Una moltitudine

Poche parole nel vangelo di oggi, per ricordarci l’immagine pastorale di un gregge e del suo pastore. L’estate scorsa, in montagna vicino a Passo Giàu, ho visto con i miei occhi un numerosissimo gregge che pascolava nelle vallette sottostanti un sentiero. Dall’alto il pastore le controllava, e non ne perdeva di vista alcuna. Appena una si allontanava, il pastore faceva un fischio e i suoi cani subito riconducevano la pecorella troppo intraprendente negli spazi rassicuranti del gregge. E quando il pastore ha deciso di muoversi tutte le pecore – almeno 300 – lo hanno seguito spontaneamente.

Gesù doveva avere un’immagine simile davanti agli occhi, magari non con il panorama delle Dolomiti, ma certamente quella di numerose pecore che stabiliscono spontaneamente con il loro pastore un rapporto di vera conoscenza, e che sono custodite perché lui non permetterà che si allontanino troppo. Vorrei che potessimo custodire soprattutto questo pensiero: “Nessuno può strapparle dalla mia mano” (Gv 10,29). Aggiungerei: niente e nessuno. Dobbiamo avere fiducia che Gesù non permetterà che ci allontaniamo da lui, esattamente come dice san Paolo nella Lettera ai Romani: “Chi potrà separarci dall’amore di Cristo?” (Rm 8,35). Con piena fiducia possiamo rispondere: niente e nessuno.

La lettura dell’Apocalisse (II) ci garantisce, anzi, che la tribolazione, la fatica della testimonianza, il passaggio arduo della Croce, ben lungi da essere motivo di allontanamento, sono invece come un bagno di purificazione che ci rende partecipi del passaggio di Gesù da morte a vita. Non c’è niente che macchia di più del sangue, paradossalmente questo lavacro avviene nel sangue di Cristo e ci rende candidi come il manto di una pecorina appena lavata.

Molte sono le tribolazioni del mondo, molti uomini e donne soffrono fatiche di ogni genere e intensità. Per questo, la visione estrema dell’Apocalisse promette un mondo dove tutte queste ferite saranno curate: anche questo è frutto della cura del Buon Pastore.

Vogliamo ricordare e avere presente tali sofferenze nella preghiera dell’Ottavario della B. V. della Salute, che inizieremo domenica 24 aprile. In quest’anno della misericordia, vogliamo provare a essere in sintonia con i sentimenti e la cura del Buon Pastore, attraverso l’intercessione di Maria, provando ad allargare lo sguardo, i pensieri e la preghiera a tutte le persone che vivono qualunque situazione di difficoltà. Ogni giorno dell’Ottavario, perciò, pregheremo per un’intenzione particolare, legata ai misteri della vita di Gesù che si contemplano. Mercoledì 27 aprile, l’attenzione al mondo si allargherà grazie a un incontro col CEFA sulle attività che svolge in Kenya, sostenute anche grazie al mercatino della nostra parrocchia, e a cui ha partecipato un nostro parrocchiano. Dopo l’incontro, pregheremo una decina del rosario e faremo la parte conclusiva dell’Ottavario.

Infine, l’1 maggio, durante la processione serale, alla fine di ogni mistero compiremo un piccolo segno con l’aiuto delle famiglie e dei bimbi del catechismo che vorranno partecipare, e faremo una preghiera speciale, scritta da vari parrocchiani, per le seguenti intenzioni: migranti e poveri, scuola, malati e anziani, famiglia, lavoro.

Speriamo così di allargare lo sguardo e l’attenzione alle vicende del nostro mondo, di “lavare” le tribolazioni con la nostra preghiera e ci contribuire così a cancellare le lacrime cattive da ogni volto.

Don Davide




Si manifestò di nuovo

Quante volte abbiamo desiderato che Gesù si manifestasse nella nostra vita?! Magari attraverso una preghiera che speravamo di vedere esaudita, o in una speranza realizzata… o in una difficoltà che speravamo di superare…

Se ci pensiamo bene, se siamo qui, in chiesa, pronti per la messa, o a casa a leggere questo foglietto, vuol dire che una volta lo abbiamo incontrato, lo abbiamo sentito vero, accanto a noi. Abbiamo percepito che sì, potevamo credere.

