Dagli scritti del beato don Giuseppe Puglisi (1991) 

(Testo di meditazione proposto dal Seminario Arcivescovile di Bologna per il mese di febbraio 2024) 

Siamo testimoni della speranza. Il testimone per eccellenza è Gesù, il testimone fedele e verace (cf. Ap 1,5). Attraverso la sua morte e resurrezione Gesù testimonia la realtà dell’amore infinito di Dio che «ha tanto amato il mondo da dare il suo unico Figlio» (Gv 3,16), e dell’amore infinito del Figlio, il quale ha un amore così grande da dare la vita per i propri amici (cf. Gv 15,13). Questo amore di Dio infinito, eterno, da sempre rivolto verso l’uomo, è presente nella storia dell’umanità intera e di ogni uomo. Il discepolo è testimone, soprattutto testimone della resurrezione di Cristo, risorto e presente, Cristo che ormai non muore più ed è all’interno della comunità cristiana, e attraverso la comunità cristiana, è presente nella storia dell’umanità. 

La testimonianza cristiana è una testimonianza che va incontro a difficoltà, una testimonianza che diventa martirio. Dalla testimonianza al martirio il passo è breve, anzi è proprio questo che dà valore alla testimonianza. 

La testimonianza fa penetrare nell’intima natura di Gesù Cristo, nel segreto del suo essere, nella realtà misteriosa della sua persona. Il testimone sa che il suo annunzio risponde alle attese più intime e vere dell’umanità intera e dell’uomo singolo. L’uomo sperimenta che vivere è sperare, il presente è mediazione tra il già e il non ancora, tra il passato e il futuro e chiaramente ognuno di noi costruisce il proprio futuro sulla base del proprio passato. La speranza è la risultante dell’amicizia nel senso più rigoroso del termine; solo gli amici sperano, solo dove c’è l’amicizia c’è speranza.

Il testimone della speranza è colui che testimonia questa amicizia di Dio; colui che testimonia proprio un’amicizia fedele e a tutta prova di Dio stesso. 

Certo, testimone della speranza è uno che esercita, potremmo dire, la vigilanza; la speranza è vigilante. Gesù parla veramente di attenzione alla presenza di lui, alla sua venuta; ma Gesù è venuto, è presente; testimonianza della speranza è proprio una testimonianza vigilante, attenta alla presenza di Gesù. Il testimone è testimone di questa attenzione alla presenza del Signore, attenzione a Cristo che è presente anche dentro di sé. Il testimone è testimone di una presenza del Cristo presente dentro, anzi dovrebbe diventare trasparenza di questa presenza; e testimonia la presenza di Cristo attraverso questa sua vita vissuta proprio con questo desiderio costante di vivere in una comunione sempre più perfetta con lui, sempre più profonda con lui, in una fame e sete di lui. 

A chi, nel profondo, conserva rabbia nei confronti della società che vede ostile, il testimone deve infondere speranza mostrando, insieme all’annunzio della presenza del Signore che ama, fiducia e donando fiducia. 

A chi è pieno di paure, di ansie e quindi non vuole muoversi, perché ha avuto esperienze negative, il testimone della speranza cerca di infondere certezza, risolutezza creativa, coraggiosa, indicando modi concreti e validi di servizio, facendo comprendere che la vita vale se donata. 

A chi è sfiduciato, impaziente, perché ciò che desidera tarda a realizzarsi, deve infondere senso di abbandono in lui, in Cristo. 

A chi è disorientato, il testimone della speranza indica non cos’è la speranza, ma chi è la speranza: la speranza è Cristo; e lo indica attraverso una propria vita orientata verso Cristo. 

Testimone della speranza è colui che, attraverso la propria vita, cerca di lasciar trasparire la presenza di Colui che è la sua speranza,

la speranza in assoluto in un amore che cerca l’unione definitiva con l’amato e intanto gli manifesta questo amore nel servizio a lui, visto presente nella Parola e nel Sacramento, nella comunità e in ogni singolo uomo, specialmente nel più povero, finché si compia per tutti il suo Regno e lui sia tutto in tutti; manifesta insomma quel desiderio ardente di un amore che ha fame della presenza del Signore. 

 

A cura dei seminaristi.

