Creazione e redenzione

A partire da questa domenica e per le tre domeniche di marzo che precedono la Pasqua, vorrei proporre un breve percorso sulla liturgia della parola della Veglia Pasquale, per prepararci meglio a questa celebrazione così importante e sperare che entri nella sensibilità di tutti il desiderio di parteciparvi.

Nella consapevolezza dei primi secoli, il vero modo di “fare” Pasqua era quello di celebrare la Veglia Pasquale. Questa liturgia incide sulla nostra vita, come dono di grazia, più di qualunque altro impegno per vivere bene e cristianamente la Pasqua.

La Veglia Pasquale, nella sua forma piena, prevede un lungo itinerario nella storia della salvezza attraverso sette letture dell’AT, più una meditazione di San Paolo sul Battesimo, come vera partecipazione alla resurrezione di Cristo, più la proclamazione del Vangelo.

Le prime tre letture sono considerate fondamentali, perché raccontano i tre capisaldi dell’opera di Dio: la creazione, bella e piena di amore (I); la provvidenza di Dio nella storia della salvezza, ossia il racconto della “legatura” di Isacco (II); la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto (l’Esodo) come profezia della redenzione definitiva (III).

In questo percorso iniziale c’è una fortissima unità. Dio ha creato un mondo bello e brulicante di vita. Fin dall’inizio, quindi, siamo richiamati al desiderio che Dio riscatti questa sua creazione, che ha voluto per la vita. Essa ci è data per la gioia e la letizia dei sensi, è lo spazio della nostra esperienza umana, della nostra esistenza. Siamo invitati a sentire una profonda solidarietà con essa, a custodirla, a preoccuparci di conservarne intatta la bellezza e il dono, da tutte le forze negative e logoranti, presagio di morte.

Nella Bibbia, il racconto “storico” ha inizio con la chiamata di Abramo. La liturgia pasquale chiama in causa Abramo nell’episodio decisivo della “legatura” di Isacco. Esso, infatti, più di ogni altro è autentica profezia della resurrezione del figlio amato, oltre che manifestazione evidente dell’atteggiamento di Dio (inteso come SS. Trinità) nei confronti dell’uomo. In esso, infatti, noi impariamo che “il Signore provvede”, oltre l’esperienza della morte nel cuore che doveva avere sperimentato Abramo, mentre accompagnava Isacco. Allo stesso modo, Dio Padre provvederà, oltre l’esperienza della morte. Inoltre, questo racconto ci consegna la definitiva consapevolezza che ciò che Dio NON chiede all’uomo, ossia di sacrificare il suo figlio, lui è disposto a farlo per noi. Mentre Dio chiede all’uomo misericordia e non sacrifici, lui è disposto a sacrificarsi per noi.

Per questo gli ebrei dicono, più correttamente, “la legatura di Isacco”, perché ne mette meglio in risalto il significato. L’atto di obbedienza di Abramo è quello della disponibilità, ma Dio non vuole in alcun modo il sacrificio del figlio, tanto meno un sacrificio umano che è sempre biasimato dai profeti. Ciò che conta è l’atteggiamento di affidamento di Abramo che mette le premesse per sperimentare la resurrezione: Dio è affidabile.

Infine, nella maestosa lettura dell’Esodo, noi siamo invitati a pensare a una schiavitù ben più grave, nonostante tutto, di quella dell’Egitto. La schiavitù del peccato, da cui il Signore ci libera spezzando le catene della morte e immergendoci in questa enorme potenza di vita nelle acque del Battesimo.

A questo punto, la liturgia pasquale può procedere, con un senso di grande gratitudine e una disponibilità all’ascolto, nella contemplazione delle grandi meraviglie di Dio ricordate dalle altre lettura.

Don Davide




Il disgusto e la torre di Siloe

È un’abitudine che non siamo ancora riusciti a sradicare, tra noi cristiani, quella di ritenerci in fondo superiori agli altri, o migliori, non tanto per le nostre qualità morali personali, ma per il fatto di credere, di seguire Gesù, di conoscere Dio e di cercare di seguire la strada che lui ci indica.