La resurrezione agisce in noi come un continuo rinnovare quella scintilla, alcune volte sfidandola, alcune volte alimentandola in maniera vigorosa. Quando desideriamo che il Signore si manifesti “di nuovo”, come all’inizio del Vangelo di oggi, è perché siamo sempre in passaggio di Pasqua, è perché abbiamo qualche croce, piccola o grande, che deve diventare resurrezione. Non è una disgrazia! Al contrario! Il Signore ci prende per mano, proprio in quella difficoltà, per farci fare qualche passaggio decisivo.

C’è un’incredibile tenerezza nella scena del Vangelo di questa Domenica. Pietro è triste, sconsolato. Non gli resta che tornare a pescare. Lo dice come se ormai quel gesto tanto conosciuto e consueto avesse completamente perso di senso. Non aveva promesso il Signore che avrebbero “pescato” gli uomini? E invece si ritrovano a inseguire pesci che non si fanno prendere. “Quella notte non presero nulla”: si sente in questa frase tutto lo sconforto di chi pensa che il destino avverso si accanisca su di lui: “Ecco, non ne va bene una. Non siamo più nemmeno capaci di pescare!”.

Gesù risorto compare interpellandoli, proprio per guidarli in questo passaggio pasquale: “Non avete nulla da mangiare?”. Sembra un’ulteriore umiliazione per i discepoli: un pellegrino chiede un pesce a dei pescatori, e loro devono confessare di non avere nulla… Che tristezza.

È in questo scenario che Gesù si manifesta di nuovo. Di fronte allo svilimento estremo dei discepoli, ecco che sorge una nuova resurrezione.

“È il Signore!” esclama Pietro sbalordito. C’è qui tutto l’entusiasmo della rinascita. E ancora più tenera è la notazione che i discepoli, dopo, non chiedono nulla, perché ormai sanno bene che è il Signore.

Ecco, quando il Signore si manifesta di nuovo, nella nostra vita, lascia sempre un momento di pace e di grande consapevolezza. Ci credevamo abbandonati, forse respinti, invece Gesù in un impeto di tenerezza si avvicina di nuovo a noi, ci fa superare quella fatica, ci dice che possiamo vivere, e vivere nella gioia.

Don Davide




La Pasqua piena di misericordia

“A coloro a cui perdonerete i peccati saranno rimessi”. Questa affermazione di Gesù risorto, in mezzo ai suoi, sembra tautologica. È ovvio, verrebbe da dire. Ma Gesù vuole sottolineare come la Chiesa abbia la responsabilità di essere piena testimone della Pasqua attraverso la misericordia. Per questo il Risorto mette nelle mani della Chiesa questo “potere” di perdonare, e affida a ciascuno di noi, battezzati, questo mandato e questo compito.

Perdonare è l’unico potere che abbiamo. Riconciliare la nostra unica arma.

La misericordia è l’energia della resurrezione in atto. Cos’è che fa vivere, quando siamo morti? Essere riconciliati col Padre. Cos’è che ci cambia quando stiamo percorrendo una strada sbagliata? Chiedere perdono. Cos’è che ci rimette in cammino, quando siamo bloccati? Potere aprirci con qualcuno, confessare le nostre fatiche.

Tutte le volte che noi chiediamo ed offriamo perdono, passiamo dalla morte alla vita; dal mondo vecchio logoro a causa dei suoi stessi egoismi diamo origine al mondo nuovo.

L’esperienza così intensa, autentica ed elettrizzante che i discepoli fanno di Gesù risorto nel vangelo di oggi, noi la ripetiamo tale e quale quando facciamo opera di misericordia o la chiediamo per le nostre vite.

