Fede o non fede? Questo è il problema

«La fede ci fa essere credenti, la speranza ci fa essere credibili, ma è solo la carità che ci fa essere creduti».

Purtroppo, questa bella sentenza non è mia. L’ho sentita dalla testimonianza dei ragazzi di Castenaso, sabato scorso, durante la consacrazione della loro nuova chiesa, e ho notato con gusto che aveva colpito tutti. La sfrutto, in occasione di questa riflessione domenicale, perché mi sembra una buona sintesi delle letture della liturgia.

Al centro del vangelo c’è la questione della fede. I discepoli chiedono a Gesù di averne un po’ di più, ma lui corregge la loro domanda, ricordando che la fede non è una questione di misura. La fede o c’è o non c’è. Tanto che ne basterebbe la “misura” più piccola che l’occhio nudo riesce a vedere, per vedere la potenza della fede stessa. Invece noi diciamo sempre: “Mi fido, ma non abbastanza”… “Ci credo, ma mi comporto come se non ci credessi fino in fondo”… “So che il Signore è vicino, ma penso che tutto dipenda da me”… Dobbiamo ammetterlo: in questi casi, in realtà, la fede non c’è, perché la fede è un’esperienza sintetica della nostra esistenza, e non può essere vissuta se non integralmente. Diverso è il caso del dubbio, che sta sul piano del razionale, e certo può toccare anche qualche nostra paura. Però io posso avere qualche dubbio, e allo stesso tempo consegnarmi con fiducia, quasi facendo una scommessa.

Nella stupenda prima lettura del profeta Abacuc, invece, siamo incoraggiati ad avere speranza: «E’ una visione che attesta un termine, se indugia attendila…» e subito prima: «Scrivila bene e incidila sulle tavolette…». Il profeta vede l’intervento del Signore a sollevare una condizione difficile come imminente. L’atteggiamento di chi non dispera, di chi guarda al futuro con serena fiducia e con abnegazione per il suo lavoro, è la condizione necessaria perché qualcuno possa cogliere un segno significativo a partire dalla nostra testimonianza.

Infine, la seconda lettura ci ricorda di ravvivare il dono che ci è stato dato, quel dono che caratterizza e orienta la nostra vocazione. Il primo di questi doni è lo Spirito Santo ricevuto nel Battesimo; poi ogni persona sposata e ogni persona che ha dato un orientamento definitivo alla propria vita ha ricevuto questo dono. Per “carità” si intende questo: vivere con amore e con determinazione la nostra chiamata particolare. Non abbiamo ricevuto uno spirito di timidezza, ma di forza! Questo dono lo custodiamo soprattutto donandolo agli altri, mettendolo in circolo e trasmettendolo ai più piccoli, perché davvero se la fede non può non esserci, e la speranza sostiene il nostro sguardo fiducioso al futuro, è solo la carità che condensa il senso della nostra esistenza.

Don Davide




Troppo facile fare i profeti “low cost”….

Le letture di oggi feriscono e non sono per nulla politicamente corrette o rassicuranti. Colpisce la serietà con cui Gesù ci chiede di guardare alla disuguaglianza presente nel mondo, con immagini vivide e alquanto realistiche. Le attenzioni riguardo alle povertà e ai bisogni a cui ci richiamano il papa e il nostro vescovo, che appaiono belle e incoraggianti, e danno un po’ di lustro all’immagine della chiesa, in realtà chiedono una conversione profondissima da parte di ciascuno di noi. Sarebbe troppo facile fare i profeti low cost amplificando le accuse di Amos o mettendoci nella schiera di quelli che non avrebbero mai fatto come il ricco epulone con il povero Lazzaro, ma purtroppo so che non sarebbe autentico. Sento un profondo bisogno di colmare una distanza che è presente prima di tutto in me, una vera esigenza di conversione. Bello che i nostri pastori ci richiamino, ma poi ci tocca fare sul serio!

Invece che dire: “Ecco! È giusto quello che dice Amos, o che dice Gesù! Il mondo è brutto e cattivo! Voi siete brutti e cattivi!”, provo a chiedermi: e chi sarebbe “il mondo”? E chi è rappresentato in quel “voi”? Non sarà che invece il Signore chiede in primo luogo al suo popolo di ascoltare il richiamo presente nelle letture di oggi? Troppo facile dire: “noi che siamo la chiesa, noi che siamo i cristiani, richiamiamo voi – gli altri alle cose giuste”. Sarebbe bello, e forse sentiremmo anche il bisogno di poter dire una parola di rivincita contro “le orge dei buontemponi” che, effettivamente, ci stanno dinanzi. Ma la liturgia di oggi ci spinge a cogliere quale sia la ragione di questo messaggio.

