Il cuore incandescente di Dio

La scena del vangelo di oggi è di quelle che ci invitano a vedere oltre: Gesù accoglie immediatamente la supplica di dieci lebbrosi e li esorta a presentarsi dal sacerdote, come prescrivevano la Legge e le usanze sociali. Essendo la lebbra una malattia che aveva influenza nel campo della purità cultuale, infatti, solo il sacerdote poteva attestare i casi di guarigione e riammettere la persona guarita nella società (altrimenti i lebbrosi dovevano stare in disparte) e al culto (da cui i lebbrosi erano esclusi).

Invitando ad andare dal sacerdote, quindi, Gesù chiede agli ammalati di fare un duplice atto di fede: il primo, nella sua parola che ha il potere di guarirli; il secondo, nel fatto che anche se non c’è stato ancora alcun segno, mentre andranno dal sacerdote, la guarigione avverrà. Potrebbero essere ingannati, potrebbero pensare che è una scusa di Gesù per toglierseli dai piedi, invece devono fidarsi. Prontamente, mentre sono in cammino, vengono guariti.

A quel punto, solo uno abbandona la preoccupazione di farsi dichiarare guarito, per tornare indietro a ringraziare Gesù. Non è che i nove restanti abbiano fatto una cosa brutta: hanno messo in pratica l’indicazione di Gesù; la certificazione del sacerdote era indispensabile e dobbiamo pensare a quale dovesse essere il loro entusiasmo, di vedersi guariti e potere finalmente tornare alla vita normale.

Perché Gesù allora sembra così severo?

Le sue parole ci invitano a scrutare ciò che è più prezioso della vita stessa, in quanto ne è la vera sorgente, ciò che ci rende uomini e donne “spirituali” e non solo uomini e donne “animali”: ossia la capacità di riconoscere che la vita è un regalo e possiamo esserne grati. Nel momento in cui percepiamo che qualcosa ci è stato donato, sentiamo vividamente cos’è l’amore. È un amore che guarisce, che sana, che rigenera, ancora prima della salute, del benessere e delle nostre relazioni sociali. Forse possiamo capire meglio di cosa si tratti con un esempio.

Possiamo considerare tutti quei casi in cui la vita “esteriore” sembra sfortunata: problemi di lavoro, relazioni faticose, fallimenti… Siamo tutti talmente presi dall’ansia dell’autorealizzazione (che sembra diventata la nuova parola d’ordine del nostro mondo) da pensare che una vita non “realizzata” secondo i nostri canoni valga di meno. No! Siamo noi uomini che facciamo questa deduzione. Se invece fossimo capaci tenere fermo che l’amore di Gesù non viene meno, e con esso la nostra dignità di figli di Dio, probabilmente genereremmo meno sofferenze, e noi stessi vivremmo più fiduciosamente e sereni.

Mi capita spesso, quando vado a benedire, che le persone mi dicano: “Speriamo che il Signore mi dia un po’ di salute, perché quando c’è la salute c’è tutto!”. Capisco il discorso, ma nell’intimo mi ribello. Perché non è vero: ci sono persone straordinarie, che non godono affatto di buona salute (e neanche di una salute mediocre, a dirla tutta) e persone meschine come poche che sono in perfetta forma fisica. San Paolo scrive una frase folgorante nella Seconda lettera ai Corinzi: «Siamo afflitti, ma sempre lieti; poveri, facciamo ricchi molti; gente senza nulla e invece possediamo tutto, il Signore del cielo e della terra» (2Cor 6,10). Questo è esattamente il senso del Vangelo di oggi: c’è qualcosa di più profondo che caratterizza la nostra esistenza, ed è la consapevolezza dell’amore creativo e rigenerativo di Dio Padre, che si manifesta in Gesù.

C’è da aspettarsi che l’unico che vivrà davvero bene la sua condizione di uomo guarito e rigenerato sia colui che è tornato da Gesù, mentre quegli altri saranno “solo” in salute, senza avere afferrato il segreto della vita.

