Il Cero

Nella Veglia Pasquale, cuore di tutto l’anno liturgico, alimento della fede e sorgente della nostra spiritualità, viene incensato il Cero, segno per eccellenza di Gesù risorto con la sua luce, che rischiara l’oscurità. Dalla Veglia in poi, il Cero domina il presbiterio, fino a Pentecoste, in posizione di particolare rilievo accanto all’altare.

Tutto l’anno pastorale, accanto ai ragazzi del catechismo e dell’ACR, è stato incentrato sulla metafora del gusto, come chiave di interpretazione dell’esperienza della fede. Una fede bella e significativa per la vita, positiva e appassionata: una fede “gustosa”, appunto. Sapida e sapiente, profumata e invitante anche per chi ci osserva e si avvicina.

Cero Pasuqlae

Il Cero pasquale di quest’anno è di cera d’api: lo abbiamo voluto così, particolarmente profumato e originale anche alla vista.

Il Cero, in questo modo, non è solo un “segno” di Cristo risorto; né è il racconto e un invito, per noi, a fare parte della storia che narra.

La luce del Signore illumina le tenebre, rischiara la notte, permette di orientare i propri passi, suscita emozione e speranza, profuma, invita alla preghiera. Ugualmente, l’incontro con il Risorto – l’intima esperienza spirituale della sua verità e vicinanza – si realizza ogni volta che questi processi accadono nella testimonianza dei cristiani. Quando qualcuno illumina una situazione buia e faticosa; quando siamo aiutati nel nostro cammino; quando si risvegliano le emozioni come l’amore, la gioia, la compassione; ogni volta che la vita di un uomo o una donna sono esemplari e quando ci sentiamo attratti alla preghiera e alla lode… allora Gesù risorto si rende presente e si fa incontrare da coloro che sono sensibili e hanno l’umiltà di riconoscerlo.

Questo è il compito dei cristiani, che dopo i giorni della Quaresima, si prendono un altro impegno per il tempo in cui bisogna testimoniare la resurrezione di Gesù: quello di sapere mostrare il gusto della vita cristiana e la bellezza della fede, senza presunzione o giudizi, ma con un grande senso di fraternità dilatata e di amicizia condivisa.

Mi ha sempre colpito che l’elemento che conferma la resurrezione di Gesù, dopo il sepolcro aperto e vuoto e la testimonianza delle apparizioni del Risorto, sia proprio la presenza di una comunità nuovamente radunata, viva nella vivacità dello Spirito Santo, amorevole e dedita all’evangelizzazione e al servizio dei poveri.

Sono i segni del buon profumo di Cristo.

Sono i segni dei cristiani che tengono accesa la fiamma profumata della fede. E noi chiediamo la grazia di essere tra questi.

Don Davide




La Croce

La liturgia del Venerdì Santo è una celebrazione intima e di grande raccoglimento. Si inizia in silenzio, prostrandosi davanti all’altare e al presbiterio completamente spoglio. Anche la sede viene spostata davanti alle panche, nell’assemblea, perché tutti – chi presiede la celebrazione, i ministri e il resto del popolo di Dio – siano di fronte al mistero della Passione, in ascolto della Parola.

Segue, infatti, la liturgia della Parola e la proclamazione della Passione dal Vangelo secondo Giovanni. Ci sarà poi la grande preghiera universale, che si eleva in risposta alla parola di Dio e che viene come depositata davanti alla Croce. Il senso di questa lunga preghiera (sono ben dieci!) è proprio quello di essere una ricapitolazione di tutte le suppliche più indispensabili elevate al cielo davanti al grande mistero della redenzione.

Mi piacerebbe, in quest’occasione, fare un piccolo segno. Dieci persone diverse avranno una candela ciascuno. Ad ogni invocazione una candela verrà accesa, rimanendo sul posto. Poi, durante la processione per il bacio della Croce, che seguirà poco dopo, chi ha la candela la deporrà ai piedi della Croce a nome di tutti, come segno di collegamento tra la preghiera e l’adorazione della Croce.

È un gesto molto semplice, per cui chiedo il vostro aiuto. Se qualcuno è disponibile ad accendere e portare la candela, prego di farmelo sapere con anticipo, in modo da organizzarci. La partecipazione attiva di più persone alla liturgia è uno dei grandi auspici della riforma liturgica del Concilio Vaticano II.

