Padre Marella e una lettera per i ragazzi

«Perché andare a cercare altri santi, quando ne abbiamo uno qui a Bologna?» diceva sempre mio nonno, quando gli proponevano dei pellegrinaggi da qualche parte.

Parlava di padre Marella, e questa frase in casa nostra è passata da una generazione all’altra: prima l’ha imparata mia mamma, fin da quando era piccolina, di conseguenza anche i miei fratelli e io.

Per mio nonno padre Marella era un tale santo che quasi esauriva tutta la ricerca di modelli da imitare: come se non ci fosse bisogno di altro. E non c’era volta che mia nonna passasse all’angolo di via degli Orefici, senza mettere un’offerta nel famoso cappello. Anche dopo, quando padre Marella non c’era più e c’erano i suoi successori; al punto che persino a me – che sono nato 18 anni dopo la sua morte – sembra di averlo conosciuto, perché ripetevo quel gesto con la mia nonna.

Ma padre Marella non era solo il prete stravagante, fermo per ore a chiedere l’elemosina col suo cappello in quel cantuccio del Quadrilatero bolognese, come lo ritrae la sua foto più celebre. Quell’uomo era anche un esperto di diritto, un pedagogista e un filosofo.

Quando scoprii che padre Marella era stato un filosofo e professore del Liceo Minghetti rimasi esterrefatto. Quel vecchietto barbuto che sembrava un mendicante era, in realtà, una mente sopraffina e un visionario della pedagogia. «Ma allora, perché faceva il mendicante?!». Fu così che imparai che non chiedeva l’elemosina per sé, ma scuoteva la coscienza dei bolognesi, ed era amico dei poveri e un padre per i ragazzi e i giovani di Bologna. Lo ha sempre fatto nel nome di Gesù.

Questa scoperta che ha attraversato le generazioni di famiglia, mi ha spinto a scrivere un pensiero proprio a voi, ragazzi e giovani.

Padre Marella, infatti, ha per così dire iniziato la sua carriera da santo proprio attraverso l’educazione dei ragazzi e dei giovani. Era un antesignano e un profeta. Credeva fermamente nella formazione della coscienza, nel suo primato e – di conseguenza – nella libertà personale, quando ancora prevaleva l’idea che i giovani dovessero solo obbedire. Pensate cosa avrebbe potuto rappresentare questo – se fosse stato preso ancora più sul serio – di fronte ai drammi della Prima e della Seconda Guerra Mondiale! Per rimanere fedele a questi principi che insegnava e testimoniava ha accettato di pagare di persona, ingiustamente, per sedici anni.

Cosa voglio dirvi, allora, in questo giorno in cui lui viene proclamato esempio di vita cristiana nella piazza della nostra città? Che la beatificazione di padre Marella non è solo una roba per gli anziani che l’hanno conosciuto. Non è una cosa come le tante che non vi riguardano.

La giornata di oggi è come una stele issata in mezzo a Piazza Maggiore che vi ricorda questi tre passaggi fondamentali per la vostra esistenza.

1)La vostra coscienza è la cosa più preziosa che avete. Questa misteriosa sensibilità di sintesi tra le esperienze, quello che capiamo e quello che sentiamo che si chiama appunto “coscienza” va formata: va nutrita ogni giorno come il vostro organismo, va allenata con metodo come i vostri muscoli, bisogna cercare la perfezione come nelle vostre storie Instagram o nei video di Tik Tok che vogliono più follower.

2)La coscienza ben formata – non quella che si fa imbambolare da qualunque imbecille – ha un primato che nessuno le può togliere. È la via per essere padroni della vostra vita. Non è vero che siamo per forza condizionati; è vero, piuttosto, che pochi si curano di avere una coscienza forte e ben formata, capace di decidere e di orientare consapevolmente la propria esistenza.