Oggi la nostra comunità affida il “Mandato” a tutti i catechisti, gli educatori e i responsabili delle attività pastorali della parrocchia. Non c’è altro augurio che possiamo fare di questo: che siano guide capaci di fare vedere oltre, di posare lo sguardo nel cuore incandescente di Dio, dove arde il dono della vita e splende l’amore concreto di Gesù per noi.

Don Davide




Fede o non fede? Questo è il problema

«La fede ci fa essere credenti, la speranza ci fa essere credibili, ma è solo la carità che ci fa essere creduti».

Purtroppo, questa bella sentenza non è mia. L’ho sentita dalla testimonianza dei ragazzi di Castenaso, sabato scorso, durante la consacrazione della loro nuova chiesa, e ho notato con gusto che aveva colpito tutti. La sfrutto, in occasione di questa riflessione domenicale, perché mi sembra una buona sintesi delle letture della liturgia.

Al centro del vangelo c’è la questione della fede. I discepoli chiedono a Gesù di averne un po’ di più, ma lui corregge la loro domanda, ricordando che la fede non è una questione di misura. La fede o c’è o non c’è. Tanto che ne basterebbe la “misura” più piccola che l’occhio nudo riesce a vedere, per vedere la potenza della fede stessa. Invece noi diciamo sempre: “Mi fido, ma non abbastanza”… “Ci credo, ma mi comporto come se non ci credessi fino in fondo”… “So che il Signore è vicino, ma penso che tutto dipenda da me”… Dobbiamo ammetterlo: in questi casi, in realtà, la fede non c’è, perché la fede è un’esperienza sintetica della nostra esistenza, e non può essere vissuta se non integralmente. Diverso è il caso del dubbio, che sta sul piano del razionale, e certo può toccare anche qualche nostra paura. Però io posso avere qualche dubbio, e allo stesso tempo consegnarmi con fiducia, quasi facendo una scommessa.

Nella stupenda prima lettura del profeta Abacuc, invece, siamo incoraggiati ad avere speranza: «E’ una visione che attesta un termine, se indugia attendila…» e subito prima: «Scrivila bene e incidila sulle tavolette…». Il profeta vede l’intervento del Signore a sollevare una condizione difficile come imminente. L’atteggiamento di chi non dispera, di chi guarda al futuro con serena fiducia e con abnegazione per il suo lavoro, è la condizione necessaria perché qualcuno possa cogliere un segno significativo a partire dalla nostra testimonianza.

Infine, la seconda lettura ci ricorda di ravvivare il dono che ci è stato dato, quel dono che caratterizza e orienta la nostra vocazione. Il primo di questi doni è lo Spirito Santo ricevuto nel Battesimo; poi ogni persona sposata e ogni persona che ha dato un orientamento definitivo alla propria vita ha ricevuto questo dono. Per “carità” si intende questo: vivere con amore e con determinazione la nostra chiamata particolare. Non abbiamo ricevuto uno spirito di timidezza, ma di forza! Questo dono lo custodiamo soprattutto donandolo agli altri, mettendolo in circolo e trasmettendolo ai più piccoli, perché davvero se la fede non può non esserci, e la speranza sostiene il nostro sguardo fiducioso al futuro, è solo la carità che condensa il senso della nostra esistenza.

Don Davide




Troppo facile fare i profeti “low cost”….

Le letture di oggi feriscono e non sono per nulla politicamente corrette o rassicuranti. Colpisce la serietà con cui Gesù ci chiede di guardare alla disuguaglianza presente nel mondo, con immagini vivide e alquanto realistiche. Le attenzioni riguardo alle povertà e ai bisogni a cui ci richiamano il papa e il nostro vescovo, che appaiono belle e incoraggianti, e danno un po’ di lustro all’immagine della chiesa, in realtà chiedono una conversione profondissima da parte di ciascuno di noi. Sarebbe troppo facile fare i profeti low cost amplificando le accuse di Amos o mettendoci nella schiera di quelli che non avrebbero mai fatto come il ricco epulone con il povero Lazzaro, ma purtroppo so che non sarebbe autentico. Sento un profondo bisogno di colmare una distanza che è presente prima di tutto in me, una vera esigenza di conversione. Bello che i nostri pastori ci richiamino, ma poi ci tocca fare sul serio!