Che cos’altro è la “Misericordia” se non vedere le ferite del Corpo di Cristo, essere anche noi trafitti dalle sue piaghe e mettere il dito in quegli squarci della sua carne. Dovremmo proprio cercare di vedere le ferite degli uomini e delle donne del nostro mondo, dovremmo pregare che il nostro cuore si intenerisca di fronte alle piaghe fisiche e morali di tanti nostri fratelli e dovremmo accettare di “mettere le mani” a ciò che uccide i nostri fratelli e sorelle, sporcarci di lavoro, per cercare di cambiare qualcosa.

In questo modo, il Signore risorto si manifesterà a noi nella sua totale integrità e noi potremo così celebrare la Pasqua in pienezza.

Don Davide




Correre al sepolcro

«Le parole delle donne parvero ai discepoli come un vaneggiamento, Pietro tuttavia corse al sepolcro…» (Lc 24,11).

È un annuncio così potente, quello della resurrezione, da sembrare incredibile. In esso riposano tutte le nostre speranze di vita e di salvezza, al punto che qualche filosofo ha ipotizzato che “la Resurrezione”, così come “l’essere di Dio”, fossero solo una proiezione dei desideri dell’uomo.

Certo, il mistero del Risorto ci spiazza: secondo la testimonianza dello sparuto gruppo dei suoi discepoli, Gesù risorto non si può trattenere – nonostante l’anelito di potere stare con lui – non si comprende fino in fondo, non possediamo la sua verità se non attraverso molteplici e comunque insondabili punti di vista.

Eppure balena come la scintilla di un fuoco di brace sotto la cenere un dubbio, o forse un’intuizione… E… se fosse?!

Un amico agricoltore mi ha raccontato che i covoni di grano, si possono incendiare perché la forza con cui sono compressi, può talvolta generare processi chimici di autocombustione al loro interno, se non sono perfettamente essiccati. La scintilla della resurrezione è come questa traccia di qualcosa di potenzialmente incendiario, che rimane nel nostro cuore. Pressati dalle mille cose da fare, dalle paure, dalle ansie, ormai assuefatti agli orrori e alla disillusione, qualcosa nel più intimo del nostro essere afferma un destino di vita.

Questa scintilla divampa quando l’annuncio di questa possibilità la raggiunge e la fa diventare desiderio, speranza, volontà di dare credito all’esistenza.

Dev’essere successo così, a Pietro, quando le donne sono arrivate a dirgli del sepolcro vuoto. Quelle parole gli sono parse come un vaneggiamento, nonostante ciò una potenza nascosta si è fatta strada da chissà dove – forse in nome dell’Amore – in mezzo al suo scetticismo. Il vangelo ci racconta di un meraviglioso: “tuttavia”: «Pietro tuttavia corse al sepolcro». In questo dubbio di Pietro che apre uno spiraglio, in questo desiderio di qualcosa d’altro, certamente anche di riscatto per il suo tradimento, in questo “tuttavia” c’è l’intero racconto di come la fede nel Risorto si fa strada tra gli uomini e nella storia del mondo.

Per questo dobbiamo ascoltare continuamente il Vangelo, e quando possiamo testimoniarlo con umiltà, perché quando scatterà un po’ di curiosità, quando qualcuno dirà “forse”, “magari”, “proviamo” oppure “tuttavia”, lo Spirito del Risorto avrà già creato la minuscola crepa che, prima o poi, farà crollare tutte le resistenze.

Come una caccia al tesoro, così è la resurrezione: quando hai trovato il primo indizio, non puoi fare a meno di arrivare alla meta.

Don Davide




Il disgusto e la torre di Siloe

È un’abitudine che non siamo ancora riusciti a sradicare, tra noi cristiani, quella di ritenerci in fondo superiori agli altri, o migliori, non tanto per le nostre qualità morali personali, ma per il fatto di credere, di seguire Gesù, di conoscere Dio e di cercare di seguire la strada che lui ci indica.

Ci sembra che questa cosa sia oggettiva, e che unita alla nostra personale umiltà faccia una buona sintesi: noi non siamo migliori di tutti gli altri, però per il fatto di credere, in realtà un po’ sì.

Nelle letture di questa domenica la parola di Dio ci aiuta a smascherare questo pensiero nocivo.

