Benedire: tanto importante da volere farlo bene

Carissimi/e,

nonostante le “benedizioni” siano un rito ormai decennale e appartenente alla nostra tradizione, molti – in occasione della visita nelle case per la benedizione pasquale – tradiscono un certo imbarazzo, come se non sapessero bene come comportarsi; capita soprattutto ai giovani, magari meno abituati a vivere questo momento.

Nel tentativo di alleggerire questo incontro e di togliere questo imbarazzo, vorrei consegnare alcune indicazioni.

Primo. Le “benedizioni” sono soprattutto un incontro. Un incontro che avviene nelle vostre case, dove il prete o i ministri della parrocchia praticamente si “auto-invitano”. Una volta, nessuno si sognava di non accogliere il prete o un suo rappresentante, ma oggi non è più così. Noi perciò, prima di tutto vi siamo grati per l’attenzione che ci dedicate, per il fatto di aprire la porta, di parlarsi cortesemente. Non lo diamo per scontato e – laddove siamo accolti – entriamo umilmente e senza pretese. L’incontro non è formale, ma amichevole, come in famiglia. Ci salutiamo, scambiamo due parole e ci si aiuta a sentirsi a proprio agio. Perciò non vi preoccupate se la casa non è perfetta o se eravate impegnati in altre faccende! Prima di tutto vi ringraziamo per il tempo che dedicate all’incontro e per la disponibilità a pregare per voi e per la vostra casa.

Secondo. Il rapporto prete/ministri nei confronti della parrocchia è schiacciante: 4 a 6900. Nel caso non ci si conosca perfettamente, se ci aiutate a focalizzare chi siete, se avete vissuto qualcosa di particolare e se c’è qualche necessità, ci aiutate enormemente. Vi chiedo, soprattutto, di segnalarci se c’è stato qualche lutto in famiglia nell’ultimo anno, in modo da potere ricordare i defunti nella preghiera; oppure se c’è qualche malato, che abbia bisogno di una visita o dell’assistenza spirituale; infine, se c’è qualche situazione che vi sta a cuore, per cui la parrocchia potrebbe fare qualcosa.

Terzo. Il sogno di tutti noi preti e ministri incaricati sarebbe quello di potere dedicare più di qualche minuto a ciascuno. Purtroppo non è possibile, per il ritmo serrato che ci è imposto. Abbiamo piacere di fermarci per un breve dialogo amichevole, anche laddove non ci siano situazioni particolari, ma vi chiediamo in anticipo un po’ di comprensione se, ad un certo punto, non possiamo dilungarlo oltre, perché dobbiamo proseguire con le visite. Allo stesso modo, vi chiedo un po’ di pazienza… perché so bene che gli ultimi sono quelli che aspettano di più, ma ovviamente tra l’inizio e la fine può passare un lasso di tempo anche di qualche ora. Purtroppo nessuno di noi ha il dono dell’ubiquità! Per agevolarvi, per quanto possibile cercheremo di seguire l’ordine di progressione indicato sul calendario delle benedizioni.

Quarto. Dopo avere creato le condizioni perché si possa vivere come momento famigliare o amichevole, avviene quindi la preghiera con la benedizione. Diciamo insieme alcune preghiere della tradizione, quelle che sappiamo tutti, per intenderci. In alcuni casi si può leggere un breve passaggio del Vangelo e dire qualche intenzione di preghiera spontanea. Poi chiediamo la benedizione di Dio sulla vostra famiglia, prima di tutto, e sulla vostra casa. Se avete piacere che si benedica dappertutto, basta dirlo: lo facciamo volentieri. Altrimenti, in genere, ci si limita a benedire nel luogo dove siamo accolti, perché magari qualcuno può non avere piacere che si giri per casa! Accompagna questo momento, la consegna di un ricordo, che ha valore soprattutto perché unisce tutte le famiglie cristiane con lo stesso simbolo e perché vi porta il saluto del vescovo. Dopo di ché ci si saluta, così noi continuiamo il viaggio!

Spero che queste poche indicazioni, ci aiutino a vivere le “benedizioni” di quest’anno come un bel momento per tutti. Soprattutto, vi chiedo il massimo della collaborazione per non banalizzare questo momento; di comunicare magari a chi non viene in chiesa queste informazioni, di consegnare questo foglietto e di incoraggiare chi non ha piacere di ricevere la benedizione a dirlo semplicemente.

Il gesto di benedire è una delle cose più belle, più preziose e solenni che possiamo fare nei confronti delle altre persone, e noi vogliamo che sia così per tutte le famiglie e per ogni singolo che lo desiderino.

Vi saluto con amicizia e vi do l’appuntamento a presto,

Don Davide




Le “benedizioni” pasquali

Anche quest’anno, a partire da lunedì 15 gennaio, riprenderemo le tradizionali “benedizioni pasquali”. Questo appuntamento nacque fin dall’inizio come un gesto di vicinanza, come un rito liturgico da fare nelle case (e non nelle chiese), inteso come un segno per confermare la fede delle famiglie. Oggi molto più significativo se compreso come una visita alle famiglie per vivere un incontro, per rinforzare un’amicizia, per conoscersi meglio e per avvicinarsi alle situazioni di bisogno.

La visita alle famiglie, quindi, avviene così: ci si saluta amichevolmente; se non ci si conosce ci si presenta; se c’è qualche problema di cui la famiglia ha piacere di parlare si può dedicare un po’ di tempo all’ascolto; poi – se i padroni di casa hanno piacere – si dice una preghiera insieme e si invoca la protezione di Dio e le cose buone che si chiedono attraverso la benedizione.

Nella fede cristiana, i luoghi della nostra vita, come anche gli oggetti che  ci accompagnano quotidianamente, sono considerati come un bene per la persona, quindi si benedicono. Per questo si benedicono le case, o anche le cose più care.

La benedizione, dunque, è per le case, ma sempre e soprattutto per le persone che ci vivono, quelle a cui vogliamo bene, quelle che verranno ospitate nelle nostre case.