 




Il Battesimo di Gesù

Leggendo il Vangelo di Marco nella narrazione del Battesimo di Gesù, come gli altri Vangeli che riportano questo evento deflagrante nella storia e nelle vite dei cristiani, siamo invitati a chiederci:

cosa avranno pensato le persone che erano radunate sulle rive del fiume Giordano?

Sappiamo che venivano da Gerusalemme, da tutta la Giudea e dalle regioni intorno al Giordano e possiamo immaginare che fossero fedeli che riconoscevano in Giovanni un profeta o forse persone curiose di incontrare questo uomo carismatico che ripeteva con insistenza che il Regno di Dio stava arrivando, che occorreva per questo convertirsi e che aiutava a farlo attraverso un rito che usava l’acqua del fiume Giordano come strumento di purificazione, in continuità con quanto profetizzava Ezechiele.

Certamente, come seguaci di Giovanni o, semplicemente, persone che lo avevano ascoltato, erano rimasti colpiti sentendolo dire: “Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non sono degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali; costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco…”.

Immaginiamo, quindi, che ogni volta che questo rituale di purificazione e perdono avveniva, nei pressi del Mar Morto, dovessero esserci una moltitudine di persone piene di fede, desiderose di riconciliazione e nell’attesa di conoscere chi potesse essere il Messia che Giovanni annunciava.

Quel giorno, fra i tanti che chiedevano di essere battezzati, c’era Gesù, che ai più doveva semplicemente apparire come uno dei tanti fedeli penitenti.

Chissà cosa hanno pensato quelli che hanno sentito Giovanni rispondere a Gesù che gli chiedeva il battesimo: “Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?”. Possiamo immaginare una folla stupita, perplessa e in questo clima sospeso di fede e interrogazione ecco l’inimmaginabile.

È ragionevole pensare che siano tutti stati travolti da una luce indescrivibile, inondati dallo Spirito, forse atterriti dalla parola di Dio e certamente nessuna di quelle vite è più stata la stessa di prima.

Noi apparteniamo alle generazioni di coloro che pur non avendo veduto credono, e Gesù ci ha definiti beati per questo.

Siamo senz’altro beati quando riceviamo il Battesimo e rinnoviamo le promesse battesimali, grazie a Gesù, che nella sua umiltà e nel suo infinito amore ha creato questo nuovo Sacramento, sentiamo il cielo che si apre, la presenza di Dio che entra nelle nostre vite, lo Spirito Santo che ci abita, illuminando i nostri sentieri.

Ogni volta è come ritrovarsi sul Giordano, rimanere attoniti fissando il cielo che si squarcia, senza fiato sentendo la parola di Dio, ricolmi di quella gioia che fa sembrare il nostro cuore umano troppo piccolo per contenerla, per fortuna siamo diventati tutt’uno con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

Elena e Luca




Santa Famiglia

Una Santa Famiglia? Perché no?

Tutti noi vorremmo una bella famiglia, una famiglia felice, addirittura una famiglia santa, se crediamo in Dio. Il brano del Vangelo che la Liturgia ci propone oggi parla proprio di questo: come è, come si riconosce la santità di una famiglia, quella di Gesù.

Il racconto non riporta miracoli o gesti speciali, ma solo gesti ordinari.

Ci viene infatti presentata una famiglia che va al Tempio e incontra altre persone, che appartengono ad altre famiglie, con età e storie completamente differenti: un vecchio e una vedova. Una famiglia che non si isola davanti a sconosciuti, ma si ferma e ascolta. E se non capisce, non rifiuta, non controbatte, ma ripone nel cuore, per pensarci con calma.

Sono cose normali, ma portano frutto.

Il figlio, la finestra aperta sul futuro di quella famiglia, cresceva in sapienza, età e grazia.

La santità di questa famiglia non viene dal fare cose straordinarie, ma dal modo in cui fa quelle normali.

Il racconto inizia e si conclude menzionando esplicitamente il suo stile: presentandosi al Signore, cioè vivendo sotto lo sguardo del Signore.

La famiglia di Gesù è allora certamente la Santa Famiglia, il modello per tutte le famiglie.
Ma anche della famiglia di Abramo e Sara, di cui parlano le altre letture, si può dire che sia stata una Santa Famiglia, perché anche loro hanno affidato la loro vita al Signore.
E noi? Anche noi possiamo affidare la nostra vita al Signore per far diventare Santa la nostra famiglia!