Il momento culminante di questa celebrazione è l’adorazione della Croce. Avendo il grande Crocifisso che viene venerato quotidianamente, vogliamo valorizzarlo in questo giorno santo. La Croce che si leverà davanti ai nostri occhi e sulla nostra assemblea sarà proprio il grande crocifisso devozionale. Ovviamente non è possibile portarlo in processione, quindi faremo il rito sul posto.

La Croce verrà svelata per tre volte, dopo ciascuna ci sarà l’incensazione e l’invocazione: “Ecco il legno della croce, a cui fu appeso il Cristo, salvatore del mondo!”, a cui l’assemblea risponderà: “Venite adoriamo” e la luce che illumina la Croce aumenterà di intensità. Nel passaggio tra uno svelamento (e la corrispettiva invocazione) e l’altro, simmetricamente verrà velato un pezzo del trittico In memoria di me. Così si evidenzia il passaggio dalla adorazione dell’Eucaristia, a quella della Croce, che si ergerà in chiesa, fino alla Veglia di Pasqua.

Ancora una volta, l’incensazione riservata a questo momento ci richiamerà al significato forte della seconda manifestazione del sacrificio di Gesù: la sua morte in Croce per riscattare il peccato e per amore degli uomini.

La celebrazione termina con la preghiera del Padre nostro, ripetendo l’estremo atto di affidamento al Padre di Gesù crocifisso, e l’orazione finale. Ricordiamo che – per scelta della comunità parrocchiale e con lo scopo di concentrarsi sui momenti diversi del Triduo – non verrà distribuita la Comunione. La partecipazione al sacrificio di Gesù, infatti, nel Venerdì Santo viene espressa dall’adorazione e dal bacio della Croce.

 Don Davide




La mensa

La liturgia del Giovedì Santo si apre con la presentazione degli Olii, consacrati dal vescovo nella celebrazione mattutina della Messa Crismale.

La processione introitale avanza con l’incenso, dopo il saluto iniziale vengono portati gli olii sacri: l’olio dei catecumeni, l’olio degli infermi e il Crisma. Quando tutti gli olii si trovano sul tavolo davanti all’altare e solo allora, viene incensato l’altare insieme agli olii sacri. È il segno che dalla Pasqua scaturiscono tutti i sacramenti, di cui il culmine e la sintesi è proprio l’Eucaristia. Nella celebrazione del Giovedì Santo, infatti, si ricorda e si celebra il dono dell’Eucaristia da parte di Gesù. Il suo significato è talmente grande che viene approfondito anche attraverso il segno della lavanda dei piedi: la chiesa che viene edificata dai sacramenti è la chiesa del servizio, la chiesa che si china ai piedi di ogni discepolo e di ogni uomo o donna e li accoglie. È la “chiesa del grembiule”, per dirla con le parole di don Tonino Bello.

L’incensazione iniziale non vuole certamente essere un gesto di solennità fine a se stesso – che sarebbe solo il segno di una chiesa che non c’è più – ma aiutarci a riconoscere quale sia, davvero, la cosa più sacra che abbiamo nella nostra vita cristiana: i sacramenti che ci insegnano il servizio.

Questa incensazione viene ripresa al termine della messa, quando l’Eucaristia sarà portata all’altare della reposizione per essere venerata fino alla Celebrazione della Passione del Venerdì Santo. È la preghiera con Gesù nel Getsemani; è la sosta davanti alla prima manifestazione del sacrificio di Gesù: il dono del suo corpo e del suo sangue nell’Ultima Cena.

Quest’anno l’altare della reposizione sarà allestito nella cappellina della Beata Vergine della Salute, uno spazio sacro molto caro, riservato e intimo che, come indica la liturgia del Triduo Pasquale, si trova fuori dall’aula liturgica. Dopo la Messa nella Cena del Signore la chiesa deve rimanere completamente spoglia, come segno che ci troviamo nei giorni della Passione. Ci tengo a focalizzare questo segno: il presbiterio e la chiesa completamente spogli, perché siano totalmente rinnovati nella grande Veglia di Pasqua. Anche le candele, in quei giorni, non si accendono ai santi, ma solo davanti alla cappellina dove si custodisce l’Eucaristia.

Sono giorni diversi, unici e tutto nella chiesa lo deve sottolineare.

Il nostro trittico di Ettore Frani, In memoria di me, si erge così accanto alla custodia del Santissimo Sacramento quasi come un indicatore. Nella sua frontalità ci rimanderà al mistero che veneriamo lì accanto e, lo vedremo, sarà anche un segno del passaggio dalla liturgia del Giovedì a quella del Venerdì Santo.