Per vivere bene questo momento, mi sento – con rispetto – di proporvi alcune piccole attenzioni:

  • Nelle case dove ci sono dei bimbi o dei ragazzi. Sarebbe bello che tutti partecipassero a questo momento di incontro: interrompere momentaneamente i giochi, il computer… addirittura lo studio e vivere insieme i pochi minuti della visita.
  • Nelle case degli studenti universitari. Abbiamo piacere di incontrarvi e di salutarvi, anche se abitate nella nostra parrocchia solo per il tempo degli studi. Siete una presenza preziosa! Vi chiedo inoltre di non avere paura a dirci con chiarezza se avete piacere di pregare insieme e di ricevere la benedizione, oppure no. Si evitano inutili imbarazzi e ci si può salutare cortesemente comunque, e farci gli auguri.
  • Negli uffici o nei negozi. Per rispetto e delicatezza veniamo solo se la visita è gradita e se non rechiamo disturbo. Se qualcuno ha piacere, basta che lo dica, facendolo presente in parrocchia o al ministro che passa nella zona. In quel caso, chiediamo di fermare le attività il tempo della preghiera e della benedizione.

La benedizione è totalmente gratuita. Lo è perché non è una “prestazione religiosa”, ma una visita, un incontro di amicizia, e come tale non si paga.

C’è la tradizione, in questa occasione, di lasciare un’offerta per le tantissime spese della parrocchia o per le attività destinate alla carità. Se avete piacere di lasciare un’offerta, vi chiedo preferibilmente di metterla in una busta e vi ringrazio di cuore anticipatamente. Se avete piacere che la vostra offerta venga destinata esclusivamente alla carità o a opere di beneficienza, basta segnalarlo chiaramente sulla busta, e non verrà usata per altri scopi che per gli aiuti forniti dalla Caritas parrocchiale alle persone.

Per ora vi faccio il più caro augurio di buona ripresa delle attività dopo le feste natalizie, in attesa di incontrarci personalmente.

Don Davide




Invitare alle nozze

«Mandò i suoi servi ad invitare alle nozze» (Mt 22,2).

In questa domenica, viene conferito il Mandato a tutti i catechisti, educatori e responsabili della nostra parrocchia. È un rito festoso, in cui, a nome di tutta la comunità, si affida ufficialmente l’incarico alle persone disponibili, si ricorda loro che sono al servizio e non dentro un’impresa personale, e che il Signore manda i suoi servi ad invitare alle nozze, non a una cosa triste.

Il servizio ecclesiale dovrebbe essere come quegli amici che organizzano i giochi festosi per gli sposi: richiede impegno, ma con quanto entusiasmo e affetto lo fanno!

Ancora di più, l’appartenenza alla chiesa dovrebbe essere come una festa di nozze: un’esperienza gioiosa, estremamente curata, dove si mangiano cibi succulenti e bevande deliziose – talvolta spirituali, come l’ascolto della parola di Dio, un ritiro, una bella celebrazione; talvolta materiali, come le merende o i bei pranzetti che ogni tanto si fanno.

Ci dobbiamo chiedere: stiamo invitando alle nozze o a un funerale? L’invito è curato? La partecipazione è bella o assomiglia di più a un necrologio? L’abbiamo spedita come si fa a un capo azienda che non possiamo non invitare per buona educazione, o c’è un rapporto personale e riusciamo a dire: “ci tengo che tu ci sia”?

E poi: la festa è pronta? O abbiamo cibo precotto, patatine confezionate, tovaglie sporche, location brutte e sedie scomode?

È interessante notare, nel vangelo, che tutto ciò non basta. Nonostante un invito alle nozze fatto come si deve e un banchetto eccellente, molti invitati rifiutano.

Niente paura. Timone dritto e obiettivo chiaro: qui c’è pronta una festa di nozze, non una merendina. La merendina la puoi rimettere nella scatola e mangiarla un altro giorno; la festa di nozze va goduta e ci sarà sicuramente qualcuno che ha il piacere di farlo. E allora: apriamo le porte! Oltre che una chiesa in uscita, che sia anche una chiesa aperta! Che tutti coloro che vogliono il privilegio di partecipare siano accolti! E che goda chi ha fame e sete!

E alla fine, si scopre che i servi stessi sono invitati alle nozze! Che strana festa, questa! Il padrone è così buono che, pur avendo servi numerosi, ha organizzato un catering esterno, in modo che anche i servi possano fare festa, essere serviti e mangiare leccornie!

Mi auguro davvero che tutti, tutti possiamo avere la chiara consapevolezza di essere invitati a una festa di nozze; che nessuno di noi ritenga il non esserci una cosa di poco conto; che non ci sia bisogno di insistere come il padrone nel vangelo e, anzi, ciascuno desideri non perdersi questa festa per nulla al mondo.

Don Davide




La Scuola di Formazione Teologica

Il grande Aristotele, nella sua opera più famosa scriveva che la teologia è la scienza più importante di tutte e la meno utile.

Forse è questo il motivo per cui tanti sarebbero interessati a conoscere la teologia, magari anche a studiarla seriamente, ma poi non si sceglie perché non si veda come possa tornare utile (come si dice in gergo) per portare a casa la pagnotta…

È anche per venire incontro a queste esigenze che la Scuola di formazione teologica di Bologna, sotto l’alto patrocinio della Facoltà di teologia dell’Emilia Romagna, propone un corso base di teologia strutturato in modo che ciascuno possa partecipare, senza dover rinunciare ai suoi oneri quotidiani. Il corso base prevede infatti lezioni serali, un giorno alla settimana, di una o due materie a semestre. I quattro corsi che compongono il corso base sono: Teologia fondamentale; Mistero cristiano; Introduzione generale alla Sacra Scrittura e Ecclesiologia. Tradizionalmente, la scuola di formazione teologica (sigla SFT), oltre alla sede principale del seminario, ha altre sedi dislocate sul territorio.

Quest’anno, per la prima volta, si apre una sede anche nel vicariato ovest, che prevede un corso di Teologia fondamentale il martedì a partire dal 16 di febbraio, presso le nuove strutture della parrocchia di Ponte Ronca.

A questo punto, a molti verrà la domanda: e perché studiare teologia?