Invece che dire: “Ecco! È giusto quello che dice Amos, o che dice Gesù! Il mondo è brutto e cattivo! Voi siete brutti e cattivi!”, provo a chiedermi: e chi sarebbe “il mondo”? E chi è rappresentato in quel “voi”? Non sarà che invece il Signore chiede in primo luogo al suo popolo di ascoltare il richiamo presente nelle letture di oggi? Troppo facile dire: “noi che siamo la chiesa, noi che siamo i cristiani, richiamiamo voi – gli altri alle cose giuste”. Sarebbe bello, e forse sentiremmo anche il bisogno di poter dire una parola di rivincita contro “le orge dei buontemponi” che, effettivamente, ci stanno dinanzi. Ma la liturgia di oggi ci spinge a cogliere quale sia la ragione di questo messaggio.

Cos’è che effettivamente sbagliano i “buontemponi”? Cos’è che sfugge clamorosamente al ricco epulone? Mi sembra che sia la consapevolezza di un destino comune. Il ricco epulone non può dire: “Fortunatamente a me va bene, io mangio, mi vesto, non mi mancano i soldi… e pazienza per i poveri Lazzari…”. Questo bene, in una forma o in un’altra finirà. È questo il punto: non è che si voglia fare gli avvoltoi, della serie: “Non vedo l’ora di vedere la tua disgrazia, così impari!” è che il mondo è voluto da Dio con una solidarietà che lega le sue realtà e i suoi membri, e laddove questa manca, tutto viene trascinato nella rovina.

Papa Francesco, in Israele, ha operato con una semplice considerazione un rovesciamento di paradigma. Non cito letteralmente, ma il concetto è questo: durante gli orrori della guerra, e nelle riflessioni che ne sono seguite dopo, ci siamo sentiti in diritto di chiedere per tanto tempo: “Dov’era Dio?”, ma è troppo facile dare la colpa a lui di azioni che abbiamo compiuto noi. Dov’erano gli uomini che hanno venduto la propria coscienza al Male? E dov’erano tutti gli altri che avrebbero dovuto alzare la voce per impedire i massacri? E dove sono oggi gli uomini che si assumono la propria responsabilità, invece che dire: “Perché Dio permette che i bimbi muoiano di fame?”. Dove siamo noi?

Il Signore quindi ci interpella perché non dimentichiamo questa comunione fondante, che sfocia direttamente nel dovere e nel bisogno di solidarietà, comunione e condivisione. Certamente, al contrario di quanto si pensi quando si dice “Dov’è Dio?” con troppa leggerezza, le letture di oggi ci ammoniscono anche severamente che ci sarà un intervento di Dio, il suo giudizio, che sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia. Ben lungi dall’essere uno spettatore imparziale, quasi un legittimatore di quelli che bevono il vino in larghe coppe e vestono abiti smodatamente costosi, il Signore si erge come giudice dalla parte delle vittime e non tollererà la loro esclusione. Nella chiesa si è troppo accentuato il tema del giudizio su singoli atti morali di buon comportamento, al punto che sembra che dire le parolacce sia più grave che depredare il povero o disinteressarsi del misero, ma il giudizio di Dio, ossia il suo intervento nella storia, inequivocabile e severo, si consuma soprattutto quando gli uomini trascurano, escludono o violano altri uomini. Nessuno tocchi Caino, ci ammonisce Dio nella Genesi, ma perché la vendetta è riservata a lui in persona!

Ci sono, tuttavia, anche esempi e stimoli belli, e vorrei concludere con uno sguardo positivo e incoraggiante posato su uno di questi. Insieme a tante altre circostanze, in verità, in occasione della raccolta per il terremoto ho osservato e apprezzato una disponibilità rara ed edificante, e abbiamo raccolto una somma significativa. Magari si poteva fare anche meglio, ma almeno ho l’impressione che non siano solo le briciole che cadono dalla nostra tavola, e questo mi edifica e mi fa essere in dovere, in quanto a servizio della comunione, di ringraziarvi di cuore.

Don Davide




I furbi, chi governa e gli amministratori

È davvero un saggio di attualità la liturgia odierna, la quale ci propone un campionario di situazioni che sentiamo molto vicine.