Don Davide




La parola che svela Dio

Dopo la solennità di Pentecoste, l’anno liturgico propone ancora due feste, prima di riprendere effettivamente il ritmo delle domeniche del Tempo Ordinario: la SS. Trinità e il SS. Corpo e Sangue di Gesù (il Corpus Domini).

La Trinità è il mistero di Dio che si svela nella Pasqua di Gesù: un Dio che tutto insieme soffre e che tutto insieme si riappropria della vita e la rigenera.

Il Corpus Domini ci aiuta a ricordare che il sacramento dell’Eucaristia, inteso come celebrazione della comunità cristiana, è il gesto concreto con cui viviamo quella Pasqua nel tempo, è la celebrazione della Pasqua settimanale.

Queste due feste sono intese, quindi, come un compendio della vita cristiana: viviamo nell’amore di un Dio-comunione e facciamo esperienza di questo amore, per metterlo in pratica, nell’Eucaristia.

Nell’anno dedicato dal vescovo all’attenzione per la Parola di Dio, la festa della SS. Trinità, che arriva a conclusione dell’anno pastorale, ci richiama ancora una volta al dono di questa parola che ci viene rivolta, come la parola di una mamma e di un papà, che pian piano svegliano la coscienza della propria bambina.

Dio ci parla proprio così: come due giovani genitori, che parlano alla figlia appena nata, le chiedono le cose, la rassicurano quando piange… anche se sanno che lei (ancora) non può capirli. Non importa. Pian piano, di quelle parole la bimba riconoscerà la voce, il tono… forse anche il profumo che le accompagna, quel senso di essere rassicurati nell’esistenza che i bimbi percepiscono quando sono in braccio ai genitori.

Poi diventeranno parole di amore e di tenerezza, e anche comandi a cui obbedire, non perché la bimba cresciuta si senta schiava, ma perché ha imparato che nel rispetto di quelle parole è rincuorata e protetta e può esplorare la vita con confidenza.

Dopo viene il tempo della ribellione, il processo dell’autonomia, ma poi quando c’è una cosa difficile, o un bisogno di aiuto, o una cosa che fa paura… anche i ragazzi e le ragazze più ribelli si rivolgono a mamma e papà. Tipicamente, gli adolescenti si muovono dentro a questo contrasto: il desiderio di indipendenza e il bisogno che papà e mamma siano lì sempre, a loro servizio. Dio che è padre e madre, lo Spirito Santo che in ebraico è un nome di genere femminile (tipo: “la Forza”) e Gesù, che è maschio, ma soprattutto “uomo” nel senso di modello per ogni persona del genere umano, non disdegnano nemmeno questa posizione nei confronti della propria figlia divenuta adolescente: accettano che si faccia strada da sola e, quando chiama, ci sono.

Infine, la parola che i genitori hanno a lungo rivolto e scambiato diventerà per la figlia il punto di riferimento del proprio sistema valoriale ed emotivo; sarà strumento di dialogo e confronto… e poi anche cura nei confronti dei genitori divenuti anziani, quando si arriva a quell’età in cui si invertono le parti, e mentre non cessa la premura dei genitori, in realtà sono i figli che si prendono cura di loro. Allo stesso modo, arriva anche un’età umana e spirituale in cui “ci si prende cura di Dio”, con una sapienza della vita e una maturità del rapporto che permette di trasmetterne l’esperienza anche alle nuove generazioni.

È la parola accompagnata dai gesti concreti che la realizzano, che anima tutto questo sviluppo.

Il mistero insondabile e vertiginoso della Trinità si fa conoscere così: “si è mai udita una cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio?” (1° lett.). Questa parola risveglia in noi la Forza spirituale che ci fa dire “Papà” ma anche “Mamma” (2° lett.), e agisce con essa. Infine, ci spinge a trasmettere l’amore di Dio, divenuti adulti nella fede, insegnando a conoscere questa parola, dimorare in essa, amarla e sentirsene custoditi.

Don Davide




Spirito e Pasqua

“Vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto e vi insegnerà le cose future” (Cf. Gv 14,26 e Gv 16,13).

L’effusione dello Spirito, a Pentecoste, ravviva la memoria di ciò che è accaduto, guardandolo nella nuova luce pasquale: una luce che illumina di vita le cose e ne fa percepire il senso, tante volte nascosto nel momento in cui accadono. In questo processo, lo Spirito insegna anche il futuro, permette il discernimento, orienta verso ciò che deve venire in modo sapiente e fattivo.