Per rispondere al nostro amico Aristotele, diremmo noi! Studiare teologia, infatti, da una parte ci permette di uscire dalla logica delle cose che ottengono un risultato a breve termine, dall’altra ci permette di dare un respiro alla nostra fede. Nella vita delle nostre parrocchie, soprattutto per chi è più impegnato, si rischia sempre di fare una formazione finalizzata ad acquisire capacità di fare qualcosa: un incontro, un’animazione ecc. Lo studio della teologia ha una finalità di più ampio raggio: esso intende dare al credente disponibile qualche struttura fondamentale per operare un discernimento evangelico, di fede ed ecclesiale in maniera minimamente attrezzata alle grandi sfide dei nostri giorni. Studiare un po’ di teologia, quindi, è un investimento a lungo termine, sia per i singoli – che ne avranno sicuramente da guadagnarci – sia per le parrocchie – che possono solo beneficiare da un investimento a lunga scadenza. A questo proposito, sarebbe bello che per ogni parrocchia non ci fossero solo dei singoli a frequentare questi corsi, ma magari un piccolo gruppo, in modo che possa diventare anche un’esperienza condivisa e da riportare nella propria comunità.

Credo che la scelta molto forte e voluta del vicariato ovest di avere una sede nel proprio territorio vada in questa direzione.

La seconda domanda che a qualcuno potrebbe saltare fuori è la seguente: e che cos’à la teologia fondamentale? Beh, per questa risposta… vi rimandiamo al corso! Possiamo solo dire che è la disciplina che si interroga su come si fa a rendere ragione della speranza che è noi (cfr. 1Pt 3,15).

Rendere ragione della speranza è la sfida delle sfide, come vedremo. Il papa stesso ci ha richiamati nelle ultime due encicliche alla dimensione della speranza e alla dimensione di una carità fattiva. Bisogna cioè sperare e credere in maniera che sia credibile la testimonianza del nostro amore. La teologia fondamentale prova a capire quali sono le sfide di oggi e quali sono stati i percorsi della chiesa nella storia per corrispondere a questa responsabilità.

In genere, un corso di teologia riserva piacevoli sorprese, anche per la propria fede.

Speriamo vivamente che questa occasione possa fare riscoprire anche la gioia, l’entusiasmo e la convinzione di essere credenti.

Don Davide




Il Crocicchio: 50° di Don Valeriano

CINQUANT’ANNI DI PRETE

La figura ministeriale del prete è stata spesso ingessata in un ruolo istituzionale, al punto che in passato ci si è divisi in clericali (nel senso di favorevoli ai preti) e anticlericali. Oggi questa distinzione è molto più variegata e meno polarizzata, perché la figura del prete appare in decadenza: ci sono poche vocazioni, il ministero non è ben definito e, salvo qualche residuo atteggiamento ossequioso, al ruolo del prete non è più riconosciuto di per sé alcun valore o prestigio. La situazione non varia che la si pensi fuori dalle parrocchie o all’interno. Posto che ormai la porzione all’interno delle parrocchie descrive una piccolissima minoranza, quasi irrilevante in termini di statistica generale, anche nelle parrocchie bisogna registrare che il prete non ha più uno status ufficiale, legato al ruolo: c’è chi lo apprezza e chi preferiva quello precedente; c’è chi spera che non vada mai via e chi non vede l’ora che arrivi quello nuovo; ci sono quelli che lo criticano perché essendo giovane è troppo “moderno” e quelli che, invece, essendo anziano lo ritengono troppo “vecchio”. Poi ci sono quelli che lo vorrebbero più in chiesa e quelli che lo vorrebbero un prete di strada, e quelli che “il parroco non va mai a trovarli” e gli altri che vanno in ufficio e “il parroco non c’è mai”.

Si potrebbe andare avanti quasi all’infinito con questa buffa e a dire il vero troppo stereotipata rassegna, che però ha il pregio di mettere in luce la fisionomia sfumata, poliedrica, sovraccarica di aspettative e necessariamente “liquida” del ministero del prete oggi.

Di fronte a queste considerazioni però, possiamo cogliere il motivo profondo di fare festa a un prete come don Valeriano che da cinquant’anni svolge il suo ministero con fedeltà, spirito di servizio e impegno. Così come nella vita di un laico c’è una grandezza che tante volte si dà per scontata, ma che spesso è sotto gli occhi di tutti – quando ad esempio si pensa alla cura dei figli, alla capacità di muoversi tra i mille impegni quotidiani, all’assumersi le responsabilità della vita o all’accudire i genitori diventati anziani mentre tutto gli altri impegni rimangono e si intensificano – allo stesso modo anche nella vita di un prete c’è un tratto umile, ma che dovrebbe suscitare meraviglia e gratitudine.

Spero che sia chiaro che non è una questione di fare dei confronti, ma di vedere il reale e di capire l’importanza di celebrare un anniversario.

Si pensi all’impegno di un prete, quando cambia il ministero o la parrocchia, di amare realmente persone che ancora non si conoscono, volti che non rappresentano una storia, mentre hai un bagaglio di affetti a cui hai dato la vita, che ti lasci alle spalle. Si pensi a un parroco come don Valeriano che è stato per più di due decenni alla guida di una comunità, cedere il posto a un giovane rampante di quasi quarant’anni più giovane di lui, accoglierlo, accettare il confronto, indulgere ai suoi errori, portare pazienza con ciò che, inevitabilmente, chi viene dopo non può conoscere. Si pensi al logoramento di energie che rappresenta la guida di una comunità cristiana, che non è un’azienda con dei dipendenti, ma una comunità, appunto, in cui devi continuamente tessere relazioni, coinvolgere, suscitare partecipazione, delegare, guidare, accogliere le differenze e fare spazio a ciò che tu magari non faresti mai, e lo puoi fare solo dando tutto te stesso in ogni frangente.

A questo, si aggiunga la cura certosina per custodire un celibato autentico, che faccia fiorire la capacità di amare e non l’atrofizzi, o che cosa significhi per l’unità emotiva di un uomo amare non una persona o una famiglia, ma molti (se non proprio tutti), sempre diversi, ciascuno in un modo singolare e adatto.

Infine, si provi a fare un’ultima considerazione, che suggerisco con una specie di gioco, seguendo la vita e il ministero di don Valeriano attraverso le decadi.

