Papa Francesco a Bologna, 21/04/2018

Cari fratelli e sorelle,
vi saluto tutti con affetto. Grazie per la vostra presenza festosa! Con questa visita presso la tomba di Pietro voi ricambiate quella da me compiuta alle vostre Comunità diocesane il 1° ottobre dello scorso anno. Ve ne sono molto grato. […]
Conservo viva la memoria degli incontri che ho vissuto nelle vostre città. Non dimentico l’accoglienza che mi avete riservato e i momenti di fede e di preghiera che abbiamo condiviso, ai quali hanno preso parte fedeli provenienti da ogni parte delle vostre rispettive Diocesi. È stato un dono della Provvidenza per confermare e rafforzare il senso della fede e dell’appartenenza alla Chiesa, che chiede necessariamente di tradursi in atteggiamenti e gesti di carità, specialmente verso le persone più fragili. […]
L’occasione della visita a Bologna fu offerta, come voi ben sapete, dalla conclusione del Congresso Eucaristico Diocesano. Il fervore suscitato da quell’evento ecclesiale, che ha raccolto numerose persone intorno a Gesù eucaristico, possa prolungarsi nel tempo, non affievolirsi ma accrescersi e portare frutti, lasciando un’impronta indelebile nel cammino di fede della vostra Comunità cristiana. Come ho ricordato nella recente Esortazione apostolica Gaudete et exsultate, «condividere la Parola e celebrare insieme l’Eucaristia ci rende più fratelli e ci trasforma via via in comunità santa e missionaria» (n. 142). L’Eucaristia, infatti, fa la Chiesa, la aggrega e la unisce nel vincolo dell’amore e della speranza. Il Signore Gesù l’ha istituita perché rimaniamo in Lui e formiamo un solo corpo, da estranei e indifferenti gli uni agli altri diventiamo uniti e fratelli.
L’Eucaristia ci riconcilia e ci unisce, perché alimenta il rapporto comunitario e incoraggia atteggiamenti di generosità, di perdono, di fiducia nel prossimo, di gratitudine. L’Eucaristia, che significa “rendimento di grazie”, ci fa percepire l’esigenza del ringraziamento: ci fa capire che «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35), ci educa a dare il primato all’amore e a praticare la giustizia nella sua forma compiuta che è la misericordia; a saper ringraziare sempre, anche quando riceviamo ciò che ci è dovuto. Il culto eucaristico ci insegna anche la giusta scala dei valori: a non mettere al primo posto le realtà terrene, ma i beni celesti; ad avere fame non solamente del cibo materiale, ma anche di quello «che dura per la vita eterna» (Gv 6,27). Cari fratelli e sorelle, gli uomini e le donne del nostro tempo hanno bisogno di incontrare Gesù Cristo: è Lui la strada che conduce al Padre; è Lui il Vangelo della speranza e dell’amore che rende capaci di spingersi fino al dono di sé. Ecco la nostra missione, che è ad un tempo responsabilità e gioia, eredità di salvezza e dono da condividere. Essa richiede generosa disponibilità, rinuncia di sé e abbandono fiducioso alla volontà divina. Si tratta di compiere un itinerario di santità per rispondere con coraggio all’appello di Gesù, ciascuno secondo il proprio peculiare carisma. «Per un cristiano non è possibile pensare alla propria missione sulla terra senza concepirla come un cammino di santità, perché “questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione” (1Ts 4,3). Ogni santo è una missione; è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo» (Gaudete et exsultate, 19). Vi incoraggio a far risuonare nelle vostre comunità la chiamata alla santità che riguarda ogni battezzato e ogni condizione di vita. Nella santità consiste la piena realizzazione di ogni aspirazione del cuore umano. È un cammino che parte dal fonte battesimale e porta fino al Cielo, e si attua giorno per giorno accogliendo il Vangelo nella vita concreta. […]
Vi ringrazio ancora per questo incontro. Vi chiedo per favore di continuare a pregare per me, e di cuore vi imparto la Benedizione Apostolica, che estendo a tutti coloro che compongono le vostre Comunità diocesane.