Ci sembra che questa cosa sia oggettiva, e che unita alla nostra personale umiltà faccia una buona sintesi: noi non siamo migliori di tutti gli altri, però per il fatto di credere, in realtà un po’ sì.

Nelle letture di questa domenica la parola di Dio ci aiuta a smascherare questo pensiero nocivo.

Nella prima lettura, la rivelazione di Dio a Mosè nel roveto ardente ci ricorda che tutte le volte che ci accostiamo al mistero di Dio, noi entriamo in un luogo santo, qualcosa che non possiamo né afferrare né carpire fino in fondo, e tanto meno padroneggiare, perciò bisogna toglierci i sandali, cioè sapere che non possiamo in alcun modo piegare Dio a nostro favore, ritenere che sia per forza dalla nostra parte.

Nella seconda lettura, il monito di San Paolo è esplicito: «Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere» (1Cor 10,12). Credo che non ci sia da aggiungere altro.

Nel vangelo, Gesù stesso richiama due fatti tragici per dirci che non dobbiamo risolvere l’enigma del male pensando semplicemente che “erano più cattivi di tutti gli altri e se lo sono meritati”. L’invito di Gesù è anzi all’opposto: ci ricorda che non dobbiamo mai pensare che altri siano più cattivi di noi, e sentire sempre questo profondo richiamo ed esigenza di conversione.

Mi pare che questo si traduca, per noi, in due attenzioni specifiche. La prima e più ovvia è quella di non “disgustarci” degli altri, come fa il fariseo con il pubblicano al tempio. Spesso noi ci sentiamo quasi in diritto di farlo, per difendere la verità, ma in realtà difendiamo noi stessi, ci dimentichiamo di distinguere il peccato dal peccatore, e spesso ci dimentichiamo anche che quel peccato caratterizza anche noi stessi.

La seconda è di non presumere di avere in tasca la verità, di sapere tutto di Dio e di ricavare una sorta di costituzione di leggi cristiane direttamente dal vangelo. Forse le vicende degli uomini e delle donne, come ci insegna la parabola del fico, ci spingono piuttosto a riconoscere la pazienza e la misericordia di Dio, che continua ad “adattarsi” alle nostre debolezze, finché non riuscirà a raccogliere qualche buon frutto.

 Don Davide




La vita come dovrebbe essere

Quando guardiamo il cielo di notte e l’aria è tersa, rimaniamo stupefatti dallo splendore del firmamento. Una meraviglia che supera di gran lunga le nostre domande, ma che allo stesso tempo ci incuriosisce e ci interroga. Spesso, quando siamo ispirati da sentimenti buoni, un tale spettacolo può essere persino capace di donarci un po’ di serenità e di pace tra le preoccupazioni e le fatiche della vita.

Allora, sotto a tanta bellezza, è come se percepissimo che sì, c’è un patto, all’interno del quale siamo e che ci custodisce. Deve essere stata questa, inizialmente, l’esperienza di Abramo (I lettura). Poi, questa percezione di fondo della vita, ha assunto la fisionomia di un volto e di un nome: Abramo vi ha riconosciuto un tu, la voce di Dio, che lo coinvolgeva personalmente e lo interpellava.

Di solito, invece, noi diamo più credito ai momenti “no”. È quando le cose ci vanno male che siamo spinti a una maggiore consapevolezza e ci sembra che sia più realistico essere disincantati e disillusi, pensare che il mondo – la vita – l’esistenza “sono così” e che non conviene farsi tante illusioni.