La prima lettura ci presenta la figura dei “furbi”: quelli che all’esterno, o apparentemente, vogliono apparire corretti, ma poi tramano nel cuore le peggiori empietà. Il pensiero che costoro fanno sulla legge del Sabato è spaventoso: “Vabbè, ci tocca aspettare il Sabato, ma speriamo che passi presto così possiamo tornare a fare gli impostori!”. La loro colpa è di svuotare completamente il valore della rettitudine e che osservano la Legge pensando in realtà che non ci sia un Dio in cielo, o illudendosi che egli non veda. Invece lui giura: «Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere!» (Am 8,7).

San Paolo, al contrario, valorizza al massimo la responsabilità e i suoi significati, al punto da chiedere con insistenza che si preghi per chi è incaricato di governare. Ben lungi dall’essere un conservatore o un difensore dello status quo, Paolo sa che tali incarichi necessitano della più grande serietà, umanità, onestà e competenza; per questo invita i credenti ad accompagnare un compito così importante con la forza della preghiera. La posizione di Paolo è l’esatto contrario di quella dei “furbi”. Non ci deve essere nessun interesse per le proprie cose, nessuna smania di dare sfogo alle frustrazioni o alle proprie preoccupazioni; il governo riguarda il bene di tutti (in positivo) o il male di tutti (in negativo), quindi il cristiano deve tenere lo sguardo fisso sull’opportunità di superare i personalismi per favorire il più possibile il bene.

Nel vangelo, Gesù loda un amministratore “disonesto”. Scelta politicamente scorretta: ce lo immaginiamo cosa succederebbe oggi se Gesù avesse rilasciato una dichiarazione di tal fatta? Sarebbero comparsi titoli del tipo: “Gesù provoca ancora!”, oppure: “Leader carismatico religioso invita pubblicamente alla disonestà” ecc. ecc. Eppure, con una delle sue sagaci parabole, Gesù smaschera la micidiale ambiguità del denaro e ci obbliga a considerare il rapporto ossessivo e deviato che abbiamo con esso: «Non si può servire a Dio e al Denaro» (Lc 16,13).

Questi tre scenari di incredibile attualità mi fanno pensare ad altrettante situazioni in cui la parola di Dio ci edifica: la ripresa delle attività dopo il tempo dell’estate (lavoro, parrocchia, sport, interessi); la scuola; la drammatica recente esperienza del terremoto.

Il compito educativo di tutte le realtà coinvolte nella formazione della persona, dovrebbe essere quello di favorire un’autentica dignità umana e un profilo morale esemplare, non quello della “furberia”. I furbi ci stanno così antipatici perché sono degli “omaruncoli”, dei “poveretti” direbbero i ragazzi, eppure ogni tanto ci lasciamo tentare dal pensiero di “voler fare come loro” (attenzione: non di “voler essere” come loro!), per avere la strada in discesa, e perché ci sembra che rimangano sempre impuniti, che la facciano sempre franca, che cadano sempre in piedi. Ma invece non è così: per dirla con le parole di Gesù: “Non c’è nulla di nascosto che non debba essere manifestato!” (Lc 12,2).

La meravigliosa avventura della scuola, dovrebbe essere per ragazzi e docenti l’opportunità di allargare gli orizzonti al bene comune e al desiderio/bisogno di costruire le basi (culturali ed umane) per assumere incarichi anche gravosi con la massima coerenza e competenza. Sono stato colpito, in questi ultimi giorni, dal botta e risposta su sociale e quotidiani polarizzato intorno a due questioncine di poco conto, ossia sulla simpatica iniziativa di un professore di latino di proporre la traduzione del tormentone dell’estate: “Andiamo a comandare” (se non sapete di cosa si stia parlando, fermato un qualunque giovane per strada e chiedete!), oppure sulla vicenda del papà che non ha fatto fare i compiti al figlio scrivendo la lettera di motivazioni ai professori. Senza entrare nel merito segnalo, come sia facile perdere di vista i veri tesori della scuola e smarrirsi in polemiche di nessun conto.

