Lo splendore di una città

Papa Francesco esorta più volte nella Evangelii Gaudium, ad avere uno sguardo contemplativo sulla città. Oggi siamo aiutati dalla seconda lettura, che ci descrive l’immagine meravigliosa della Gerusalemme Celeste, come se il frutto della fede dei discepoli sia la generazione di una città luminosa e fraterna.

Confessare il Signore risorto significa costruire uno stile della convivenza che valorizzi il bene di tutti e abbia a cuore ciascuno.

Questo è il dono della pace che il Signore ci lascia: una pace per nulla paragonabile a quella che sono in grado di costruire gli uomini, fatta di fragili accordi e di compromessi. Si tratta, invece, di una pace sincera, amorevole, legata all’esperienza di una vita piena e condivisa in maniera gioiosa.

Questa domenica sera c’è la conclusione dell’Ottavario di preghiera in onore della B.V. della Salute e faremo la processione per le strade della nostra parrocchia. La processione sembra un rito antico, quasi obsoleto. Magari in campagna possiamo ancora riconoscerle un valore folcloristico, ma in città ci pare il residuo archeologico di una fede che non c’è più, soprattutto quando qualche ragazzo con un bicchiere di birra in mano guarda il suo passaggio con l’occhio pallato di un pesce lesso.

Invece penso che possa essere ancora un evento tanto bello quanto prezioso, se la immaginiamo come quel gesto pacifico di cui parlavo poco sopra: l’idea di percorrere le strade della nostra città serenamente, ponendo qualche piccolo segno gioioso, e cercando di esprimere uno sguardo attento attraverso la preghiera alle grandi situazioni che ci interpellano.

La processione è un simbolo di riconoscimento di una comunità, è un appuntamento per dire che noi queste strade le abitiamo, senza presunzione di superiorità, senza ostilità, ma con la ferma determinazione di essere attivi protagonisti non solo tra di noi, entro le mura della parrocchia, ma cercando di edificare insieme a tutti.

Per fare ciò, porteremo dei segni: dei cartelli con le frasi più belle e significative di papa Francesco, fatti dai bimbi di II e IV elementare; dei palloncini, che diventeranno il simbolo della nostra preghiera, una preghiera che possa illuminare la notte, lanciati dai bimbi di III elementare; infine, dei lumini, con cui fare risplendere le vie che attraverseremo con il simbolo della pace.

Confido che questo brulicare nella notte, ci aiuti a contemplare lo splendore della città – non solo della nostra, ma più in generale della città “degli uomini” – quel luogo dove si vive insieme e si cerca di imparare la convivialità delle differenze.

E che la preghiera che si è prolungata per otto giorni, possa ottenere per intercessione di Maria, la guarigione del corpo e dei cuori e il dono dello Spirito di unità e di pace, come in una rinnovata Pentecoste.

Don Davide




Come il signore è con noi

«Ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri» (Gv 13,32).

La liturgia di Pasqua si avvicina all’Ascensione del Signore e comincia a farci riflettere su cosa significa il distacco fisico di Gesù dal nostro mondo terreno, e anche come lui continua a essere con noi.

Gesù prepara i suoi discepoli alla sua assenza: doveva essere un momento molto difficile per loro, dopo avere sofferto per la sua morte e gioito per la sua resurrezione, dovevano essere completamente impreparati all’idea di vivere senza di lui, e ancora più per quanto gli erano affezionati. Lui aveva dato loro tutte le speranza e il senso più grande della vita che potessero immaginare.

In questa intensa situazione emotiva, Gesù dà loro l’insegnamento più importante: il modo per non sentire la sua assenza è quello di amarsi, di volersi bene. Non solo: è il modo di sentire la sua presenza. Chi ama, sente il Signore vivo e vicino, perché capisce intimamente il suo “spirito”, quella dimensione interiore che permette di attingere al segreto più vero della vita.