3)Non c’è cosa più preziosa, per Dio e per ogni persona seria, che uomini e donne liberi. Ma la libertà, quella vera, quella di amare, di servire, di rendere gli altri migliori mentre allo stesso tempo si edifica il proprio cammino, è ancora una volta frutto di un grande lavoro su se stessi, sulla propria coscienza e sui propri comportamenti.

Ricapitolando, il giorno di padre Marella vi riconsegna queste tre cose: la coscienza, la formazione, la libertà. Abbiatene cura. Coltivare la fede cristiana vi aiuterà a farlo.

E se non credete che quel vecchio mendicante col cappello in mano fosse davvero così e avesse la grande cura per i ragazzi di cui vi ho parlato… beh, chiedetelo a uno di loro.

Uno di quelli che padre Marella ha cresciuto, che ha accompagnato nei passi importanti della vita e che è diventato anche suo vero amico lo conoscete: è don Valeriano.

Con amicizia,

d. Davide




L’anomala normalità

Della compassione come via

L’insegnamento di Gesù, nel vangelo di questa domenica, ruota attorno al tema della compassione. “Il padrone ebbe compassione del servo” e, al termine del racconto, chiede allo stesso servo: “non dovevi anche tu avere compassione del tuo compagno?”.

Questa domenica fa da spartiacque: iniziamo un periodo importantissimo e difficile. Domani riprendono le scuole, con le complicazioni enormi e i rischi inevitabili legati al perdurare dell’emergenza sanitaria. Tuttavia, i nostri ragazzi andranno finalmente a scuola, nel loro luogo più proprio. Era un assenza che durava dal 27 febbraio, una situazione davvero impressionante a pensarla in circostanze normali. Qualcuno ha vissuto i passaggi della fine dei cicli scolastici, che sono tra i più indimenticabili della vita, senza nemmeno potere fare una festa o salutare “in balotta” (come diciamo a Bologna) i propri amici.

Ci piacerebbe che tutti gli studenti e le studentesse sentissero una speciale vicinanza a quest’esperienza così difficile: una tenerezza per quello che è stato e come l’hanno affrontato, e quasi una commozione a vederli di nuovo varcare i cancelli dei loro istituti, in compagnia degli amici.

Anche il mondo universitario riprende con coraggio le lezioni in presenza. In generale, la fine delle vacanze estive segna inconfutabilmente un confronto con quella “normalità” che, dai mesi della quarantena nazionale, non era più stata piena: un’anomala normalità, nei mesi che ci attendono.

Ugualmente, anche la nostra parrocchia si cimenta con l’orario ordinario delle messe, che non era più stato tale dal 27 febbraio, con la ripresa del catechismo, la programmazione dei gruppi, il tentativo di fare ripartire il doposcuola, l’impegno della San Vincenzo e lo sforzo di non fermare gli aiuti della Caritas.

Vorrei che tutti avessimo uno sguardo di compassione su questi sforzi – nostri, del mondo ecclesiale, e quelli di fuori, dell’impegno della società civile – pensando che ognuno stia provando a fare il meglio che può, con la consapevolezza di sé, la maturità e l’equilibrio che è riuscito a raggiungere fino a quel punto della propria vita.

Questo atteggiamento esige che la compassione entri in circolo. Nelle istruzioni di Gesù, il rimprovero per quelli che arrestano questa circolazione della bontà è severo: “Non dovevi anche tu avere pietà del tuo compagno?”.

Non abbiamo bisogno di durezze, ma di un’umanità tenera.

Non abbiamo bisogno di convinzioni granitiche, ma di cuori aperti.

Non abbiamo bisogno di affermare noi stessi, ma di capire come possiamo fare i passi insieme.