Nella prima lettura, la rivelazione di Dio a Mosè nel roveto ardente ci ricorda che tutte le volte che ci accostiamo al mistero di Dio, noi entriamo in un luogo santo, qualcosa che non possiamo né afferrare né carpire fino in fondo, e tanto meno padroneggiare, perciò bisogna toglierci i sandali, cioè sapere che non possiamo in alcun modo piegare Dio a nostro favore, ritenere che sia per forza dalla nostra parte.

Nella seconda lettura, il monito di San Paolo è esplicito: «Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere» (1Cor 10,12). Credo che non ci sia da aggiungere altro.

Nel vangelo, Gesù stesso richiama due fatti tragici per dirci che non dobbiamo risolvere l’enigma del male pensando semplicemente che “erano più cattivi di tutti gli altri e se lo sono meritati”. L’invito di Gesù è anzi all’opposto: ci ricorda che non dobbiamo mai pensare che altri siano più cattivi di noi, e sentire sempre questo profondo richiamo ed esigenza di conversione.

Mi pare che questo si traduca, per noi, in due attenzioni specifiche. La prima e più ovvia è quella di non “disgustarci” degli altri, come fa il fariseo con il pubblicano al tempio. Spesso noi ci sentiamo quasi in diritto di farlo, per difendere la verità, ma in realtà difendiamo noi stessi, ci dimentichiamo di distinguere il peccato dal peccatore, e spesso ci dimentichiamo anche che quel peccato caratterizza anche noi stessi.

La seconda è di non presumere di avere in tasca la verità, di sapere tutto di Dio e di ricavare una sorta di costituzione di leggi cristiane direttamente dal vangelo. Forse le vicende degli uomini e delle donne, come ci insegna la parabola del fico, ci spingono piuttosto a riconoscere la pazienza e la misericordia di Dio, che continua ad “adattarsi” alle nostre debolezze, finché non riuscirà a raccogliere qualche buon frutto.

 Don Davide




La vita come dovrebbe essere

Quando guardiamo il cielo di notte e l’aria è tersa, rimaniamo stupefatti dallo splendore del firmamento. Una meraviglia che supera di gran lunga le nostre domande, ma che allo stesso tempo ci incuriosisce e ci interroga. Spesso, quando siamo ispirati da sentimenti buoni, un tale spettacolo può essere persino capace di donarci un po’ di serenità e di pace tra le preoccupazioni e le fatiche della vita.

Allora, sotto a tanta bellezza, è come se percepissimo che sì, c’è un patto, all’interno del quale siamo e che ci custodisce. Deve essere stata questa, inizialmente, l’esperienza di Abramo (I lettura). Poi, questa percezione di fondo della vita, ha assunto la fisionomia di un volto e di un nome: Abramo vi ha riconosciuto un tu, la voce di Dio, che lo coinvolgeva personalmente e lo interpellava.

Di solito, invece, noi diamo più credito ai momenti “no”. È quando le cose ci vanno male che siamo spinti a una maggiore consapevolezza e ci sembra che sia più realistico essere disincantati e disillusi, pensare che il mondo – la vita – l’esistenza “sono così” e che non conviene farsi tante illusioni.

Ben lungi da questa prospettiva, invece, coinvolgendo i discepoli a cui riserva le rivelazioni più profonde (Pietro, Giacomo e Giovanni) nella Trasfigurazione, Gesù ha voluto confermare l’intuizione di Abramo: ha voluto, cioè, che noi sapessimo con assoluta e irrevocabile certezza, che la verità è nello sguardo capace di cogliere la realtà trasfigurata, che il destino dell’uomo e del mondo è la realtà di Gesù risorto. Il mondo “vero”, l’esistenza “vera” è quella bella. Quella che ci fa dire, con un desiderio quasi struggente: “E’ bello per noi stare qui”, “E’ bello vivere così”. Non dobbiamo distogliere lo slancio da questo desiderio, non dobbiamo rassegnarci al negativo e dargli più consistenza di quanto si meriti. Anche se Gesù invita i suoi discepoli a tornare a valle, e quindi ad allontanarsi dall’esperienza della Trasfigurazione, lo fa per incoraggiarli a portare nel mondo quella verità di cui ora sono divenuti partecipi, senza ombra di dubbio.