Nel 1967, quando è stato ordinato don Valeriano, si era all’alba di quella che è stata definita, da alcuni sociologi, la vera cesura tra due epoche e la chiesa cambiava volto dopo la celebrazione del Concilio Vaticano II. Immaginiamo un giovane prete, con l’educazione del seminario e il vento nuovo in poppa, inserirsi in una parrocchia dove l’impostazione pastorale e il rapporto con il parroco (allora c’erano ancora i cappellani!) erano rigidamente impostati su modelli pastorali fissi da quasi cent’anni. Don Valeriano, ad esempio, racconta spesso i rientri in canonica di soppiatto per non svegliare il parroco don Brini, dopo le “fughe” con i ragazzi a giocare a pallone…

Passiamo a dieci anni dopo. Di recente mi hanno raccontato che nel 1977 si fece la processione del Congresso Eucaristico con l’Eucaristia scortata dalla polizia in assetto antisommossa e i carri armati per le strade di Bologna. Erano gli anni in cui si interrogava (già allora!) su una nuova evangelizzazione e su come far sì che una rinnovata celebrazione dei sacramenti potesse costruire la comunità cristiana.

Nel 1987 c’erano i Duran Duran, poco dopo sarebbe caduto il muro di Berlino, c’era stato il referendum sull’aborto all’inizio del decennio e la vita delle parrocchie cominciava a sembrare di un altro pianeta rispetto alla vita “del mondo”. E i preti lì, a cercare di reinventarsi, di proporre qualcosa che intercettasse la vita dei giovani; e giù a fare i campi estivi e a realizzare le prime tracce di quella che sarebbe poi diventata l’Estate Ragazzi.

Nel 1997 erano comparsi i computer e i cellulari. Io ero in seminario e, a dispetto di questa ventata di modernità, in seminario erano entrambi vietati: tanto per dire che rappresentazione del mondo c’era ancora all’interno delle strutture della chiesa. L’Estate Ragazzi era diventata un meccanismo imponente e a Bologna si celebrava con una certa grandeur il Congresso Eucaristico Nazionale, direi beffardamente quasi per prendere commiato dalla rilevanza pubblica della vita della chiesa. In quegli anni, si cominciava a intuire nitidamente che serviva una riforma delle parrocchie, che i preti sarebbero diventati pochi, pochissimi, praticamente scomparsi nel giro di poche decine di anni, ma si scelse di andare avanti col paraocchi, come chi sta cadendo dal grattacielo e dice: “Fin qui tutto bene, andiamo pure avanti…”.

Nel 2007 era appena stato inventato l’iPhone, se non eri su Facebook eri già considerato un apolide e il primo video su YouTube era stato caricato due anni prima: i cellulari e i computer erano diffusi a livello planetario e non erano più vietati nemmeno in seminario. Il Congresso Eucaristico Diocesano di quell’anno non se lo ricorda praticamente nessuno, ci si cominciava a disperare che non c’erano più cappellani (io che avevo appena iniziato il secondo incarico ero considerato un marziano due volte, perché non avevo ancora Facebook…) e si intravedeva la fine della chiesa italiana, o almeno bolognese, perché la nostra preghiera per le vocazioni (solo quelle sacerdotali, beninteso!) non veniva ascoltata…

Poi siamo arrivati ad oggi: don Valeriano non è più parroco, ma è ancora un grande prete, la tv non si guarda più perché trovi tutto su YouTube, se parli con i ragazzi Facebook è già vecchio, la politica – si dice – è finita (ma io non sono d’accordo), pare che abbiamo molti problemi col gender, e c’è papa Francesco che ci invita ad uscire e guida la Chiesa con inedita profezia…

Attraverso questo percorso, i preti come don Valeriano sono passati dall’invito a curare il gregge a quello di uscire fuori; dall’impegno a rinnovare la catechesi a vedere che non ci sono nemmeno i presupposti per la catechesi e che bisogna fare invece primo annuncio; da una pastorale dottrinale alla dottrina della pastorale. E in tutti questi passaggi, sono stati lì, a cercare di guidare le loro comunità, accompagnare decine e decine di generazioni nei sacramenti e nei passaggi decisivi della loro vita, a volere bene a migliaia di persone, ad adattarsi continuamente e, quasi ottantenni, a reinventarsi, aggiornarsi, sforzarsi di stare al passo, alcuni con ancora il peso della comunità sulle spalle. E mentre dicono il breviario usando lo smartphone e pensano al sito internet della parrocchia, fanno ancora le Quarant’ore, benedicono i santini, le uova e l’ulivo, ascoltano le persone, assolvono nuovi e antichi peccati, organizzano la processione con la Madonna e la Sagra del Tortellone (no dai, quella da noi no!); il tutto con l’invito ad abbondonare le sagrestie e la nobile grandezza della chiesa trionfante per andare nelle strade e fare della chiesa un ospedale da campo, sollecitati a superare gli schemi che per anni hanno dovuto difendere e a vivere come grazia un tempo che da tutti è considerato di crisi.

È per questa fedeltà umile e duttile, oggi simbolicamente espressa da don Valeriano nel suo esserci sempre, in chiesa e al servizio della nostra comunità, che noi lo festeggiamo, lo ringraziamo e celebriamo i suoi cinquanta anni di ordinazione presbiterale, perché in tutti questi anni attraverso il cambiamento del mondo, alla sequela del Buon Pastore e nella giovinezza dello Spirito, ha saputo trovare il tempo e lo spazio per le persone e per la Chiesa.

 

PICCOLA STORIA SEMI-SERIA DELLA “CARRIERA” DI DON VALERIANO

Don Valeriano è nato il 27/11/1938 a San Lazzaro di Savena. Per sei anni ha vissuto alla Croara, con i suoi genitori Enrico e Ida e i suoi fratelli Livio e Ada, finché le ultime bombe della guerra non lo hanno costretto a diventare un “cittadino”. Segno premonitore che sarebbe diventato parroco di una delle parrocchie più belle e importanti del Centro storico?