Concretamente, credo che ci siano alcuni atteggiamenti molto pratici che possiamo tenere presenti.
1) Attenzione e delicatezza per chi si sente ancora poco sicuro rispetto alla pandemia e magari affaticato da qualche turbamento o ansia. Non bisogna sminuire affatto questi nostri fratelli e sorelle e non bisogna farli sentire in difficoltà. Occorre fare uno sforzo ulteriore di rispettare le norme sanitarie: l’utilizzo della mascherina, il rispetto della “giusta vicinanza”, il garbo e l’attenzione di mettere a proprio agio l’altro.

2) L’esercizio della comprensione. In parrocchia, a scuola, negli uffici e nei posti di lavoro… sicuramente c’è stato lo sforzo di provare ad affrontare le difficoltà. Anche dove l’organizzazione non fosse perfetta, magari c’era qualcuno che anelava al meglio. Non bisogna “farsi andare bene tutto”, ma provare ad essere radicalmente costruttivi.

3) Una sigla: ARP. Assoluta – responsabilità – personale. Cosa posso fare io? Questa domanda dovrebbe essere come una giaculatoria, o un mantra. Come posso dare una mano? Cosa posso fare io per migliorare la situazione o impedire altre difficoltà. Cosa devo fare io per tenermi centrato, in forma fisicamente e spiritualmente, per essere pronto a fare la mia parte in questa sfida che tutti stiamo vivendo?

Il padrone della parabola risponde a queste domande dicendo: “Io sono ricco e potente, una cosa posso esercitare: la compassione.” E lo fa.

Vale anche per noi.

La compassione è la nostra via.

Don Davide




Ti ho posto come sentinella

“Ti ho posto come sentinella.” (Ez 33,7)

Sento forte la suggestione di questa immagine. Il testo pensa al ruolo della sentinella nell’ambito della correzione fraterna, che è il vero tema delle letture di questa domenica.

Tuttavia, vorrei dilatare questo spunto in rapporto alle settimane e ai mesi che ci attendono. La sentinella, infatti, è colei che fa la guardia, cioè vigila che non ci sia un’effrazione e che non accada qualcosa di brutto, ma – in tutta la Scrittura – è anche colei che sta di vedetta, cioè attende l’alba.

Da domani (lunedì 7 settembre) riprenderà l’orario normale delle messe feriali e festive e della segreteria (mattina e pomeriggio) che è il segno del ritmo ordinario della vita della parrocchia e delle attività pastorali.

Significa “iniziare di nuovo” o meglio, come abbiamo scritto sul sito nei giorni subito dopo la quarantena collettiva, significa “rinascere dall’alto”, farsi rigenerare dallo Spirito. È comunque uno scatto in avanti, dopo mesi così particolari e per certi versi assurdi, che ci hanno messo alla prova, ma anche forgiato; che avremmo volentieri evitato, ma da cui abbiamo anche imparato.

Sappiamo che l’emergenza sanitaria non è finita, quindi rimettersi in gioco richiede un surplus di attenzione e di impegno, e anche una certa capacità di adattamento e di fare fronte a una preoccupazione latente che accompagna ogni progetto. Tuttavia non se ne può fare a meno, non tanto per questioni economiche – come tutti dicono – ma perché abbiamo bisogno di vita autentica e di comunione.

In quest’ottica l’immagine della sentinella diventa per ciascuno di noi una vocazione e un incoraggiamento.

“Io ti ho posto come sentinella” significa che ciascuno di noi è chiamato “a fare la guardia” perché non succeda qualcosa di brutto, e anche a “scrutare le prime luci del mattino” e preparare attivamente l’attesa dell’alba… quando potremo dire che l’emergenza sanitaria è finita, sperando di avere imparato tutto quello che c’era da imparare.

Dobbiamo vigilare e vegliare sui nostri fratelli e sorelle, non solo perché non si ammalino di Covid-19, ma anche perché non si ammalino d’ansia, di demotivazione, di solitudine. Allo stesso tempo dobbiamo rimboccarci le maniche, per preparare una vita più sana, non solo dalle malattie del corpo, ma anche da quelle dello spirito, che avvelenano le relazioni e la nostra fede.