Cos’è che effettivamente sbagliano i “buontemponi”? Cos’è che sfugge clamorosamente al ricco epulone? Mi sembra che sia la consapevolezza di un destino comune. Il ricco epulone non può dire: “Fortunatamente a me va bene, io mangio, mi vesto, non mi mancano i soldi… e pazienza per i poveri Lazzari…”. Questo bene, in una forma o in un’altra finirà. È questo il punto: non è che si voglia fare gli avvoltoi, della serie: “Non vedo l’ora di vedere la tua disgrazia, così impari!” è che il mondo è voluto da Dio con una solidarietà che lega le sue realtà e i suoi membri, e laddove questa manca, tutto viene trascinato nella rovina.

Papa Francesco, in Israele, ha operato con una semplice considerazione un rovesciamento di paradigma. Non cito letteralmente, ma il concetto è questo: durante gli orrori della guerra, e nelle riflessioni che ne sono seguite dopo, ci siamo sentiti in diritto di chiedere per tanto tempo: “Dov’era Dio?”, ma è troppo facile dare la colpa a lui di azioni che abbiamo compiuto noi. Dov’erano gli uomini che hanno venduto la propria coscienza al Male? E dov’erano tutti gli altri che avrebbero dovuto alzare la voce per impedire i massacri? E dove sono oggi gli uomini che si assumono la propria responsabilità, invece che dire: “Perché Dio permette che i bimbi muoiano di fame?”. Dove siamo noi?

Il Signore quindi ci interpella perché non dimentichiamo questa comunione fondante, che sfocia direttamente nel dovere e nel bisogno di solidarietà, comunione e condivisione. Certamente, al contrario di quanto si pensi quando si dice “Dov’è Dio?” con troppa leggerezza, le letture di oggi ci ammoniscono anche severamente che ci sarà un intervento di Dio, il suo giudizio, che sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia. Ben lungi dall’essere uno spettatore imparziale, quasi un legittimatore di quelli che bevono il vino in larghe coppe e vestono abiti smodatamente costosi, il Signore si erge come giudice dalla parte delle vittime e non tollererà la loro esclusione. Nella chiesa si è troppo accentuato il tema del giudizio su singoli atti morali di buon comportamento, al punto che sembra che dire le parolacce sia più grave che depredare il povero o disinteressarsi del misero, ma il giudizio di Dio, ossia il suo intervento nella storia, inequivocabile e severo, si consuma soprattutto quando gli uomini trascurano, escludono o violano altri uomini. Nessuno tocchi Caino, ci ammonisce Dio nella Genesi, ma perché la vendetta è riservata a lui in persona!

Ci sono, tuttavia, anche esempi e stimoli belli, e vorrei concludere con uno sguardo positivo e incoraggiante posato su uno di questi. Insieme a tante altre circostanze, in verità, in occasione della raccolta per il terremoto ho osservato e apprezzato una disponibilità rara ed edificante, e abbiamo raccolto una somma significativa. Magari si poteva fare anche meglio, ma almeno ho l’impressione che non siano solo le briciole che cadono dalla nostra tavola, e questo mi edifica e mi fa essere in dovere, in quanto a servizio della comunione, di ringraziarvi di cuore.

Don Davide




I furbi, chi governa e gli amministratori

È davvero un saggio di attualità la liturgia odierna, la quale ci propone un campionario di situazioni che sentiamo molto vicine.

La prima lettura ci presenta la figura dei “furbi”: quelli che all’esterno, o apparentemente, vogliono apparire corretti, ma poi tramano nel cuore le peggiori empietà. Il pensiero che costoro fanno sulla legge del Sabato è spaventoso: “Vabbè, ci tocca aspettare il Sabato, ma speriamo che passi presto così possiamo tornare a fare gli impostori!”. La loro colpa è di svuotare completamente il valore della rettitudine e che osservano la Legge pensando in realtà che non ci sia un Dio in cielo, o illudendosi che egli non veda. Invece lui giura: «Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere!» (Am 8,7).