Mi sembra, allora, quella di Pentecoste, l’occasione per fare una verifica e per chiederci cosa possa essere importante per il futuro.

Abbiamo iniziato questo anno pastorale confermati nelle fede di Pietro, dalla visita del Papa. È stata una giornata caratterizzata da una gioia frizzante, nonostante il clima uggioso, in cui si è capito che la Chiesa, i cristiani e forse ogni uomo hanno bisogno di persone autentiche, semplici e di grande carisma evangelico come papa Francesco. Questo insegnamento vale anche per il futuro. Non abbiamo bisogno di cose strane o grandi, ma di essere attaccati al Vangelo come un neonato al seno della mamma.

È stato l’anno della Parola e dei giovani. Abbiamo provato ad impegnarci su questi fronti, anche come parrocchia e come singoli, ma la percezione è che siano stati appuntamenti largamente disattesi. Nella luce del Risorto, incoraggiati dallo Spirito a fare verità, interpretiamo anche questa consapevolezza. Godiamo del grande amore di Dio, siamo consapevoli del dono della fede, abbiamo a cuore che la Chiesa viva anche nel futuro, tuttavia ci scontriamo quotidianamente con la nostra infedeltà o tiepidezza di fronte alla Parola di Dio, e con la fatica di fare spazio e di immaginare pratiche e modelli perché la Chiesa sia veramente giovane. All’ultimo consiglio pastorale, una ragazza ha detto un’affermazione tanto laconica quanto vera: “Nella chiesa di oggi, non sono gli anziani che mancano, sono i giovani.” Chiediamo allo Spirito di insegnarci queste vie, consapevoli che lui è come un allenatore tenace e bravo, che non si rassegna alla sconfitta della sua squadra.

Abbiamo vissuto un piccolo rinnovamento della Caritas, con un aggiustamento dell’organizzazione e l’ingresso di qualche figura nuova. Fare memoria nella luce della Pasqua, in questo caso, significa riconoscere la grandezza umana e spirituale delle persone che in tutti questi anni non solo non ci hanno fatto vergognare, ma ci hanno fatto essere orgogliosi del nome della nostra parrocchia: Santa Maria della Carità. Grazie a loro la carità è stata splendente e c’è solo da ringraziarli, infinitamente, per questa qualità che hanno immesso con sobrietà, spirito di servizio e nascondimento a tutta la nostra pastorale. Ci dà speranza e ci fa guardare alle cose future la continuità che hanno saputo generare.

Poi c’è la vita dei gruppi: bimbi, ragazzi, giovani e adulti. Un’ambiente vivace, in cui si può sicuramente fare meglio, ma anche segnato da esperienze genuine e liete. La luce pasquale ci dice che il Signore continua a chiamare alla fede, a generare nello Spirito, ben al di là delle nostre capacità, ma che questa consapevolezza rassicurante non è una scusa per tirare i remi in barca o per dire: “Ci pensa lo Spirito Santo”, bensì uno stimolo per mettersi ancora di più in ascolto della sua guida, docili alle sue intuizioni e strumenti energici della sua potenza di vita.

Infine, vorrei ricordare le celebrazioni di Pasqua. Soprattutto tre gesti, che forse sono passati quasi inosservati. Il fatto di essere due preti a fare la Lavanda dei piedi, segno di una dimensione di comunione al servizio. Il fatto di essere tutti giù dal presbiterio in ascolto della Parola di Dio nella celebrazione del Venerdì Santo, davanti all’altare spoglio, segno del Cristo morto. Una chiesa tutta “sotto” la Parola come discepola e raccolta – ministri e popolo – nella custodia tenera e cara del corpo di Gesù. Da ultimo, il gesto della Veglia Pasquale: quel sentire confessare la fede nella resurrezione e l’augurio per la vita della Chiesa da parte dei giovani, quel vedere accendere dalle loro mani il Cero pasquale. Nel bellissimo Messaggio ai giovani al termine del Concilio Vaticano II è scritto: “È soprattutto per voi, giovani, che la Chiesa – con il Concilio – ha acceso una luce.” Oggi, forse, si potrebbe dire il contrario: “È soprattutto per te, Chiesa, che i giovani hanno acceso una luce.”

