Una settimana davvero speciale

Con la voce di Giovanni Battista che ci invita alla conversione e a fare l’esperienza del perdono dei peccati, entriamo in una settimana davvero speciale per tutta la Chiesa e per la Chiesa di Bologna.

Questo martedì Papa Francesco aprirà la Porta Santa in San Pietro a Roma per inaugurare il Giubileo Straordinario della Misericordia; sabato, invece, accoglieremo il nuovo vescovo Matteo Maria Zuppi, che dopo la celebrazione eucaristica aprirà la Porta Santa nella nostra cattedrale.

Il papa ci ha consegnato l’intento programmatico di questo anno, nell’interpretazione sintetica del Concilio che ci ha proposto nella bolla di indizione dell’anno santo Misericordiae Vultus (MV): «I Padri radunati nel Concilio avevano percepito forte l’esigenza di parlare di Dio agli uomini del loro tempo in un modo più comprensibile. Abbattute le muraglie che per troppo tempo avevano rinchiuso la Chiesa in una cittadella privilegiata, era giunto il tempo di annunciare il Vangelo in un modo nuovo. Una nuova tappa dell’evangelizzazione di sempre» (MV 4). La misericordia è la chiave sintetica di questo “nuovo” stile, è «l’architrave che sorregge la vita della Chiesa» (MV 10).

Senza mezzi termini, papa Francesco afferma che «tutto nell’azione pastorale della Chiesa dovrebbe essere avvolto dalla tenerezza con cui si indirizza ai credenti […]. La credibilità della Chiesa passa attraverso la strada dell’amore misericordioso e compassionevole» (MV 10).

Mi pare di particolare rilievo, in questo tempo d’Avvento, ricordare che «misericordia è l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro» (MV 2). L’Avvento, tempo di attesa, è tempo soprattutto di attesa della misericordia di Dio, di incontro col suo perdono e rinnovamento a partire da esso.

Chi desidera cambiare vita? Chi desidera avere la pace? Si faccia avanti! È il tempo della misericordia!

Anche la presenza di un nuovo vescovo si iscrive in questo segno della misericordia di Dio per la sua – in questo caso, nostra – Chiesa.  Per capire quali siano i sentimenti di un vescovo per la diocesi che gli viene affidata, potremmo rileggere le parole di Paolo nella II lettura di questa domenica, rivolta “col cuore in mano” ai Filippesi, sua comunità prediletta e amata. Soprattutto, vorrei ricordare queste parole: «Quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia» (Fil 1,4). Ci auguriamo che il vescovo Matteo possa dire lo stesso della sua Chiesa di Bologna, ma allo stesso tempo vogliamo fare nostre queste parole:

«Caro vescovo,

quando preghiamo per te, lo facciamo con gioia, a motivo del tuo prezioso servizio al vangelo. Siamo persuasi che il Signore che ha iniziato in te quest’opera buona, la porterà a compimento. Perciò preghiamo che il tuo amore cresca sempre di più, perché tu possa raccogliere a piene mani i frutti che ti aspetti dalla tua Chiesa ed essere lieto e contento del tuo ministero» (cf. Fil 1,4-11).

 Don Davide




Parigi, 13 novembre 2015

Nella liturgia della 33° domenica del Tempo Ordinario, anno B, sia il profeta Daniele che Gesù nel Vangelo fanno uso un genere letterario molto specifico, quello dell’Apocalittica, che a noi risulta oscuro e minaccioso, ma ancora al tempo di Gesù doveva essere facilmente codificabile.

Tale genere letterario veniva usato per parlare di un evento nella storia, che ponga fine alla continuità della storia, in modo tale che attraverso questa cesura netta, la storia successiva risulti diversa da quella precedente, e soprattutto portata su un altro piano. Dio è il protagonista assoluto di questo intervento risolutivo, al punto che il primo dato dell’apocalittica è che il destino del cosmo, nonostante tutte le apparenze, non sfuggirà dalle mani di Dio.

