Il passo della gioia

Nel percorso verso l’avvento, questa domenica batte il passo della gioia. Anche la candela della corona cambia colore e diventa rosa. Tra le quattro dell’Avvento, questa è una domenica che si distingue. Gioite, rallegratevi sempre, il Signore viene (Fil 4,4), recita l’antifona della liturgia odierna.

Come sempre la Parola proposta è ricca; iniziamo col soffermarci su alcune espressioni, della lettura di Isaia (61, 1-2.10-11), sottolineando tre passaggi che soggiacciono a questo invito alla gioia.

Primo passaggio. Come battezzati siamo consacrati, siamo parte di Dio e, come tali, siamo chiamati all’annuncio e alla carità. Questa è la nostra gioia. Portare il lieto annuncio ai miseri, fasciare le piaghe dei cuori spezzati, proclamare la libertà degli schiavi, … perché appartengo, apparteniamo a Dio, tutti. Non esiste condizione che ci privi e privi nessuno del suo abbraccio amorevole.

Secondo Passaggio. Egli mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto con il mantello della giustizia, mi ha nobilitato con i suoi gioielli. Così come ha impreziosito me, Dio desidera che l’umanità sia ugualmente impreziosita riconoscendo lo Spirito nel suo essere, anche mediante l’azione di ogni singolo consacrato.

Terzo Passaggio. Solo così, germoglierà la giustizia e tutti potremmo dire le meraviglie di Dio. Poiché come un giardino fa germogliare i suoi semi, anche la terra di ciascun essere umano può essere fertile e fruttuosa. Come sempre si intreccia il rapporto personale con Dio anche attraverso la relazione con chi mi è vicino.

C’è di che essere gioiosi. Il Signore per primo è vicino. Come possiamo riconoscerlo? Giovanni il battista nel Vangelo odierno rappresenta la figura che ognuno di noi può avere come modello per un percorso che renda visibile la presenza di Cristo nelle nostre giornate verso il Natale, e non solo. A noi tocca ‘ritrarre’ il nostro ego per lasciare spazio al Messia, al Consacrato; noi siamo voce nel deserto, Egli è Parola del Giardino, seme che germoglia. C’è una distanza tra divino e umano che grazie al Natale viene colmata, per l’abbondante misericordia di Dio.

Ecco, il nostro Dio viene anche così: riconoscendo di essere sua parte, consacrati e inviati alle donne e agli uomini che ci sono vicini.

Senza timore alcuno poiché siamo rivestiti della sua splendida bellezza; a noi tocca solo di lasciare che sia lui a prendere spazio e la vita cambierà, sarà Natale vero.

Rallegratevi dunque, Rallegratevi nel Signore, sempre.

Anna Maria e Francesco Paolo




La vera Luce

Colmare, ridurre, raddrizzare le strade

L’Avvento è un tempo STRAordinario, nell’ordinarietà dei nostri giorni, in cui decidiamo di metterci in cammino verso il Natale.

Nelle letture di questa seconda domenica di Avvento, Isaia ci invita alla preparazione della strada per il ritorno verso Gerusalemme, dopo il periodo d’esilio in Babilonia.

Marco, all’inizio del suo vangelo (il più antico tra i quattro) riporta la predicazione di Giovanni il battista che gridava nel deserto: “preparate la via del Signore“. L’invito è quello di andare da Gerusalemme verso il Giordano, il luogo in cui immergersi nel battesimo con acqua, segno del futuro battesimo nello Spirito.

Nei due brani c’è l’idea di una strada da sistemare: essa ci potrà condurre verso un ‘nuovo vertice’ della vita, ovvero verso una vera e propria con-versione.

Colmare, ridurre, raddrizzare, sono alcune delle operazioni necessarie per lasciare le nostre ‘Babilonie’ e rigenerarsi nello Spirito. Ad esempio, potremmo utilizzare le numerose luci e lucine che troviamo per strada o quelle che utilizziamo per l’addobbo casalingo, come luci evocatrici di una pista di atterraggio o di un faro per orientarsi alla Luce.

 

Aprire spazi, creare luoghi perché il vero Natale trovi posto nelle nostre vite

L’Avvento è per noi la strada spirituale verso un Natale diverso, come un grido nel deserto di una pandemia, di una distrazione di massa verso consumi più o meno sobri, di un deserto interiore magari con una via stanca piena di buche o di grandi sassi, una strada fatta di una fede convenzionale di abitudini e/o di sole regole senza un’anima.

In questo Avvento ecco per noi una strada nuova: colma, riduci, raddrizza le tue giornate, vivi il tuo ‘deserto’ come una risorsa per preparare un Natale nuovo. Rifare i nostri spazi con presepe ad albero e creare luoghi interiori come una culla, una mangiatoia, per accogliere vita nuova, come accade in ogni grembo materno che si espande e in alcune parti si ritrae, per far posto alla nuova vita che verrà.