Prudenza e intraprendenza sono due parole che potrebbero guidarci.

Vedo un particolare tipo di “carità fraterna” proprio in questa capacità di aiutarci gli uni gli altri e sostenerci, affinché possiamo vincere le ansie da contagio, sostenerci nel riprendere i progetti belli e le attività positive, con le attenzioni necessarie a gestire le difficoltà, ma senza paure.

Dobbiamo aiutarci, perché qualcuno ha bisogno di essere rassicurato, qualcuno ha bisogno di essere più coraggioso e qualcuno più prudente. Tutti dobbiamo avere in mente di edificare la nostra comunità, consapevoli dei limiti imposti dalla situazione, delle nostre debolezze, ma anche della chiamata all’amore che non viene mai meno.

Infatti, come scrive san Paolo nella seconda lettura: «Qualsiasi comandamento si ricapitola in questa parola: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. La carità non fa nessun male al prossimo…” (Rm 13,9-10).

Don Davide




Questione di sguardi

Possiamo solo provare a immaginare cosa abbia significato per Gesù venire a sapere dell’uccisione di Giovanni Battista ad opera del re di Israele, sebbene un re fantoccio.

Il re che disprezza e uccide i profeti, nella storia di Israele, era memoria di devastazione e rovina: era la causa dell’esilio.

In più, Gesù era legato a Giovanni non solo da affetto famigliare (erano cugini), ma anche da una singolare comprensione della propria vocazione: erano due personalità uniche, che sentivano la responsabilità di dichiarare la venuta del Regno di Dio. Avevano il carisma per farlo e la fede che li sosteneva, eppure si trovavano in mezzo a mille contraddizioni.

Ora Gesù viene a sapere che suo cugino, il suo amico, il suo mentore, il suo apripista era stato ucciso. Come dev’essere stato profondo il suo senso di solitudine e il suo sgomento?

Gesù, come diciamo noi, a questo punto avrebbe bisogno di “staccare”. Si ritira, salendo su una barca e cercando una sponda isolata, dove non ci sia molo né attracco, in modo da non potere essere raggiunto. Lo immaginiamo contemplare le sponde del lago, i monti di Galilea, col pensiero che quei luoghi saranno la culla del messaggio che ormai, inesorabilmente, sta dilagando. È partito da Nazareth, è arrivato fino a Cafarnao e ha fatto il giro delle sponde del lago, poi ha rimbombato di nuovo in Galilea, Samaria… fino in Giudea, a Gerusalemme. Gesù, sulla barca nel lago, in quel breve ritiro, contempla il seme divino che sta per nascere nel mondo.

Ma ecco: viene subito raggiunto da una grande folla e non pensa che voleva riposarsi; pensa a quanto è grande l’umanità, a quanta distonia c’è ancora con il regno di Dio annunciato: ci sono poveri, gente ammalata, oppressi e oppressori… Gesù sente la compassione proprio per questa immensa moltitudine che ancora non gode della presenza del regno di Dio, del suo amore in noi che ci converte e pian piano, quando è accolto e dato, risana tutto. Come potranno credere, costoro, all’amore di Dio se nessuno li cura? Come potranno vedere il suo regno se nessuno li ama? Ecco: “sentì compassione per loro e guarì i loro malati”.

Ma viene la sera. In quei momenti il tempo fugge ed è ora di tornare alle cose concrete. Bisogna mangiare e si sa: il cibo è lavoro, il lavoro è fatica e spesso non ce n’è per tutti.

A questo punto, fra il Maestro e i discepoli si marca una differenza. Questi sono sulla terra, Gesù sembra rapito in cielo: “Non c’è bisogno di congedarli” dice, come se vedesse l’invisibile. I suoi occhi sono fissi sul regno di Dio, che sta facendo irruzione. Nessuno lo vede, lui sì. Da quando ha visto la colomba scendere su di lui, il giorno del battesimo al Giordano, sembra avere sempre questo sguardo fisso sulle cose e sulle persone, specialmente nei momenti più delicati.