Infine, l’eterna opera di divisione operata dal Denaro (nome proprio di un dio negativo), mi ha fatto pensare al terremoto recente. Oggi, in tutte le chiese d’Italia, facciamo la raccolta per aiutare le popolazioni colpite, ma attorno al denaro si consumano sempre le crisi e le fatiche: soldi destinati a mettere in sicurezza le strutture spesi per altre cose; sciacallaggi (reali e mediatici) e la grande sfida dell’aiuto alle popolazioni colpite per affrontare l’inverno, la ripresa delle scuole e il lavoro, insieme alla ricostruzione. Non si può servire a Dio e a Mammona, anche in questo caso possiamo decidere chi dei due vogliamo servire.

Don Davide




Ancora la misericordia, nel nome del Padre

Come il canto fermo di una sinfonia, o il ritornello nelle canzoni moderne, ogni tanto il tema della misericordia torna fuori a ricordarci che dobbiamo rimanere intonati su quella nota, se non vogliamo steccare. La liturgia di questa domenica ci richiama in maniera esplosiva a mettere al centro dei nostri vissuti la misericordia di questo Dio, che si fa conoscere principalmente come un Dio che perdona l’infedeltà del suo popolo, un re che gioisce quando un suddito si avvede del suo sbaglio, un Padre che perdona sempre e determinato a rigenerare la vita attraverso questo perdono.

Come siamo arrivati in secoli passati a rendere opaco, o quasi secondario, questo insegnamento è davvero un mistero. Tuttavia, dobbiamo davvero nuovamente radicarci nelle maestose immagini del vangelo di oggi: bisogna sapere e far sapere che il nostro Dio è disposto a fare di tutto pur di riavere ciascuno di noi! E poi ancora che è questo Padre che non si stanca di aspettare, che non dice – come faremmo noi – “questo è troppo”, ma che si compiace di aspettarci per poterci riabbracciare e, infine, di questo Dio che ci spinge continuamente ad accettare i nostri fratelli, a riconciliarci con loro e così, almeno in parte, a sperimentare la “festa della vita”.

Immagino i cavalieri durante un grande torneo medievale, pronti appena sotto la torre del castello, per poi giocare in campo aperto. Sono tutti bardati, hanno indossato le armature più belle e le armi più lucide. Suona la tromba ed essi si riconoscono in quel suono, incomincia l’avventura. Così, per noi, oggi, ciascuno al suo livello e secondo le proprie capacità, ci armiamo delle nostre armi splendenti e migliori. Dal palazzo del Re proviene il segnale: suona la tromba, è il suono inconfondibile della misericordia, è il nostro stile, il nostro vessillo. Andiamo nella nostra avventura con le insegne inconfondibili di una pecorella, di una monetina, di un figlio riabbracciato.

Don Davide




Il preventivo della gioia

Si ricomincia il nostro percorso di comunità, con un invito molto forte di Gesù. Il rapporto con lui dev’essere autentico, dobbiamo avere il coraggio di tenerlo come riferimento decisivo per le attività, per i progetti che vogliamo realizzare, per il nostro stile di chiesa.

Gesù ci sprona a misurare le forze; dunque, la prima considerazione che dobbiamo fare è: desideriamo ascoltare Gesù e provare a modellare il nostro essere cristiani come lui ci propone? È come fare un progetto e un preventivo, per sostenere un impegno importante.

Le tragedie legate al terremoto che ha appena colpito il centro Italia ci mostrano drammaticamente quanto gravi possano essere le conseguenze di una costruzione non fatta a regola d’arte. Mentre ricordiamo le vittime con cordoglio e siamo solidali a tutte le persone colpite con la preghiera e con l’azione, pensiamo anche a un’altra responsabilità che ci riguarda: quella di testimoniare il Signore risorto, vera speranza di ogni ricostruzione e rinascita possibile.