San Paolo, al contrario, valorizza al massimo la responsabilità e i suoi significati, al punto da chiedere con insistenza che si preghi per chi è incaricato di governare. Ben lungi dall’essere un conservatore o un difensore dello status quo, Paolo sa che tali incarichi necessitano della più grande serietà, umanità, onestà e competenza; per questo invita i credenti ad accompagnare un compito così importante con la forza della preghiera. La posizione di Paolo è l’esatto contrario di quella dei “furbi”. Non ci deve essere nessun interesse per le proprie cose, nessuna smania di dare sfogo alle frustrazioni o alle proprie preoccupazioni; il governo riguarda il bene di tutti (in positivo) o il male di tutti (in negativo), quindi il cristiano deve tenere lo sguardo fisso sull’opportunità di superare i personalismi per favorire il più possibile il bene.

Nel vangelo, Gesù loda un amministratore “disonesto”. Scelta politicamente scorretta: ce lo immaginiamo cosa succederebbe oggi se Gesù avesse rilasciato una dichiarazione di tal fatta? Sarebbero comparsi titoli del tipo: “Gesù provoca ancora!”, oppure: “Leader carismatico religioso invita pubblicamente alla disonestà” ecc. ecc. Eppure, con una delle sue sagaci parabole, Gesù smaschera la micidiale ambiguità del denaro e ci obbliga a considerare il rapporto ossessivo e deviato che abbiamo con esso: «Non si può servire a Dio e al Denaro» (Lc 16,13).

Questi tre scenari di incredibile attualità mi fanno pensare ad altrettante situazioni in cui la parola di Dio ci edifica: la ripresa delle attività dopo il tempo dell’estate (lavoro, parrocchia, sport, interessi); la scuola; la drammatica recente esperienza del terremoto.

Il compito educativo di tutte le realtà coinvolte nella formazione della persona, dovrebbe essere quello di favorire un’autentica dignità umana e un profilo morale esemplare, non quello della “furberia”. I furbi ci stanno così antipatici perché sono degli “omaruncoli”, dei “poveretti” direbbero i ragazzi, eppure ogni tanto ci lasciamo tentare dal pensiero di “voler fare come loro” (attenzione: non di “voler essere” come loro!), per avere la strada in discesa, e perché ci sembra che rimangano sempre impuniti, che la facciano sempre franca, che cadano sempre in piedi. Ma invece non è così: per dirla con le parole di Gesù: “Non c’è nulla di nascosto che non debba essere manifestato!” (Lc 12,2).

La meravigliosa avventura della scuola, dovrebbe essere per ragazzi e docenti l’opportunità di allargare gli orizzonti al bene comune e al desiderio/bisogno di costruire le basi (culturali ed umane) per assumere incarichi anche gravosi con la massima coerenza e competenza. Sono stato colpito, in questi ultimi giorni, dal botta e risposta su sociale e quotidiani polarizzato intorno a due questioncine di poco conto, ossia sulla simpatica iniziativa di un professore di latino di proporre la traduzione del tormentone dell’estate: “Andiamo a comandare” (se non sapete di cosa si stia parlando, fermato un qualunque giovane per strada e chiedete!), oppure sulla vicenda del papà che non ha fatto fare i compiti al figlio scrivendo la lettera di motivazioni ai professori. Senza entrare nel merito segnalo, come sia facile perdere di vista i veri tesori della scuola e smarrirsi in polemiche di nessun conto.

Infine, l’eterna opera di divisione operata dal Denaro (nome proprio di un dio negativo), mi ha fatto pensare al terremoto recente. Oggi, in tutte le chiese d’Italia, facciamo la raccolta per aiutare le popolazioni colpite, ma attorno al denaro si consumano sempre le crisi e le fatiche: soldi destinati a mettere in sicurezza le strutture spesi per altre cose; sciacallaggi (reali e mediatici) e la grande sfida dell’aiuto alle popolazioni colpite per affrontare l’inverno, la ripresa delle scuole e il lavoro, insieme alla ricostruzione. Non si può servire a Dio e a Mammona, anche in questo caso possiamo decidere chi dei due vogliamo servire.