Ben lungi da questa prospettiva, invece, coinvolgendo i discepoli a cui riserva le rivelazioni più profonde (Pietro, Giacomo e Giovanni) nella Trasfigurazione, Gesù ha voluto confermare l’intuizione di Abramo: ha voluto, cioè, che noi sapessimo con assoluta e irrevocabile certezza, che la verità è nello sguardo capace di cogliere la realtà trasfigurata, che il destino dell’uomo e del mondo è la realtà di Gesù risorto. Il mondo “vero”, l’esistenza “vera” è quella bella. Quella che ci fa dire, con un desiderio quasi struggente: “E’ bello per noi stare qui”, “E’ bello vivere così”. Non dobbiamo distogliere lo slancio da questo desiderio, non dobbiamo rassegnarci al negativo e dargli più consistenza di quanto si meriti. Anche se Gesù invita i suoi discepoli a tornare a valle, e quindi ad allontanarsi dall’esperienza della Trasfigurazione, lo fa per incoraggiarli a portare nel mondo quella verità di cui ora sono divenuti partecipi, senza ombra di dubbio.

Il destino è quello splendore che hanno visto. Non si sono sbagliati, e non hanno visto un fantasma. Se lo ricordino – i suoi discepoli – quando arriveranno i giorni della croce – quelli di Gesù e quelli di tutte le croci – che la verità è la gloria. Se lo ricordino, nei giorni brutti, che la verità è la bellezza.

Non si lascino strappare questa certezza.

Sappiano di essere dentro un patto, in cui Dio – il contraente – è fedele, fedelissimo. E in mezzo alle fatiche continuino ad ascoltare la voce dell’amore, che li richiama alla verità di quella esperienza.

Così, la liturgia di Quaresima, ci fa sostare sulla scena incantevole della Trasfigurazione per ricordarci che tutto l’itinerario di questi giorni non è un itinerario di mortificazione, ma di “vivificazione”, e che tutto ciò che mettiamo in atto, come strategia ascetica per vivere al meglio questo tempo, lo facciamo per allenarci a tenere fisso lo sguardo, anche dal fondo della valle, sulla luce che emana dal monte.

 Don Davide




La tentazione e le storie

Quando dobbiamo descrivere un momento di prova, in genere ci troviamo a raccontare una storia. “È successo questo e quello… e poiché mi sentivo così… allora è accaduto che…”.

Per questo motivo, nella prima domenica di Quaresima, la liturgia ci propone la professione di fede di Israele (I lettura) nella forma di una storia. Il racconto di ciò che Dio ha operato in mezzo alle prove della nostra vita è il modo migliore per sconfiggere le tentazioni attuali. L’anno della misericordia è un tempo in cui noi ci esercitiamo a fare proprio questo: a riguardare al nostro vissuto e non scorgervi un percorso fatto di successi, gioie e fallimenti, ma soprattutto l’intervento di Dio che ci ha protetto e guidato. Ecco perché Israele, quando professa la sua fede, racconta una storia: così fa memoria della presenza di Dio che guida la sua esistenza. Ed ecco perché fare memoria aiuta noi nel momento della prova: perché ricorda che Dio ci è accanto, anche e soprattutto nel momento della tentazione, e ci aiuta a sconfiggerla.

Quando vado a benedire, o nei colloqui con le persone, spesso mi viene rivolta la domanda riguardante la traduzione del Padre nostro: «non ci indurre in tentazione». L’italiano ha tenuto lo stesso verbo usato nella traduzione latina di San Girolamo, ma in italiano si confonde il significato, sia perché in latino il termine ha un campo semantico più vasto, sia per la struttura sintattica della frase. Il senso della frase correttamente dovrebbe essere: «Non permettere che entriamo nella tentazione» o «Fa’ che possiamo non entrare nella tentazione». La preghiera è dunque che il Signore ci tenga ben lungi dalla tentazione, perché noi siamo deboli, ma anche nel caso che dovessimo trovarci in una simile prova, che lui possa non abbandonarci.