Il Crocicchio: 50° di Don Valeriano

CINQUANT’ANNI DI PRETE

La figura ministeriale del prete è stata spesso ingessata in un ruolo istituzionale, al punto che in passato ci si è divisi in clericali (nel senso di favorevoli ai preti) e anticlericali. Oggi questa distinzione è molto più variegata e meno polarizzata, perché la figura del prete appare in decadenza: ci sono poche vocazioni, il ministero non è ben definito e, salvo qualche residuo atteggiamento ossequioso, al ruolo del prete non è più riconosciuto di per sé alcun valore o prestigio. La situazione non varia che la si pensi fuori dalle parrocchie o all’interno. Posto che ormai la porzione all’interno delle parrocchie descrive una piccolissima minoranza, quasi irrilevante in termini di statistica generale, anche nelle parrocchie bisogna registrare che il prete non ha più uno status ufficiale, legato al ruolo: c’è chi lo apprezza e chi preferiva quello precedente; c’è chi spera che non vada mai via e chi non vede l’ora che arrivi quello nuovo; ci sono quelli che lo criticano perché essendo giovane è troppo “moderno” e quelli che, invece, essendo anziano lo ritengono troppo “vecchio”. Poi ci sono quelli che lo vorrebbero più in chiesa e quelli che lo vorrebbero un prete di strada, e quelli che “il parroco non va mai a trovarli” e gli altri che vanno in ufficio e “il parroco non c’è mai”.

Si potrebbe andare avanti quasi all’infinito con questa buffa e a dire il vero troppo stereotipata rassegna, che però ha il pregio di mettere in luce la fisionomia sfumata, poliedrica, sovraccarica di aspettative e necessariamente “liquida” del ministero del prete oggi.

Di fronte a queste considerazioni però, possiamo cogliere il motivo profondo di fare festa a un prete come don Valeriano che da cinquant’anni svolge il suo ministero con fedeltà, spirito di servizio e impegno. Così come nella vita di un laico c’è una grandezza che tante volte si dà per scontata, ma che spesso è sotto gli occhi di tutti – quando ad esempio si pensa alla cura dei figli, alla capacità di muoversi tra i mille impegni quotidiani, all’assumersi le responsabilità della vita o all’accudire i genitori diventati anziani mentre tutto gli altri impegni rimangono e si intensificano – allo stesso modo anche nella vita di un prete c’è un tratto umile, ma che dovrebbe suscitare meraviglia e gratitudine.

Spero che sia chiaro che non è una questione di fare dei confronti, ma di vedere il reale e di capire l’importanza di celebrare un anniversario.

Si pensi all’impegno di un prete, quando cambia il ministero o la parrocchia, di amare realmente persone che ancora non si conoscono, volti che non rappresentano una storia, mentre hai un bagaglio di affetti a cui hai dato la vita, che ti lasci alle spalle. Si pensi a un parroco come don Valeriano che è stato per più di due decenni alla guida di una comunità, cedere il posto a un giovane rampante di quasi quarant’anni più giovane di lui, accoglierlo, accettare il confronto, indulgere ai suoi errori, portare pazienza con ciò che, inevitabilmente, chi viene dopo non può conoscere. Si pensi al logoramento di energie che rappresenta la guida di una comunità cristiana, che non è un’azienda con dei dipendenti, ma una comunità, appunto, in cui devi continuamente tessere relazioni, coinvolgere, suscitare partecipazione, delegare, guidare, accogliere le differenze e fare spazio a ciò che tu magari non faresti mai, e lo puoi fare solo dando tutto te stesso in ogni frangente.

A questo, si aggiunga la cura certosina per custodire un celibato autentico, che faccia fiorire la capacità di amare e non l’atrofizzi, o che cosa significhi per l’unità emotiva di un uomo amare non una persona o una famiglia, ma molti (se non proprio tutti), sempre diversi, ciascuno in un modo singolare e adatto.

Infine, si provi a fare un’ultima considerazione, che suggerisco con una specie di gioco, seguendo la vita e il ministero di don Valeriano attraverso le decadi.

Nel 1967, quando è stato ordinato don Valeriano, si era all’alba di quella che è stata definita, da alcuni sociologi, la vera cesura tra due epoche e la chiesa cambiava volto dopo la celebrazione del Concilio Vaticano II. Immaginiamo un giovane prete, con l’educazione del seminario e il vento nuovo in poppa, inserirsi in una parrocchia dove l’impostazione pastorale e il rapporto con il parroco (allora c’erano ancora i cappellani!) erano rigidamente impostati su modelli pastorali fissi da quasi cent’anni. Don Valeriano, ad esempio, racconta spesso i rientri in canonica di soppiatto per non svegliare il parroco don Brini, dopo le “fughe” con i ragazzi a giocare a pallone…

Passiamo a dieci anni dopo. Di recente mi hanno raccontato che nel 1977 si fece la processione del Congresso Eucaristico con l’Eucaristia scortata dalla polizia in assetto antisommossa e i carri armati per le strade di Bologna. Erano gli anni in cui si interrogava (già allora!) su una nuova evangelizzazione e su come far sì che una rinnovata celebrazione dei sacramenti potesse costruire la comunità cristiana.