Don Davide




Parola e speranza ai giovani

Passata la Domenica in Albis, in questa domenica di festa in cui 28 bimbi della nostra parrocchia fanno la Prima Comunione, desidero riproporre le due belle testimonianze di Maria Clara e Anna Giulia – in rappresentanza dei giovani – all’inizio della Veglia Pasquale.

Abbiamo dato parola ai giovani perché lo ha chiesto Papa Francesco, in quest’anno dedicato al Sinodo dei Vescovi sui giovani, che si celebrerà a ottobre.

In questo modo vogliamo anche fare una specie di augurio ai bimbi che vivono in questa domenica il loro primo incontro con Gesù nell’Eucaristia.

Ci auguriamo di saper dare loro spazio all’interno della comunità cristiana; che trovino una chiesa giovane e viva, accogliente per la loro fede e la loro umanità, e che loro – i bimbi di oggi, uomini e donne di domani – possano concorrere a renderla sempre più bella.

Don Davide

 

(Prima testimonianza) Cosa ti auguri per la Chiesa in rapporto ai giovani?

In questa notte in cui Gesù, dopo averci svelato nella sua vita terrena la sua natura di uomo debole, fragile e mortale, e aver condotto il suo amore fino all’estremo sacrificio sulla croce, è risorto per guidarci nella vita…

In questo anno 2018, in cui Papa Francesco ha scelto di porre al centro della riflessione e della preghiera della Chiesa, i giovani, tutti i giovani, qualsiasi sia la loro vicinanza a questa istituzione, dicendo loro: “Ho voluto che foste al centro dell’attenzione perché vi porto nel cuore” …

Mi auguro che tutti gli uomini di chiesa, dai parroci ai vescovi, sappiano pienamente accogliere le indicazioni del Papa,

  • promuovendo iniziative volte a valorizzare la vitalità, l’entusiasmo e l’idealità dei giovani,
  • e incanalando le loro potenzialità per arricchire la grande comunità ecclesiale che, a sua volta, deve saperli guidare e sostenere.

Mi auguro che la Chiesa sappia mostrarsi come un porto sicuro in cui sempre poter ritornare, senza sentirsi in alcun modo giudicati.

Tutte le differenze individuali dovrebbero essere accettate e apprezzate, perché ogni giovane possa sentirsi veramente accolto e, in questo modo, sia più libero di dare un contributo sincero al camminare insieme e si senta rappresentato e ascoltato nella progettazione delle proprie speranze per il futuro.

Maria Clara Chionsini

 

(Seconda testimonianza) Cosa significa, per te, credere nella resurrezione?

Per me credere nella resurrezione significa credere nella resilienza. Credo che la resurrezione ci metta davanti alla possibilità di scegliere tra le cose giuste e quelle sbagliate, tra l’agire e l’essere passivi; ci chiede di scegliere da che parte stare.

Credere nella resurrezione significa, per me, sapere di avere sempre una speranza e una possibilità, se so essere abbastanza forte da accoglierla e sceglierla.

Credere nella resurrezione significa avere fiducia nell’essere sempre accompagnata da lui, da Gesù che è vivo e presente, che mi rassicura di potere superare le difficoltà che la vita mi ha posto, mi pone e mi porrà davanti.

Anna Giulia Ballardini




Suoni di guerra e fondamenta preziose

Ripetutamente, in quest’anno dedicato al Sinodo dei Vescovi sui giovani, il Papa ha chiesto alle chiese di dare parola ai giovani e che tutti si mettano in ascolto. Lo ha fatto anche di recente, nella fase preliminare del Sinodo, chiedendo ai giovani di parlare con coraggio e di dire quello che pensano davvero.

Seguendo l’itinerario della Veglia Pasquale (attraverso le tre letture su sette che sono state scelte) abbiamo un paradigma, anche per chi celebra ad altri orari, del nostro itinerario spirituale in queste feste.

La celebrazione di questa Pasqua inizia per la nostra comunità cedendo la parola ai giovani. All’inizio della Veglia, il primo annuncio della Resurrezione e anche l’accensione del Cero Pasquale sono affidati alla testimonianza di due giovani donne, unendo così entrambi i dati del Vangelo di Marco: la presenza di un giovane ri-vestito di bianco (ricordarsi il giovane che è fuggito via nudo all’arresto di Gesù!) e delle donne.