“Abbiamo una miseria!” protestano i suoi.

Gesù guarda questi cinque pani e due pesci. Li capisce i suoi discepoli, poveri. Non sono negligenti, sono solo nella medesima difficoltà in cui saranno tutti i discepoli per i secoli a venire, sempre: quelli che soffriranno perché non ci saranno cibo e acqua per tutti, cure per tutti, assistenza spirituale per tutti, abbastanza benessere per tutti; quelli che si sgomenteranno e si sentiranno in difetto perché non fanno abbastanza… Questi discepoli di ogni tempo, che siamo anche ciascuno di noi, non sanno come fare e non rimane che chiedere a ciascuno che si arrangi a fare la propria parte.

Ma Gesù… Lui vede cinque pani e due pesci… e là dove tutti noi percepiamo la mancanza, lui vive la fede nel Padre, che non fa mancare niente ai suoi figli. I re uccidono i buoni; le folle hanno bisogno; le forze sembrano non bastare per tutti, ma Gesù posa il suo sguardo sul regno di Dio che fa irruzione. Questa è la differenza fra lui e noi. E così, pronuncia la benedizione sul pasto, non per chiederne ancora, ma come se bastasse, come se ci fosse un buffet calcolato per tutti gli ospiti: “Benedetto sei tu, Signore, che provvedi il cibo alle tue creature. Tu apri la tua mano e sazi la fame di ogni vivente. Ti ringraziamo per questo cibo che ci doni, fa che possiamo mangiarlo in condivisione e donarlo anche a chi non ce l’ha. Benedetto sei tu, Signore. Noi vogliamo sempre cantare la tua lode!”.

Capite qual è la magia che si sta compiendo? Mentre tutti vedono pochissimo, quasi nulla, Gesù vede la provvidenza del Padre per tutti. Vede il segno di chi si prende cura, Dio prima di tutto, per ciascuno di noi e benedice e ringrazia. E la magia si compie. Non la magia del prestigiatore o dell’alchimista, non il miracolo dell’uomo di Dio, ma la magia della vita, la magia delle fede che dà uno sguardo nuovo sul mondo.

Questione di sguardi. Nella maniera più assoluta.

Cerchiamo di immaginarci lo sguardo di Gesù con quei cinque pani e due pesci in mano e durante la sua preghiera. Fissiamo il nostro sguardo nel suo e cerchiamo di ripeterlo.

Don Davide




Come la pioggia e la neve

Siamo in piena estate e la liturgia della Parola, in questa domenica, inizia evocando la pioggia e la neve. Sembrano immagini lontane, ma proprio nei mesi più caldi e secchi dell’anno siamo aiutati a considerare la preziosità dell’acqua che disseta la terra e del ciclo delle stagioni.

La pioggia e la neve – dice il profeta Isaia – scendono dal cielo e irrigano e fecondano la terra, perché germogli, dia il seme e poi il raccolto. È una metafora stupenda e celebre, usata sempre per indicare l’efficacia della Parola di Dio, che non torna al cielo senza avere irrigato la vita di chi raggiunge.

Oggi, però, pensando all’estate, in questo paragone vorrei cogliere la dilazione del tempo. Tra l’autunno e l’inverno che preparano la terra irrigandola e la gioia del raccolto, passa un tempo lungo, di attesa, in cui l’agricoltore può curare un po’ il campo, ma non può operare più di tanto.

Mi sembra che nella pastorale delle nostre comunità, dovremmo riscoprire e coltivare il tempo lungo. La semina della parola – come ben manifesta la parabola evangelica, che pare esprimere un aspetto complementare a quello della prima lettura – è difficile. Nonostante l’abbondanza e la generosità del seminatore, che non è uno sprovveduto, c’è una difficoltà intrinseca in questa seminagione.