In questa famiglia c’è spazio per tutti: bambini, adulti e anziani.

Tutti contribuiscono e vanno ascoltati perché tutti hanno qualcosa da dire davanti al Signore. Per Maria e Giuseppe, per Abramo e Sara, il Signore era il Dio che con l’Alleanza sul Sinai aveva promesso di stare sempre col suo popolo per proteggerlo con la sua potenza. Per noi, il Signore sotto il cui sguardo porre la nostra vita è quel Gesù che, dopo aver vissuto nella sua famiglia, ha mostrato come la potenza di quella protezione si manifesta nella mitezza e nella tenerezza.

Questa festa ci dice allora come, vivendo sotto lo sguardo del Signore, anche noi possiamo essere una Santa Famiglia, se siamo adulti, o prepararci ad esserlo, se siamo giovani. E la bellezza della speranza che nasce dal fare nostro il senso di questa festa è l’augurio migliore per iniziare il nuovo anno.

Carla e Paolo Bassi




L’uomo del deserto e il portavoce

Giovanni il precursore è il più grande fra i nati da una donna. Lo Spirito Santo in lui si manifesta ancora prima della sua venuta al mondo, quando è nel grembo materno.

E l’epoca di Giovanni vide un fiorire di gioventù radicalmente votata al Signore. Il luogo della meditazione scelto da Giovanni e da quelli come lui è il deserto.

Persino Gesù si recherà nel deserto per pregare, digiunare e, nell’assoluto silenzio, nella più alta solitudine, unirsi a Dio nella contemplazione.

E nella perfetta solitudine del mistico Gesù verrà tentato dal demonio in quella lotta terribile che pone l’uomo, persino il figlio di Dio nella sua natura umana, innanzi alla scelta suprema fra Dio e i beni mondani. Il mistico rinuncia al caos mondano, si ciba di locuste e miele selvatico, diviene anche nella sua figura corporea un essere potentemente spirituale. La sua opera è invisa ai sacerdoti del tempio, poiché coloro che da lui vengono purificati dai peccati mediante il battesimo non sentono più l’esigenza di offrire olocausti. E allora i sommi sacerdoti mandano degli emissari a chiedergli chi egli sia.

Alla domanda Giovanni non si sottrae. Risponde di non essere il Cristo, rivela la sua identità triplice di testimone, profeta e sommo sacerdote del Messia che viene. Di se stesso Giovanni ha tutto: egli è una voce che grida nel deserto. Il deserto che è il luogo fisico e psichico nel quale si è ritirato affinché questa voce, profetica e sacerdotale, non potesse essere confusa con il clamore mondano: grida l’ultimo dei profeti e il primo di una nuova stirpe di sacerdoti, si presenta come il primo uomo chiamato da Dio a seguire una voce, Abramo. Giovanni il precursore, ha dentro di se la parola di quella voce che chiama Abramo, incarna quella voce di totale cambiamento che avrà l’apice del suo compimento in Gesù.

Giovanni sente dentro di sé la voce: “Vattene”. Sono uomini che sentono quel “Vattene nel deserto” esci dalla tua consuetudine, dal rumore mondano, vattene nel luogo del perfetto silenzio della contemplazione dove è Dio.

Chi è oggi l’uomo del deserto?

È quella scandalosa creatura che, con le parole del poeta Massimo Morasso, può essere chiamata “il portavoce”.

Qual è il deserto nel quale l’uomo del nostro tempo può ritirarsi per incontrare Dio?

Nel raccoglimento dentro se stesso, nell’attenzione che è un’attitudine in prima istanza interiore possiamo udire la voce che parlò ad Abramo, identica, nei millenni. L’anima è la depositaria della chiave, è la protagonista onnipotente della chiamata perché è divina. Un’anima digiuna di cibo terreno e per questo più affamata e delle parole dell’Eterno delle verità gloriose dei Cieli. Una volta tornati dal deserto con questo tesoro intangibile di cui l’anima è custode siamo chiamati a diventare, in quanto eredi di Giovanni, il portavoce. Questo è rendere testimonianza alla luce nel nostro tempo. “Vattene nel deserto, abbandona le tue comodità, conoscimi, custodiscimi, diventa il mio portavoce”.