Il destino è quello splendore che hanno visto. Non si sono sbagliati, e non hanno visto un fantasma. Se lo ricordino – i suoi discepoli – quando arriveranno i giorni della croce – quelli di Gesù e quelli di tutte le croci – che la verità è la gloria. Se lo ricordino, nei giorni brutti, che la verità è la bellezza.

Non si lascino strappare questa certezza.

Sappiano di essere dentro un patto, in cui Dio – il contraente – è fedele, fedelissimo. E in mezzo alle fatiche continuino ad ascoltare la voce dell’amore, che li richiama alla verità di quella esperienza.

Così, la liturgia di Quaresima, ci fa sostare sulla scena incantevole della Trasfigurazione per ricordarci che tutto l’itinerario di questi giorni non è un itinerario di mortificazione, ma di “vivificazione”, e che tutto ciò che mettiamo in atto, come strategia ascetica per vivere al meglio questo tempo, lo facciamo per allenarci a tenere fisso lo sguardo, anche dal fondo della valle, sulla luce che emana dal monte.

 Don Davide




La tentazione e le storie

Quando dobbiamo descrivere un momento di prova, in genere ci troviamo a raccontare una storia. “È successo questo e quello… e poiché mi sentivo così… allora è accaduto che…”.

Per questo motivo, nella prima domenica di Quaresima, la liturgia ci propone la professione di fede di Israele (I lettura) nella forma di una storia. Il racconto di ciò che Dio ha operato in mezzo alle prove della nostra vita è il modo migliore per sconfiggere le tentazioni attuali. L’anno della misericordia è un tempo in cui noi ci esercitiamo a fare proprio questo: a riguardare al nostro vissuto e non scorgervi un percorso fatto di successi, gioie e fallimenti, ma soprattutto l’intervento di Dio che ci ha protetto e guidato. Ecco perché Israele, quando professa la sua fede, racconta una storia: così fa memoria della presenza di Dio che guida la sua esistenza. Ed ecco perché fare memoria aiuta noi nel momento della prova: perché ricorda che Dio ci è accanto, anche e soprattutto nel momento della tentazione, e ci aiuta a sconfiggerla.

Quando vado a benedire, o nei colloqui con le persone, spesso mi viene rivolta la domanda riguardante la traduzione del Padre nostro: «non ci indurre in tentazione». L’italiano ha tenuto lo stesso verbo usato nella traduzione latina di San Girolamo, ma in italiano si confonde il significato, sia perché in latino il termine ha un campo semantico più vasto, sia per la struttura sintattica della frase. Il senso della frase correttamente dovrebbe essere: «Non permettere che entriamo nella tentazione» o «Fa’ che possiamo non entrare nella tentazione». La preghiera è dunque che il Signore ci tenga ben lungi dalla tentazione, perché noi siamo deboli, ma anche nel caso che dovessimo trovarci in una simile prova, che lui possa non abbandonarci.

Tutti i padri della chiesa hanno sempre visto il racconto delle tentazioni di Gesù, a questo proposito, come un episodio di grande consolazione. C’è da dire, innanzitutto, che Gesù non ha sopportato una tentazione “puntuale”, che cioè si è risolta in un momento in cui ha avuto una piccola fatica, e poi più. La tentazione di Gesù viene descritta come una prova prolungata, lancinante, progressiva e sempre più aspra nella sua intensità, e che va a toccare il punto cruciale della sua esistenza, in questo caso l’essere il figlio di Dio. È stata un’esperienza ben più intensa di quando noi andiamo completamente in crisi nella nostra vita, e sentiamo una spinta fortissima e spesso lacerante a scegliere una strada che profondamente sbagliata, ma che nondimeno ci attira in maniera irresistibile. Questo è il tipo di tentazione di Gesù. I padri della chiesa vi trovavano consolazione perché vedevano in questo racconto il fatto che Gesù ha vinto le tentazioni e ci ha dato non solo la forza e il coraggio di vincerle anche noi, ma la certezza che una volta superate, noi possiamo stare bene, essere felici, sentirci al nostro posto e in pace.