Tutti i padri della chiesa hanno sempre visto il racconto delle tentazioni di Gesù, a questo proposito, come un episodio di grande consolazione. C’è da dire, innanzitutto, che Gesù non ha sopportato una tentazione “puntuale”, che cioè si è risolta in un momento in cui ha avuto una piccola fatica, e poi più. La tentazione di Gesù viene descritta come una prova prolungata, lancinante, progressiva e sempre più aspra nella sua intensità, e che va a toccare il punto cruciale della sua esistenza, in questo caso l’essere il figlio di Dio. È stata un’esperienza ben più intensa di quando noi andiamo completamente in crisi nella nostra vita, e sentiamo una spinta fortissima e spesso lacerante a scegliere una strada che profondamente sbagliata, ma che nondimeno ci attira in maniera irresistibile. Questo è il tipo di tentazione di Gesù. I padri della chiesa vi trovavano consolazione perché vedevano in questo racconto il fatto che Gesù ha vinto le tentazioni e ci ha dato non solo la forza e il coraggio di vincerle anche noi, ma la certezza che una volta superate, noi possiamo stare bene, essere felici, sentirci al nostro posto e in pace.

Siamo invitati, quindi, in questo itinerario quaresimale ad affilare le nostre armi di fronte alle tentazioni e alle prove: abbiamo la memoria di come Dio ci ha condotto nella nostra vita e abbiamo la sua parola, che è molto vicina a noi (cf. II lettura) per guidarci, incoraggiarci e consolarci.

Don Davide




Gettate le reti

Il Signore ti chiama. Sì, proprio te. Chiama ciascuno di noi, non solo gli apostoli, i preti o le suore… Tutta la nostra vita è un ascoltare la voce del Signore che ci chiama. Per questo la liturgia ci fa meditare ogni anno sulle splendide pagine della chiamata dei primi discepoli.

La storia della fede parte da questi “inizi”: qualcuno che ha voluto rispondere alla chiamata del Signore. Se ci disponiamo ad ascoltare il Signore che chiama anche noi, oggi, forse daremo inizio a una “nuova” storia: qualcosa che Gesù risorto vuole compiere con noi nei nostri giorni. Questo è il senso di tutte le chiamate dei profeti (I lett.), che vengono associate ai racconti di vocazione dei primi discepoli.

In questa settimana, in modo particolare, l’occasione di porre un nuovo piccolo inizio ci è data dall’entrare nel Tempo di Quaresima. Mercoledì compiremo l’austero gesto delle ceneri, chiedendo la grazia di vivere spiritualmente questo tempo di grazia come occasione propizia di conversione.

Giovedì ci uniremo in preghiera con tutte le persone ammalate, in occasione della Giornata mondiale del malato, nella memoria della Beata Vergine di Lourdes, per stare vicini a questi nostri fratelli e sorelle che soffrono.

Nei giorni successivi, fino a Domenica, potremo anche sostare in adorazione davanti all’Eucaristia, nelle tradizionali 40ore di adorazione eucaristica, che sono un’ottima occasione per cominciare spiritualmente preparati la Quaresima.

Domenica prossima, infine, giorno del patrono di una delle due parrocchie che compongono la nostra UNICA COMUNITA’ PARROCCHIALE, celebreremo la messa solenne in San Valentino, con la tradizionale benedizione, mentre i ragazzi del catechismo vivranno il loro ritiro di preparazione alla Pasqua.

Il Signore ancor oggi ci invita gettare le reti, a compiere questo gesto di fiducia alla sua parola. La pesca sarà sovrabbondante, gli amici saranno coinvolti, lo stupore ci prenderà e faremo senz’altro anche esperienza della nostra fragilità e miseria, ma avremo così un’occasione ancora più bella di conversione e per affidarci senza timore a Gesù.

Don Davide




Tanti doni, un solo corpo

Il Vangelo di oggi ci regala uno spunto di riflessione perfetto per questa domenica. L’elezione del Consiglio Pastorale, infatti, è una festa di comunione, dove chiediamo allo Spirito Santo di aiutarci a condividere i doni migliori di ciascuno per formare l’unico corpo della Chiesa, per l’utilità di tutti. Nella chiesa apostolica e per tutto il primo millennio era chiarissimo che il vero “Corpo di Cristo” era la Chiesa stessa, non l’Eucaristia, che veniva chiamata il “Corpo mistico di Cristo”.