Il Magnificat, la risposta data a Maria a sua cugina Elisabetta che salutandola ha sentito esultare dentro il suo grembo Giovanni: le prime protagoniste e depositarie del più grande mistero che Dio condivide con l’umanità sono due donne in gravidanza. Esse sono la radice della regalità e del sacerdozio, sono portatrici carnali del sacro. Il salmo ci parla di una totale adesione, la totale adesione di Maria al disegno divino che la riguarda. Un’adesione che non chiede garanzie, come è quella di Giovanni. L’uomo che sa affidarsi alla sua anima è, come ricorda san Paolo, un uomo intero. Il dio che chiama Abramo, Giovanni, Elia, Maria, non mente, non è una voce falsa, è una voce affidabile che promette la santificazione dell’uomo in spirito, anima e corpo, nella sua interezza e chiede solo in cambio di astenersi dal male: di amare.

Sarah Tardino

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Per tutti sarà Natale

In un’era di attese deluse
e risposte mancate,
mentre millenarie certezze
crollano annichilite
e ideologie di carta
balbettano il nulla,
nel paradosso di esistenziali antitesi
(frenesia di onnipotenza –
proclamata casualità del tutto)
che divorano l’uomo,
nel nostro cuore
che anela all’infinito
grida ancora l’attesa:
“Quando verrai, Signore? Perché indugi?
Grovigli d’ingiustizie
incatenano l’uomo,
soprusi intollerabili ne infrangono
l’innata dignità,
e noi, Tuoi figli,
nell’oscuro crepuscolo del mondo,
non abbiamo più mani
per raccogliere strazi senza voce!”
Ma il tempo del Signore
non contempla ritardi o fallimenti
né facili vendette:
nell’alveo dei millenni
scorre il fiume infinito
di una pietà sapiente
che attende,
con pazienza amorosa,
che ogni tralcio
si riannodi alla vite,
che ogni agnello perduto
sia riabbracciato.
Egli verrà, a illuminar le genti,
incendiando i colori dell’aurora,
a ricomporre stinti frammenti
di storia senza volto
in un mosaico denso
di trama e verità.
Respirando
nel diaframma del mondo,
cooperatori di pietà e giustizia,
ogni sole che sorge
accenda il nostro cuore,
ogni umano dolore
ci appartenga.
Solo così per tutti
sarà Natale.

Carla Roli




Cosa fare dei nostri talenti?

Il Vangelo di questa Domenica potrebbe farci pensare che il Signore ci valuti per il risultato che sappiamo raggiungere usando i doni ricevuti, ma non è così, non è una valutazione sul successo e men che meno una questione quantitativa. Lui, che conosce le nostre debolezze e le nostre insicurezze, ci richiede un impegno, la spinta per usare le nostre capacità, con perseveranza, per fare qualche cosa di buono nelle realtà che ogni giorno incontriamo.
Oggi è la Giornata Mondiale dei Poveri, istituita da Papa Francesco che ci esorta a

«Non distogliere lo sguardo dal povero» (Tb 4,7)

La Giornata Mondiale dei Poveri, segno fecondo della misericordia del Padre, giunge per la settima volta a sostenere il cammino delle nostre comunità. È un appuntamento che progressivamente la Chiesa sta radicando nella sua pastorale, per scoprire ogni volta di più il contenuto centrale del Vangelo.

Ogni giorno siamo impegnati nell’accoglienza dei poveri, eppure non basta.

Un fiume di povertà attraversa le nostre città e diventa sempre più grande fino a straripare; quel fiume sembra travolgerci, tanto il grido dei fratelli e delle sorelle che chiedono aiuto, sostegno e solidarietà si alza sempre più forte. Per questo, nella domenica che precede la festa di Gesù Cristo Re dell’Universo, ci ritroviamo intorno alla sua Mensa per ricevere nuovamente da Lui il dono e l’impegno di vivere la povertà e di servire i poveri.”
Quanto spesso ci verrebbe da distogliere lo sguardo, e a volte lo facciamo, specie quando chi ci chiede aiuto è insistente, a volte non ci convince e ci fa venire dubbi, …ma sarà vero che ha bisogno, ma non sarà uno stile di vita? È difficile esaminare tutto, è difficile ricordare sempre che abbiamo di fronte un fratello, una sorella che stanno chiedendo innanzitutto la nostra attenzione e ai quali non possiamo negare almeno un sorriso o una buona parola. Ricordo l’esortazione di mons. Antonio Riboldi, Parroco del Belice e poi Vescovo di Acerra:

“non dobbiamo parlare dei poveri, ma essere poveri…” .