Non dobbiamo pensare che qualcosa, nel corso degli eventi, possa rovinare definitivamente i piani di Dio, quasi da “rompergli le uova nel paniere”, sì da costringerlo ad intervenire per rimediare. La cosiddetta “fine” del mondo sarà invece un atto della volontà d’amore del Padre: la venuta del Signore che tirerà tutti i fili della storia e li porterà a compimento. Nell’immagine del vangelo, infatti, il Figlio dell’Uomo viene proprio nel momento in cui tutto sembra compromesso, con i segni della sua autorità e della sua presenza («grande potenza e gloria»), ed è lui che raduna tutti, raccogliendo il cosmo nel suo abbraccio.

Non possiamo non pensare ai terribili fatti di Parigi della sera di sabato 14/11, insieme a tutte le tante, troppe, atrocità che si consumano nel mondo. La sensazione che ci rimane è di sgomento e, certamente, anche di paura, eppure i cristiani devono imparare a leggere gli eventi con questa capacità di interpretazione della storia. Nelle letture, il contrasto tra queste due situazioni è impressionante: mentre si descrive «un tempo di angoscia, come non c’era mai stato» (Dn 12,1), la profezia di Daniele dice che proprio allora il popolo sarà salvato; quando evoca uno sconvolgimento cosmico, Gesù afferma che sarà quello il momento in cui il Figlio dell’Uomo interverrà nella storia a segnare un prima e un dopo. Paradossalmente, Gesù parla di un risveglio in questa situazione, come quando il ramo tenero del fico preannuncia la primavera (cf. Mc 13,28-29). Dobbiamo riconoscere questo risveglio, questo invito per le coscienze a rinnovarsi proprio nel mezzo dei tumulti che, altrimenti, ci paralizzerebbero.

L’evento che decifra il tempo da riconoscere è la resurrezione – «non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga» (Mc 13,30) – nel senso che tutte le volte che si configurano questi “sconvolgimenti”, il cristiano è chiamato a iniettare la potenza di vita della Pasqua nella storia; questa energia vitale discrimina il prima e il dopo, fa finire il mondo vecchio, abitato dalla violenza, dalla sopraffazione e dalla negazione della convivialità, e fa iniziare la Nuova Creazione di Dio. Sono solo le sue parole, quelle che invitano all’amore del prossimo e dei nemici, che non passeranno. Tutto il resto sì.

Chi riconosce questi segni come invito a una stagione nuova, sarà considerato saggio. Bisogna avvedersi definitivamente che invocare alla riduzione dell’altro, o addirittura il suo annientamento, è la matrice di tutta la violenza che vorrebbe soffocare il mondo; bisogna rifiutare una lettura geopolitica appiattita e semplicista, che non colga, almeno, come il Medio Oriente sia l’ultima identità antagonista che resista alla globalizzazione.  Bisogna bandire ogni superficialità, ogni semplificazione e ogni generalizzazione. Chi vuole abitare la storia, non può sottrarsi a questo compito.

Dall’altro canto, ci vuole un impegno e una responsabilità quanto mai necessaria nell’educazione, nella formazione alla convivialità delle e nelle differenze. I terroristi si fanno saltare in aria e uccidono; i violenti, i gretti e gli opportunisti non hanno né realismo né profezia, mentre «coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre» (Mc 13,3).

Per interpretare la storia e rispondere ai fatti di Parigi e di tutte le altre violenze del mondo, abbiamo bisogno di simili profeti, che sappiano educare molti “altri” alla giustizia e la cui luce possa essere come stelle quando più buia è la notte.

 

Don Davide




“Tutto” quello che abbiamo

Cos’è che fa grande il piccolo gesto della povera vedova?

Sappiamo che Gesù elogia la totalità di questo gesto, sottolineandolo due volte: “Ella ha dato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.

Tuttavia, questo atto quasi sconsiderato, provoca in noi una certa inquietudine: chi di noi potrebbe dare tutto? Potrei io, mamma o papà con dei figli, lasciare il mio lavoro, svuotare il mio conto in banca, esaurire la dispensa e vendere persino la casa? Non voglio assolutamente sminuire la radicalità evangelica, ma alcune volte una certa retorica spiritualista ha prodotto dei pensieri tanto belli sulla vita cristiana, da rimanere solo pensieri, perché di fatto intraducibili nella realtà, e così ha oscurato lo splendore e il valore pratico del Vangelo per la nostra vita. Come se le parole di Gesù fossero un ideale talmente alto, da poterci solo compiacere di fare dei bei discorsi, sapendo che non potranno mai avere una presa reale sulla nostra vita.