Questa è anche l’unica via per rendere testimonianza. La fraternità amichevole, la solidarietà, l’amore reciproco. Chi vede una comunità di persone così, piccola o grande che sia, vede il Signore Risorto in mezzo ad essa.

La seconda lettura collega questa immagine ideale ma non utopica della comunità dei discepoli di Gesù alla Gerusalemme celeste. Così la chiesa è un segno concreto e un anticipo della realtà che vedrà tutti gli uomini in compagnia di Dio e dove ognuno sarà consolato.

La prima lettura, invece, ci incoraggia sull’esempio degli apostoli, a perseverare nell’amore, anche quando si dovessero attraversare molte difficoltà. Tutto questo serve per fare risplendere questo comando di vita di Gesù, che è l’invito a trasformare il mondo con l’amore.

Don Davide




Una moltitudine

Poche parole nel vangelo di oggi, per ricordarci l’immagine pastorale di un gregge e del suo pastore. L’estate scorsa, in montagna vicino a Passo Giàu, ho visto con i miei occhi un numerosissimo gregge che pascolava nelle vallette sottostanti un sentiero. Dall’alto il pastore le controllava, e non ne perdeva di vista alcuna. Appena una si allontanava, il pastore faceva un fischio e i suoi cani subito riconducevano la pecorella troppo intraprendente negli spazi rassicuranti del gregge. E quando il pastore ha deciso di muoversi tutte le pecore – almeno 300 – lo hanno seguito spontaneamente.

Gesù doveva avere un’immagine simile davanti agli occhi, magari non con il panorama delle Dolomiti, ma certamente quella di numerose pecore che stabiliscono spontaneamente con il loro pastore un rapporto di vera conoscenza, e che sono custodite perché lui non permetterà che si allontanino troppo. Vorrei che potessimo custodire soprattutto questo pensiero: “Nessuno può strapparle dalla mia mano” (Gv 10,29). Aggiungerei: niente e nessuno. Dobbiamo avere fiducia che Gesù non permetterà che ci allontaniamo da lui, esattamente come dice san Paolo nella Lettera ai Romani: “Chi potrà separarci dall’amore di Cristo?” (Rm 8,35). Con piena fiducia possiamo rispondere: niente e nessuno.

La lettura dell’Apocalisse (II) ci garantisce, anzi, che la tribolazione, la fatica della testimonianza, il passaggio arduo della Croce, ben lungi da essere motivo di allontanamento, sono invece come un bagno di purificazione che ci rende partecipi del passaggio di Gesù da morte a vita. Non c’è niente che macchia di più del sangue, paradossalmente questo lavacro avviene nel sangue di Cristo e ci rende candidi come il manto di una pecorina appena lavata.

Molte sono le tribolazioni del mondo, molti uomini e donne soffrono fatiche di ogni genere e intensità. Per questo, la visione estrema dell’Apocalisse promette un mondo dove tutte queste ferite saranno curate: anche questo è frutto della cura del Buon Pastore.

Vogliamo ricordare e avere presente tali sofferenze nella preghiera dell’Ottavario della B. V. della Salute, che inizieremo domenica 24 aprile. In quest’anno della misericordia, vogliamo provare a essere in sintonia con i sentimenti e la cura del Buon Pastore, attraverso l’intercessione di Maria, provando ad allargare lo sguardo, i pensieri e la preghiera a tutte le persone che vivono qualunque situazione di difficoltà. Ogni giorno dell’Ottavario, perciò, pregheremo per un’intenzione particolare, legata ai misteri della vita di Gesù che si contemplano. Mercoledì 27 aprile, l’attenzione al mondo si allargherà grazie a un incontro col CEFA sulle attività che svolge in Kenya, sostenute anche grazie al mercatino della nostra parrocchia, e a cui ha partecipato un nostro parrocchiano. Dopo l’incontro, pregheremo una decina del rosario e faremo la parte conclusiva dell’Ottavario.