Don Davide




Ancora la misericordia, nel nome del Padre

Come il canto fermo di una sinfonia, o il ritornello nelle canzoni moderne, ogni tanto il tema della misericordia torna fuori a ricordarci che dobbiamo rimanere intonati su quella nota, se non vogliamo steccare. La liturgia di questa domenica ci richiama in maniera esplosiva a mettere al centro dei nostri vissuti la misericordia di questo Dio, che si fa conoscere principalmente come un Dio che perdona l’infedeltà del suo popolo, un re che gioisce quando un suddito si avvede del suo sbaglio, un Padre che perdona sempre e determinato a rigenerare la vita attraverso questo perdono.

Come siamo arrivati in secoli passati a rendere opaco, o quasi secondario, questo insegnamento è davvero un mistero. Tuttavia, dobbiamo davvero nuovamente radicarci nelle maestose immagini del vangelo di oggi: bisogna sapere e far sapere che il nostro Dio è disposto a fare di tutto pur di riavere ciascuno di noi! E poi ancora che è questo Padre che non si stanca di aspettare, che non dice – come faremmo noi – “questo è troppo”, ma che si compiace di aspettarci per poterci riabbracciare e, infine, di questo Dio che ci spinge continuamente ad accettare i nostri fratelli, a riconciliarci con loro e così, almeno in parte, a sperimentare la “festa della vita”.

Immagino i cavalieri durante un grande torneo medievale, pronti appena sotto la torre del castello, per poi giocare in campo aperto. Sono tutti bardati, hanno indossato le armature più belle e le armi più lucide. Suona la tromba ed essi si riconoscono in quel suono, incomincia l’avventura. Così, per noi, oggi, ciascuno al suo livello e secondo le proprie capacità, ci armiamo delle nostre armi splendenti e migliori. Dal palazzo del Re proviene il segnale: suona la tromba, è il suono inconfondibile della misericordia, è il nostro stile, il nostro vessillo. Andiamo nella nostra avventura con le insegne inconfondibili di una pecorella, di una monetina, di un figlio riabbracciato.

Don Davide




Il preventivo della gioia

Si ricomincia il nostro percorso di comunità, con un invito molto forte di Gesù. Il rapporto con lui dev’essere autentico, dobbiamo avere il coraggio di tenerlo come riferimento decisivo per le attività, per i progetti che vogliamo realizzare, per il nostro stile di chiesa.

Gesù ci sprona a misurare le forze; dunque, la prima considerazione che dobbiamo fare è: desideriamo ascoltare Gesù e provare a modellare il nostro essere cristiani come lui ci propone? È come fare un progetto e un preventivo, per sostenere un impegno importante.

Le tragedie legate al terremoto che ha appena colpito il centro Italia ci mostrano drammaticamente quanto gravi possano essere le conseguenze di una costruzione non fatta a regola d’arte. Mentre ricordiamo le vittime con cordoglio e siamo solidali a tutte le persone colpite con la preghiera e con l’azione, pensiamo anche a un’altra responsabilità che ci riguarda: quella di testimoniare il Signore risorto, vera speranza di ogni ricostruzione e rinascita possibile.

All’inizio di questo nuovo anno pastorale, perciò, vogliamo valorizzare la riserva di energia che è la gioia. Fortunatamente, possiamo attingere alla gioia e l’entusiasmo che ci hanno dato i campi dei ragazzi e dei giovani. Quattro ragazze hanno fatto il campo di formazione nazionale dell’ACR; il gruppo delle superiori è stato a Torino per interrogarsi sul contributo della comunità cristiana alla vita della città; il gruppo ACR è stato al Falzarego per vivere la gioia che il Signore ci dona e per imparare come regalarla agli altri; infine, i ragazzi di 1° media hanno appena trascorso qualche giorno per lanciare il gruppo medie anche per loro.

Vorrei che questa gioia della fede e della comunità fosse davvero il nostro serbatoio per quello che vorremo edificare quest’anno. Sogno che la nostra preghiera, le nostre attività e anche i nostri impegni possano attingere da esso, per rivelare che siamo davvero animati dallo Spirto del Signore risorto.

Penso che sia questa la sapienza che ci invita a ricercare la prima lettura, e anche quella forza autenticamente liberante di cui parla San Paolo, nella Lettera a Filemone.

È in gioco non solo la fisionomia di una comunità parrocchiale, ma la testimonianza che possiamo offrire agli uomini e le donne che abitano il nostro territorio, e anche l’iniezione evangelica che siamo tenuti a dare alla nostra cultura.

Don Davide




L’amore per Gesù

Devo dire che il Vangelo di questa domenica mi ispira in modo particolare. Forse, anche perché sento più intensamente il bisogno di convertirmi nella direzione che ci propone.