 

Un invito per ciascuno di noi

Puoi far coincidere la nascita di Gesù con la tua rinascita, con-vertendo il tuo battesimo sulla strada della riscoperta della sorgente di vita, bontà, verità e bellezza.

Il Signore viene e traccia la strada con i suoi profeti, ha segnato con i suoi testimoni il percorso da seguire e, noi, siamo invitati e inviati tra di essi perché il mondo possa intravedere la vera Luce che viene ogni giorno, tra le tante piccole stelle di Natale.

Anna Maria e Francesco Paolo




Un Re speciale

Il nostro Re è speciale.
E’ proprio “dell’altro mondo”, quello migliore.
Sì, perché un altro mondo è possibile e possiamo dirlo dopo questi ultimi tre passi che la comunità dell’evangelista Matteo ci ha fatto fare in queste ultime domeniche che concludono l’anno liturgico.
Alle vergini è data la possibilità di agire con amore verso se stesse, lo Sposo, il mondo.
L’amore è dato dal Signore gratis; è dato in modo smisurato nella metafora dei talenti da investire. E’ dato senza timori e ci invita a non dichiararci inabili, come spesso facciamo addirittura prima ancora di iniziare ad agire.

Il nostro Re è davvero speciale.
Viene come un pastore per le sue pecore, compie il suo lavoro (ed è un grande lavoratore)
E’ un grande re che si prende le sue responsabilità, con cura e fino in fondo. Se non lo avessimo ancora capito, ce lo ripete ancora, fino alla fine. Vuole dirti: “Se non agisci con amore e per la giustizia ti perdi. Il tuo orizzonte, la tua finalità è il prendere parte con lui, il re pastore, del regno nuovo già qui, ora, in questa vita. Se non prendi l’olio, se sotterri il talento, se non ti ami e non investi nell’amore verso chi è più in difficoltà, te per primo, ti perdi qualcosa, ti escludi da questo regno, ti sei già separato dal resto”.

Il nostro Re è più di una parte, è universale.
Vuol dire che è per tutti e che non esclude nessuno. Chi si tira fuori, lo fa per sua scelta o forse solo per triste, drammatica inconsapevolezza di quanto Amore e non Giudizio, ci sia nello sguardo del Padre. Solo nelle relazioni sane ci si salva. Il Re universale vuole portare tutti alla vita vera e, fino alla fine, è con te, per non farti essere il ‘solito caprone’, potremmo dire con il sorriso sulle labbra. Con William Blake comprendiamo meglio il senso di questa ultima parabola: “Ho cercato la mia anima e non l’ho trovata. Ho cercato Dio e non l’ho trovato. Ho cercato mio fratello e lì ho trovato tutti e tre”.

Chi vuole prendere parte al regno universale di questo Re più che speciale, lo segue nella via che egli stesso ha segnato e si riconosce come essere umano in relazione. Ciò dice-bene (bene-dice) la propria vita. Chi si chiude in se stesso, si sotterra, dice-male (male-dice), bruciando rovinosamente i propri giorni.

Il mio Re è un pastore amorevole.
Mi custodisce insieme ai fratelli più invisibili al mondo.
Dio mi ama, prezioso ai suoi occhi come prezioso per il Pastore è tutto il gregge e che tutto offre per l’unicità di ciascuno. E proprio quando divento stracolmo, debordante di gratitudine e meraviglia, vedo che non c’è più separazione tra me e gli altri, non c’è nulla di più naturale che sostenere gli altri, perché ciò che dono, migliora gli altri e me all’istante.
Quella che ci fa soffrire di più la pandemia, per esempio nel distanziamento tra noi, ci fa desiderare di più il suo contrario, perché così si propagherà l’amore di Dio, anche nelle forme che possiamo trovare comunque possibili oggi.

Non potremmo essere più sollecitati di così: ciò che ci viene tolto, ci faccia sentire il fuoco della mancanza così forte da renderci inquieti e arditi, per ritornare lì dove il Re vive già per costruire il Regno di Amore e di Pace, oggi.