Nelle case popolari di Via Pier Crescenzi 30, ha conosciuto Padre Marella, che teneva l’oratorio nel cortile, e il giovane Valeriano cominciò così ad assimilare i tratti di una vita santa. Sempre seguito e accompagnato da Padre Marella, a sedici anni entrò nel Seminario di Pennabilli e poi in quello di Senigallia, e qui iene da porsi le prime domande: ma a Bologna non lo volevano?

Finalmente ritornò nel Seminario della sua città per la formazione teologica, fino al fatidico giorno dell’Ordinazione, il 25/07/1967, per la preghiera e l’imposizione delle mani del Card. Giacomo Lercaro, insieme a una bella schiera di preti in gamba, segno inconfondibile di un marchio di qualità.

Dopo l’ordinazione tornò nella sua parrocchia dei SS. Filippo e Giacomo, a fare il cappellano scavezzacollo, che portava i ragazzi a giocare a pallone e in gita quando il parroco Don Brini li avrebbe voluti in chiesa, in ginocchio a pregare. Ha fatto il cappellano per otto anni e mezzo, poi la sua carriera è un susseguirsi di prestigiosi incarichi e riconoscimenti: Parroco a S. Martino in Pedriolo per tre anni, poi nel 1978 Parroco a Santa Maria della Quaderna per tredici anni (mentre, in quel di Rastignano, un ragazzino di nome Davide diventava un adolescente molesto); nel frattempo Vice Assistente diocesano degli adulti di Azione Cattolica, Assistente diocesano del C.S.I., Amministratore del Quindicinale diocesano Insieme Notizie (il predecessore di Bologna7) e Co-visitatore nelle visite pastorali del Card. Biffi alla Diocesi.

Dal 12/01/1992 al 29/11/2017 è stato Parroco in carica della Parrocchia di S. Maria della Carità, che è tutt’ora la sua casa e la quale gode di avere un parrocchiano tanto illustre.

Don Davide

 

UN BUFFETTO E UNA FRASE IN DIALETTO

Mi è stato dato l’incarico di scrivere un articolo sul mio rapporto con don Valeriano. Da dove cominciare?

I miei primi ricordi di don Valeriano risalgono a quando ero ancora una bimba con i capelli cortissimi che andava alla materna. Ricordo che quando ero piccola, finita la Messa, ogni domenica, mio nonno mi prendeva per mano e mi diceva: “Andiamo a salutare don Valeriano” e lo diceva con un tono quasi solenne, come se parlasse di una persona importante. Arrivavamo poi in sagrestia e non importava quante persone ci fossero prima di noi a salutarlo: mio nonno aspettava finché non aveva potuto almeno stringergli la mano e avergli fatto un sorriso ed io mi guadagnavo dal don quasi sempre un affettuoso buffetto sulla guancia. Già da piccola, mi ricordo, mi aveva stupito quel suo grande sorriso affettuoso che non nega  mai a nessuno.

Don Valeriano é sempre stato per me, e credo per tutta la comunità, una presenza costante, ma non invadente: uno di quei capitani non autoritari, che lascia la possibilità ai suoi “sottoposti” di esprimersi e di sbagliare, ma sempre dietro di noi, presente e pronto a portare il suo aiuto quando necessario. É una persona che ho sempre ammirato per la sua ponderatezza e la sua calma: penso di non aver mai avuto la sensazione che don Valeriano si stesse alterando. Ha un modo di porsi scherzoso, ma non ridicolo, con cui conquista tutti e con cui ti fa sentire come a casa.

Ho sempre provato per don Valeriano un grande affetto sincero, come quello che si prova per il proprio nonno.

Sono profondamente convinta che, se in tutti questi anni di servizio all’interno della nostra comunità, nonostante le difficoltà, io non abbia mai mollato, sia in gran parte merito di don Valeriano. Mi é capitato spesso di arrivare in ufficio con un umore inquieto, con dell’insoddisfazione, a volte addirittura arrabbiata e don Valeriano é sempre stato capace di fare breccia nella negatività che portavo e di tranquillizzarmi. Non gli sono mai serviti paroloni o grandi concetti astrusi: é sempre bastato un “Mò Giòglia! Lassa ban ster! Te fat ban!” ed improvvisamente mi ritrovavo a ridere e mi sentivo sollevata. É sempre stato capace di sedare quei piccoli litigi che, ogni tanto, avvengono in una comunità grande come la nostra, e senza mai far uscire una delle due parti come “perdente”, ma cercando di trovare un compromesso che non penalizzasse nessuno.

Don Valeriano é sempre stato per me un punto di riferimento, quando avevo qualcosa che non sapevo bene come organizzare o c’era una qualche vicenda in parrocchia che sentivo più grande di me, andavo sempre da lui. Penso che il don sia una delle persone col cuore più grande che conosca: é stato presente per me e per la mia famiglia in momenti molto difficili e non ci ha mai fatto mancare parole di supporto e di conforto e penso che questo possa confermarlo ogni parrocchiano.

Don Valeriano é, per me, come un secondo nonno, quello che quando ti vede ti dice “Giòglia! Cum stet?!”, oppure quello che quando arrivava nello studio ed io ero lì a fare del caos mi diceva “Beh Giòglia; ban c’sa fet?!”, o quello che ancora, se metto i jeans strappati, quando mi vede mi dice: “Beh ma cus el qal brot lavurir lè?!”.

Don Valeriano per me significa tanti bei ricordi: le volte in cui mi vedeva a catechsimo da piccola e mi chiedeva “Stai facendo bene?”, tutte le coppe ACR alla fine delle quali lui faceva le premiazioni, le preghiere mattutine ad Estate Ragazzi, le chiacchiere durante le piccole pause ristoratrici nelle intense giornate di Estate Ragazzi e tanti altri.

A don Valeriano devo molto, come persona, come catechista e come cristiana e penso che mi accompagnerà per sempre il suo “Te voja!”.

Anna Giulia Ballardini

 

UNA CASA PER I SEGNI DELL’AMORE DI DIO

Vorrei condividere, con poche parole, cosa, per me, abbia significato vivere questi anni in parrocchia.     Nella vita di ciascuno di noi sono fondamentali gli “incontri”… per me l’incontro con questo ambiente è stato un’esperienza incredibile e significativa.