Nel 1987 c’erano i Duran Duran, poco dopo sarebbe caduto il muro di Berlino, c’era stato il referendum sull’aborto all’inizio del decennio e la vita delle parrocchie cominciava a sembrare di un altro pianeta rispetto alla vita “del mondo”. E i preti lì, a cercare di reinventarsi, di proporre qualcosa che intercettasse la vita dei giovani; e giù a fare i campi estivi e a realizzare le prime tracce di quella che sarebbe poi diventata l’Estate Ragazzi.

Nel 1997 erano comparsi i computer e i cellulari. Io ero in seminario e, a dispetto di questa ventata di modernità, in seminario erano entrambi vietati: tanto per dire che rappresentazione del mondo c’era ancora all’interno delle strutture della chiesa. L’Estate Ragazzi era diventata un meccanismo imponente e a Bologna si celebrava con una certa grandeur il Congresso Eucaristico Nazionale, direi beffardamente quasi per prendere commiato dalla rilevanza pubblica della vita della chiesa. In quegli anni, si cominciava a intuire nitidamente che serviva una riforma delle parrocchie, che i preti sarebbero diventati pochi, pochissimi, praticamente scomparsi nel giro di poche decine di anni, ma si scelse di andare avanti col paraocchi, come chi sta cadendo dal grattacielo e dice: “Fin qui tutto bene, andiamo pure avanti…”.

Nel 2007 era appena stato inventato l’iPhone, se non eri su Facebook eri già considerato un apolide e il primo video su YouTube era stato caricato due anni prima: i cellulari e i computer erano diffusi a livello planetario e non erano più vietati nemmeno in seminario. Il Congresso Eucaristico Diocesano di quell’anno non se lo ricorda praticamente nessuno, ci si cominciava a disperare che non c’erano più cappellani (io che avevo appena iniziato il secondo incarico ero considerato un marziano due volte, perché non avevo ancora Facebook…) e si intravedeva la fine della chiesa italiana, o almeno bolognese, perché la nostra preghiera per le vocazioni (solo quelle sacerdotali, beninteso!) non veniva ascoltata…

Poi siamo arrivati ad oggi: don Valeriano non è più parroco, ma è ancora un grande prete, la tv non si guarda più perché trovi tutto su YouTube, se parli con i ragazzi Facebook è già vecchio, la politica – si dice – è finita (ma io non sono d’accordo), pare che abbiamo molti problemi col gender, e c’è papa Francesco che ci invita ad uscire e guida la Chiesa con inedita profezia…

Attraverso questo percorso, i preti come don Valeriano sono passati dall’invito a curare il gregge a quello di uscire fuori; dall’impegno a rinnovare la catechesi a vedere che non ci sono nemmeno i presupposti per la catechesi e che bisogna fare invece primo annuncio; da una pastorale dottrinale alla dottrina della pastorale. E in tutti questi passaggi, sono stati lì, a cercare di guidare le loro comunità, accompagnare decine e decine di generazioni nei sacramenti e nei passaggi decisivi della loro vita, a volere bene a migliaia di persone, ad adattarsi continuamente e, quasi ottantenni, a reinventarsi, aggiornarsi, sforzarsi di stare al passo, alcuni con ancora il peso della comunità sulle spalle. E mentre dicono il breviario usando lo smartphone e pensano al sito internet della parrocchia, fanno ancora le Quarant’ore, benedicono i santini, le uova e l’ulivo, ascoltano le persone, assolvono nuovi e antichi peccati, organizzano la processione con la Madonna e la Sagra del Tortellone (no dai, quella da noi no!); il tutto con l’invito ad abbondonare le sagrestie e la nobile grandezza della chiesa trionfante per andare nelle strade e fare della chiesa un ospedale da campo, sollecitati a superare gli schemi che per anni hanno dovuto difendere e a vivere come grazia un tempo che da tutti è considerato di crisi.

È per questa fedeltà umile e duttile, oggi simbolicamente espressa da don Valeriano nel suo esserci sempre, in chiesa e al servizio della nostra comunità, che noi lo festeggiamo, lo ringraziamo e celebriamo i suoi cinquanta anni di ordinazione presbiterale, perché in tutti questi anni attraverso il cambiamento del mondo, alla sequela del Buon Pastore e nella giovinezza dello Spirito, ha saputo trovare il tempo e lo spazio per le persone e per la Chiesa.

 

PICCOLA STORIA SEMI-SERIA DELLA “CARRIERA” DI DON VALERIANO

Don Valeriano è nato il 27/11/1938 a San Lazzaro di Savena. Per sei anni ha vissuto alla Croara, con i suoi genitori Enrico e Ida e i suoi fratelli Livio e Ada, finché le ultime bombe della guerra non lo hanno costretto a diventare un “cittadino”. Segno premonitore che sarebbe diventato parroco di una delle parrocchie più belle e importanti del Centro storico?