Anna Maria e Francesco Paolo




L’olio non finirà

“Il regno dei cieli è simile a dieci vergini…” è l’apertura del Vangelo di domenica (Mt 25 1-13). Cinque di esse sono stolte e cinque sapienti. Sembra la rappresentazione del mondo di oggi sotto gli occhi di tutti: abbiamo persone di tutti i tipi, pregi e difetti scorrono tra le righe quotidiane e sono esperienza di tutti. Queste vergini hanno tutte delle lampade ossia, partono tutte con la stessa dotazione per andare incontro allo sposo della parabola. Però, non tutte prendono l’olio, che è sempre a disposizione di tutte loro. Appare dunque evidente che la differenza tra le stolte e le sapienti non è su ciò che sono o ciò che hanno, ma su ciò che scelgono di fare, sulla propria volitività, sulla determinazioni delle azioni possibili. Possono essere del regno nuovo se agiscono e se lo fanno con sapienza. Non manca nulla a nessuno. La buona notizia è per tutti: recepire l’invito alle nozze significa essere pronti ad agire. Il vangelo non è un salotto, buono o cattivo che sia, è invece prendersi cura di sé per vivere pienamente le nozze con il Risorto.

L’evangelista Matteo in questo brano, ci dice non è sufficiente essere invitati e rispondere positivamente all’invito. A tutti è concesso sempre di essere vergini, riscrivere sempre la propria vita e in ogni momento, a tutti è concessa la lampada per le vie buie e sappiamo bene come la vita presenta sempre strade difficili. Ma ciò che rende il credente diverso, è l’essere recipiente della sapienza che agisce, che non si trascura, che non rimanda, che ama l’incontro con lo sposo.
La sapienza si fa trovare se la cerchi. Ti anticipa, se la desideri. Se ti svegli presto, la trovi alla porta. Essa stessa vuole inondarti con ogni benevolenza (Cfr Sap 6, 12-16), ma devi scomodarti, rompere gli schemi di convinzioni e credenze, renderti nuovo. In altre parole, lanciarti con fiducia verso le tue capacità nelle braccia amanti di Cristo.
Il regno dei cieli può essere qui, ora, in questo momento, puoi essere la sposa più felice e non autoescluderti senza rimanere fuori dalla porta, se provvedi tu a ciò che ti serve davvero per questo incontro. A che serve lamentarsi delle cose che non vanno bene se non mettiamo olio in abbondanza nelle nostre lampade.
La luce della Parola, dall’olio di un fare sapiente, illumina e riscalda il tuo cammino, anche in questo tempo di pandemia.

Anna Maria e Francesco Paolo




Buona estate e buone vacanze

Inizia l’orario estivo delle messe, in questo periodo in cui si fanno le vacanze. Non tutti potranno godere di un po’ di ferie e non sempre sarà semplice gestire questo periodo caratterizzato così fortemente dal riposo e dalle relazioni con gli amici o con le persone amate, a causa della gestione dell’emergenza sanitaria.

A tutti vorrei mandare il più caro saluto e l’augurio che tutto possa andare bene. In questa occasione, richiamo alla vostra attenzione la bella riflessione della Conferenza Episcopale Italiana sull’esperienza della pandemia alla luce del Mistero Pasquale, di cui riportiamo l’introduzione.

INTRODUZIONE RIFLESSIONE CEI

Si intitola “È risorto il terzo giorno” ed è una traccia di riflessione elaborata dalla Commissione Episcopale per la Dottrina, l’Annuncio e la Catechesi della CEI per accompagnare equipe diocesane, catechisti e quanti sono impegnati sul fronte dell’annuncio e dell’iniziazione cristiana. Si tratta di una “rilettura biblico-spirituale dell’esperienza della pandemia”, destinata a credenti e non credenti, che prende le mosse da un ascolto attento delle paure, dei bisogni e delle attese delle persone che, nel proprio contesto e con i propri strumenti, si sono trovate ad affrontare l’emergenza sanitaria da Covid-19. Ad aprire il testo, infatti, sono le voci di un’impiegata, di uno studente, di un bambino, di un avvocato, di un cappellano, di un medico, di una casalinga, di un adolescente, di un volontario e di una segretaria. Pongono interrogativi sulla sofferenza, sul disorientamento e sulla morte, ma testimoniano anche la capacità di resilienza, la creatività e la riscoperta della dimensione domestica della fede.

Nella traccia, la Commissione Episcopale colloca gli eventi recenti sullo sfondo del mistero pasquale di Gesù: dal venerdì della morte in croce sino alla Domenica di risurrezione, attraverso il Sabato della deposizione nel sepolcro, evidenziando che “una lettura pasquale dell’esperienza della pandemia non può prospettare il semplice ritorno alla situazione di prima”. Per la Commissione, infatti, “la croce e il sepolcro possono diventare cattedre che insegnano a tutti a cambiare, a convertirsi, a prestare orecchio e cuore ai drammi causati dall’ingiustizia e dalla violenza, a trovare il coraggio di porre gesti divini nelle relazioni umane: pace, equità, mitezza, carità”. Sono questi “i germi di risurrezione, i lampi della Domenica, che rendono concreto e credibile l’annuncio della vita eterna”. Ecco perché, nell’ascoltare e dare dignità all’umanità ferita, la Commissione Episcopale rilancia l’invito di papa Francesco a raccogliere la sfida dell’audacia e della creatività nel “ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità”. Per ripartire “come comunità ecclesiale sui passi dell’uomo del nostro tempo, animati da tenerezza e comprensione, da una speranza che non delude”.