È stato un percorso di conoscenza graduale, iniziato con il mio trasferimento, dopo il matrimonio, qui in centro, ma soprattutto con il battesimo di mio figlio più grande. Poi è proseguito con la frequentazione della messa domenicale, l’inizio del catechismo, con i suoi appuntamenti settimanali, e con la condivisione di esperienze uniche di vita comunitaria, di preghiera, di amicizia.

Da allora non ho più smesso di frequentare la parrocchia, per il punto fermo che rappresenta per me e per la mia famiglia, per i valori di fede, amore, gratuità che sa trasmettere, valori imprescindibili in una società proiettata tutta all’esteriorità e ai beni fugaci.

Per questo devo dire GRAZIE a don Valeriano e a chi ha collaborato con lui per avere reso questo luogo una “casa”, piena di calore e di amore, dove c’è posto per tutti, dove puoi trovare SEMPRE qualcuno che ti ascolta, ti sorride e ti fa “cogliere”, nei semplici gesti di tutti i giorni, l’amore unico di Dio.

Francesca Baroni

 

LA FIGURA DEL PRETE E DEL PRETE-PARROCO

Il parroco … “chi è costui”?

Chi ha frequentato una parrocchia, qualche gruppo ecclesiale o associazione o semplicemente l’ora di religione a scuola, ha conosciuto sacerdoti che animano questi ambiti.

Tutti questi sacerdoti svolgono il loro ministero e testimoniano Gesù.  Sicuramente con attenzioni particolari a seconda della loro spiritualità e delle condizioni di vita di coloro che li circondano.

Quale è la peculiarità del prete-parroco, quale la sua “specialità”?

E’ l’attenzione, tipica del pastore, per la cura delle persone che abitano un territorio, una attenzione alla vita concreta, alla ordinarietà, alle cose di tutti giorni, a fianco delle persone che nascono, crescono, si ammalano, guariscono e muoiono.

Il prete, quando parroco,  diventa…

  • “padre” dei bambini che entrano nella comunità parrocchiale e li guida con affetto ad accostarsi ai sacramenti, a parole nuove, all’esperienza di gruppo.
  • “amico” di tutti quelli che trovano la porta aperta e la disponibilità ad essere ascoltati.
  • “dispensatore” dei sacramenti e della Parola, in modo particolare per chi cerca la misericordia del Padre
  • “consolatore” per tutti quelli che hanno situazioni difficili… di salute, in famiglia, di precarietà economica.
  • “amministratore” per tutti quelli che frequentando la parrocchia hanno bisogno della luce, del riscaldamento, degli spazi, delle attrezzature, degli arredi, delle candele …
  • “assistente sociale” per tutti quelli che hanno bisogno di un lavoro, di un pezzo di pane, di un soldino.

Sono diversi i parroci che abbiamo incontrato, dall’infanzia fino a quando abbiamo messo su famiglia, attraverso gli anni del Concilio dove con entusiasmo, un po’ di confusione, ma tanta speranza abbiamo scoperto che la Chiesa era anche nostra.

Il cammino all’interno dell’Azione Cattolica ci ha permesso di sviluppare ulteriormente questa consapevolezza e, con entusiasmo ma anche con fatica, abbiamo scoperto che era una strada nuova, non tracciata dalle precedenti generazioni.

Abbiamo anche capito che come i preti avevano luoghi e strumenti per condividere il loro ministero, era importante per noi laici fare un cammino similare e trovare le occasioni e gli strumenti per sviluppare la nostra laicità.

Siamo stati fortunati, perché sia i parroci che i preti incontrati ci hanno aiutato in questa scoperta: ognuno con accentuazioni diverse e velocità diverse.

Di solito in una comunità parrocchiale, il parroco è l’ultimo arrivato ed il primo ad andarsene; è inviato dal vescovo per un certo periodo per valorizzare i doni presenti nei laici che quella comunità abitano e frequentano.

Nonostante questo i laici di quella comunità si comportano come se il parroco fosse “il proprietario” della comunità e loro fossero chiamati nel migliore dei casi a “dargli una mano” a far sì che la “loro” comunità diventi più viva, cresca, e ci si voglia bene.

Siamo strani noi laici… forse ce l’hanno insegnato fin da piccoli ed è entrato nel nostro DNA, forse anche ai preti hanno insegnato che avrebbero avuto una loro comunità e dei bravi laici gli avrebbero dato una mano.

Ma allora?

Dobbiamo metterci insieme, laici e parroci, ad immaginare una nuova realtà dove i doni che il Signore ha dato ad ognuno siano messi in comune.

Nessuno ha la soluzione ma assieme e soprattutto se lo chiediamo come dono al Signore… possiamo farcela!

Luciano e Isabella Bocchi




La nostra fede tra chiese, strade e case

Stavo pensando, in questi giorni, che il termine “parrocchia” gode di una bellissima contraddizione. Nella lingua greca, deriva dall’immagine di essere per strada, dal concetto di viandante, quindi è collegato all’idea di pellegrinaggio, di instabilità e di precarietà. Questo significato è passato nella configurazione della parrocchia intesa come casa tra le case delle persone e come luogo che si affaccia sulle strade, però nel tempo la parrocchia è diventato il simbolo di qualcosa di radicato, di molto stabile, alcune volte anche di pesante.

Senza volere fare dell’inutile retorica, vorrei perciò che cogliessimo questi giorni in cui la chiesa di S. Maria della Carità, la nostra chiesa principale, è chiusa, come un’occasione per essere richiamati al significato originario della “parrocchia”. Non è facile, è un esercizio ascetico, perché avere la chiesa comoda, in ordine, capiente e funzionale rende tutto più facile. Eppure, così ci ricordiamo che la parrocchia non è fatta dalle mura della chiesa, ma è fatta di pietre vive, delle persone; è fatta per muoversi snella tra la vita di donne e uomini, lungo le nostre strade.

Siamo, poi, estremamente fortunati, di potere disporre anche della deliziosa chiesa di S. Valentino, che sempre di più vorrei sentissimo come un santuario nel nostro territorio parrocchiale, che in questi giorni diventa il luogo principale delle nostre celebrazioni… come una piccola città che diventasse la sede di un grande giubileo! Sappiamo che la chiesa è piccolina, ma cercheremo di distribuirci, in modo da poter celebrare tutti con gioia.