All’inizio di questo nuovo anno pastorale, perciò, vogliamo valorizzare la riserva di energia che è la gioia. Fortunatamente, possiamo attingere alla gioia e l’entusiasmo che ci hanno dato i campi dei ragazzi e dei giovani. Quattro ragazze hanno fatto il campo di formazione nazionale dell’ACR; il gruppo delle superiori è stato a Torino per interrogarsi sul contributo della comunità cristiana alla vita della città; il gruppo ACR è stato al Falzarego per vivere la gioia che il Signore ci dona e per imparare come regalarla agli altri; infine, i ragazzi di 1° media hanno appena trascorso qualche giorno per lanciare il gruppo medie anche per loro.

Vorrei che questa gioia della fede e della comunità fosse davvero il nostro serbatoio per quello che vorremo edificare quest’anno. Sogno che la nostra preghiera, le nostre attività e anche i nostri impegni possano attingere da esso, per rivelare che siamo davvero animati dallo Spirto del Signore risorto.

Penso che sia questa la sapienza che ci invita a ricercare la prima lettura, e anche quella forza autenticamente liberante di cui parla San Paolo, nella Lettera a Filemone.

È in gioco non solo la fisionomia di una comunità parrocchiale, ma la testimonianza che possiamo offrire agli uomini e le donne che abitano il nostro territorio, e anche l’iniezione evangelica che siamo tenuti a dare alla nostra cultura.

Don Davide




L’amore per Gesù

Devo dire che il Vangelo di questa domenica mi ispira in modo particolare. Forse, anche perché sento più intensamente il bisogno di convertirmi nella direzione che ci propone.

A dispetto della formalità e della sontuosità della cena organizzata da Simone il fariseo, la scena è dominata dal gesto di amore di una donna. Un gesto di amore schietto, spudorato, completamente focalizzato sulla persona di Gesù.

Questa donna non dice una parola, non sappiamo neanche i suoi pensieri; quello che possiamo dedurre di lei lo impariamo solo dai suoi gesti. Eppure, dal momento che entra in quella sala (con quale autorevolezza!) è come se riducesse tutti gli altri personaggi – che pure parlano, interagiscono, sembrano protagonisti della scena – a dei semplici comprimari.

Quanto sarebbe bello se noi fossimo capaci di sentire Gesù così al centro, di volergli bene non come a un’idea, ma come a una persona concreta, un amico con cui abbiamo tessuto anni e anni di relazioni e di avventure insieme, uno che ha fatto strada con noi!

Quando penso all’educazione che offriamo ai nostri ragazzi, mi chiedo se, in tutte le cose che facciamo, noi li aiutiamo a conoscere meglio Gesù e a volergli bene: se la nostra pastorale trova le vie giuste per farglielo frequentare e sentire vicino.

Quanto volte, anche nelle nostre liturgie, noi rispettiamo le formalità, e poi – come rivendica Gesù in questa meravigliosa scena – non gli diamo un bacio, non lo abbracciamo, non ci affidiamo a lui con tutto il nostro essere?!

La misericordia di cui parla tanto papa Francesco dipende proprio da questo rapporto con Gesù: in questa pagina del Vangelo è evidente. Chi ama tanto Gesù conosce il perdono e sarà spinto dalla misericordia. Chi non lo ama, e si ferma alle regole formali, non farà mai l’esperienza di sentire il cuore sciolto, lo slancio che non ti fa avere paura, lo sguardo che ti fa cogliere ciò che di bello accade nella tua vita.

Don Davide




La vita alle porte della città

Con un paragone ardito mi verrebbe da leggere la scena del Vangelo di oggi in relazione a due eventi importanti di questi giorni: le elezioni amministrative nella nostra città e l’inizio dell’Estate Ragazzi nella nostra parrocchia.

In questo racconto suggestivo, infatti, Gesù incontra una processione funebre che esce dalla città, e la incontra proprio alla porta, mentre lui – portatore di vita – vi sta entrando. Ho sempre visualizzato la scena come se si svolgesse davanti a una delle nostre meravigliose dodici porte, ad esempio a Porta San Felice.

Credo che sia una questione fondamentale per chi si occupa della polis, della città, con gli incarichi che verranno affidati. Vorrei che tutti si chiedessero: quali dinamiche mortifere “escono” dalla città? E quali forze di vita possiamo portarci dentro? Sarebbe bello se i nostri amministratori potessero avere sempre davanti agli occhi questa scena: una sorta di sfida, sulla soglia di questo meraviglioso agglomerato dove vivono gli uomini e le donne, per farne uscire tutte le potenze mortifere e per iniettarvi invece le migliori forze vitali.