In questo sforzo di edificare la nostra comunità, è fondamentale, quindi, che ci ricordiamo che l’essere insieme deve manifestare la presenza di Gesù. Lui ha promesso che dove due o tre sono riuniti nel suo nome, lui si trova in mezzo a loro, conferendo alla relazione un valore enorme, ma noi ci dobbiamo preoccupare di non rinnegare coi fatti questo dono.

Come ho detto già tante volte, mi auguro che questo giorno in cui eleggiamo il Consiglio Pastorale, non sia un gioco di potere o di autorità, ma un’occasione in cui fare emergere la presenza di Gesù in mezzo a noi. Un modo concreto per scoprire e gustare come si “fa” la Chiesa.

Il richiamo alla prima tradizione degli apostoli, ci aiuta anche a capire il legame fortissimo fra il sacramento dell’Eucaristia e l’essere parti attive della chiesa. Potremmo dire che l’Eucaristia, in questo senso, è uno sviluppo perfettamente coerente del Battesimo, che ci inserisce nella comunità cristiana e ci chiede di esserne protagonisti.

Oggi, quindi, siamo in festa per i 46 bimbi che faranno la Prima Comunione a maggio e che vi presentiamo, e cogliamo questa circostanza per sentire con ancora maggiore responsabilità l’elezione del Consiglio Pastorale. Desideriamo offrire anche a questi ragazzi e ragazze, nei prossimi anni, la buona testimonianza di una comunità che desidera esprimersi come un vero organismo e saper valorizzare i doni di ciascuno.

Che il Signore ci doni, come nella sinagoga di Nazaret, di sapere incarnare anche noi la parola di Dio nell’“oggi”, per rendere efficace e presente il Vangelo nella nostra storia e nella nostra città.

Don Davide 




Il Consiglio Pastorale come ascolto dello Spirito Santo

La prossima settimana avremo le elezioni del Consiglio Pastorale. Vorrei che fosse un momento molto sentito, perché ciascuno possa essere protagonista della configurazione e dello stile che vorremmo dare alla nostra parrocchia.
Il Consiglio Pastorale esige una partecipazione democratica, cioè elezioni che indichino la preferenza della maggior parte della comunità.
Con queste poche note, vorrei, però, evitare un pericoloso malinteso che potrebbe sorgere in proposito.
Non dobbiamo assimilare queste votazioni a quelle politiche, che sovente generano polemiche, tensioni e spinte a denigrare i propri rivali.
L’elezione del Consiglio Pastorale e il Consiglio Pastorale stesso è una dinamica spirituale, un momento di ascolto dello Spirito Santo e di pratica concreta della comunione ecclesiale. Mi auguro, perciò, che non ci siano gelosie, invidie o delusioni. La partecipazione al Consiglio non è un modo per poter avere un po’ di potere in parrocchia, non si tratta delle elezioni presidenziali americane! Credo che non ci sia niente di peggio che immaginare che le cose della parrocchia possano rappresentare uno spazio di potere (chissà che potere!); se ci fosse questa tentazione indicherebbe davvero una terribile meschinità di vedute e di interpretazione della vita ecclesiale.
Eleggere il Consiglio Pastorale significa avere piena fiducia nella presenza dello Spirito del Risorto nella Chiesa intesa come popolo di Dio, con la convinzione che chi viene eletto dalla comunità è chiamato dallo Spirito Santo a offrire un servizio alla presenza cristiana nel nostro territorio e soprattutto nell’oggi. Questo servizio si svolge umilmente, con le proprie capacità di discernimento e di senso pratico, senza che a nessuno venga chiesto più di quanto può o è capace di dare. Quello che conta, lo ripeto, è la dinamica spirituale che si crea, perché questo “stile” indica non solo un modo di fare Chiesa, ma il modo in cui la Chiesa è se stessa, cioè luogo di comunione e di testimonianza del Risorto.
Concretamente, domenica 24 gennaio, verrà consegnata all’ingresso in chiesa prima della messa una scheda per l’elezione. Potranno votare tutti coloro che hanno compiuto dai 16 anni in su, quindi vi prego di richiedere la scheda, nel caso non vi venisse consegnata. Si potranno votare da un minimo di una persona a un massimo di cinque, esclusivamente tra quelle indicate nella lista dei candidati. All’inizio della messa pregheremo con l’Invocazione allo Spirito Santo, come piccolo segno di questo ascolto dello Spirito Santo. Infine, al termine della messa, prima di uscire, si potrà consegnare la propria scheda di elezione. Preferisco, per motivi di praticità e di ordine, che non si consegni la scheda degli eletti in NESSUN altro momento, né prima della celebrazione, né negli altri orari della giornata.
A questo punto non mi resta davvero che chiedervi di cogliere questa opportunità e di partecipare, senza pigrizie o paure. Avete ancora tutta questa settimana per informarvi sui candidati: votate chi preferite, votate chi sentite più adatto a rappresentare la comunità, votate gli amici… ma votate! Vi ringrazio in anticipo per questo impegno e per questa gioia della comunità.