Nelle case popolari di Via Pier Crescenzi 30, ha conosciuto Padre Marella, che teneva l’oratorio nel cortile, e il giovane Valeriano cominciò così ad assimilare i tratti di una vita santa. Sempre seguito e accompagnato da Padre Marella, a sedici anni entrò nel Seminario di Pennabilli e poi in quello di Senigallia, e qui iene da porsi le prime domande: ma a Bologna non lo volevano?

Finalmente ritornò nel Seminario della sua città per la formazione teologica, fino al fatidico giorno dell’Ordinazione, il 25/07/1967, per la preghiera e l’imposizione delle mani del Card. Giacomo Lercaro, insieme a una bella schiera di preti in gamba, segno inconfondibile di un marchio di qualità.

Dopo l’ordinazione tornò nella sua parrocchia dei SS. Filippo e Giacomo, a fare il cappellano scavezzacollo, che portava i ragazzi a giocare a pallone e in gita quando il parroco Don Brini li avrebbe voluti in chiesa, in ginocchio a pregare. Ha fatto il cappellano per otto anni e mezzo, poi la sua carriera è un susseguirsi di prestigiosi incarichi e riconoscimenti: Parroco a S. Martino in Pedriolo per tre anni, poi nel 1978 Parroco a Santa Maria della Quaderna per tredici anni (mentre, in quel di Rastignano, un ragazzino di nome Davide diventava un adolescente molesto); nel frattempo Vice Assistente diocesano degli adulti di Azione Cattolica, Assistente diocesano del C.S.I., Amministratore del Quindicinale diocesano Insieme Notizie (il predecessore di Bologna7) e Co-visitatore nelle visite pastorali del Card. Biffi alla Diocesi.

Dal 12/01/1992 al 29/11/2017 è stato Parroco in carica della Parrocchia di S. Maria della Carità, che è tutt’ora la sua casa e la quale gode di avere un parrocchiano tanto illustre.

Don Davide

 

UN BUFFETTO E UNA FRASE IN DIALETTO

Mi è stato dato l’incarico di scrivere un articolo sul mio rapporto con don Valeriano. Da dove cominciare?

I miei primi ricordi di don Valeriano risalgono a quando ero ancora una bimba con i capelli cortissimi che andava alla materna. Ricordo che quando ero piccola, finita la Messa, ogni domenica, mio nonno mi prendeva per mano e mi diceva: “Andiamo a salutare don Valeriano” e lo diceva con un tono quasi solenne, come se parlasse di una persona importante. Arrivavamo poi in sagrestia e non importava quante persone ci fossero prima di noi a salutarlo: mio nonno aspettava finché non aveva potuto almeno stringergli la mano e avergli fatto un sorriso ed io mi guadagnavo dal don quasi sempre un affettuoso buffetto sulla guancia. Già da piccola, mi ricordo, mi aveva stupito quel suo grande sorriso affettuoso che non nega  mai a nessuno.

Don Valeriano é sempre stato per me, e credo per tutta la comunità, una presenza costante, ma non invadente: uno di quei capitani non autoritari, che lascia la possibilità ai suoi “sottoposti” di esprimersi e di sbagliare, ma sempre dietro di noi, presente e pronto a portare il suo aiuto quando necessario. É una persona che ho sempre ammirato per la sua ponderatezza e la sua calma: penso di non aver mai avuto la sensazione che don Valeriano si stesse alterando. Ha un modo di porsi scherzoso, ma non ridicolo, con cui conquista tutti e con cui ti fa sentire come a casa.

Ho sempre provato per don Valeriano un grande affetto sincero, come quello che si prova per il proprio nonno.

Sono profondamente convinta che, se in tutti questi anni di servizio all’interno della nostra comunità, nonostante le difficoltà, io non abbia mai mollato, sia in gran parte merito di don Valeriano. Mi é capitato spesso di arrivare in ufficio con un umore inquieto, con dell’insoddisfazione, a volte addirittura arrabbiata e don Valeriano é sempre stato capace di fare breccia nella negatività che portavo e di tranquillizzarmi. Non gli sono mai serviti paroloni o grandi concetti astrusi: é sempre bastato un “Mò Giòglia! Lassa ban ster! Te fat ban!” ed improvvisamente mi ritrovavo a ridere e mi sentivo sollevata. É sempre stato capace di sedare quei piccoli litigi che, ogni tanto, avvengono in una comunità grande come la nostra, e senza mai far uscire una delle due parti come “perdente”, ma cercando di trovare un compromesso che non penalizzasse nessuno.