Infine, l’1 maggio, durante la processione serale, alla fine di ogni mistero compiremo un piccolo segno con l’aiuto delle famiglie e dei bimbi del catechismo che vorranno partecipare, e faremo una preghiera speciale, scritta da vari parrocchiani, per le seguenti intenzioni: migranti e poveri, scuola, malati e anziani, famiglia, lavoro.

Speriamo così di allargare lo sguardo e l’attenzione alle vicende del nostro mondo, di “lavare” le tribolazioni con la nostra preghiera e ci contribuire così a cancellare le lacrime cattive da ogni volto.

Don Davide




Si manifestò di nuovo

Quante volte abbiamo desiderato che Gesù si manifestasse nella nostra vita?! Magari attraverso una preghiera che speravamo di vedere esaudita, o in una speranza realizzata… o in una difficoltà che speravamo di superare…

Se ci pensiamo bene, se siamo qui, in chiesa, pronti per la messa, o a casa a leggere questo foglietto, vuol dire che una volta lo abbiamo incontrato, lo abbiamo sentito vero, accanto a noi. Abbiamo percepito che sì, potevamo credere.

La resurrezione agisce in noi come un continuo rinnovare quella scintilla, alcune volte sfidandola, alcune volte alimentandola in maniera vigorosa. Quando desideriamo che il Signore si manifesti “di nuovo”, come all’inizio del Vangelo di oggi, è perché siamo sempre in passaggio di Pasqua, è perché abbiamo qualche croce, piccola o grande, che deve diventare resurrezione. Non è una disgrazia! Al contrario! Il Signore ci prende per mano, proprio in quella difficoltà, per farci fare qualche passaggio decisivo.

C’è un’incredibile tenerezza nella scena del Vangelo di questa Domenica. Pietro è triste, sconsolato. Non gli resta che tornare a pescare. Lo dice come se ormai quel gesto tanto conosciuto e consueto avesse completamente perso di senso. Non aveva promesso il Signore che avrebbero “pescato” gli uomini? E invece si ritrovano a inseguire pesci che non si fanno prendere. “Quella notte non presero nulla”: si sente in questa frase tutto lo sconforto di chi pensa che il destino avverso si accanisca su di lui: “Ecco, non ne va bene una. Non siamo più nemmeno capaci di pescare!”.

Gesù risorto compare interpellandoli, proprio per guidarli in questo passaggio pasquale: “Non avete nulla da mangiare?”. Sembra un’ulteriore umiliazione per i discepoli: un pellegrino chiede un pesce a dei pescatori, e loro devono confessare di non avere nulla… Che tristezza.

È in questo scenario che Gesù si manifesta di nuovo. Di fronte allo svilimento estremo dei discepoli, ecco che sorge una nuova resurrezione.

“È il Signore!” esclama Pietro sbalordito. C’è qui tutto l’entusiasmo della rinascita. E ancora più tenera è la notazione che i discepoli, dopo, non chiedono nulla, perché ormai sanno bene che è il Signore.

Ecco, quando il Signore si manifesta di nuovo, nella nostra vita, lascia sempre un momento di pace e di grande consapevolezza. Ci credevamo abbandonati, forse respinti, invece Gesù in un impeto di tenerezza si avvicina di nuovo a noi, ci fa superare quella fatica, ci dice che possiamo vivere, e vivere nella gioia.

Don Davide




La Pasqua piena di misericordia

“A coloro a cui perdonerete i peccati saranno rimessi”. Questa affermazione di Gesù risorto, in mezzo ai suoi, sembra tautologica. È ovvio, verrebbe da dire. Ma Gesù vuole sottolineare come la Chiesa abbia la responsabilità di essere piena testimone della Pasqua attraverso la misericordia. Per questo il Risorto mette nelle mani della Chiesa questo “potere” di perdonare, e affida a ciascuno di noi, battezzati, questo mandato e questo compito.

Perdonare è l’unico potere che abbiamo. Riconciliare la nostra unica arma.