Roma, 23 giugno 2020

Di seguito, il link per leggere il testo integrale.

E’ RISORTO IL TERZO GIORNO

 




Riflessione sul messaggio di Papa Francesco

RIFLESSIONE SUL MESSAGGIO DI PAPA FRANCESCO IN OCCASIONE DELLA III GIORNATA MONDIALE DEI POVERI
17 novembre 2019

 

INTRODUZIONE. Tema della SPERANZA: darla o toglierla?

Ci sono due livelli a cui ai poveri viene tolta la speranza.

  1. La condizione negativa: disparità (fine n. 1) e schiavitù (n. 2).
  2. Trattati come nemici: come se avessero ancora, come in certe interpretazioni del mondo antico, già contrarie al Dio di Israele. «Diventati loro stessi parte di una discarica umana sono trattati da rifiuti, senza che alcun senso di colpa investa quanti sono complici di questo scandalo. Giudicati spesso parassiti della società, ai poveri non si perdona neppure la loro povertà. Il giudizio è sempre all’erta. Non possono permettersi di essere timidi o scoraggiati, sono percepiti come minacciosi o incapaci, solo perché poveri. Dramma nel dramma, non è consentito loro di vedere la fine del tunnel della miseria.» (n. 2)

1. È in gioco la fede in Dio

Di fronte alle sofferenze dei poveri, verrebbe da interpellare Dio (piuttosto che noi stessi):

«Come può Dio tollerare questa disparità? Come può permettere che il povero venga umiliato, senza intervenire in suo aiuto? Perché consente che chi opprime abbia vita felice mentre il suo comportamento andrebbe condannato proprio dinanzi alla sofferenza del povero?» (n. 1)

Invece i poveri sono coloro che hanno un particolare rapporto con Dio:

«Egli – il povero – conosce il suo Signore: nel linguaggio biblico questo “conoscere” indica un rapporto personale di affetto e di amore. […] Il povero sa che Dio non lo può abbandonare; perciò vive sempre alla presenza di quel Dio che si ricorda di lui.» (n. 3)

Notare bene che non è una condizione morale del povero, quella di vivere alla presenza di Dio, ma è Dio che sta sempre accanto e di fronte alla vita del povero.

Che il Signore prenda le parti dei poveri è espresso nel passaggio più severo di tutto il discorso:

«Si possono costruire tanti muri e sbarrare gli ingressi per illudersi di sentirsi sicuri con le proprie ricchezze a danno di quanti si lasciano fuori. Non sarà così per sempre. Il “giorno del Signore”, come descritto dai profeti (cfr Am 5,18; Is 2-5; Gl 1-3), distruggerà le barriere create tra Paesi e sostituirà l’arroganza di pochi con la solidarietà di tanti. La condizione di emarginazione in cui sono vessati milioni di persone non potrà durare ancora a lungo. Il loro grido aumenta e abbraccia la terra intera.» (n. 4)

2. Gesù

È lui che ha inaugurato la speranza per i poveri, essendo veramente fedele al Dio d’Israele.

«Gesù che ha inaugurato il suo Regno ponendo i poveri al centro, vuole dirci proprio questo: Lui ha inaugurato, ma ha affidato a noi, suoi discepoli, il compito di portarlo avanti, con la responsabilità di dare speranza ai poveri.» (n. 5)

3. Da Gesù a noi

  • Realismo della fede: «La promozione anche sociale dei poveri non è un impegno esterno all’’annuncio del Vangelo, al contrario, manifesta il realismo della fede cristiana e la sua validità storica.» (n. 6)
  • Credibilità del Vangelo: «L’opzione per gli ultimi per quelli che la società scarta e getta via è una scelta prioritaria che i discepoli di Cristo sono chiamati a perseguire per non tradire la credibilità della Chiesa e donare speranza fattiva a tanti indifesi. La carità cristiana trova in essi la sua verifica.» (n. 7)

CONCLUSIONE. Cosa possiamo e dobbiamo fare noi?