Sicuramente, però, Gesù aveva in mente un insegnamento ben preciso. Al punto da chiamare a sé i suoi discepoli, dopo essere stato rapito dalla visione di quella donna. Come se dicesse: “Venite mo’ qui che vi faccio notare una cosa, e vi insegno perché è così importante!”. È un gesto educativo bellissimo! È il gesto tipico di un pedagogo, cioè di chi ti sa prendere e farti fare i passi giusti per crescere.

Ma allora, cosa voleva insegnare Gesù?

Innanzitutto dobbiamo considerare che è l’ultima “scena” della sua vita, prima della sua passione; come se Gesù stesso avesse percepito, vedendola, che quel gesto poteva essere una sintesi efficace di tutto il Vangelo, di tutto quello che aveva detto o aveva voluto dire fino a quel momento. E cioè, che la nostra vita è custodita dal Padre.

Qui si sintetizza la nostra fede.

Non è il problema di “quanto” uno dia. Il punto, dice Gesù, è che quei “ricchi” danno un po’ e col resto pensano di poter “decidere” della loro vita. Pensiero scellerato, che Gesù più volte rimprovera nel Vangelo. Al contrario, quella povera vedova, nel suo geto – di cui, ribadisco – non conta la quantità, afferma in maniera inequivocabile la sua fiducia che il Padre si prenderà cura di lei, che non le mancherà da mangiare, da bere, da avere ancora due spiccioli da gettare nel tesoro del tempio. E infatti, il senso della prima lettura è proprio questo: se ti fidi, non ti mancherà.

Se hai fiducia, la tua vita non sarà perduta.

Anche se non abbiamo niente, la nostra vita è custodita dal Padre.

Anche se abbiamo tantissimo, la nostra vita non dipende da noi.

Anche se ci sembra che tutto vada storto, la nostra vita è nelle mani del Padre.

Questa è la sintesi di tutto il vangelo, la cosa che occorre ricordare per vivere nella pace ed essere felici. E quando dovessimo dimenticarcela, Gesù ci prende vicino a sé, ci fa vedere dalla sua prospettiva e ci dice: “Ehi, guarda il gesto della povera vedova!”.

 Don Davide




La domanda della vita eterna

L’uomo ricco, che secondo la versione di Matteo è un giovane, pone al Maestro la domanda fondamentale: “Che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. È la domanda decisiva, quella che punta diritto al cuore del nostro desiderio di vita: di una vita autentica e di una vita che non debba più soffrire lo scoglio della morte.

Gesù, infatti, accoglie la sfida contenuta in questa domanda e risponde all’uomo. Tuttavia prima si preoccupa di precisare che solo a Dio compete l’appellativo di “buono”.

Cosa vuole farci capire Gesù?

Mi sembra che Gesù ci inviti a renderci attenti alla domanda di vita che emerge da tutte le persone, e in modo particolare dai giovani, Ogni uomo porta nel cuore questo desiderio di vita, magari anche in mezzo a mille contraddizioni o sbagli, oppure nascosto e soffocato dalla presenza di altre ricchezze. Il compito è di fare emergere tale voglia di vita, fino a che ognuno sia posto di fronte a una scelta decisiva: accoglierla, liberandosi dalle proprie schiavitù, o lasciarla andare, magari a prezzo della propria tristezza?

In questa settimana abbiamo iniziato il catechismo, che rappresenta uno degli sforzi più grandi della nostra comunità, e il Maestro ci educa a intercettare questa imperiosa domanda di vita che viene dai bimbi e dalle loro famiglie che incontreremo.

Dobbiamo farlo, però, senza presumere di essere “buoni”, o giusti, o ancora peggio “i migliori”, perché uno solo è colui che con cuore buono si prende cura di ognuno, Dio stesso.