La misericordia è l’energia della resurrezione in atto. Cos’è che fa vivere, quando siamo morti? Essere riconciliati col Padre. Cos’è che ci cambia quando stiamo percorrendo una strada sbagliata? Chiedere perdono. Cos’è che ci rimette in cammino, quando siamo bloccati? Potere aprirci con qualcuno, confessare le nostre fatiche.

Tutte le volte che noi chiediamo ed offriamo perdono, passiamo dalla morte alla vita; dal mondo vecchio logoro a causa dei suoi stessi egoismi diamo origine al mondo nuovo.

L’esperienza così intensa, autentica ed elettrizzante che i discepoli fanno di Gesù risorto nel vangelo di oggi, noi la ripetiamo tale e quale quando facciamo opera di misericordia o la chiediamo per le nostre vite.

Che cos’altro è la “Misericordia” se non vedere le ferite del Corpo di Cristo, essere anche noi trafitti dalle sue piaghe e mettere il dito in quegli squarci della sua carne. Dovremmo proprio cercare di vedere le ferite degli uomini e delle donne del nostro mondo, dovremmo pregare che il nostro cuore si intenerisca di fronte alle piaghe fisiche e morali di tanti nostri fratelli e dovremmo accettare di “mettere le mani” a ciò che uccide i nostri fratelli e sorelle, sporcarci di lavoro, per cercare di cambiare qualcosa.

In questo modo, il Signore risorto si manifesterà a noi nella sua totale integrità e noi potremo così celebrare la Pasqua in pienezza.

Don Davide




Correre al sepolcro

«Le parole delle donne parvero ai discepoli come un vaneggiamento, Pietro tuttavia corse al sepolcro…» (Lc 24,11).

È un annuncio così potente, quello della resurrezione, da sembrare incredibile. In esso riposano tutte le nostre speranze di vita e di salvezza, al punto che qualche filosofo ha ipotizzato che “la Resurrezione”, così come “l’essere di Dio”, fossero solo una proiezione dei desideri dell’uomo.

Certo, il mistero del Risorto ci spiazza: secondo la testimonianza dello sparuto gruppo dei suoi discepoli, Gesù risorto non si può trattenere – nonostante l’anelito di potere stare con lui – non si comprende fino in fondo, non possediamo la sua verità se non attraverso molteplici e comunque insondabili punti di vista.

Eppure balena come la scintilla di un fuoco di brace sotto la cenere un dubbio, o forse un’intuizione… E… se fosse?!

Un amico agricoltore mi ha raccontato che i covoni di grano, si possono incendiare perché la forza con cui sono compressi, può talvolta generare processi chimici di autocombustione al loro interno, se non sono perfettamente essiccati. La scintilla della resurrezione è come questa traccia di qualcosa di potenzialmente incendiario, che rimane nel nostro cuore. Pressati dalle mille cose da fare, dalle paure, dalle ansie, ormai assuefatti agli orrori e alla disillusione, qualcosa nel più intimo del nostro essere afferma un destino di vita.

Questa scintilla divampa quando l’annuncio di questa possibilità la raggiunge e la fa diventare desiderio, speranza, volontà di dare credito all’esistenza.

Dev’essere successo così, a Pietro, quando le donne sono arrivate a dirgli del sepolcro vuoto. Quelle parole gli sono parse come un vaneggiamento, nonostante ciò una potenza nascosta si è fatta strada da chissà dove – forse in nome dell’Amore – in mezzo al suo scetticismo. Il vangelo ci racconta di un meraviglioso: “tuttavia”: «Pietro tuttavia corse al sepolcro». In questo dubbio di Pietro che apre uno spiraglio, in questo desiderio di qualcosa d’altro, certamente anche di riscatto per il suo tradimento, in questo “tuttavia” c’è l’intero racconto di come la fede nel Risorto si fa strada tra gli uomini e nella storia del mondo.