Don Valeriano é sempre stato per me un punto di riferimento, quando avevo qualcosa che non sapevo bene come organizzare o c’era una qualche vicenda in parrocchia che sentivo più grande di me, andavo sempre da lui. Penso che il don sia una delle persone col cuore più grande che conosca: é stato presente per me e per la mia famiglia in momenti molto difficili e non ci ha mai fatto mancare parole di supporto e di conforto e penso che questo possa confermarlo ogni parrocchiano.

Don Valeriano é, per me, come un secondo nonno, quello che quando ti vede ti dice “Giòglia! Cum stet?!”, oppure quello che quando arrivava nello studio ed io ero lì a fare del caos mi diceva “Beh Giòglia; ban c’sa fet?!”, o quello che ancora, se metto i jeans strappati, quando mi vede mi dice: “Beh ma cus el qal brot lavurir lè?!”.

Don Valeriano per me significa tanti bei ricordi: le volte in cui mi vedeva a catechsimo da piccola e mi chiedeva “Stai facendo bene?”, tutte le coppe ACR alla fine delle quali lui faceva le premiazioni, le preghiere mattutine ad Estate Ragazzi, le chiacchiere durante le piccole pause ristoratrici nelle intense giornate di Estate Ragazzi e tanti altri.

A don Valeriano devo molto, come persona, come catechista e come cristiana e penso che mi accompagnerà per sempre il suo “Te voja!”.

Anna Giulia Ballardini

 

UNA CASA PER I SEGNI DELL’AMORE DI DIO

Vorrei condividere, con poche parole, cosa, per me, abbia significato vivere questi anni in parrocchia.     Nella vita di ciascuno di noi sono fondamentali gli “incontri”… per me l’incontro con questo ambiente è stato un’esperienza incredibile e significativa.

È stato un percorso di conoscenza graduale, iniziato con il mio trasferimento, dopo il matrimonio, qui in centro, ma soprattutto con il battesimo di mio figlio più grande. Poi è proseguito con la frequentazione della messa domenicale, l’inizio del catechismo, con i suoi appuntamenti settimanali, e con la condivisione di esperienze uniche di vita comunitaria, di preghiera, di amicizia.

Da allora non ho più smesso di frequentare la parrocchia, per il punto fermo che rappresenta per me e per la mia famiglia, per i valori di fede, amore, gratuità che sa trasmettere, valori imprescindibili in una società proiettata tutta all’esteriorità e ai beni fugaci.

Per questo devo dire GRAZIE a don Valeriano e a chi ha collaborato con lui per avere reso questo luogo una “casa”, piena di calore e di amore, dove c’è posto per tutti, dove puoi trovare SEMPRE qualcuno che ti ascolta, ti sorride e ti fa “cogliere”, nei semplici gesti di tutti i giorni, l’amore unico di Dio.

Francesca Baroni

 

LA FIGURA DEL PRETE E DEL PRETE-PARROCO

Il parroco … “chi è costui”?

Chi ha frequentato una parrocchia, qualche gruppo ecclesiale o associazione o semplicemente l’ora di religione a scuola, ha conosciuto sacerdoti che animano questi ambiti.

Tutti questi sacerdoti svolgono il loro ministero e testimoniano Gesù.  Sicuramente con attenzioni particolari a seconda della loro spiritualità e delle condizioni di vita di coloro che li circondano.

Quale è la peculiarità del prete-parroco, quale la sua “specialità”?

E’ l’attenzione, tipica del pastore, per la cura delle persone che abitano un territorio, una attenzione alla vita concreta, alla ordinarietà, alle cose di tutti giorni, a fianco delle persone che nascono, crescono, si ammalano, guariscono e muoiono.

Il prete, quando parroco,  diventa…

  • “padre” dei bambini che entrano nella comunità parrocchiale e li guida con affetto ad accostarsi ai sacramenti, a parole nuove, all’esperienza di gruppo.
  • “amico” di tutti quelli che trovano la porta aperta e la disponibilità ad essere ascoltati.
  • “dispensatore” dei sacramenti e della Parola, in modo particolare per chi cerca la misericordia del Padre
  • “consolatore” per tutti quelli che hanno situazioni difficili… di salute, in famiglia, di precarietà economica.
  • “amministratore” per tutti quelli che frequentando la parrocchia hanno bisogno della luce, del riscaldamento, degli spazi, delle attrezzature, degli arredi, delle candele …
  • “assistente sociale” per tutti quelli che hanno bisogno di un lavoro, di un pezzo di pane, di un soldino.