L’altro elemento di confronto è l’inizio dell’Estate Ragazzi. Non posso non pensare a Gesù che con il suo tocco ferma la processione funebre fregandosene delle convenzioni religiose (toccare un morto era un gesto di impurità rituale) e fa rivivere un giovane in uno scenario che “sa di tristezza”. Con l’Estate Ragazzi mi sembra che le cose stiano allo stesso modo. Gesù “tocca” la vita di questi bimbi e degli adolescenti, magari senza troppo seguire le regole del protocollo, e la anima sfrenatamente. A noi adulti, talvolta, “piace” descrivere i ragazzi come svogliati, disinteressati, attaccati solo ai video game e bla bla bla… Poi li scopriamo impegnati per tre settimane, a divertirsi insieme, a seguire dei bambini urlanti, ad arrivare – magari con le occhiaie fino alle ginocchia – alle 8.00 di mattina puntuali nei giorni dopo la fine della scuola.

Ogni tanto ho proprio l’impressione che il rapporto della chiesa coi giovani sia descritto da questo episodio della vita di Gesù: noi siamo un po’ spenti, mesti, forse anche un po’ noiosi e ci lamentiamo che i ragazzi sono “smorti” (“morti” mi sembrava un’affermazione un po’ forte…). L’unica cosa che abbiamo da portare “fuori” è questo clima. Poi arriva Gesù e, con un tocco, fa un casino. So già che qualcuno mi dirà: “Don Davide, non si scrive casino nell’Agenda della Domenica!”. So già anche che qualcuno si lamenterà, puntualmente, perché in queste tre settimane ci sarà un po’ di casino, e non solo si lamenterà nelle ore in cui è doveroso rispettare il riposo e la quiete, ma anche nelle altre… giusto per lamentarsi.

Ma cosa volete farci… non sono io che lo dico… Prima di me l’ha detto il papa, nella cattedrale di Rio De Janeiro ai giovani argentini durante la Giornata Mondiale della Gioventù: ha detto loro, testualmente: “Mi auguro che facciate casino!”. Poi certo, la traduzione ufficiale del Vaticano ha attenuato in un più corretto: “chiasso”, ma il papa ha usato: “casino”. Il papa voleva dire: “Mi auguro che vi facciate sentire, che siate protagonisti della chiesa, che mettiate in gioco la vostra vivacità”.

La cosa più bella di questa scena è che Gesù “prende” metaforicamente questo morto tornato in vita e lo restituisce a sua madre, come a dire: “Io vi restituisco la vita di questi ragazzi. Ora sta a voi farli vivere”.

Ok, Gesù, abbiamo capito. Ci proviamo.

Don Davide




Corpus Domini. Pane e vino

La liturgia in cui tradizionalmente si celebra in modo particolare la grazia dell’Eucaristia, ricorda l’episodio di Melchisedek, che compare fugacemente nel racconto biblico, come simbolo di Cristo. La caratteristica di questa figura è che la sua offerta è semplice: pane e vino, come segni di ciò che è essenziale per vivere (pane) e per rendere gioiosa la vita (vino).

La solennità del Corpus Domini, che una volta esprimeva la fede della chiesa con una certa sfarzosità, oggi ci richiama piuttosto a questo essenziale-per-vivere. Di che cosa abbiamo bisogno realmente? Di nutrirci, perché il nostro organismo cresca; di curarci quando si ammala e di tenerlo un po’ allenato perché il corpo si irrobustisca. Poi abbiamo bisogno di amore, di sentirci protetti e di poter essere istruiti, per dare ricchezza anche al nostro animo. Infine abbiamo bisogno di sentirci utili, di sapere che la nostra vita ha un senso e che la nostra presenza è preziosa.