  1. Un’attenzione d’amore: «Questa attenzione d’amore è l’inizio di una vera preoccupazione per i poveri nella ricerca del loro vero bene.» (n. 7)
  2. Una conversione: lo scopo della celebrazione della Giornata/Festa dell’Incontro (n. 10).
  3. Un incoraggiamento: «A tanti volontari, ai quali va spesso il merito di aver intuito per primi l’importanza di questa attenzione ai poveri, chiedo di crescere nella loro dedizione. Cari fratelli e sorelle, vi esorto a cercare in ogni povero che incontrate ciò di cui ha veramente bisogno; a non fermarvi alla prima necessità materiale, ma a scoprire la bontà che si nasconde nel loro cuore, facendovi attenti alla loro cultura e ai loro modi di esprimersi, per poter iniziare un vero dialogo fraterno. Mettiamo da parte le divisioni che provengono da visioni ideologiche o politiche, fissiamo lo sguardo sull’essenziale che non ha bisogno di tante parole, ma di uno sguardo di amore e di una mano tesa. Non dimenticate mai che «la peggiore discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale.» (n. 8)

 

MESSAGGIO DI PAPA FRANCESCO PER LA III GIORNATA MONDIALE DEI POVERI

 




Betlemme, Bologna

C’è un tesoro quasi insondabile nel riconoscere che, tra gli eventi altisonanti del mondo, Gesù nasce nella casa di persone di cui non viene ricordato nemmeno il nome, in un ambiente affollato. 

Nessuno può sapere se quella famiglia, che si è stretta per fare spazio a due persone e a un nascituro, abbia mai realizzato di avere offerto ospitalità al Messia. Ci avranno pensato quando, nella vicina Gerusalemme, crocifissero un uomo di nome Gesù di Nazareth? Avranno ricordato di avere ospitato circa trent’anni prima una famiglia di Nazareth, che chiamò il figlio Gesù? E dopo, qualcuno di loro è diventato cristiano? Avranno scoperto che il Salvatore del mondo, il Cristo di cui ora professavano la fede, il Dio incarnato era quel bimbo che una notte ormai perduta nel tempo era nato nella loro casa, da una giovanissima mamma e da un papà premuroso? 

Ci piace pensarlo, ma non possiamo saperlo. 

Il Vangelo non ce lo dice non per un’imperdonabile trascuratezza riguardo a questa famiglia che avrebbe dovuto essere considerata enormemente per il suo gesto; né perché Giuseppe e Maria si siano scordati di chiedere i loro nomi, di ringraziarli e di tramandare questo gesto di ospitalità insperato; ma perché così, in questo non avere un volto, un cognome e un indirizzo, quella casa lascia una casella vuota che può essere occupata, in futuro e per tutte le generazioni dei secoli, dalla nostra famiglia e dalla nostra casa. 

Via Ugo Lenzi, Piazza della Resistenza, via dell’Abbadia come Betlemme. “Venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Potremmo parafrasare così: “Venne [in quel tempo a Betlemme] ad abitare in mezzo a noi [oggi, qui nelle nostre case]. 

Non vorrei pensare solo all’immagine di qualcuno di noi che dà un letto di fortuna a Gesù, perché tutti i bed ‘n breakfast e tutti gli hotel sono occupati. Si potrebbero fare molte associazioni, ma non voglio limitarmi a questo.  

Voglio che pensiamo agli infiniti modi in cui nelle nostre case diamo ospitalità a Gesù, spesso in maniera che ci appare insignificante o totalmente irrilevante rispetto al corso della storia, ma che possono essere un gesto decisivo e un momento di redenzione del mondo. 

La grazia del Natale non è tanto sapere quello che possiamo fare noi, o essere contenti per come siamo “capaci”, ma riconoscere che nel suo venire in mezzo a noi, in quel modo discreto e nascosto, misterioso e semplice allo stesso tempo, Gesù ci trasforma e ci fa il dono di essere quello spazio accogliente e così decisivo, ancorché pieno di limiti – perché uno spazio residuale, che si porta dietro sempre tutte le nostre fatiche – per la salvezza più grande che sia entrata nella storia.  

Potremmo osare di riscrivere il Vangelo di Luca così: Quando non c’erano più gli imperatori, ma molti potenti che dominavano le nazioni; al tempo in cui non c’erano i governatori delle regioni, ma pochi ricchi che si spartivano le risorse del pianeta; quando Francesco era papa e Matteo vescovo, Gesù continuava ad entrare in molti modi nelle nostre case e a renderci protagonisti, senza che alcuno se ne potesse accorgere, della salvezza del mondo. 

A ciascuno di noi il compito di continuare la storia. 

Tanti auguri di buon Natale, vissuto santamente e con gioia! 

Don Davide




L’Ascensione

L’ASCENSIONE

Di: Don Tonino Lasconi

 Gesù, lasciando la terra, ha consegnato a noi il compito non soltanto di vivere il suo Vangelo, ma di predicarlo e farlo conoscere con i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre azioni.

“Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto”.

È la chiusura del vangelo di Marco che ci viene proclamata nella Solennità dell’Ascensione. Gesù, prima di lasciare la terra, saluta gli Undici (non c’è Giuda e non c’è ancora il suo sostituto: Mattia), che ci rappresentano tutti e nei quali tutti dobbiamo ritrovarci. Bellissima questa immagine! Gesù chiude la sua esperienza terrena salendo al cielo, cioè rientrando nella sua dimensione divina, e i suoi discepoli partono a portare il vangelo dappertutto. Accadde proprio così e in pochissimo tempo – cosa che gli storici non riescono a spiegare – l’annuncio del Vangelo giunse oltre i confini dell’impero romano.

Quello che accadde “in quel tempo” è ciò che dovrebbe accadere “nel nostro tempo”.

«Ma come può accadere? Noi non stiamo sul monte dell’Ascensione!».
Ogni volta che lasciamo l’incontro con il Signore Gesù, prima di tutto nella Messa dove l’incontro è “reale e fisico”, ma anche negli altri sacramenti, nella preghiera, nonché nelle opere di carità, dovremmo partire e predicare dappertutto, cioè dovunque ci troviamo a vivere e a operare: la famiglia, il lavoro, gli amici… Partire significa passare dall’incontro con il Signore all’incontro con i fratelli. Predicare non vuol dire andare in giro a fare prediche, ma far conoscere attraverso i nostri pensieri, le parole, le azioni il messaggio e la logica del vangelo.

Accade questo?

Certamente! Non mancano mai persone di ogni età e condizione che, mosse dallo Spirito, vivono la fede in modo “missionario”. Però succede troppo poco, perché la fede non viene vissuta come un “mandato missionario”, come una consegna per far conoscere Gesù, ma come un dovere personale da assolvere, offrendo al Signore la Messa, la preghiera, l’opera di carità. In questo modo, la fede viene concepita e vissuta come “spazio ricavato”, spesso frettolosamente e senza gioia, tra attività per le quali il vangelo non è luce ed energia per i pensieri, le parole, le azioni. È praticamente un debito da saldare, non un compito da svolgere. Così dall’incontro con il Signore torniamo a fare quello che abbiamo fatto sempre, e come lo abbiamo sempre fatto.

È necessario tornare al monte dell’Ascensione.

Questa è la grande conversione riscoperta e rilanciata dal Concilio Vaticano II e da numerosi documenti dei Vescovi di tutto il mondo, in primis italiani, che però fa una grande fatica a realizzarsi e ad affermarsi. La Chiesa Italiana, le Diocesi, le Parrocchie devono trasformarsi da luoghi in cui si va a “regolare i propri debiti” con il Signore a “luoghi di incontro” con il Signore, che possano rifornire di nuova energia i doni che lo Spirito ha dato a ciascuno, come ci ricorda San Paolo: «… egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo».

«Ma in quel tempo il Signore “agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano”, nel nostro tempo invece…»
Oggi agisce allo stesso modo anche con noi se andiamo predicare, come conferma la testimonianza di tanti cristiani che, vivendo la fede così, realizzano cose che a noi sembrano impossibili. Gesù, infatti, “seduto alla destra di Dio”, asceso al cielo e tornato nella sua dimensione divina, può essere accanto a noi dovunque e sempre, mantenendo fede alla sua promessa: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).