Lo dico in modo provocatorio, ma ho l’impressione che nel tempo che viviamo, invece, per evitare il rischio della dispersione dei semi e del periodo lungo per vedere il frutto, preferiamo fare come l’esperimento scientifico per eccellenza di tutti i bimbi, cioé mettere il semino in un bicchiere con un po’ di cotone, per vedere il germoglio e la piantina e dire: “Wow!”. I bimbi, giustamente, ne rimangono meravigliati, ma gli adulti sanno che non si raccoglierà nulla da quella piantina… ma è come se ci rassicurasse vedere qualcosa.

Lo si fa con il catechismo, in cui ci rassicura vedere i bimbi nei quattro anni del catechismo, ma sapendo che poi – sia per loro che per le loro famiglie – rimane ben poco di quella esperienza.

Lo si fa con i ragazzi e i giovani, con i quali usiamo quasi sempre il criterio del “così vengono”, ma alla fine non insegniamo loro a pregare, la vita spirituale, il valore dei sacramenti, di avere una guida. Fare queste cose “spirituali” è difficile: è impopolare, non interessano, ci vuole tempo… mi chiedo, però, se non siano proprio questi percorsi difficili a manifestare l’efficacia di cui parla il profeta Isaia. Quando questi ragazzi saranno diventati uomini e donne, che cosa li aiuterà?

Anche la carità corre lo stesso pericolo. Sembra che sia l’unica cosa che conti nella Chiesa, agli occhi del mondo: della fede cristiana non interessa più niente, anzi, non di rado si manifesta un certo fastidio, però la Chiesa che fa tanta carità piace a tutti: “Così dovrebbe essere!” si dice. Ma cosa sostiene la carità? Tutte le persone che animano in maniera non improvvisata, costante e con sapiente dedizione la carità, sono persone che sanno precisamente il motivo per cui lo fanno: per Gesù. Gli altri ci girano attorno, ma se non ci fossero i primi, l’immenso impianto della carità nella Chiesa semplicemente crollerebbe.

seminaAllora, cosa dobbiamo fare? La semina della Parola di Dio è difficile e, diciamolo senza mezzi termini, è fuori moda. Ma pare che Gesù non abbia escluso questa eventualità, citando il profeta Isaia.

“A chi ha sarà dato, e sarà nell’abbondanza, ma a colui che non ha sarà tolto anche quello che ha.” È una delle frasi più scandalose e irritanti del Vangelo, a fronte di un certo modo di pensare in termini di aurea mediocritas. Ma quello che vuole dire Gesù, parlando della Parola di Dio, è che la Parola è legata a un desiderio e la ricchezza cristiana a un’adesione. Chi rifiuta questo tesoro, si troverà sprovvisto e non ne rimarrà nulla. Chi invece lo cerca e vi si apre, a prezzo di fatica e pazientando nel tempo lungo, non avrà nemmeno bisogno di scoprirlo, ma sarà ricolmato di ricchezza.

Don Davide




Estate 21-06-2020

Inizia l’estate e Gesù nel vangelo di oggi usa l’immagine dei passerotti, anche loro custoditi dal Padre di tutti, che è nei cieli.

Dovrebbe essere lo spunto per una sorta di mindfulness cristiana: fermarsi a guardare il volo dei passerotti. Essi volano allegri, non un gesto solenne ed estremo come quello dei rapaci, ma un movimento più semplice, dedito alla ricerca di cibo e alla libertà dell’aria. Dio si prende cura di questa loro esistenza umile.