Siamo invitati, quindi, in questo itinerario quaresimale ad affilare le nostre armi di fronte alle tentazioni e alle prove: abbiamo la memoria di come Dio ci ha condotto nella nostra vita e abbiamo la sua parola, che è molto vicina a noi (cf. II lettura) per guidarci, incoraggiarci e consolarci.

Don Davide




Gettate le reti

Il Signore ti chiama. Sì, proprio te. Chiama ciascuno di noi, non solo gli apostoli, i preti o le suore… Tutta la nostra vita è un ascoltare la voce del Signore che ci chiama. Per questo la liturgia ci fa meditare ogni anno sulle splendide pagine della chiamata dei primi discepoli.

La storia della fede parte da questi “inizi”: qualcuno che ha voluto rispondere alla chiamata del Signore. Se ci disponiamo ad ascoltare il Signore che chiama anche noi, oggi, forse daremo inizio a una “nuova” storia: qualcosa che Gesù risorto vuole compiere con noi nei nostri giorni. Questo è il senso di tutte le chiamate dei profeti (I lett.), che vengono associate ai racconti di vocazione dei primi discepoli.

In questa settimana, in modo particolare, l’occasione di porre un nuovo piccolo inizio ci è data dall’entrare nel Tempo di Quaresima. Mercoledì compiremo l’austero gesto delle ceneri, chiedendo la grazia di vivere spiritualmente questo tempo di grazia come occasione propizia di conversione.

Giovedì ci uniremo in preghiera con tutte le persone ammalate, in occasione della Giornata mondiale del malato, nella memoria della Beata Vergine di Lourdes, per stare vicini a questi nostri fratelli e sorelle che soffrono.

Nei giorni successivi, fino a Domenica, potremo anche sostare in adorazione davanti all’Eucaristia, nelle tradizionali 40ore di adorazione eucaristica, che sono un’ottima occasione per cominciare spiritualmente preparati la Quaresima.

Domenica prossima, infine, giorno del patrono di una delle due parrocchie che compongono la nostra UNICA COMUNITA’ PARROCCHIALE, celebreremo la messa solenne in San Valentino, con la tradizionale benedizione, mentre i ragazzi del catechismo vivranno il loro ritiro di preparazione alla Pasqua.

Il Signore ancor oggi ci invita gettare le reti, a compiere questo gesto di fiducia alla sua parola. La pesca sarà sovrabbondante, gli amici saranno coinvolti, lo stupore ci prenderà e faremo senz’altro anche esperienza della nostra fragilità e miseria, ma avremo così un’occasione ancora più bella di conversione e per affidarci senza timore a Gesù.

Don Davide




Il Giubileo, le periferie e Betlemme

«Betlemme, così piccola fra i villaggi di Giuda…» (Mi 5,1). Non era certo un centro importante, Betlemme, tuttavia lo diventa perché è la patria del re Davide: da piccolo paese sconosciuto alla periferia di Gerusalemme, diventerà addirittura città regale.

Ancora più sconosciuta era Nazareth, che non è mai citata in tutto l’Antico Testamento. L’inizio del racconto dell’Annunciazione a noi sembra molto solenne, ma in realtà il fatto che un angelo sia mandato a una ragazza sconosciuta di un paese sconosciuto, ha del sorprendente. L’unico tratto di quel racconto che evoca qualcosa di importante, è il riferimento a Giuseppe, della casa di Davide, anche se era una dinastia in decadenza.

In questi racconti di Natale, così, le periferie geografiche e ancora di più quelle esistenziali salgono alla ribalta. Nazareth diventerà il luogo dove il Verbo si fece carne (Gv 1,14), Betlemme, niente di meno che la città del Messia. Una dinastia decadente ritrova la sua regalità, una ragazzina di provincia diviene la regina e sovrana dell’universo.

Ci può essere messaggio del Vangelo che rappresenta al meglio quale sia la sfida della Chiesa di oggi, nella quale papa Francesco e il vescovo Zuppi ci chiedono di impegnarci?!