Il lungo ascolto della Parola di Dio incomincia poi da una domanda rivolta da Dio a ciascuno di noi (3° lettura): “Perché gridi? Smettila di gridare – sembra dire – e attraversa i flutti. La fede non è forse affrontare cammini apparentemente impossibili, chiamati dalla Parola?”. Seguiamo così il racconto del passaggio del Mar Rosso, dallo stile militare e dai toni epici, imprescindibile per la sua forza di prefigurare un’altra vittoria, in un’altra guerra ben più radicale: quella contro la morte. Dobbiamo ascoltare questo racconto non ponendoci i problemi morali di oggi, ma lasciandoci trascinare nella narrazione e nel suo ritmo incalzante, sentendo lo sgomento di Israele e il terrore dei nemici. Solo così potremo intuire la verità delle parole di San Paolo: “O morte, dov’è la tua vittoria?”.

Si prosegue con una delle letture più belle di tutta la Bibbia (4°) che descrive l’inarrestabile forza d’amore di Dio per il suo popolo, personificato nella figura della Gerusalemme sposa. “Afflitta, percossa dal turbine, sconsolata, ecco io pongo sullo stibio le tue pietre e sugli zaffiri le tue fondamenta…” (Is 54,11). Basterebbe la lancinante bellezza di questo versetto per innamorarsi di tutta la Sacra Scrittura.

La terza e ultima tappa nel percorso dentro l’Antico Testamento è la lettura del profeta Baruc (6°). Essa contempla la Sapienza di Dio. È l’esito che possiamo augurarci, quando usciremo dalla celebrazione della Pasqua: di essere innamorati della Sapienza, di desiderare, di cercarla, di iniziare a meditare la Parola di Dio ogni giorno, di sapere che abbiamo un tesoro imparagonabile che aspetta solo di essere trovato.

Il passaggio al canto dell’Alleluia, trattenuto fino a questo punto della celebrazione, viene accompagnato da San Paolo, che ci ricorda che l’uomo vecchio è morto e vive il nuovo. Siamo uomini nuovi quando siamo orgogliosi del nostro Battesimo, non timorosi quasi che fossimo i pochi ad avere mantenuto un retaggio religioso/spirituale. Noi siamo orgogliosi di essere cristiani, perché con Gesù partecipiamo di una responsabilità mozzafiato per la vita del mondo. Lo facciamo con gli orizzonti più ampi possibili, ma sapendo di dovere partire dai noi stessi. I suoni di guerra contro la morte e le fondamenta preziose dell’amore di Dio, per noi e per tutti, sono l’essenza di questo cammino.

Lo facciamo lasciandoci rinnovare il cuore e cercando di aprirlo, di spalancarlo il più possibile. Siamo uomini nuovi.

Don Davide




Simeone, Anna e una famiglia

Nell’ultimo giorno dell’anno, la liturgia ci propone due figure suggestive: Simeone, per il quale si compì la promessa di non morire senza vedere il Messia, e Anna, profetessa simbolo di un’attesa lunga e paziente.

Simeone è una figura eccezionale: in tutta la lunghissima storia dell’attesa messianica, lui ebbe l’intuizione che quello fosse il tempo giusto… e fu guidato da questo ascolto interiore al grande appuntamento.

Anche Anna spicca per la sua singolarità: non esistevano profetesse al tempo di Gesù. Tantomeno sappiamo di figure femminili rilevanti al Tempio. Invece Anna, con una vita passata nell’autenticità, doveva essersi conquistata un’enorme autorevolezza, riconosciuta da tutti.

A conclusione di questo anno, ci chiediamo: ho saputo cogliere gli appuntamenti di Dio? La mia vita è stata autentica? Ho meritato autorevolezza nei compiti e nelle responsabilità che mi sono stati affidati?

C’è soprattutto un tema importante riguardante le promesse e le speranze. Tutti confidiamo in una promessa: promessa di vita buona, in equilibrio, felice. Spesso, rispetto a questa promessa, che assume subito i tratti della speranza, ne va della nostra fede in Dio. Se le promesse non sono vane, se la nostra speranza non è frustrata, allora è più facile affidarsi, credere, fare esperienza di Lui.

Ma quando le promesse tardano e le nostre speranze si affaticano? Sappiamo che tutte le promesse di Dio vengono confermate in Gesù (cf. 1Cor), ma come si traduce questo, concretamente, nella nostra vita?

Ci accostiamo, quindi, alla fine del nuovo anno, pensierosi. Quali promesse attendiamo ancora? Quali speranze, ormai, sentiamo con il fiato corto? Come possiamo ascoltare la presenza di Gesù? Come possiamo scoprire che è in lui che possiamo vedere compiuta la Promessa?