Lo stesso vale certamente anche per la vita dello Spirito in noi. Se non ci nutriamo degli insegnamenti di Gesù non possiamo crescere e affrontare con sapienza le responsabilità della vita. Se non ci curiamo con la misericordia, le malattie rischiano di infettare il nostro organismo. Se non ci alleniamo con la preghiera, il nostro spirito rimane flaccido, come un corpo senza muscoli. La comunità cristiana è il luogo dove concretamente sperimentiamo l’amore di Dio che ci protegge, e dove possiamo essere istruiti per conoscere meglio Gesù. Infine abbiamo il compito di capire qual è la nostra vocazione, quale sia il nostro compito nel mondo, perché non manchi alla costruzione del regno di Dio il nostro prezioso contributo.

Gesù invita i suoi discepoli, di fronte al bisogno di nutrimento delle folle, di essere loro stessi a provvedere da mangiare. Suona come un grande incoraggiamento, a ciascuno di noi, affinché celebrando la solennità del Corpo e del Sangue di Cristo, noi possiamo essere richiamati a ciò che conta veramente, e allo stesso tempo fare di tutto perché a nessuno manchi ciò che è essenziale, non solo materialmente, ma anche spiritualmente.

Devo dire che in questo giorni ho visto questo impegno, sia in occasione dei sacramenti dei nostri ragazzi, sia in occasione dell’organizzazione della festa della parrocchia: ho visto tante persone, catechisti, ragazzi e volontari dare il proprio servizio e il proprio tempo, perché questo Corpo di Cristo che è la Chiesa possa essere un luogo pieno di vita per tutti, e noi dobbiamo esserne riconsocenti.

Don Davide




La Trinità

Ho provato a immaginare molte volte come dev’essere la vita di Dio nell’intimità della sua casa. Padre, Figlio e Spirito Santo. Se il paragone non risultasse irriverente, me li immagino come tre amici giocatori di poker nel vecchio West, che sembrano concentrati al loro tavolo, ma sono pronti a intervenire se accade qualche guaio nel saloon. Oppure come tre persone importanti, il presidente, il vice-presidente e il capo delle operazioni che seguono da uno schermo in una stanza segreta il corso degli eventi con la responsabilità di orientarli. Sono solo paragoni, un po’ scherzosi. Come recita un principio della teologia: “Quanto più si afferma una somiglianza, tanto maggiore è la differenza”.

Immagino Dio Padre commuoversi per le sorti del mondo, commuoversi di stima e benevola tenerezza per tutto il bene che gli uomini fanno, e commuoversi di un dispiacere da torcersi le budella, per tutto il male che sanno compiere. Vedo Gesù, imprimere, come uno stampatore, il suo volto su tutti gli uomini e le donne, specialmente su coloro che la cui dignità è violata, su quelli che soffrono da soli, sulle vittime che sono disprezzate dagli altri. Infine, non lo vedo, ma lo sento, lo Spirito Santo che dà vita dove non ce lo aspetteremmo. Lo Spirito che quando qualcuno dice: “Si stava meglio quando si stava peggio” suscita sogni nei giovani e nuovi entusiasmi negli anziani; lo Spirito che fa amare, anche quando è difficile; lo Spirito che insegna a disprezzare le ricchezze e a prediligere la condivisione; lo Spirito che suscita uomini e donne pacifici e giusti, in mezzo alla violenza e alle guerre. Lo Spirito che ti fa incantare di fronte a un panorama di montagna, al mare sconfinato, a un fiore in primavera. Lo Spirito che fa sorridere una persona malata e gli fa amare la vita, nonostante tutto.

Oggi non celebriamo le formule complicate che parlano di un’unica sostanza in tre ipostasi (o persone): questo lo lasciamo ai filosofi e ai teologi.

Oggi celebriamo il Dio della storia, che si rimbocca le anime, che ama e che agisce in comunione, che interviene attivamente non a modificare il corso della storia, ma a toccare il cuore degli uomini e delle donne disponibili, per cambiare il mondo.

Quando i ragazzi si innamorano dicono che “hanno una storia”: ecco, noi auguriamo anche ai ragazzi che oggi completano l’iniziazione cristiana con il Sacramento della Cresima, di essere animati dallo Spirito d’amore e non solo di “avere una storia” con questo Dio della storia, ma di “fare la storia” con lui.

Don Davide