Allo stesso modo, possiamo immaginare di fermarci con il volto rivolto verso il sole e, senza mascherina, inspirare l’aria d’estate. Ascoltare il canto degli uccelli e, quando arriverà il caldo vero, il frinire dei grilli e delle cicale. E pensare che come il Sole, così splende su di noi l’amore del Padre. È possibile che ogni tanto non si veda il Sole, che sia oscurato dalle nuvole: nondimeno, sappiamo che è la sua energia che sostiene il mondo, anche nella peggiore giornata d’inverno, e che, se per qualche ragione il Sole smettesse di emanare i suoi raggi sulla Terra, il pianeta collasserebbe all’istante. Ma, in realtà, nessuno dubita che il Sole continuerà a bruciare e a emanare il suo calore per svariati miliardi di anni.

Così è l’amore di Dio. Anche quando appare nascosto, mantiene tutto nell’esistenza. Anche se non lo vediamo è lui che continua a dar vita al nostro cuore.

La luce, il calore e i colori dell’estate ci servano a richiamare quest’energia sovrana, che è tanto vasta da abitare il globo, e tanto personale da essere premurosa per ciascuno di noi.

È grazie a questa conferma di quanto sia voluta e preziosa la nostra esistenza per Dio – conferma che ci ricorda Gesù in ogni sua parola e in ogni suo gesto – che possiamo non vivere nel buio e nel nascondimento, ma cercare di essere autentici.

Per lo stesso motivo, siamo incoraggiati a non lasciarci coinvolgere nelle trame nascoste, ma ad essere solari e limpidi, come una giornata tersa d’estate.

Infine, è il ricordo del volo dei passerotti che ci fa sentire liberi da ogni paura. Nessuno ci potrà fare del male, anche chi volesse farcelo davvero. La nostra vita è ancorata ad un’esistenza più profonda, più radicale e più libera.

Vorrei che per tutti il tempo dell’estate fosse l’occasione di coltivare un po’ questa sorgente spirituale.

Vi propongo, quando andrete al mare o in montagna, o in un viaggio nella nostra bella Italia, di sostare su qualche piccolo sguardo dove il particolare tocca l’universale: il moto delle onde, un bambino che gioca con la sabbia, la croce sulla cima di una montagna, il pascolo delle mucche, il cameriere che versa un buon vino toscano, i cipressi in contrasto su un campo di girasoli… tutto ci può confermare dell’energia dell’amore di Dio che sostiene il mondo.

Lasciamo che questa consapevolezza entri in noi e permei il nostro spirito e – come quando rimaniamo esposti al sole e ne sentiamo il calore sulle guance – cerchiamo di percepire Dio stesso che ci accarezza.

Don Davide




Conoscere il cuore

Cosa c’è nel nostro cuore?
È una risposta difficilissima da dare, perché spesso amiamo rappresentarci meglio di quello che siamo o tendiamo ad essere più severi del dovuto.
Inoltre, per capire cosa ha il potere di rimanere saldo, di esserci, anche di fronte alle difficoltà e ai momenti in cui non tutto viene naturale, abbiamo bisogno di metterci alla prova. Come uno sciatore che verifica le sue abilità quando la pista diventa più ripida o uno studente che voglia concentrarsi in mezzo alla confusione.
Vivere una pandemia è stata ed è tuttora sicuramente una prova, non voluta da Dio, non da leggere con qualche strana interpretazione. Ma durante l’epidemia abbiamo avuto modo di verificare cosa c’era nel nostro cuore.
Chi erano le persone che ci mancavano di più? A chi vogliamo più bene? Quali sono le nostre priorità? Siamo abbastanza forti da tenere il timone delle nostre giornate o ci abbandoniamo allo scorrere casuale del tempo? Che rapporto abbiamo con la malattia e la morte? Ci teniamo al Signore? Siamo riusciti a ritagliare un po’ di tempo per l’incontro con Gesù, oppure abbiamo scoperto che “non abbiamo tempo” è una scusa per mascherare che non ci teniamo abbastanza?
Tutte queste domande appartengono alla riflessione del Deuteronomio, nella prima lettura: il tempo della prova ci svela, prima di tutto a noi stessi.
In questa meditazione si dice a un certo punto: “Non dimenticare il Signore”. La sapienza biblica è – come sempre – meravigliosa. Non si dice qui: “Metti il Signore al primo posto!” oppure: “Ti devi dedicare solo al Signore!”. Più saggiamente si dice: “Non dimenticare!”, ossia: “Tra le altre cose che fanno parte della vita, tu non trascurare di dare il posto giusto al Signore…”
Sul modello dell’Esodo viene riletta ogni esperienza umana: è lui che ci libera dalle schiavitù, molte anche quelle che ci auto imponiamo. È lui che ci aiuta ad attraversare momenti di deserto, di solitudine e di spavento, come ad esempio la quarantena. È sempre lui che in un mondo dove i serpenti e gli scorpioni non mancano guida i passi per non essere avvelenati a morte. È ancora lui che nelle solitudini che proviamo quando il senso delle cose si dissolve, ci disseta con una prospettiva, una speranza. È lui, infine, che è in grado di sondare il nostro cuore a delle profondità che nessuna parola umana può raggiungere e fare sgorgare l’acqua “dalla roccia durissima”: ossia, guarire ciò che sembra irraggiungibile, irrigare ciò che è sempre arido, scavare la roccia impenetrabile.
In questa domenica del Corpus Domini vorrei allora proporvi una serie di domande ispirate dalle letture di questa solennità, come strumento per verificare cosa c’è nel nostro cuore. Per chi verrà alla messa, la useremo come Professione di Fede da fare insieme.