Infine, dobbiamo ringraziare, perché non sono molte le chiese a Bologna che si possono permettere di celebrare la messa perfino in una sagrestia abbastanza capiente, che svolge in questi giorni anch’essa la funzione di supplente della nostra chiesa.

C’è un altro segno che ci richiama al significato profondo della parrocchia, intesa come una chiesa-accanto-alle-case. In quest’ultima settimana abbiamo iniziato le benedizioni pasquali, che portano la liturgia – che di solito celebriamo in chiesa – nelle nostre case, insieme alla visita dei ministri della parrocchia.

Come comunità siamo in cammino, siamo pietre vive, e ci muoviamo con mille relazioni testimoniando il Signore Gesù lungo le strade, nelle case, mettendoci accanto alla vita delle persone.

In questo senso, sarebbe bello cogliere il momento della visita per la benedizione pasquale, come opportunità per riscoprire esplicitamente il nostro cammino di fede. Vi invito, perciò, se potete, ad apparecchiare un piccolo altare domestico, a mettere una tovaglietta con un crocifisso e ad accendere una candela (magari quella del nostro Battesimo), in modo da rendere evidente che – mentre siamo in movimento tra chiese, strade e case – l’incontro con le vostre famiglie diventa una celebrazione di amicizia, di prossimità e di vita.

Don Davide




Il microscopio dell’anima

Avevo la tentazione di fare dei bilanci, poi ho pensato che sarebbe come se un bimbo che ha appena cominciato a camminare e a dire qualcosa volesse riflettere su cosa ha imparato dalla vita. No, lasciamo stare i bilanci. Due anni sono troppo pochi. Però è vero che ci sono stati dei primi passi, se vogliamo un po’ goffi, e delle prime parole, che magari vanno precisate.

Questo mi rincuora. Insieme a tutti voi abbiamo camminato e siamo riusciti a dire, almeno inizialmente, come vorremmo essere chiesa in questa via che percorriamo, uno accanto agli altri.

Poi rimane la sorpresa: sì, perché dopo il primo anno uno si guarda intorno e cerca di capire come sia girato; alla fine del secondo, invece, viene da dire: “Wow! Sono ancora vivo! E tutto sommato, sono ancora vivi anche i parrocchiani! Bene, buon risultato!”.

Con grande semplicità, ma sentita autenticità, perciò, ringrazio per questi due anni insieme: per la pazienza di chi l’ha portata e l’entusiasmo che mi ha sostenuto. Desidero continuare il nostro cammino di vita ancora più obbedienti alla Parola di Dio che ci guida, con il desiderio di celebrare le sue lodi e la sua gloria con maggiore passione, con la passione di uscire “fuori” incontro alle persone che desiderano incontrare Gesù, come Francesco (papa) e Matteo (vescovo) ci chiedono ripetutamente.

La liturgia della I domenica d’Avvento ci dà lo slancio: la sapienza del tempo, si apre con una prospettiva mozzafiato. Per la fede nel messia, molti popoli conosceranno il Signore e desidereranno spontaneamente camminare nei suoi sentieri. E gli uomini compiranno il desiderio di ogni utopia: i soldi che vengono spesi per gli armamenti, o per imparare la guerra, saranno spesi per creare strumenti di lavoro e stabilire la pace.

Visione sublime, quanto mai attuale. Gli orrori in Siria sono davanti ai nostri occhi. Mentre prepariamo con gioia il Natale dei nostri bambini, non ci dimentichiamo di quei piccoli, che come Gesù, non hanno nemmeno un’incubatrice, e devono essere scaldati… chissà… magari dal fiato di un asino e un bue. Il Natale, che è vicino, è alle porte del nostro mondo.

Perciò è quanto mai puntuale l’invito a “svegliarsi, consapevoli del momento”. Tutte le letture della fine dell’anno liturgico ripetevano lo stesso ritornello: nei tempi difficili, lì la testimonianza.

Chissà che il silenzio d’Avvento, il desiderio di pace e l’esempio della piccolezza non ci aiutino davvero a cogliere “il giorno” della luce.

Il segreto è il discernimento. In questi giorni c’è un acceso dibattitto all’interno della Chiesa, sull’interpretazione di Amoris Laetitia, l’esortazione post-sinodale promulgata dal papa (in comunione con i vescovi del sinodo) dopo la duplice assemblea sinodale sulla famiglia. Il papa rimanda continuamente al discernimento delle situazioni e chiede questa attitudine abituale al discernimento illuminato dallo Spirito del Signore.

Nell’immagine del vangelo, è ancora il discernimento che al centro. Due saranno allo stesso posto, nella stessa occupazione, con le stesse caratteristiche. Uno preso, l’altro lasciato. Perché? Evidentemente c’è qualcosa “dentro”, che l’uomo non vede, ma Dio sì. Come un microscopio per l’anima.

Chiediamo al Signore che possano corrispondere alla sua volontà il cuore e il braccio, l’intimo e l’azione, affinché possiamo cogliere con gioia un nuovo inizio, con grandi prospettive, ma desiderosi di cogliere il kayros, fin da adesso.