A dispetto della formalità e della sontuosità della cena organizzata da Simone il fariseo, la scena è dominata dal gesto di amore di una donna. Un gesto di amore schietto, spudorato, completamente focalizzato sulla persona di Gesù.

Questa donna non dice una parola, non sappiamo neanche i suoi pensieri; quello che possiamo dedurre di lei lo impariamo solo dai suoi gesti. Eppure, dal momento che entra in quella sala (con quale autorevolezza!) è come se riducesse tutti gli altri personaggi – che pure parlano, interagiscono, sembrano protagonisti della scena – a dei semplici comprimari.

Quanto sarebbe bello se noi fossimo capaci di sentire Gesù così al centro, di volergli bene non come a un’idea, ma come a una persona concreta, un amico con cui abbiamo tessuto anni e anni di relazioni e di avventure insieme, uno che ha fatto strada con noi!

Quando penso all’educazione che offriamo ai nostri ragazzi, mi chiedo se, in tutte le cose che facciamo, noi li aiutiamo a conoscere meglio Gesù e a volergli bene: se la nostra pastorale trova le vie giuste per farglielo frequentare e sentire vicino.

Quanto volte, anche nelle nostre liturgie, noi rispettiamo le formalità, e poi – come rivendica Gesù in questa meravigliosa scena – non gli diamo un bacio, non lo abbracciamo, non ci affidiamo a lui con tutto il nostro essere?!

La misericordia di cui parla tanto papa Francesco dipende proprio da questo rapporto con Gesù: in questa pagina del Vangelo è evidente. Chi ama tanto Gesù conosce il perdono e sarà spinto dalla misericordia. Chi non lo ama, e si ferma alle regole formali, non farà mai l’esperienza di sentire il cuore sciolto, lo slancio che non ti fa avere paura, lo sguardo che ti fa cogliere ciò che di bello accade nella tua vita.

Don Davide




La vita alle porte della città

Con un paragone ardito mi verrebbe da leggere la scena del Vangelo di oggi in relazione a due eventi importanti di questi giorni: le elezioni amministrative nella nostra città e l’inizio dell’Estate Ragazzi nella nostra parrocchia.

In questo racconto suggestivo, infatti, Gesù incontra una processione funebre che esce dalla città, e la incontra proprio alla porta, mentre lui – portatore di vita – vi sta entrando. Ho sempre visualizzato la scena come se si svolgesse davanti a una delle nostre meravigliose dodici porte, ad esempio a Porta San Felice.

Credo che sia una questione fondamentale per chi si occupa della polis, della città, con gli incarichi che verranno affidati. Vorrei che tutti si chiedessero: quali dinamiche mortifere “escono” dalla città? E quali forze di vita possiamo portarci dentro? Sarebbe bello se i nostri amministratori potessero avere sempre davanti agli occhi questa scena: una sorta di sfida, sulla soglia di questo meraviglioso agglomerato dove vivono gli uomini e le donne, per farne uscire tutte le potenze mortifere e per iniettarvi invece le migliori forze vitali.

L’altro elemento di confronto è l’inizio dell’Estate Ragazzi. Non posso non pensare a Gesù che con il suo tocco ferma la processione funebre fregandosene delle convenzioni religiose (toccare un morto era un gesto di impurità rituale) e fa rivivere un giovane in uno scenario che “sa di tristezza”. Con l’Estate Ragazzi mi sembra che le cose stiano allo stesso modo. Gesù “tocca” la vita di questi bimbi e degli adolescenti, magari senza troppo seguire le regole del protocollo, e la anima sfrenatamente. A noi adulti, talvolta, “piace” descrivere i ragazzi come svogliati, disinteressati, attaccati solo ai video game e bla bla bla… Poi li scopriamo impegnati per tre settimane, a divertirsi insieme, a seguire dei bambini urlanti, ad arrivare – magari con le occhiaie fino alle ginocchia – alle 8.00 di mattina puntuali nei giorni dopo la fine della scuola.