Rispondere alla domanda: “Che cosa devo fare per avere la vita eterna” è il compito di ogni comunità cristiana. È la sapienza pastorale che dobbiamo desiderare più di tutte le altre ricchezze.

Questa sapienza pastorale viene alimentata dall’ascolto della parola di Dio, che è in grado di aiutarci nel discernimento e di farci innamorare di ciò che è degno e di farci respingere ciò che non merita. Un’altra via è il Sacramento della Riconciliazione, che ci aiuta a ritrovare sempre l’essenziale tesoro del nostro cuore: per questo motivo, ho deciso che da sabato prossimo voglio dedicare uno spazio maggiore alla Confessione, tutti i sabati che non sarò via coi ragazzi, a partire dalle 17.30, per avere un’opportunità distesa di celebrare questo sacramento.

Sappiamo, ancora una volta con assoluta certezza, che in questo cammino non siamo soli. Ben consapevoli che è una cosa impossibile ai soli uomini, noi possiamo confidare con allegrezza che non ci mancherà l’aiuto di Dio.

Don Davide




Il servizio della cura e della consolazione

I brani di questa domenica sono incentrati sul mistero del dolore e, in modo particolare, sulle sofferenze che deve sopportare anche un uomo innocente e giusto.

“Perché?” chiede Giobbe al suo Dio, che ha permesso a satana di sprofondarlo in un abisso di amarezza da fargli maledire il giorno della sua nascita. Tuttavia, Giobbe non rinnega il suo Dio, la sua fede in Lui, nelle sue promesse ed esplode in un grido: “Ricordati!”. Giobbe non è più solo nelle sue sofferenze, sa che “Il Signore sostiene i poveri” (Salmo) e infatti un giorno “si ricorderà” dell’uomo inviando suo Figlio sulla terra: “Uomo dei dolori” che assumerà su di sé tutta l’ingiustizia e il dolore del mondo. La sofferenza è uno dei motivi per cui cercare Dio: “Tutti ti cercano” dicono a Gesù i discepoli nel brano di Marco, come pure una causa della fatica di credere.

Gesù e i discepoli hanno appena lasciato la sinagoga di Cafarnao, dove il Signore aveva compiuto l’ultimo segno nell’economia della Prima Alleanza purificandola con la guarigione dell’uomo posseduto da uno spirito impuro; ora la guarigione della suocera di Simone (Pietro) è il primo segno della Nuova Alleanza, avvenuto nella modesta casa-chiesa dove è riunito il nucleo della prima comunità cristiana: Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni.

Il quadro da domestico e quasi idilliaco si riempie, durante la giornata, di gente guarita e di demoni scacciati tanto che Gesù si ritira in un luogo deserto dove, prima dell’alba, il mattino seguente cerca il colloquio mai interrotto con il Padre.

La risposta alla disperata domanda dell’uomo di fronte all’apparente indifferenza o assenza di Dio nei confronti degli orrori, alle ingiustizie e alle violenze, che oggi come ieri si abbattono sull’uomo, è contenuta in un celebre e terribile racconto che ci ha lasciato Elie Wiesel nel suo libro “La notte”. Ebreo deportato e sopravvissuto ad Auschwitz racconta di una mattina in cui, in piedi per lunghe ore e col volto verso il patibolo, tutto il campo dovette assistere all’impiccagione per futili motivi di un giovane ebreo. Una voce, a lui vicina, mormorò: “Dov’è Dio?” e un’altra voce gli rispose: “E’ lassù con quel ragazzo!”.

Come Giona era stato inviato da Dio ad annunciare la salvezza a Ninive, ogni credente è “apostolo”, inviato ad annunciare l’inattesa e per certi versi insperata vicinanza del Signore già ora, su questa terra. Guai a noi, perciò, se non annunciamo questa Vangelo della Consolazione!

(Commento a cura di Gilberto Turchi)




Chi è un uomo autorevole?

San Tommaso d’Aquino, di cui abbiamo celebrato la memoria il 28 gennaio, scriveva nella sua opera principale che “il principio d’autorità è il più debole di tutti”.