Sono diversi i parroci che abbiamo incontrato, dall’infanzia fino a quando abbiamo messo su famiglia, attraverso gli anni del Concilio dove con entusiasmo, un po’ di confusione, ma tanta speranza abbiamo scoperto che la Chiesa era anche nostra.

Il cammino all’interno dell’Azione Cattolica ci ha permesso di sviluppare ulteriormente questa consapevolezza e, con entusiasmo ma anche con fatica, abbiamo scoperto che era una strada nuova, non tracciata dalle precedenti generazioni.

Abbiamo anche capito che come i preti avevano luoghi e strumenti per condividere il loro ministero, era importante per noi laici fare un cammino similare e trovare le occasioni e gli strumenti per sviluppare la nostra laicità.

Siamo stati fortunati, perché sia i parroci che i preti incontrati ci hanno aiutato in questa scoperta: ognuno con accentuazioni diverse e velocità diverse.

Di solito in una comunità parrocchiale, il parroco è l’ultimo arrivato ed il primo ad andarsene; è inviato dal vescovo per un certo periodo per valorizzare i doni presenti nei laici che quella comunità abitano e frequentano.

Nonostante questo i laici di quella comunità si comportano come se il parroco fosse “il proprietario” della comunità e loro fossero chiamati nel migliore dei casi a “dargli una mano” a far sì che la “loro” comunità diventi più viva, cresca, e ci si voglia bene.

Siamo strani noi laici… forse ce l’hanno insegnato fin da piccoli ed è entrato nel nostro DNA, forse anche ai preti hanno insegnato che avrebbero avuto una loro comunità e dei bravi laici gli avrebbero dato una mano.

Ma allora?

Dobbiamo metterci insieme, laici e parroci, ad immaginare una nuova realtà dove i doni che il Signore ha dato ad ognuno siano messi in comune.

Nessuno ha la soluzione ma assieme e soprattutto se lo chiediamo come dono al Signore… possiamo farcela!

Luciano e Isabella Bocchi




Avvento. Osate la vita!

Giovanni il Battista predicava nel deserto della Giudea dicendo: convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino (Mt 3,2).

Gesù cominciò a predicare lo stesso annuncio: convertitevi perché il regno dei cieli è vicino (Mt 4,17). Tutti i profeti hanno gli occhi fissi nel sogno, nel regno dei cieli che è un mondo nuovo intessuto di rapporti buoni e felici. Ne percepiscono il respiro vicino: è possibile, è ormai iniziato. Su quel sogno ci chiedono di osare la vita, ed è la conversione.

Si tratta di tre annunci in uno, e tra tutte la parola più calda di speranza è l’aggettivo «vicino». Dio è vicino, è qui, prima buona notizia: il grande Pellegrino ha camminato, ha consumato distanze, è vicinissimo a te. E se anche tu ti trovassi ai piedi di un muro o sull’orlo del baratro, allora ricorda: o quanti cercate, siate sereni / egli per noi non verrà mai meno / e Lui stesso varcherà l’abisso (David Maria Turoldo).

Dio è accanto, a fianco, si stringe a tutto ciò che vive, rete che raccoglie insieme, in armonia, il lupo e l’agnello, il leone e il bue, il bambino e il serpente (parola di Isaia), uomo e donna, arabo ed ebreo, musulmano e cristiano, bianco e nero, per una nuova architettura del mondo e dei rapporti umani. Il regno dei cieli e la terra come Dio la sogna. Non si è ancora realizzata? Non importa, il sogno di Dio è più vero della realtà, è il nostro futuro che ci porta, la forza che fa partire.

Gesù è l’incarnazione di un Dio che si fa intimo come un pane nella bocca, una parola detta sul cuore, un respiro: infatti vi battezzerà nello Spirito Santo, vi immergerà dentro il mare di Dio, sarete avvolti, intrisi, impregnati della vita stessa di Dio, in ogni vostra fibra.

Convertitevi, ossia osate la vita, mettetela in cammino, e non per eseguire un comando, ma per una bellezza; non per una imposizione da fuori ma per una seduzione. Ciò che converte il freddo in calore non è un ordine dall’alto, ma la vicinanza del fuoco; ciò che toglie le ombre dal cuore non è un obbligo o un divieto, ma una lampada che si accende, un raggio, una stella, uno sguardo. Convertitevi: giratevi verso la luce, perché la luce è già qui.

Conversione, non comando ma opportunità: cambiate lo sguardo con cui vedete gli uomini e le cose, cambiate strada, sopra i miei sentieri il cielo è più vicino e più azzurro, il sole più caldo, il suolo più fertile, e ci sono cento fratelli, e alberi fecondi, e miele.