Il Giubileo esige che noi esercitiamo la misericordia, per riportare tutti coloro che sono ai margini al centro, per esercitare la nostra dignità cristiana di re, profeti e sacerdoti e per ridare dignità regale a coloro a cui è stata ingiustamente sottratta.

Il viaggio di Maria che oggi contempliamo, mentre va a visitare la cugina Elisabetta, sia dunque il modello di questo spostamento che siamo chiamati a compiere verso gli altri.

L’itinerario di Maria in questi primi capitoli dei vangeli dell’infanzia è entusiasmante: Maria si muove da Nazareth a una periferia montuosa della Giudea, poi torna a casa, va a Betlemme, poi Gerusalemme, poi di nuovo a Nazareth. Da periferia a periferia, poi verso il centro e ritorno. Come se Maria volesse trascinare tutto con sé in un unico grande viaggio, nel quale, di continuo, fa la scoperta di Dio e della verità che Dio le restituisce sulla sua vita: «Benedetta!» «Benedetto il frutto del tuo grembo!» «La madre del Signore»…

Se sapremo accogliere la grazia del Giubileo e gli “spostamenti” che ci chiede di compiere, sicuramente faremo una rinnovata esperienza di Dio e della verità di noi stessi.

Don Davide




Siate sempre lieti….ma proprio sempre!

La liturgia di oggi, quasi sfidando le nostre fatiche, ci invita alla gioia. «State sempre lieti» (Fil 4,4) incoraggia San Paolo e, come se anticipasse le nostre obiezioni, insiste: «Ve lo ripeto ancora: state lieti! Non angustiatevi per nulla!» (Fil 4,4.6).

Non angustiarsi per nulla?! Ma come si fa?!

Ecco il regalo di questo Natale: la possibilità della gioia. Una gioia che non è legata alle circostanze esterne, ma a una fiducia che prende dimora in una zona molto profonda di noi stessi.

Qual è questa fiducia? È la fiducia di un cammino. Alle folle che chiedono a Giovanni Battista come si debbano preparare ad accogliere il regno di Dio imminente, il Battista risponde semplicemente di mettersi nella disposizione di migliorare il loro vivere. Non è una né una proposta impraticabile, né una richiesta volontaristica: si tratta, per Giovanni, di riconoscere il piccolo passo che ci sta davanti e farlo senza indugio, con determinazione.

La grazia di questo umile cammino è che ci dispone alla purificazione dei nostri atteggiamenti e delle nostre vite, e quindi alla conversione. L’immagine del ventilabro richiama infatti l’azione dello Spirito, che soffia per togliere dalle nostre esistenze tutto ciò che non porta un frutto buono.

Perciò, possiamo ascoltare ancora con rinnovata gratitudine l’invito del profeta Sofonia: «Non temere, Sion, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore in mezzo a te è un salvatore potente!» (Sof 3,17).

Noi possiamo gioire perché siamo sicuri che il Signore ci tiene in cammino. Nessuno ci chiede di essere perfetti, neanche Dio. Lui vuole che non stiamo fermi, che non demordiamo, e che non perdiamo la fiducia che la nostra vita è guidata da lui.

L’unica perfezione che ci viene chiesta è questa tensione del desiderio, questa speranza di essere come Dio Padre, compassionevoli, teneri, capaci di raccogliere nel nostro il cuore dell’altro. Una grande poetessa polacca, W. Szymborska, ha scritto una volta un verso perfetto per esprimere l’empatia, il sentire con il cuore dell’altro: «Senti come mi batte forte il tuo cuore». Ecco, questa è la perfezione che dobbiamo cercare. Per il resto, possiamo gioire e avere la fiducia di camminare, senza paura, solo con la preoccupazione di continuare a muoverci verso Gesù che ci chiama e che, prima ancora, ci viene incontro.

In questa domenica, la prima con il nostro nuovo vescovo Matteo, chiediamo di poter essere una chiesa capace di questi sentimenti, gli stessi che impariamo da Cristo, e di poter essere noi stessi una comunità gioiosa e di fare gioire per questo il nostro pastore.

Don Davide