Papa Francesco a Bologna, 21/04/2018

Cari fratelli e sorelle,
vi saluto tutti con affetto. Grazie per la vostra presenza festosa! Con questa visita presso la tomba di Pietro voi ricambiate quella da me compiuta alle vostre Comunità diocesane il 1° ottobre dello scorso anno. Ve ne sono molto grato. […]
Conservo viva la memoria degli incontri che ho vissuto nelle vostre città. Non dimentico l’accoglienza che mi avete riservato e i momenti di fede e di preghiera che abbiamo condiviso, ai quali hanno preso parte fedeli provenienti da ogni parte delle vostre rispettive Diocesi. È stato un dono della Provvidenza per confermare e rafforzare il senso della fede e dell’appartenenza alla Chiesa, che chiede necessariamente di tradursi in atteggiamenti e gesti di carità, specialmente verso le persone più fragili. […]
L’occasione della visita a Bologna fu offerta, come voi ben sapete, dalla conclusione del Congresso Eucaristico Diocesano. Il fervore suscitato da quell’evento ecclesiale, che ha raccolto numerose persone intorno a Gesù eucaristico, possa prolungarsi nel tempo, non affievolirsi ma accrescersi e portare frutti, lasciando un’impronta indelebile nel cammino di fede della vostra Comunità cristiana. Come ho ricordato nella recente Esortazione apostolica Gaudete et exsultate, «condividere la Parola e celebrare insieme l’Eucaristia ci rende più fratelli e ci trasforma via via in comunità santa e missionaria» (n. 142). L’Eucaristia, infatti, fa la Chiesa, la aggrega e la unisce nel vincolo dell’amore e della speranza. Il Signore Gesù l’ha istituita perché rimaniamo in Lui e formiamo un solo corpo, da estranei e indifferenti gli uni agli altri diventiamo uniti e fratelli.
L’Eucaristia ci riconcilia e ci unisce, perché alimenta il rapporto comunitario e incoraggia atteggiamenti di generosità, di perdono, di fiducia nel prossimo, di gratitudine. L’Eucaristia, che significa “rendimento di grazie”, ci fa percepire l’esigenza del ringraziamento: ci fa capire che «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35), ci educa a dare il primato all’amore e a praticare la giustizia nella sua forma compiuta che è la misericordia; a saper ringraziare sempre, anche quando riceviamo ciò che ci è dovuto. Il culto eucaristico ci insegna anche la giusta scala dei valori: a non mettere al primo posto le realtà terrene, ma i beni celesti; ad avere fame non solamente del cibo materiale, ma anche di quello «che dura per la vita eterna» (Gv 6,27). Cari fratelli e sorelle, gli uomini e le donne del nostro tempo hanno bisogno di incontrare Gesù Cristo: è Lui la strada che conduce al Padre; è Lui il Vangelo della speranza e dell’amore che rende capaci di spingersi fino al dono di sé. Ecco la nostra missione, che è ad un tempo responsabilità e gioia, eredità di salvezza e dono da condividere. Essa richiede generosa disponibilità, rinuncia di sé e abbandono fiducioso alla volontà divina. Si tratta di compiere un itinerario di santità per rispondere con coraggio all’appello di Gesù, ciascuno secondo il proprio peculiare carisma. «Per un cristiano non è possibile pensare alla propria missione sulla terra senza concepirla come un cammino di santità, perché “questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione” (1Ts 4,3). Ogni santo è una missione; è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo» (Gaudete et exsultate, 19). Vi incoraggio a far risuonare nelle vostre comunità la chiamata alla santità che riguarda ogni battezzato e ogni condizione di vita. Nella santità consiste la piena realizzazione di ogni aspirazione del cuore umano. È un cammino che parte dal fonte battesimale e porta fino al Cielo, e si attua giorno per giorno accogliendo il Vangelo nella vita concreta. […]
Vi ringrazio ancora per questo incontro. Vi chiedo per favore di continuare a pregare per me, e di cuore vi imparto la Benedizione Apostolica, che estendo a tutti coloro che compongono le vostre Comunità diocesane.




La Maddalena nel film di G. Davis

Intuisce lo scoramento di Gesù, vede le cose prima degli altri, le sente più profondamente, è l’unica a discernere l’originalità amorevole del Maestro e ad accogliere la verità delle sue parole. È la Maria Maddalena del film di Garth Davis, girato per la maggior parte in Italia (piccola nota d’orgoglio), ed è difficile pensare, nonostante le poche, pochissime testimonianze del Vangelo, che non fosse così.

Lo si deduce dalla conferma univoca in tutti i quattro vangeli di lei come prima testimone della rIsurrezione; e come potrebbe essere altrimenti – che una donna sia scelta, in una società patriarcale, quale prima testimone dell’unico vero Evento della Storia – se non per quel “sentire col cuore”, eccelsa qualità femminile; se non per quell’intuizione che ha la capacità di andare sempre al di là dell’immediato, del dato oggettivo, di ciò che accade e della parola detta per coglierne l’essenza più profonda e misteriosa? Chi altri potrebbe dire: «Ho visto il Signore!» (Gv 20,18) se non una donna così?

In questo senso il ritratto che ne fa il regista, pur non avendo la preoccupazione di una ricostruzione storico-critica e, anzi, facendo il lodevole sforzo di rileggere e rielaborare il dettato evangelico, è un’interpretazione ben più che coerente ed efficace di Maria Maddalena.

Dal punto di vista esegetico e della ricerca storica, infatti, l’identificazione di Maria Maddalena non è facile come sembra. I passi che parlano di lei in maniera inequivocabile sono esigui, ma la figura di Maria Maddalena ha come assimilato i racconti di altre donne presenti nel Vangelo, alcune volte in base al nome Maria, in altri casi per la forza della scena, tale da indurre molti commentatori a credere che la protagonista dovesse essere lei.

