbero istruirci concretamente su una Sapienza della vita, del tempo e dei passaggi.

Don Davide

 

Testo scritto per il settimanale SettimanaNews il 21 ottobre 2016