Conversione significa anche abbandonare tutto ciò che fa male all’uomo, scegliere sempre l’umano contro il disumano. Come fa Gesù: per lui l’unico peccato è il disamore, non la trasgressione di una o molte regole, ma il trasgredire un sogno, il sogno grande di Dio per noi.

(p. Ermes Ronchi)




Resurrezione per la vita

Gesù parla nel tempio di Gerusalemme. È la punta e il riassunto del suo magistero. Davvero Gesù è il volto delle nozze tra Dio e l’umanità, è lui stesso lo sposo e il dibattito tra sadducei e farisei circa la risurrezione dei morti diventa occasione della rivelazione della vita nuova in Dio. I figli di Dio “sono figli della risurrezione” perché vivono in comunione con il Signore che “non è Dio dei morti, ma dei viventi”. Nella pagina di questa domenica non si parla di matrimonio fecondo, ma del matrimonio immagine della comunione tra Dio e noi e la fede nella resurrezione è essenziale perché, se non ci fosse, non si sarebbe neppure il discorso di Dio. La risurrezione non è solo la nostra sorte dopo la morte, ma la condizione nuova di vita, di figli della risurrezione. Nati dalla risurrezione di Cristo, già viviamo la vita eterna perché vita con Dio.

Il livello dell’argomento dei sadducei, che vorrebbero mettere in difficoltà Gesù con una parabola ironica (la donna andata in sposa sette volte), è molto basso, erede di una cultura che ben lontana dal concetto cristiano di matrimonio, dove l’uomo e la donna si donano reciprocamente e fino in fondo e nessuno “possiede” l’altro, ma ognuno si “offre” all’altro. Per i sadducei – e tutti a quel tempo – il dominio è del maschio e la passività è della donna.

Non è facile lasciarsi incontrare dal Signore; molti sono gli inciampi. Nel Vangelo di oggi il Signore ci rassicura che neppure il “nemico” assoluto, la morte, sarà di ostacolo alla nostra unione con lui che, proprio nell’immagine data dai sadducei, prende faccia di sposalizio. Gesù mostra anche l’incredibile profondità dell’amore che unisce l’uomo e la donna – non il dominio e la sottomissione – segno misterioso ma credibile dell’Amore e del mistero stesso di Dio.

(d. Angelo Sceppacerca)




La concretezza della resurrezione

Nella lettura di questa III Domenica di Pasqua riecheggia ancora l’eco delle ultime parole di Gesù sulla Croce: “Perdona loro … !”. Infatti, la grandiosa “omelia” di Pietro si rivolge a coloro che avevano invocato la condanna di Gesù e, invece di maledirli per il loro misfatto, li invita ad una conversione perdonando il loro peccato, come aveva fatto Gesù sulla Croce. Il discorso di Pietro fu pronunciato sotto al portico di Salomone, verso le tre del pomeriggio, dopo la guarigione di uno storpio presso la porta del tempio detta “Bella” dove questi chiedeva l’elemosina. All’inizio del capitolo seguente sappiamo che “molti di quelli che avevano ascoltato il discorso credettero e il numero degli uomini raggiunse circa i cinquemila”.

Nella scia della prima lettura anche il brano di Giovanni ribadisce che è possibile tornare sempre a Gesù, anche se abbiamo peccato. La nostra conversione non dipende innanzitutto da una nostra iniziativa, per quanto virtuosa, ma dall’accoglimento da parte nostra della sua persona.

Il Vangelo infine sottolinea la “corporeità” di Colui che i discepoli avevano creduto un fantasma. Egli li invita a guadare e toccare i segni della Passione nelle sue mani e nei suoi piedi, e chiede loro qualcosa da mangiare: pesce arrostito che “prese e mangiò davanti a loro”.

Certamente il suo è un corpo trasfigurato e rimane il mistero della sua resurrezione, ma in noi rimane la speranza di non essere destinati a restare polvere e la comprensione dell’importanza e del valore del nostro corpo, già qui e ora, vivendo la verità della fede e sperimentando l’amore, il bene, il perdono. Non c’è opposizione tra corpo e anima, carne e spirito, l’uomo è da considerarsi un’unità avviata all’incontro con una Persona realmente vivente.

Quindi, la nostra preghiera è ben espressa dal Salmo responsoriale, che ci invita continuamente ad invocare “la luce del tuo volto”, la luce del Risorto che ci indica la strada e con le sue parole ci fa “ardere il cuore” come ai discepoli di Emmaus, annunciando a tutti quella Pace che solo Lui può donare.