C’è proprio la necessità di stare accanto alle persone con un impegno di ascolto e di vicinanza; tante volte ci sentiamo impotenti davanti ai problemi che si presentano, cerchiamo di dare un aiuto concreto, di individuare una via che porti ad una soluzione. Nelle volte in cui non si riesce a compiere il percorso di guarigione o di superamento di una grossa difficoltà si è tentati dallo scoraggiamento o dal pensare che sia stato tutto inutile, ma non è così, e allora capita che sia l’ascoltato che conforta chi sta cercando di aiutarlo perché si è instaurato un dialogo di condivisione che già di per sé ha un grande valore.
Servire i poveri vuol dire innanzitutto affiancarsi nel cammino e condividere il peso della vita; non risolvere miracolosamente i problemi, ma farli sentire non più soli ad affrontarli, consapevoli di avere a fianco qualcuno che si può sempre chiamare nei momenti bui, qualcuno che non giudica, che non si pone più in alto, che apprezza la tua umanità.
Essere amici e fratelli dei poveri è una ricchezza che tutti dovremmo provare.

Antonella e Paolo Nipoti




Il Matrimonio

Che bellezza i matrimoni! 

Mi piace molto andarci fin da piccola: sei insieme a tante persone a cui vuoi bene, c’è solo da festeggiare e perdi la cognizione del tempo mangiando come se non ci fosse un domani! 

Solo cose belle, solo sorrisi, solo sogni realizzati e sogni realizzabili grazie a quella scelta così incoraggiata e condivisa.

La felicità è possibile, almeno quel giorno. 

Nella parabola del Vangelo di oggi c’è uno Sposo e ben dieci ragazze che possono presentarsi tutte all’appuntamento.  

Ma è di un matrimonio che stiamo parlando? O di qualcosa che gli somiglia, ma è ancora di più? 

In questa storia c’è più di una stranezza:  

è lo Sposo che tarda ad arrivare e si fa aspettare anche a lungo; 

– inspiegabilmente la metà delle giovani si comporta come se non si fosse preparata PRIMA a tutto ciò che può succedere. 

Queste cinque donne cosa avevano di più importante da fare quando stavano preparandosi per andare alla celebrazione? Cosa le ha distratte nel momento in cui non hanno portato con sé tutto il necessario, tanto da rischiare di rimanere fuori da quella che poteva essere la festa della vita? 

Queste vergini, come le chiama il Vangelo, sono una metafora della sposa, cioè persone che hanno nel loro futuro la possibilità di incontrare lo Sposo; ma una donna diventa sposa solo quando si innamora. 

Le vergini sono dieci, che è un simbolo di pienezza, perché questo incontro gioioso è come un matrimonio tra Dio e ognuno di noi, tra Dio e l’intera umanità. 

L’olio delle vergini vigilanti non rappresenta un dettaglio: è l’Amore, frutto dell’esercizio dell’amare, giorno dopo giorno. 

Per questo quell’olio non si può prestare e non può mancare nelle mani di una promessa sposa, perché rappresenta l’amore che ti ha portato fin lì. Se hai solo quello all’interno della tua lampada, tra poco finirà; e se non hai altro carburante che scaldi il tuo cuore e illumini la tua strada con Lui, allora vuol dire che per te quello è soltanto un incontro come tanti e fra poco qualcos’altro prenderà la tua attenzione, la tua passione e la tua volontà. Ti presenti all’appuntamento, ma in realtà stai ancora decidendo se lo Sposo è la persona giusta a cui affidarsi, se è davvero quello che vuoi. Lo Sposo tarda ad arrivare perché non vuole che sia già tutto stabilito, ma fa in modo che l’attesa e la notte rivelino a noi stessi quanto desideriamo essere davvero felici e quanto siamo disposti a prepararci, ad essere pronte e pronti per questo. 