È il caso di una delle sequenze più belle del film, quella della rIsurrezione di Lazzaro. Nulla ci permette, in base ai testi evangelici, di identificare con certezza Maria di Betania, sorella di Lazzaro, con Maria Maddalena e quindi di affermare senza ombra di dubbio che Maria Maddalena fosse presente a quel miracolo. Invece, nel film, è proprio lo sguardo di Maria Maddalena a mostrare il prodigio allo spettatore.

Ne deriva una scena magistrale e sontuosa, dove il regista, fedele al suo compito e alla sua arte, si svincola dalla rigidità performativa del testo evangelico, che è di per sé talmente forte da schiacciare o rendere ridicolo qualunque tentativo di rappresentazione fedele.

Qui la sequenza è composta di occhi che si aprono vacui, sguardi che vengono attratti – come richiamati – e diventano pieni tornando ad incrociarsi, narici che si dilatano, fiato nei polmoni che viene restituito come con un bacio per permeare la vita dell’altro, vita – infatti – che viene condivisa per essere data e quindi anche morte che raggiunge chi ha dato la vita.

Mi sembra un’interpretazione suggestiva e penetrante dell’esito del racconto di Lazzaro che, nella trama evangelica, conclude con la decisione irrevocabile di uccidere Gesù (Gv 11,53).

Maria Maddalena, nel film, pare essere l’unica a rendersi conto che quel donare la vita costa il morire a Gesù. Ne nasce un dialogo struggente dove Maria pone la caparra per essere profetessa della risurrezione.

Da quel momento, il regista costruisce una sorta di corrispondenza tra Gesù e Maria: prima tra lo sguardo supplice di Gesù con il patibolo sulle spalle e lo sgomento di Maria tra la folla; poi indugiando sul respiro di Gesù crocifisso, mentre Maria desidera spegnersi; infine, seguendo il ritorno di Maria, riflessa nell’ombra sotto la croce, per permettere all’amico e Maestro di morire in pace e non triste.

Ho ascoltato migliaia di volte il racconto della Passione ricordare la presenza delle donne sotto la croce e non avevo mai inteso, per un uomo che muore, quale conforto sia la presenza della madre e di un’amica.

A questo punto non seguiamo Maria approssimarsi al sepolcro al mattino del terzo giorno, secondo la narrazione dei vangeli: la vediamo non allontanarsene mai, come in preda a un appuntamento. Il regista ci risparmia vesti luminescenti e scene strappalacrime, e proprio l’incontro con il Risorto, il tratto più identificante dell’esistenza di questa donna, è appena accennato perché già descritto compiutamente in tutto ciò che ne è la premessa.

L’ultimo regalo di questa lettura non convenzionale di Maria Maddalena ci viene offerto nel dialogo tra Maria e Pietro che chiude la storia. Con una sceneggiatura implacabile, che meriterebbe un’analisi approfondita, si evoca in pochi scambi la difficoltà della Chiesa di fare i conti con questo dato: il Risorto ha voluto mostrarsi per primo a Maria. L’unica assoluta novità che raggiunge la storia è consegnata per prima a una donna.[1]

La posizione del regista appare netta e severa, indicando nell’esclusione dal ruolo apostolico di Maria Maddalena una riduzione della qualità della Chiesa nascente nella sua funzione di comunità inedita e alternativa.

Nello scambio di battute con Pietro, dopo la risurrezione, si concentrano i nodi irrisolti dell’interpretazione della vicenda di Maria Maddalena nell’oggi: donna che riconosce il ruolo degli apostoli con lei e, perciò, non può e non vuole cedere di un passo al ruolo di apostola che le ha affidato il Risorto. Donna che indica come questa situazione non sarebbe un problema, se non lo creassero i maschi, in nome della presunta fedeltà al Maestro. Donna che, con la sua sola esistenza, mostra l’ovvietà di questo fatto nella testimonianza uniforme della Rivelazione scritta. Donna, infine, che proprio in virtù di tale permanenza nella Parola della Rivelazione, assumerà finalmente la posizione che le spetta fin del primo giorno della nuova storia del mondo (e della Chiesa).

E così la vediamo – mentre all’inizio del film era una donna orientata e determinata dagli uomini – camminare nella sequenza finale a testa alta, con la sua magnifica soggettività finalmente acquisita, come testimone – grazie anche all’interpretazione di Rooney Mara – eccelsa.

Davide Baraldi

 


[1] A ben guardare, anche l’altra novità che ha raggiunto la storia era stata consegnata a una donna. Donna Madre per partenogenesi e donna amica Testimone della vita risorta: ce ne sarebbe abbastanza per fare impallidire tutta la teologia al femminile (e tutta la teologia in toto) prodotta fin qui.

 

Testo scritto per Settimana News il 27 marzo 2018