Per questo dobbiamo ascoltare continuamente il Vangelo, e quando possiamo testimoniarlo con umiltà, perché quando scatterà un po’ di curiosità, quando qualcuno dirà “forse”, “magari”, “proviamo” oppure “tuttavia”, lo Spirito del Risorto avrà già creato la minuscola crepa che, prima o poi, farà crollare tutte le resistenze.

Come una caccia al tesoro, così è la resurrezione: quando hai trovato il primo indizio, non puoi fare a meno di arrivare alla meta.

Don Davide




La sapienza

La liturgia della parola nella Veglia Pasquale giunge con la 6° lettura a una meravigliosa meditazione sulla sapienza. Il percorso che Dio ha fatto fare al suo popolo, a partire dalla riflessione sul senso dell’esistenza, passando per l’Alleanza, l’Elezione e l’esperienza del peccato e della misericordia, ci invita a maturare una saggezza del vivere, dove tutte questi elementi del rapporto con Dio sono raccolti e ci viene consegnato soprattutto il compito di rimanere nel legame con lui, attraverso l’ascolto attento e amorevole della sua parola. Chi si mette a questa scuola, anche se affrontasse mille difficoltà o contraddizioni, non sarà solo, non sarà abbandonato da Dio, anzi, sarà salvato.

E proprio su una estrema prospettiva di salvezza conclude questo intenso percorso attraverso la storia della salvezza, con la 7° lettura della veglia.

Il profeta Ezechiele dà voce a una dichiarazione solenne di Dio, il quale – in un linguaggio tipico dell’AT – rivendica per sé ogni azioni, l’intervento correttivo come quello salvifico. Ebbene, il Signore dice di agire non per riguardo all’uomo, ma per fedeltà al suo Nome santo (cf. v. 23). È una formula di rivelazione: Dio si rivela Santo, Misericordioso e Benevolo. Fa parte della sua natura, non è condizionato da come l’uomo agisce. In definitiva, Dio manifesterà in maniera potente e irrevocabile il suo intervento di salvezza: sarà un’azione di purificazione, di conversione e di rinnovamento, che ha come risultato “l’abitare” nella Terra Promessa, quella Terra Promessa che è, in realtà, il senso profondo della nostra esistenza e la nostra pace.

Questo viaggio conclude con l’affermazione: “Voi sarete il mio popolo, e io sarò il vostro Dio” (v. 28). Ci può essere un esito più efficace nel celebrare la Veglia Pasquale?

Don Davide




Come ai tempi di Noè

Dopo avere percorso l’impianto dell’intervento di Dio nella storia, con il racconto della Creazione, l’Alleanza e l’Elezione, la seconda parte delle letture della Veglia Pasquale (4° e 5°) sono un invito a meditare con l’animo pacificato e rassicurato la misericordia (4°) e la provvidenza di Dio (5°) con le quali il Signore della storia sempre sostiene e incoraggi il nostro cammino.

Il profeta Isaia usa la metafora sponsale per parlare di un atto definitivo: “Tuo sposo è il tuo creatore” (Is 54,5). Il vincolo d’amore stabilito da Dio con il popolo di Israele (e quindi con ciascuno di noi) è irrevocabile. Non dipende dalla coerenza dell’uomo: “Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace, dice il Signore che ti usa misericordia” (Is 54,10). Il Signore fa di tutto per riavvicinarci a sé. Anche quando dovesse apparire che si è allontanato, la verità è espressa da questa dichiarazione solenne: “Con affetto perenne ho avuto pietà di te” (Is 54,8). In questo testo, c’è uno dei passaggi più belli e teneri di tutta la Bibbia, quando Dio riafferma questo decreto irrevocabile: “Ora è per me come ai tempi di Noè, quando giurai che non avrei più riversato le acque sulla terra, così ora giuro di non più adirarmi con te e di non più minacciarti” (Is 54,9). I “tempi di Noè” sono i tempi (eterni) che testimoniano e la postura definitiva di Dio nei confronti dell’uomo, promessa e realizzata in Gesù di Nazareth: non minaccia, non ira, ma attitudine materna, cura di pastore, protezione di padre buono. Chi di noi non si è mai sentito “afflitto, percosso dal turbine, sconsolato”? (cf. Is 54,11). A ciascuno il Signore dice: “Ecco, io pongo sullo stibio le tue pietre e sugli zaffiri pongo le tue fondamenta…” (Is 54,11).