Ogni tanto ho proprio l’impressione che il rapporto della chiesa coi giovani sia descritto da questo episodio della vita di Gesù: noi siamo un po’ spenti, mesti, forse anche un po’ noiosi e ci lamentiamo che i ragazzi sono “smorti” (“morti” mi sembrava un’affermazione un po’ forte…). L’unica cosa che abbiamo da portare “fuori” è questo clima. Poi arriva Gesù e, con un tocco, fa un casino. So già che qualcuno mi dirà: “Don Davide, non si scrive casino nell’Agenda della Domenica!”. So già anche che qualcuno si lamenterà, puntualmente, perché in queste tre settimane ci sarà un po’ di casino, e non solo si lamenterà nelle ore in cui è doveroso rispettare il riposo e la quiete, ma anche nelle altre… giusto per lamentarsi.

Ma cosa volete farci… non sono io che lo dico… Prima di me l’ha detto il papa, nella cattedrale di Rio De Janeiro ai giovani argentini durante la Giornata Mondiale della Gioventù: ha detto loro, testualmente: “Mi auguro che facciate casino!”. Poi certo, la traduzione ufficiale del Vaticano ha attenuato in un più corretto: “chiasso”, ma il papa ha usato: “casino”. Il papa voleva dire: “Mi auguro che vi facciate sentire, che siate protagonisti della chiesa, che mettiate in gioco la vostra vivacità”.

La cosa più bella di questa scena è che Gesù “prende” metaforicamente questo morto tornato in vita e lo restituisce a sua madre, come a dire: “Io vi restituisco la vita di questi ragazzi. Ora sta a voi farli vivere”.

Ok, Gesù, abbiamo capito. Ci proviamo.

Don Davide




La Trinità

Ho provato a immaginare molte volte come dev’essere la vita di Dio nell’intimità della sua casa. Padre, Figlio e Spirito Santo. Se il paragone non risultasse irriverente, me li immagino come tre amici giocatori di poker nel vecchio West, che sembrano concentrati al loro tavolo, ma sono pronti a intervenire se accade qualche guaio nel saloon. Oppure come tre persone importanti, il presidente, il vice-presidente e il capo delle operazioni che seguono da uno schermo in una stanza segreta il corso degli eventi con la responsabilità di orientarli. Sono solo paragoni, un po’ scherzosi. Come recita un principio della teologia: “Quanto più si afferma una somiglianza, tanto maggiore è la differenza”.

Immagino Dio Padre commuoversi per le sorti del mondo, commuoversi di stima e benevola tenerezza per tutto il bene che gli uomini fanno, e commuoversi di un dispiacere da torcersi le budella, per tutto il male che sanno compiere. Vedo Gesù, imprimere, come uno stampatore, il suo volto su tutti gli uomini e le donne, specialmente su coloro che la cui dignità è violata, su quelli che soffrono da soli, sulle vittime che sono disprezzate dagli altri. Infine, non lo vedo, ma lo sento, lo Spirito Santo che dà vita dove non ce lo aspetteremmo. Lo Spirito che quando qualcuno dice: “Si stava meglio quando si stava peggio” suscita sogni nei giovani e nuovi entusiasmi negli anziani; lo Spirito che fa amare, anche quando è difficile; lo Spirito che insegna a disprezzare le ricchezze e a prediligere la condivisione; lo Spirito che suscita uomini e donne pacifici e giusti, in mezzo alla violenza e alle guerre. Lo Spirito che ti fa incantare di fronte a un panorama di montagna, al mare sconfinato, a un fiore in primavera. Lo Spirito che fa sorridere una persona malata e gli fa amare la vita, nonostante tutto.

Oggi non celebriamo le formule complicate che parlano di un’unica sostanza in tre ipostasi (o persone): questo lo lasciamo ai filosofi e ai teologi.

Oggi celebriamo il Dio della storia, che si rimbocca le anime, che ama e che agisce in comunione, che interviene attivamente non a modificare il corso della storia, ma a toccare il cuore degli uomini e delle donne disponibili, per cambiare il mondo.

Quando i ragazzi si innamorano dicono che “hanno una storia”: ecco, noi auguriamo anche ai ragazzi che oggi completano l’iniziazione cristiana con il Sacramento della Cresima, di essere animati dallo Spirito d’amore e non solo di “avere una storia” con questo Dio della storia, ma di “fare la storia” con lui.

Don Davide




Lo splendore di una città

Papa Francesco esorta più volte nella Evangelii Gaudium, ad avere uno sguardo contemplativo sulla città. Oggi siamo aiutati dalla seconda lettura, che ci descrive l’immagine meravigliosa della Gerusalemme Celeste, come se il frutto della fede dei discepoli sia la generazione di una città luminosa e fraterna.