Don Davide




La vita visibile

Il bagliore tenue e caldo di un presepe nella notte – non di quelli spettacolari e grandiosi, uno di quelli semplici, fatti in casa da noi: con un po’ di muschio, le lucine, qualche statuina senza troppe pretese e quel tocco originale che ci rende tanto orgogliosi (sia esso la capanna particolare che ci siamo inventati, il posto dove abbiamo collocato il dormiglione, oppure il nostro laghetto o infine quella magnifica fontanella vera che finalmente siamo riusciti a piazzare proprio al centro) – e poi le tracce di qualcuno che è passato, lasciando il nostro albero congestionato di regali; due sposi che si abbracciano – negli occhi il riflesso della loro casa – e il sorriso meravigliato del bimbo che si chiede come abbia fatto Babbo Natale a non farsi scoprire neanche questa volta… Mi chiedo se ci sia un’immagine più dolce e famigliare di questa, e probabilmente è proprio così l’atmosfera che abbiamo lasciato nelle nostre case in questi giorni di festa.

Fa un po’ contrasto che di fronte a un tale clima natalizio, questa domenica veniamo catapultati invece che nel racconto commovente della nascita di Gesù, nelle profondità vertiginose dell’inizio del vangelo di Giovanni. La solennità del Verbo ci sembra rubare la scena all’umiltà del Bambino.

Non è forse vero che nel mistero del Natale noi percepiamo la vita come dovrebbe essere e la tocchiamo quasi con mano? L’esperienza del Dio della vita è legata a quel bimbo che è stato possibile vedere, toccare e sentire piangere, il bambino nel quale abbiamo riconosciuto la Vita stessa condensata, concentrata, fatta carne… proprio come quando nasce un bimbo a noi vicino e tutti fanno a gara per prenderlo in braccio, coccolarlo, sbaciucchiarlo e “spupazzarlo”

Che cosa accade allora, quando il Verbo che sprigiona la Vita diventa uomo? Che cosa succede quando la Parola della Vita si fa carne? Accade improvvisamente di scoprire che in realtà non c’è un altro mondo che offra la possibilità della vita. La Vita si è fatta visibile in questo mondo.

«È venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Letteralmente: «ha posto la sua tenda in mezzo al nostro accampamento». Se il vangelo fosse stato scritto oggi, avrebbe detto: “ha preso casa nel nostro condominio. Ha aperto un mutuo. Viene alle riunioni. Fa fatica ad arrivare alla fine del mese come tutti coloro che fra di noi la fanno”. Ma in realtà, nell’evocare la sua tenda in mezzo alle nostre, c’è di più. La sua non è una bella tenda come qualunque altra, come quelle degli scout, ad esempio. La tenda di cui si parla, nel libro dell’Esodo (cfr. Es 25,8), è la Tenda del Convegno: il luogo dove abita Dio, mentre si sposta con il suo popolo durante il cammino nel deserto. Ma è anche il luogo dove tutti sono convocati per incontrare Dio insieme.

Così l’augurio di Dio si rivolge oggi prima di tutto a te, che provi con impegno ad accogliere il Signore. Perché la sua vicinanza accompagni la tua ricerca, e tu possa essere come questo bimbo appena nato che prende il dito di una persona grande.