Da questa posizione di speranza, risuona la chiamata di Dio con cui si apre la quinta lettura: “Voi tutti assetati venite all’acqua!” (Is 55,1). Incoraggiati da questo invito, noi possiamo lasciarci investire dal fiume di grazia, che discende in primo luogo dalla celebrazione solenne della Veglia Pasquale, e poi ci accompagna nella vita concreta di ogni giorno.

Consegniamoci a Dio senza riserve, lasciamo che l’invito alla conversione vibri nel nostro animo, affidiamoci alla sua provvidenza. Nella Veglia Pasquale ci immergiamo in un ascolto prolungato e abbondante della Sua parola e proprio questa 5° lettura ci garantisce il senso di questa sosta: nessuna parola di Dio rimarrà senza effetto, ritornerà in cielo senza avere operato con efficacia, e senza avere compiuto, nelle nostre vite, ciò per cui il Signore ce l’ha regalata.

Don Davide




Creazione e redenzione

A partire da questa domenica e per le tre domeniche di marzo che precedono la Pasqua, vorrei proporre un breve percorso sulla liturgia della parola della Veglia Pasquale, per prepararci meglio a questa celebrazione così importante e sperare che entri nella sensibilità di tutti il desiderio di parteciparvi.

Nella consapevolezza dei primi secoli, il vero modo di “fare” Pasqua era quello di celebrare la Veglia Pasquale. Questa liturgia incide sulla nostra vita, come dono di grazia, più di qualunque altro impegno per vivere bene e cristianamente la Pasqua.

La Veglia Pasquale, nella sua forma piena, prevede un lungo itinerario nella storia della salvezza attraverso sette letture dell’AT, più una meditazione di San Paolo sul Battesimo, come vera partecipazione alla resurrezione di Cristo, più la proclamazione del Vangelo.

Le prime tre letture sono considerate fondamentali, perché raccontano i tre capisaldi dell’opera di Dio: la creazione, bella e piena di amore (I); la provvidenza di Dio nella storia della salvezza, ossia il racconto della “legatura” di Isacco (II); la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto (l’Esodo) come profezia della redenzione definitiva (III).

In questo percorso iniziale c’è una fortissima unità. Dio ha creato un mondo bello e brulicante di vita. Fin dall’inizio, quindi, siamo richiamati al desiderio che Dio riscatti questa sua creazione, che ha voluto per la vita. Essa ci è data per la gioia e la letizia dei sensi, è lo spazio della nostra esperienza umana, della nostra esistenza. Siamo invitati a sentire una profonda solidarietà con essa, a custodirla, a preoccuparci di conservarne intatta la bellezza e il dono, da tutte le forze negative e logoranti, presagio di morte.

Nella Bibbia, il racconto “storico” ha inizio con la chiamata di Abramo. La liturgia pasquale chiama in causa Abramo nell’episodio decisivo della “legatura” di Isacco. Esso, infatti, più di ogni altro è autentica profezia della resurrezione del figlio amato, oltre che manifestazione evidente dell’atteggiamento di Dio (inteso come SS. Trinità) nei confronti dell’uomo. In esso, infatti, noi impariamo che “il Signore provvede”, oltre l’esperienza della morte nel cuore che doveva avere sperimentato Abramo, mentre accompagnava Isacco. Allo stesso modo, Dio Padre provvederà, oltre l’esperienza della morte. Inoltre, questo racconto ci consegna la definitiva consapevolezza che ciò che Dio NON chiede all’uomo, ossia di sacrificare il suo figlio, lui è disposto a farlo per noi. Mentre Dio chiede all’uomo misericordia e non sacrifici, lui è disposto a sacrificarsi per noi.