Il vero Amore non capita, si sceglie in mezzo alle mille altre cose che succedono nella vita:

Dio ci dice che il tempo delle lacrime finirà e che, scegliendo Lui, il nostro destino è una festa senza fine in cui godere la piena felicità. 

Anna Maria D’Antona




Terapia della fraternità

Non siamo figli tutti di un unico Dio? E non siamo così tutti fratelli? Perché agire l’uno contro l’altro?
Le domande sono lecite davanti alla cronaca di tutti i giorni, alle guerre e alle devastazioni, ai contrasti che si possono vivere nel quotidiano con chi ci è vicino.

Nella enciclica ‘Fratelli tutti’ papa Francesco suggerisce una terapia della fraternità

per guarire dalle ferite aperte dalle paure della diversità. L’altro, nella sua differenza con me, sembra alimentare il disagio. Il popolo accanto al mio, nella propria identità appare un pericolo verso la mia esistenza.

Nei decenni scorsi sembrava che l’umanità avesse imparato dai propri errori, dalle guerre mondiali, dai conflitti, ma gli EGO sparsi nel mondo hanno inventato pure una ‘guerra mondiale a pezzi’, proprio mentre la tecnologia tesse la rete del villaggio planetario. Violenze, persecuzioni, migrazioni forzate, dignità umane lese, mirano a prevaricare l’altro e mentre disprezzo l’altro, dimentico me stesso, il mio essere figlio dello stesso Dio, il mio appartenere alla stessa umanità. La differenza dell’altro non è più la mia ricchezza, lo svelamento del mio essere fratello e le paure nutrono il mio andare lontano da tutti e da tutto, isola tra gli isolati.

Il conforto, la cura della fraternità, passa proprio attraverso la misericordia grande del Padre

che non ci vuole tra noi come partner commerciali, ma come ‘fratelli tutti’, perché da soli non ci si salva.

Non ci vuole come coloro che creano gravami interessati per le strade delle nostre relazioni, ma vuole che ognuno occupi il giusto posto, quello dei carismi ricevuti, dei doni personali da condividere, della ricchezza delle proprie qualità da offrirci l’un l’altro come vera terapia, perché siamo tutti fratelli, figli amati dello stesso Dio, alleati fra noi per la pace.

Francesco Paolo Monaco




Intervento di Don Davide al sit-in del 1 ottobre

Scarica l’intervento di Don Davide al sit-in




La salvezza di Dio comprende tutto

Due figure femminili accomunate da un particolare
La pagina del Vangelo di questa settimana (Marco 5, 21-43) non lascia spazio a dubbi sull’Amore che Dio nutre per noi, perché qui esso è espresso da suo figlio Gesù di Nazaret, attraverso due guarigioni di due donne molto diverse, ma accomunate da qualcosa di interessante.

Il numero 12 (1+2= 3)
Nel racconto, entrambe hanno a che fare col numero 12: la donna è malata da tempo e questo dato ci viene fornito chiaramente: “una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici”;
La figlia di Giairo, il quale implora l’aiuto di Gesù perché lei sta morendo ha un’età precisa la fanciulla (…) aveva infatti dodici anni 

Il dodici indica la pienezza dell’anno, composto di dodici mesi, ma anche e soprattutto perché rappresenta il numero dell’elezione, quello del popolo di Dio. “

Dodici i figli d’Israele-Giacobbe; Dodici quindi le tribù d’Israele; Dodici gli apostoli: esso è un numero simbolico che rappresenta la totalità della vita, la ricomposizione di qualcosa che in origine era perfetto e armonico e finalmente, dopo aver superato mille difficoltà, ritorna Uno, Sano, Integro.

Il sangue e la tenacia
Una volta mi capitò di avere un’emorragia dal naso, improvvisa e violenta: ero nel chiostro della mia università ospitata da un ex convento, dove noi studenti ci fermavamo a chiacchierare, a mangiare un panino. C’era gente, ma nessuno si avvicinò per aiutarmi, mentre tiravo fuori fazzoletti dalla borsa tentando di bloccare il sangue.
Lo capii: erano gli anni dei primi sieropositivi all’HIV e il sangue faceva paura così come calpestare una delle innumerevoli siringhe lasciate a terra nei parchi dai tossicodipendenti.
Me la cavai, ma pensai che se fossi svenuta avrei avuto tutti attorno, mentre la sola vista del sangue, aveva scoraggiato anche i più solerti “samaritani”.