L’augurio di Dio si rivolge a te, che ogni tanto indugi e fai fatica. Non aver paura che Dio vìoli la tua libertà. Non pensare neppure che sia arrabbiato. Lui è garbato e ha sopportato con amorevolezza molteplici rifiuti. «A quanti però l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,12). Se vuoi sentire Dio come Padre, lasciati rapire dalla sua promessa.

L’augurio di Dio infine è anche per te, che in queste feste non hai voluto mancare: il Signore ti invita alla comunione, perché tu possa riscoprire la messa domenicale come luogo dell’incontro. Sarà per te come la sinagoga di Nazaret, dove ascolteremo la voce di Gesù che ci parla. Sarà il monte delle beatitudini, gremito di gente e di speranza. Sarà la riva del lago di Tiberiade, dove c’è pane da condividere per tutti o la casa di Betania, popolata di amici. Sarà infine il Golgota affollato dove da ogni disperazione e difficoltà la parola della vita continuerà ad imprimere il suo sigillo sulla storia.

 Don Davide




Il Consiglio Pastorale Parrocchiale

Il Concilio Vaticano II, concluso 50 anni fa, non aveva solo auspicato un nuovo rapporto della chiesa con il mondo, ma anche un nuovo modo di essere chiesa al proprio interno.
In modo particolare, il rinnovamento della chiesa mirava a una maggiore partecipazione dei laici all’opera pastorale. A distanza di mezzo secolo, molti studiosi e interpreti (e anche il magistero degli ultimi papi), concordano nel dire che questo aspetto è una delle riforme che avanza più faticosamente nell’esperienza ecclesiale dei nostri giorni.
I motivi di questa situazione sono tanti, in modo particolare i ritmi di vita delle persone che diventano più impegnativi, lasciando meno spazio all’impegno e al volontariato, e la difficoltà del ripensamento dei ruoli del ministero ordinato e dei laici e delle loro interazioni.
Il Consiglio Pastorale parrocchiale è uno degli organi previsto dalla Chiesa italiana dopo il Concilio, per concretizzare il sogno di una comunità partecipata e viva, con una significativa visione pastorale e una solida capacità progettuale.
Tuttavia, ad oggi, si registra una certa fatica nelle comunità a fare funzionare questo strumento prezioso. Molto, senz’altro, è colpa di noi preti. Molto dipende anche dalla formazione dei laici, che non sempre è adeguata a proporre un livello di riflessione pastorale significativo e incisivo sulla vita della comunità. Molto, infine, dipende dal fatto che il concetto della corresponsabilità, non è ancora pienamente assunto: si tende piuttosto a una forma di collaborazione, in cui si attende comunque che sia il parroco a dire cosa bisogna fare e deleghi gli incarichi. La corresponsabilità, invece, è uno sguardo e un modo di essere; è una cura per la dimensione pastorale della comunità, che vede i compiti e le urgenze come propria responsabilità, ed è capace di attivarsi e di farsene carico, mantenendo la comunione con il parroco e gli organi collegiali della parrocchia.
Il Consiglio Pastorale, nella mia idea, è prima di tutto un luogo dove cresce e matura questa corresponsabilità. Non importa che chi ne fa parte sia già formato in questa dimensione, ma è fondamentale che chi vivrà questo incarico possa assumere questo sguardo e impersonare questo modo di essere.
In secondo luogo, il Consiglio Pastorale è un organo collegiale eletto democraticamente, composto da persone che possano insieme al parroco, dare una linea all’azione pastorale della parrocchia, e determinare una sensibilità, orientando scelte, condividendo decisioni, offrendo confronti.
Ritengo sterile l’annosa questione sul fatto che il Consiglio sia un organo “consultivo” e non “decisionale”, nel senso che questa regola formale del diritto canonico esprime solamente il fatto che il parroco ha il dovere di assumersi la responsabilità ultima delle scelte fatte e, nel caso, di esprimere le proprie riserve e di rispondere alla propria coscienza, soprattutto in ordine a mantenere la comunione con il vescovo e la chiesa locale. Non si può in alcun modo interpretare questa regola come una riduzione del valore del Consiglio, quasi che fosse solo un’assemblea per fare due chiacchiere insieme. L’apporto variegato dei singoli consiglieri – tanto più in un mondo complesso come il nostro – è decisivo e necessario, ed è una cosa che io personalmente considero fondamentale per potere fare strada insieme, come mi auspicavo il giorno del mio ingresso in parrocchia.
Perciò mi auguro che le prossime elezioni del Consiglio, che si terranno Domenica 24/01/2016 (e il sabato precedente) al termine di tutte le messe, siano il più possibile partecipate e sentite come momento fondamentale e di grande coinvolgimento da parte di tutti coloro che sentono come “propria” la comunità delle parrocchie di Santa Maria e di San Valentino.