I cambiamenti della società contemporanea hanno riscontrato questa debolezza: l’autorità per se stessa non basta. Quello che fa la differenza è l’autorevolezza, quell’insieme di coerenza negli atteggiamenti, statura morale, e ricchezza umana che permettono all’autorità di essere riconosciuta.

Nella scena sorprendente del vangelo di questa Domenica a Gesù viene riconosciuta precisamente questa autorevolezza. Lui entra nella sinagoga, un luogo di culto, e improvvisamente un uomo che era posseduto da uno spirito cattivo esce allo scoperto, non riuscendo più a nascondersi, come se prima invece niente lo avesse disturbato.

Bisogna avere bene in mente che nei luoghi di culto potevano entrare solo coloro che erano “perfettamente” in regola con le leggi che regolavano la purezza rituale, quindi quello spirito indemoniato stava nascosto abusivamente tra la folla.

La sola presenza di Gesù scatena la reazione di questo spirito, e la sua parola lo scaccia con un solo comando.

Quante volte, ci chiediamo, la nostra testimonianza del vangelo non passa, perché noi non siamo per nulla autorevoli? Quante volte alle parole non seguono le azioni coerenti? Anche il papa, in questi giorni, ha richiamato i cristiani cosìddetti “tiepidi”, quelli che hanno smarrito il primo amore, che non sono animati da una vera sorgente interiore nella loro vita cristiana.

Ci chiediamo, allora: da dove viene l’autorevolezza? Ci viene incontro la prima lettura, nell’immagine di un profeta che parla a nome del Signore.

L’autorevolezza deriva da un ascolto profondo della Parola del Signore e da un discernimento operato nella propria interiorità, in modo tale che quello che diciamo corrisponda alla volontà di Dio di costruire il suo regno di amore nel mondo, e alle nostre parole seguano gesti corrispondenti.

E’ questa grande autorevolezza di Gesù la condizione iniziale per l’annuncio del Vangelo e noi, attraverso il tempo liturgico, lo seguiamo sui suoi passi.

Don Davide




Va nella grande città

Con una certa urgenza, la liturgia di questa domenica ci invia insieme a Giona “nella grande città”. Ninive era la capitale del regno assiro, la città dell’imperatore, famosa per essere nemica di Israele.

Proprio a Ninive il Dio di tutto il creato manda il profeta e il profeta, ovviamente, protesta. Perché a Ninive? Perché portare la parola di Dio a chi la rifiuta e anzi l’avversa?

Il comando di Dio risuona nel tempo della chiesa ancora più intenso, in quanto la presenza di Gesù ha reso ogni istante un momento propizio per la manifestazione dell’amore di Dio e l’opportunità di accogliere questo amore. “Il tempo si è fatto breve”, “il tempo è compiuto”: c’è una forte consapevolezza che il Signore è all’opera in questo tempo e ci invita a vederne le opportunità di salvezza.

Siamo dunque tutti invitati a non cogliere in questo tempo e nel mondo che viviamo, solo la crescente “secolarizzazione”, né tantomeno solo gli ostacoli al Vangelo, come se una volta (non tanti decenni fa) il mondo fosse una specie di anticipazione del Regno di Dio, e oggi invece tutto fosse brutto e cattivo.

Questa interpretazione non corrisponde al vero. Ogni tempo della storia, offre cose belle e soffre cose brutte, ogni stagione del mondo accoglie il Regno di Dio in parte e, in parte, ha sempre bisogno di conversione.

Come Giona anche noi siamo esortati a credere che il nostro, oltre che a un tempo pieno di difficoltà, è anche un tempo propizio per annunciare il Vangelo, è un momento in cui tanti cuori e tante vite attendono solo che qualcuno faccia loro conoscere il Signore in maniera coerente e luminosa e sono pronti ad aprirsi a questa nuova speranza.

A dirla tutta, nel tempo di oggi prevalgono le condizioni per l’accoglienza del Vangelo, per un desiderio di spiritualità, per una rinnovata esperienza di comunità, piuttosto che le forze contrarie.