Confessare il Signore risorto significa costruire uno stile della convivenza che valorizzi il bene di tutti e abbia a cuore ciascuno.

Questo è il dono della pace che il Signore ci lascia: una pace per nulla paragonabile a quella che sono in grado di costruire gli uomini, fatta di fragili accordi e di compromessi. Si tratta, invece, di una pace sincera, amorevole, legata all’esperienza di una vita piena e condivisa in maniera gioiosa.

Questa domenica sera c’è la conclusione dell’Ottavario di preghiera in onore della B.V. della Salute e faremo la processione per le strade della nostra parrocchia. La processione sembra un rito antico, quasi obsoleto. Magari in campagna possiamo ancora riconoscerle un valore folcloristico, ma in città ci pare il residuo archeologico di una fede che non c’è più, soprattutto quando qualche ragazzo con un bicchiere di birra in mano guarda il suo passaggio con l’occhio pallato di un pesce lesso.

Invece penso che possa essere ancora un evento tanto bello quanto prezioso, se la immaginiamo come quel gesto pacifico di cui parlavo poco sopra: l’idea di percorrere le strade della nostra città serenamente, ponendo qualche piccolo segno gioioso, e cercando di esprimere uno sguardo attento attraverso la preghiera alle grandi situazioni che ci interpellano.

La processione è un simbolo di riconoscimento di una comunità, è un appuntamento per dire che noi queste strade le abitiamo, senza presunzione di superiorità, senza ostilità, ma con la ferma determinazione di essere attivi protagonisti non solo tra di noi, entro le mura della parrocchia, ma cercando di edificare insieme a tutti.

Per fare ciò, porteremo dei segni: dei cartelli con le frasi più belle e significative di papa Francesco, fatti dai bimbi di II e IV elementare; dei palloncini, che diventeranno il simbolo della nostra preghiera, una preghiera che possa illuminare la notte, lanciati dai bimbi di III elementare; infine, dei lumini, con cui fare risplendere le vie che attraverseremo con il simbolo della pace.

Confido che questo brulicare nella notte, ci aiuti a contemplare lo splendore della città – non solo della nostra, ma più in generale della città “degli uomini” – quel luogo dove si vive insieme e si cerca di imparare la convivialità delle differenze.

E che la preghiera che si è prolungata per otto giorni, possa ottenere per intercessione di Maria, la guarigione del corpo e dei cuori e il dono dello Spirito di unità e di pace, come in una rinnovata Pentecoste.

Don Davide




Come il signore è con noi

«Ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri» (Gv 13,32).

La liturgia di Pasqua si avvicina all’Ascensione del Signore e comincia a farci riflettere su cosa significa il distacco fisico di Gesù dal nostro mondo terreno, e anche come lui continua a essere con noi.

Gesù prepara i suoi discepoli alla sua assenza: doveva essere un momento molto difficile per loro, dopo avere sofferto per la sua morte e gioito per la sua resurrezione, dovevano essere completamente impreparati all’idea di vivere senza di lui, e ancora più per quanto gli erano affezionati. Lui aveva dato loro tutte le speranza e il senso più grande della vita che potessero immaginare.

In questa intensa situazione emotiva, Gesù dà loro l’insegnamento più importante: il modo per non sentire la sua assenza è quello di amarsi, di volersi bene. Non solo: è il modo di sentire la sua presenza. Chi ama, sente il Signore vivo e vicino, perché capisce intimamente il suo “spirito”, quella dimensione interiore che permette di attingere al segreto più vero della vita.

Questa è anche l’unica via per rendere testimonianza. La fraternità amichevole, la solidarietà, l’amore reciproco. Chi vede una comunità di persone così, piccola o grande che sia, vede il Signore Risorto in mezzo ad essa.

La seconda lettura collega questa immagine ideale ma non utopica della comunità dei discepoli di Gesù alla Gerusalemme celeste. Così la chiesa è un segno concreto e un anticipo della realtà che vedrà tutti gli uomini in compagnia di Dio e dove ognuno sarà consolato.

La prima lettura, invece, ci incoraggia sull’esempio degli apostoli, a perseverare nell’amore, anche quando si dovessero attraversare molte difficoltà. Tutto questo serve per fare risplendere questo comando di vita di Gesù, che è l’invito a trasformare il mondo con l’amore.

Don Davide