Don Davide




La gratitudine della vita

La prima domenica dopo Natale è dedicata alla famiglia di Gesù, la Santa Famiglia di Nazareth. È un riconoscimento per Maria e Giuseppe, che pur disorientati dalla grandezza dell’opera di Dio, hanno accettato di accoglierla e compierla, e di custodire il loro bambino.

Il vangelo di oggi evoca le molte preoccupazioni che dovettero affrontare nel prendersi cura di Gesù, come ogni famiglia nell’educazione dei propri figli. In modo particolare la paura di perderlo, la preoccupazione che la sua vita potesse essere in pericolo o minacciata. Giuseppe e Maria avevano già vissuto una terribile prova, all’inizio della vita di Gesù, quando Erode volle uccidere tutti i bambini di Betlemme. Cosa avranno potuto pensare, loro, una povera famiglia di semplici sconosciuti, di fronte alla persecuzione del re in persona. Quanti perché, quante domande, quanta paura? Quale angoscia di essere braccati, di non poter sfuggire di fronte a una cosa talmente più grande di loro?

In questi giorni di festa si ricordano molti di questi momenti difficili che accompagnano l’infanzia di Gesù, e che mettono in luce anche il terribile paradosso tra un Dio che non vuole costringere i suoi figli e vuole essere amato liberamente, e la violenza degli uomini.

Ma nella scena di Gesù al tempio tra i dottori della Legge, c’è un altro particolare importante per tutte le famiglie. I dodici anni, nella cultura di allora, erano una prima tappa verso la maturità. Le ragazze potevano essere promesse in sposa, i maschi iniziavano lo studio della Legge. In questa scena di Gesù che rimane al tempio, quindi, è simboleggiata anche la fatica di ogni genitore nei confronti dei passaggi di crescita dei propri figli, soprattutto quelli decisivi. C’è una grande gioia nel vedere questi passaggi avvenire in maniera riuscita, ma c’è sempre anche una preoccupazione data dal legame viscerale dei genitori, dall’incognito che i figli si trovano ad affrontare.

Le parole di Maria riflettono questo stato d’animo: “Tuo padre e io angosciati ti cercavamo”. La risposta di Gesù, d’altra parte, incoraggia ogni genitore: “Non sapete che devo occuparmi delle cose del Padre?”.

Ogni figlio e ogni figlia deve aprirsi a questo “destino” che noi chiamiamo l’amore del Padre, e la grande sfida di ogni genitore è quello di accompagnarli e custodirli finché questo amore non si riveli e, allora, lasciarli liberi.

Mi sembra che la festa della Santa Famiglia sia così un inno di grazie a tutti coloro che custodiscono e curano le giovani vite dei bimbi, ai genitori che fanno le notti per mesi e mesi per accudire i propri figli piccoli, che lavorano con fatica per una vita intera per promettere futuro, che si impegnano per offrire possibilità, risorse ed educazione finché ad ognuno non si riveli il proprio “destino”, la chiamata dell’amore del Padre.

La gratitudine nei confronti di chi origina, ama e custodisce una giovane vita, non sarà mai troppa. Celebriamo la festa della Santa Famiglia, proprio dopo Natale, per questo.

 Don Davide