Sicuramente siamo invitati a prendere molto sul serio un rapporto ancora più personale, ricercato e intimo con Gesù: la preghiera personale, l’ascolto e il dialogo con la sua Parola, l’amore fattivo per fratelli e sorelle in difficoltà.

Oggi la chiesa festeggia anche la famiglia di Gesù, chiamata la Santa Famiglia. Una famiglia “santa”, certo, ma tutt’altro che esente dai problemi e dalle difficoltà concrete delle nostre famiglie, perciò anche una famiglia che può dare l’esempio alle famiglie, soprattutto in due aspetti.

Il primo: non è stata una famiglia alla quale tutto è andato come pianificato. Le sorprese, che hanno colto Maria e Giuseppe ben più che impreparati, non sono affatto mancate. Anche a loro è accaduto che dopo avere difeso il loro bimbo in ogni modo, è bastata una distrazione per smarrire Gesù diventato ragazzo. Anche a loro sarà toccato affrontare disparità di ruoli e voci maligne. Anche loro hanno dovuto affrontare lo smarrimento di fronte al destino di un figlio impossibile da decifrare. Le cose che mettono le famiglie, soprattutto quelle giovani, di fronte alla propria inadeguatezza, non sono mancate neanche alla famiglia di Gesù, quindi coraggio! Non è segno di stranezza, ma solo di vita reale.

Secondo: da quanto ne sappiamo, la famiglia di Gesù è stato il bacino dove egli stesso ha appreso la sua umanità bellissima e aperta. Da ciò raccogliamo un invito alle famiglie a non chiudersi nelle loro dimensioni, a non dimenticarsi di chi la famiglia non ce l’ha o ce l’ha – come si dice – un po’ scalcagnata. Di non dimenticarsi delle persone sole, delle donne che vorrebbero un figlio e per mille ragioni non lo possono avere; o di quelli per cui la famiglia è solo un ricordo pieno di dolore e di difficoltà. Credo che le famiglie cristiane, che si compiacciono di festeggiare la Famiglia di Gesù e di ritrovarcisi, debbano e possono essere famiglie aperte e attente, che sanno riconoscere quando è il momento di non parlare solo di pannolini, di bimbi o di problemi di figli adolescenti… ma che sanno intercettare il mondo più complesso e arricchirlo e impreziosirlo con la testimonianza di un amore tenero, sincero e bello.

Don Davide




Natale: il giorno della grazia

Cos’hanno a che fare un venditore di teste di pollo e un venditore di trippa con la Natività, splendente sotto una corona di gloria?

E un povero calzolaio che vende scarpe spaiate, un vasaio, un mercante di sedie?

Gesù viene in un’umanità concretissima, rappresentata nel modo più essenziale possibile in un contesto volutamente spoglio di qualsiasi ambientazione, per enfatizzare questo segno: Gesù in mezzo all’esistenza operosa delle persone.

C’è una bellezza inesprimibile in questa scelta di Gesù, che non attira a sé i capi e i nobili del tempo, i sacerdoti o i soldati romani, ma il un popolo normale, ordinario. Questo ha permesso, nei secoli, di rappresentare il presepe in ogni modo e che ciascuno potesse sentire raccontata e accolta la propria storia in quella scena magica.

Gesù bambino non disdegna nemmeno quella parte della nostra umanità più meschina e ingannatrice, quella che tira a campare come meglio può. Nel nostro presepe, infatti, c’è anche un venditore fraudolento. Lo riconoscete? Gesù non vuole che si producano scarti; dunque, che tutti si avvicinino a lui! Che nessuno rimanga indietro, perché quale errore mai potrebbe essere guarito, se non davanti all’innocenza di Gesù bambino? Quale orgoglio si potrebbe sanare, se non di fronte all’umiltà della mangiatoia? Come potremmo sentirci accolti, giustificati, riscattati e in pace, se non in ginocchio davanti al presepe? Che si possa comprare senza spesa ogni bene prezioso, perché oggi è il giorno della grazia!

A ben vedere, però, leggendo “tra le statuine”, possiamo scoprire che il nostro presepe, in realtà, non è senza contesto. Annibale Carracci raccolse nella seconda metà del ‘500 in un’opera dal titolo: Le arti di Bologna, i disegni di un centinaio di mestieri di strada. L’opera andò quasi completamente perduta, ma è conosciuta grazie alle incisioni di Giuseppe Maria Mitelli, che un secolo dopo ricodificò questi mestieri, che hanno ispirato la creazione di queste statue.