Don Davide




Il Consiglio Pastorale come ascolto dello Spirito Santo

La prossima settimana avremo le elezioni del Consiglio Pastorale. Vorrei che fosse un momento molto sentito, perché ciascuno possa essere protagonista della configurazione e dello stile che vorremmo dare alla nostra parrocchia.
Il Consiglio Pastorale esige una partecipazione democratica, cioè elezioni che indichino la preferenza della maggior parte della comunità.
Con queste poche note, vorrei, però, evitare un pericoloso malinteso che potrebbe sorgere in proposito.
Non dobbiamo assimilare queste votazioni a quelle politiche, che sovente generano polemiche, tensioni e spinte a denigrare i propri rivali.
L’elezione del Consiglio Pastorale e il Consiglio Pastorale stesso è una dinamica spirituale, un momento di ascolto dello Spirito Santo e di pratica concreta della comunione ecclesiale. Mi auguro, perciò, che non ci siano gelosie, invidie o delusioni. La partecipazione al Consiglio non è un modo per poter avere un po’ di potere in parrocchia, non si tratta delle elezioni presidenziali americane! Credo che non ci sia niente di peggio che immaginare che le cose della parrocchia possano rappresentare uno spazio di potere (chissà che potere!); se ci fosse questa tentazione indicherebbe davvero una terribile meschinità di vedute e di interpretazione della vita ecclesiale.
Eleggere il Consiglio Pastorale significa avere piena fiducia nella presenza dello Spirito del Risorto nella Chiesa intesa come popolo di Dio, con la convinzione che chi viene eletto dalla comunità è chiamato dallo Spirito Santo a offrire un servizio alla presenza cristiana nel nostro territorio e soprattutto nell’oggi. Questo servizio si svolge umilmente, con le proprie capacità di discernimento e di senso pratico, senza che a nessuno venga chiesto più di quanto può o è capace di dare. Quello che conta, lo ripeto, è la dinamica spirituale che si crea, perché questo “stile” indica non solo un modo di fare Chiesa, ma il modo in cui la Chiesa è se stessa, cioè luogo di comunione e di testimonianza del Risorto.
Concretamente, domenica 24 gennaio, verrà consegnata all’ingresso in chiesa prima della messa una scheda per l’elezione. Potranno votare tutti coloro che hanno compiuto dai 16 anni in su, quindi vi prego di richiedere la scheda, nel caso non vi venisse consegnata. Si potranno votare da un minimo di una persona a un massimo di cinque, esclusivamente tra quelle indicate nella lista dei candidati. All’inizio della messa pregheremo con l’Invocazione allo Spirito Santo, come piccolo segno di questo ascolto dello Spirito Santo. Infine, al termine della messa, prima di uscire, si potrà consegnare la propria scheda di elezione. Preferisco, per motivi di praticità e di ordine, che non si consegni la scheda degli eletti in NESSUN altro momento, né prima della celebrazione, né negli altri orari della giornata.
A questo punto non mi resta davvero che chiedervi di cogliere questa opportunità e di partecipare, senza pigrizie o paure. Avete ancora tutta questa settimana per informarvi sui candidati: votate chi preferite, votate chi sentite più adatto a rappresentare la comunità, votate gli amici… ma votate! Vi ringrazio in anticipo per questo impegno e per questa gioia della comunità.

Don Davide




Il Consiglio Pastorale Parrocchiale

Il Concilio Vaticano II, concluso 50 anni fa, non aveva solo auspicato un nuovo rapporto della chiesa con il mondo, ma anche un nuovo modo di essere chiesa al proprio interno.
In modo particolare, il rinnovamento della chiesa mirava a una maggiore partecipazione dei laici all’opera pastorale. A distanza di mezzo secolo, molti studiosi e interpreti (e anche il magistero degli ultimi papi), concordano nel dire che questo aspetto è una delle riforme che avanza più faticosamente nell’esperienza ecclesiale dei nostri giorni.
I motivi di questa situazione sono tanti, in modo particolare i ritmi di vita delle persone che diventano più impegnativi, lasciando meno spazio all’impegno e al volontariato, e la difficoltà del ripensamento dei ruoli del ministero ordinato e dei laici e delle loro interazioni.
Il Consiglio Pastorale parrocchiale è uno degli organi previsto dalla Chiesa italiana dopo il Concilio, per concretizzare il sogno di una comunità partecipata e viva, con una significativa visione pastorale e una solida capacità progettuale.
Tuttavia, ad oggi, si registra una certa fatica nelle comunità a fare funzionare questo strumento prezioso. Molto, senz’altro, è colpa di noi preti. Molto dipende anche dalla formazione dei laici, che non sempre è adeguata a proporre un livello di riflessione pastorale significativo e incisivo sulla vita della comunità. Molto, infine, dipende dal fatto che il concetto della corresponsabilità, non è ancora pienamente assunto: si tende piuttosto a una forma di collaborazione, in cui si attende comunque che sia il parroco a dire cosa bisogna fare e deleghi gli incarichi. La corresponsabilità, invece, è uno sguardo e un modo di essere; è una cura per la dimensione pastorale della comunità, che vede i compiti e le urgenze come propria responsabilità, ed è capace di attivarsi e di farsene carico, mantenendo la comunione con il parroco e gli organi collegiali della parrocchia.
Il Consiglio Pastorale, nella mia idea, è prima di tutto un luogo dove cresce e matura questa corresponsabilità. Non importa che chi ne fa parte sia già formato in questa dimensione, ma è fondamentale che chi vivrà questo incarico possa assumere questo sguardo e impersonare questo modo di essere.
In secondo luogo, il Consiglio Pastorale è un organo collegiale eletto democraticamente, composto da persone che possano insieme al parroco, dare una linea all’azione pastorale della parrocchia, e determinare una sensibilità, orientando scelte, condividendo decisioni, offrendo confronti.
Ritengo sterile l’annosa questione sul fatto che il Consiglio sia un organo “consultivo” e non “decisionale”, nel senso che questa regola formale del diritto canonico esprime solamente il fatto che il parroco ha il dovere di assumersi la responsabilità ultima delle scelte fatte e, nel caso, di esprimere le proprie riserve e di rispondere alla propria coscienza, soprattutto in ordine a mantenere la comunione con il vescovo e la chiesa locale. Non si può in alcun modo interpretare questa regola come una riduzione del valore del Consiglio, quasi che fosse solo un’assemblea per fare due chiacchiere insieme. L’apporto variegato dei singoli consiglieri – tanto più in un mondo complesso come il nostro – è decisivo e necessario, ed è una cosa che io personalmente considero fondamentale per potere fare strada insieme, come mi auspicavo il giorno del mio ingresso in parrocchia.
Perciò mi auguro che le prossime elezioni del Consiglio, che si terranno Domenica 24/01/2016 (e il sabato precedente) al termine di tutte le messe, siano il più possibile partecipate e sentite come momento fondamentale e di grande coinvolgimento da parte di tutti coloro che sentono come “propria” la comunità delle parrocchie di Santa Maria e di San Valentino.

Don Davide