Bisogna stare solo attenti – molto attenti! – a presentare il Vangelo nella sua forza di vita: bisogna evitare la predicazione moralista, il continuo richiamo ai principi e ai valori e quella forma di presunta superiorità spirituale che caratterizza alcune volte l’atteggiamento di noi cristiani, per esser invece disponibili a dimostrarci veramente amici di tutti gli uomini, accoglienti delle loro fatiche e umili nella condivisione.

Vediamo che laddove c’è uno sforzo educativo onesto, l’impegno per una custodia e una cura fraterna, una reale disponibilità a lasciare spazio alla freschezza e alla novità delle giovani generazioni, il desiderio di intercettare la qualità umana che la vita di Gesù manifesta, c’è anche sempre una grande accoglienza del Vangelo, una maturazione della fede e una crescita della chiesa.

Così rimarremo sorpresi come Giona e – magari non perfettamente sintonizzati con le parole che Dio voleva dire, magari un po’ contrariati per la sua eccesiva bontà – ammireremo l’incontro con il Signore della grande città… e chissà che, con il cuore convertito anche noi, non sperimenteremo, in questo, la gioia del Padre.




E’ stato un anno meraviglioso?

Da un po’ di giorni, su Facebook, impazza la condivisione di una frase che dice: «E’ stato un anno meraviglioso, grazie per avere contribuito a renderlo tale». E’ l’indice di gradimento per un video personale (realizzato automaticamente) che ripercorre gli eventi dell’anno di ciascun utente.

È bello che in questi strumenti usati dalla totalità dei giovani e da una percentuale altissima di adulti circoli un po’ di sano ottimismo e qualche buon sentimento, ma – forse – abbiamo bisogno di uno sguardo più onesto sulla realtà e sul nostro tempo.

Il tempo e la storia in cui viviamo sono più grandi delle nostre biografie e, purtroppo, bisogna riconoscere che non sempre e non per tutti è stato un anno meraviglioso. Solo per citarne alcune, è stato anche l’anno di tante difficoltà nel nostro paese e di tante ingiustizie. E’ stato l’anno di tanti, troppi morti sul e a causa del lavoro, un anno in cui lo sfruttamento dei profughi purtroppo non è cessato, l’anno in cui è esplosa l’epidemia di ebola a colpire le popolazioni più povere del mondo, e l’anno in cui un sedicente califfato di pazzi maniaci ha seminato l’orrore in medio oriente. È stato l’anno della guerra a Gaza; della distruzione di un aereo di linea pieno di civili sopra le fiamme della guerra tra Russia e Ucraina e di tante altre tragedie dell’umanità. In mezzo ad alcune cose belle, ce ne sono sempre tante di brutte che non possono essere dimenticate.

Con questo non vogliamo lasciarci andare al pessimismo o alla depressione, ma solo accogliere l’invito a una lettura sapienziale sul tempo, a cavallo della festa del Capodanno civile. Fra pochi giorni ci immergeremo ancora nei festeggiamenti e ci si augurerà “buon anno” e “tanta felicità” sperando che il tintinnare dei calici sia una specie di formula magica capace di avverare i nostri migliori auspici, ma sappiamo che non è così.

L’unico modo di rendere il tempo “buono” e il nostro anno “meraviglioso” è quello di lavorare per il bene, di imparare ad amare, di fare della nostra vita uno strumento di condivisione; in una parola: di convertirci. Ma non dobbiamo pensare subito alla conversione religiosa, o spirituale, bensì a una conversione di stile. A una crescita nel senso della solidarietà e della fratellanza; a una premura per l’amicizia e perché ogni forma di violenza e di abuso del potere sia bandita.

Questo è l’unico modo di “redimere” il tempo, che può essere sia buono che cattivo, sia meraviglioso che brutto e che, inesorabilmente, scorre.

Il grande Seneca, nella sua preziosa meditazione su La brevità della vita, ci ricorda che «non è vero che abbiamo poco tempo, è che ne abbiamo sprecato molto».

Entrando nel nuovo anno, chiediamo al Signore la grazia di non sprecare il nostro tempo e di saperlo trasformare da tempo che scorre come quello di un cronometro a tempo opportuno per mettere in circolo l’amore.

Don Davide