(Commento a cura di Gilberto Turchi)




La volontà di Dio per la vita

La lebbra era considerata una malattia spaventosa perché – a causa di ragioni sanitarie, sociali e cultuali – escludeva dalla comunione con il popolo di Israele, popolo di Dio.

Impuro, impuro!” doveva infatti gridare il lebbroso da lontano in modo che tutti si fermassero ed evitassero di avvicinarsi.

Nel brano di Marco il lebbroso varca questa distanza e, avvicinatosi a Gesù, si prostra ai suoi piedi in un gesto di adorazione e di affidamento, consegnandosi nelle sue mani: “Se vuoi puoi purificarmi”. Così il lebbroso dichiara la sua fede nell’autorità di Gesù e nel suo potere di guarirlo. Gesù ebbe compassione di lui e “subito” stese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio…”.

La compassione, così frequente nel Vangelo di Marco, è sentimento tipico di Gesù, che così esprime l’amore materno e viscerale di Dio per la sua creatura, ed è fortemente legato al sentimento di misericordia.

  1. Francesco d’Assisi nel suo Testamento ricorda che il Signore lo condusse tra i lebbrosi e gli diede la grazia di usare tra loro misericordia.
  2. Paolino Serrazanetti, che alcuni di noi ebbero la grazia di frequentare, era solito ripeterci che è importante fare l’elemosina (era sempre circondato dai poveri e dai bisognosi della città), ma essa deve essere sempre accompagnata dall’atto di fissare gli occhi di queste persone, che spesso nella nostra società sono evitate come i lebbrosi.

Nella prospettiva anche dell’ingresso della Quaresima, siamo invitati a scoprire questo amore viscerale di Dio su di noi, e ad esprimerlo a nostra volta su tutti, specialmente quelli che allontaneremmo più volentieri.

Così scopriremo che la volontà di Dio è che l’uomo viva, sia liberato dal male e senta l’amore che lo circonda.

(Commento a cura di Gilberto Turchi)




Il servizio della cura e della consolazione

I brani di questa domenica sono incentrati sul mistero del dolore e, in modo particolare, sulle sofferenze che deve sopportare anche un uomo innocente e giusto.

“Perché?” chiede Giobbe al suo Dio, che ha permesso a satana di sprofondarlo in un abisso di amarezza da fargli maledire il giorno della sua nascita. Tuttavia, Giobbe non rinnega il suo Dio, la sua fede in Lui, nelle sue promesse ed esplode in un grido: “Ricordati!”. Giobbe non è più solo nelle sue sofferenze, sa che “Il Signore sostiene i poveri” (Salmo) e infatti un giorno “si ricorderà” dell’uomo inviando suo Figlio sulla terra: “Uomo dei dolori” che assumerà su di sé tutta l’ingiustizia e il dolore del mondo. La sofferenza è uno dei motivi per cui cercare Dio: “Tutti ti cercano” dicono a Gesù i discepoli nel brano di Marco, come pure una causa della fatica di credere.

Gesù e i discepoli hanno appena lasciato la sinagoga di Cafarnao, dove il Signore aveva compiuto l’ultimo segno nell’economia della Prima Alleanza purificandola con la guarigione dell’uomo posseduto da uno spirito impuro; ora la guarigione della suocera di Simone (Pietro) è il primo segno della Nuova Alleanza, avvenuto nella modesta casa-chiesa dove è riunito il nucleo della prima comunità cristiana: Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni.

Il quadro da domestico e quasi idilliaco si riempie, durante la giornata, di gente guarita e di demoni scacciati tanto che Gesù si ritira in un luogo deserto dove, prima dell’alba, il mattino seguente cerca il colloquio mai interrotto con il Padre.

La risposta alla disperata domanda dell’uomo di fronte all’apparente indifferenza o assenza di Dio nei confronti degli orrori, alle ingiustizie e alle violenze, che oggi come ieri si abbattono sull’uomo, è contenuta in un celebre e terribile racconto che ci ha lasciato Elie Wiesel nel suo libro “La notte”. Ebreo deportato e sopravvissuto ad Auschwitz racconta di una mattina in cui, in piedi per lunghe ore e col volto verso il patibolo, tutto il campo dovette assistere all’impiccagione per futili motivi di un giovane ebreo. Una voce, a lui vicina, mormorò: “Dov’è Dio?” e un’altra voce gli rispose: “E’ lassù con quel ragazzo!”.

Come Giona era stato inviato da Dio ad annunciare la salvezza a Ninive, ogni credente è “apostolo”, inviato ad annunciare l’inattesa e per certi versi insperata vicinanza del Signore già ora, su questa terra. Guai a noi, perciò, se non annunciamo questa Vangelo della Consolazione!

(Commento a cura di Gilberto Turchi)