Per questo gli ebrei dicono, più correttamente, “la legatura di Isacco”, perché ne mette meglio in risalto il significato. L’atto di obbedienza di Abramo è quello della disponibilità, ma Dio non vuole in alcun modo il sacrificio del figlio, tanto meno un sacrificio umano che è sempre biasimato dai profeti. Ciò che conta è l’atteggiamento di affidamento di Abramo che mette le premesse per sperimentare la resurrezione: Dio è affidabile.

Infine, nella maestosa lettura dell’Esodo, noi siamo invitati a pensare a una schiavitù ben più grave, nonostante tutto, di quella dell’Egitto. La schiavitù del peccato, da cui il Signore ci libera spezzando le catene della morte e immergendoci in questa enorme potenza di vita nelle acque del Battesimo.

A questo punto, la liturgia pasquale può procedere, con un senso di grande gratitudine e una disponibilità all’ascolto, nella contemplazione delle grandi meraviglie di Dio ricordate dalle altre lettura.

Don Davide




Il disgusto e la torre di Siloe

È un’abitudine che non siamo ancora riusciti a sradicare, tra noi cristiani, quella di ritenerci in fondo superiori agli altri, o migliori, non tanto per le nostre qualità morali personali, ma per il fatto di credere, di seguire Gesù, di conoscere Dio e di cercare di seguire la strada che lui ci indica.

Ci sembra che questa cosa sia oggettiva, e che unita alla nostra personale umiltà faccia una buona sintesi: noi non siamo migliori di tutti gli altri, però per il fatto di credere, in realtà un po’ sì.

Nelle letture di questa domenica la parola di Dio ci aiuta a smascherare questo pensiero nocivo.

Nella prima lettura, la rivelazione di Dio a Mosè nel roveto ardente ci ricorda che tutte le volte che ci accostiamo al mistero di Dio, noi entriamo in un luogo santo, qualcosa che non possiamo né afferrare né carpire fino in fondo, e tanto meno padroneggiare, perciò bisogna toglierci i sandali, cioè sapere che non possiamo in alcun modo piegare Dio a nostro favore, ritenere che sia per forza dalla nostra parte.

Nella seconda lettura, il monito di San Paolo è esplicito: «Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere» (1Cor 10,12). Credo che non ci sia da aggiungere altro.

Nel vangelo, Gesù stesso richiama due fatti tragici per dirci che non dobbiamo risolvere l’enigma del male pensando semplicemente che “erano più cattivi di tutti gli altri e se lo sono meritati”. L’invito di Gesù è anzi all’opposto: ci ricorda che non dobbiamo mai pensare che altri siano più cattivi di noi, e sentire sempre questo profondo richiamo ed esigenza di conversione.

Mi pare che questo si traduca, per noi, in due attenzioni specifiche. La prima e più ovvia è quella di non “disgustarci” degli altri, come fa il fariseo con il pubblicano al tempio. Spesso noi ci sentiamo quasi in diritto di farlo, per difendere la verità, ma in realtà difendiamo noi stessi, ci dimentichiamo di distinguere il peccato dal peccatore, e spesso ci dimentichiamo anche che quel peccato caratterizza anche noi stessi.

La seconda è di non presumere di avere in tasca la verità, di sapere tutto di Dio e di ricavare una sorta di costituzione di leggi cristiane direttamente dal vangelo. Forse le vicende degli uomini e delle donne, come ci insegna la parabola del fico, ci spingono piuttosto a riconoscere la pazienza e la misericordia di Dio, che continua ad “adattarsi” alle nostre debolezze, finché non riuscirà a raccogliere qualche buon frutto.

 Don Davide