C’è un filo rosso che ci rimanda alla storia della nostra città di Bologna e alle opere più importanti della nostra chiesa.

Guardando il presepe, quindi, in un momento di silenzio interiore, noi possiamo ascoltare il racconto dell’esistenza degli uomini e delle donne che ci hanno portato fino a qui, ad essere quelli che siamo, e sentire le loro voci che ci istruiscono ancora. La nostra parrocchia ha secoli di storia e noi ne siamo grati.

Desideriamo continuare questo percorso con la testimonianza della nostra fede e immergendoci nell’esistenza concreta di chi vive, lavora e spera nella nostra città. Vogliamo immaginarci come di camminare in mezzo al presepe e di comprare un cesto da mettere in chiesa per la raccolta alimentare, la verdura per il pinzimonio nel pranzo di Natale e l’uva, magari, per l’ultimo dell’anno. Ad ognuno rivolgere una parola. Con ciascuno un gesto di amicizia.

Sono le nostre strade e noi le abitiamo.

Sono le storie che ci hanno fatto; cerchiamo di restituire quanto abbiamo ricevuto.

Don Davide




Natale: gli inizi

“E così, sei tu!” pensa Maria, sognante, mentre avvolge di panni Gesù. Come ogni mamma finalmente si gode il momento in cui conosce suo figlio. Dopo averlo sentito e portato dentro per tanti mesi, ora lo vede, lo tocca. Non fosse per quell’aura luminosa, non ha davvero i segni di un infante diverso da tutti gli altri.

E anche Giuseppe lo osserva. Lo scruta, diremmo quasi. Inizialmente incredulo, poi rassicurato in sogno, aveva visto crescere la pancia di sua moglie. Eppure, come tutti i papà, aveva fatto fatica a rendersi conto davvero di avere un bambino. Ed eccolo lì. Vero, in carne e ossa. “Nostro figlio”, pensa.

Qualcosa di nuovo inizia per questa famiglia. I gesti di accudimento, l’apprendistato dei genitori, i primi passi nell’educazione, che incomincia dall’amore. E una trasformazione di vita radicale: il tempo speso, praticamente tutto, per un altro.

In questo gesto di sradicamento da loro stessi, Dio plasma un’alleanza ancora più amorosa di quella precedente, una storia della salvezza ancora inedita. Maria e Giuseppe, senza che se ne rendano conto, vengono trasformati. La loro trasfigurazione è già iniziata, ma sotto il cielo di Betlemme tutto viene ricreato, come un presepe che si fa nuovo ogni anno.

Anche per le persone coinvolte in questo evento, inizia qualcosa di nuovo. Prima di tutto lo stupore, la meraviglia che muove passi lenti e incerti, ma senza deviazioni, verso l’umanità di Gesù. Poi, forse, il senso di essere benedetti, di essere resi parte di qualcosa di inaspettato, una pace che scende nel cuore e va a riconciliare i nostri errori, a guarire le nostre ferite e i sensi di colpa. Infine, una promessa di pace per il mondo, che in quel cielo e in quella terra sembra tutto rappresentato.

Gesù mi invita, a compiere questo viaggio interiore verso lo stupore e la meraviglia. Guarda quello che accade, cogli i segni, i gesti di amore, la gratuità, i sorrisi delle persone! Esci da stesso, molto concretamente: spendi il tuo tempo per gli altri e l’Altro, non risparmiarti e non fare calcoli. Lascia perdere i tuoi sensi di colpa e il pensiero di non potere essere degno di quell’appuntamento e di quell’incontro! Non tutto è già fatto, ma Gesù inizia con te e insieme a te qualcosa di nuovo. La trasformazione del tuo cuore è in atto. Stai dando la tua vita e nemmeno te ne accorgi, mentre il Signore raccoglie ogni goccia di questo tuo dono.

Neanche vedi dove cadono le grazie che il Signore ricava da te, ma accade! Il cuore di quella tua amica è stato confortato; quel papà si è messo in gioco; quella ragazza ha incominciato a pregare; un giovane si educa alla pace.

La sorpresa ci coglie impreparati. Abbiamo desiderato tanto conoscerti, Gesù, vederti, toccarti, sapere che sei vero. Improvvisamente ti palesi a noi in ogni modo.

Così sei tu, Gesù: il tempo in cui, senza che ce ne accorgiamo, iniziano le cose buone che sono nel mondo e la nostra trasformazione.

Don Davide