La donna di questo brano ha attraversato difficoltà infinitamente più gravi delle mie: ha subito molte sofferenze e delusioni e la sua vita si è completamente identificata con una condizione di malattia e rifiuto sociale: ma per guarire, è disposta a rischiare.
Questa donna si sente impura, ma si getta nella folla per raggiungere un contatto diretto con Gesù: non basterà vederlo, chiamarlo, ma dovrà toccarlo. Quando noi usiamo l’espressione “toccare con mano”, vogliamo dire che abbiamo fatto un’esperienza reale di quella condizione: ebbene questa donna ci riesce: “e sentì nel suo corpo che era guarita dal male”. E Gesù infatti “essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?”. Vuole guardare negli occhi chi è riuscito a ricevere per sé, parte di quel principio che ridona vita laddove sembra regnare solo morte e sofferenza. Non c’è salvezza senza incontro reale: solo quando può dirle, direttamente guardandola negli occhi: “Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”, la donna può davvero riprendere in mano la sua vita.
Gesù le dà atto di non essersi arresa, di aver avuto fiducia pur vivendo una condizione in cui l’istinto ti porterebbe a metterti in un angolo e bloccarti. Anche solo camminare perdendo continuamente sangue, ti dà la netta sensazione di essere in difetto: ti senti svenire, ti senti sporca, senti che tutti potrebbero accorgersi dei tuoi vestiti macchiati. E allora osare di voler guarire è un atto di fede che Gesù apprezza talmente tanto da dire alla donna che è salva: e mi viene da pensare che la salvi non solo dalla malattia del corpo, ma anche da tutte quelle dell’anima, in modo che finalmente possa dedicarsi a costruire il Regno di Dio su questa terra a volte polverosa ed arida, all’interno di una comunità ritrovata.

La giovinezza e la fragilità
La seconda figura femminile è giovanissima e viene descritta come senza vita, esanime, esangue. Potrebbe rappresentare l’esplosione della vita (a dodici anni, spesso si diventa donne) che viene bloccata da un qualsiasi evento improvviso e grave: qualcosa sta rubando ad una ragazza che invece dovrebbe avere tutta la vita davanti, ogni possibile futuro.
Qui Gesù su comporta come un marziano: non si scompone, dice al padre «Non temere, soltanto abbi fede!» e quando arriva a casa di Giairo e gli dicono che la bambina è morta risponde: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». Ovviamente viene deriso, ma questa volta invece di agire nella folla, sceglie pochissime persone da portare con sé nella stanza della figlioletta di Giairo e la guarisce con una frase chiara e decisa: «Talità kum». E il linguaggio cambia: scopriamo che non è più una bambina, ma una fanciulla che, come dicevamo all’inizio, ha dodici anni. Anche qui c’è un passaggio avvenuto: la bambina potrebbe aver avuto paura di crescere, oppure potrebbe essersi arresa al primo pericolo che l’ha sorpresa e non ha lottato: si è abbandonata, molto presto all’altra sorella della vita, la morte. Gesù però fa sentire forte la sua voce, per risvegliare quelle parti di noi che hanno paura di crescere, di cambiare, di lanciarsi nell’imprevedibilità della vita e donare loro nuovo vigore. Quando accogliamo la voce di Dio, diventiamo più grandi, più completi proprio perché abbiamo superato uno snodo critico della nostra crescita.

È quando superiamo le prove (e la pandemia lo è sicuramente) che produciamo finalmente una trasformazione. Le prove difficili sono le uniche che portano ad una vera crescita. In molte culture i riti iniziatici si compiono all’età di 12 anni, dopo di che si entra in un’età adulta. Quindi quando le prove si presentano, non fuggiamo, non anestetizziamoci: superiamole per diventare grandi e completi. Ricordando che all’orizzonte, come leggiamo nell’Apocalisse c’è una Donna vestita di sole ha in capo una corona di dodici stelle, vale a dire un’umanità scelta da Dio per realizzare un mondo in cui pace ed armonia regnino per tutti e per sempre.

Anna Maria