Credete nel primato della Parola di Dio,
da ascoltare, leggere, meditare e pregare frequentemente,
personalmente e nell’assemblea liturgica,
che ha il potere di toccare le parti più profonde di noi e di irrigare il nostro cuore?

Credete nell’Eucaristia,
come comunione reale al sangue delle vittime,
condivisione delle sorti di tutti gli uomini, specialmente i più poveri e affaticati,
e custodia dell’unico corpo che abbiamo tutti insieme: il nostro pianeta?

Credete che Gesù è il lievito della nostra vita,
colui che ci fa crescere come uomini e come donne
e ci chiama ad essere suoi testimoni nel mondo,
e che il modo migliore di impastarci con lui
è di prendere parte attivamente alla celebrazione eucaristica?

Questa è la nostra riposta di fede all’ascolto della tua parola, Signore.
Crediamo in te, Signore Gesù
e con te, desideriamo tendere verso la pienezza di vita. Amen.




Il trono della misericordia

Ma alla Santissima Trinità, eterna in se stessa, perfetta senza il bisogno di altro, intimità, relazione e comunione al suo interno, traboccante di amore per la Creazione all’esterno… può interessare qualcosa dei nostri problemi con la pandemia?

La risposta è certamente sì, ma l’idea è che la formulazione del dogma della Santissima Trinità sia un po’ fuorviante. Verrebbe da pensare che una realtà così immensa, sublime e infinitamente oltre ogni dimensione creaturale, sia anche inevitabilmente lontana da noi.

Forse, come un re buono che si chinasse con favore sull’ultimo dei suoi sudditi, potremmo pensare che Dio possa avere compassione di noi, ma appunto in un contesto di infinita distanza che è colmata solo dalla sua compassione. Quanto a noi, la Trinità rimarrebbe totalmente inaccessibile, come quel suddito che non oserebbe alzare lo sguardo al suo re.

Invece, dovremmo pensare che la Santissima Trinità è un grande racconto del Dio vicino.

Per entrare nella storia, e non guardarla solo con benevolenza dall’alto, Dio ho toccato il cuore di alcuni uomini liberi e si è messo in rapporto con un popolo concreto. Ne ha accettato tutte le contraddizioni per educarlo; si è sporcato i piedi su molte rotte, ha camminato con lui, lo ha ripreso infinite volte, fino a che non fosse preparato uno spazio totalmente umano, nel grembo non di un’icona di santità, ma una ragazza vera come tutte le altre ragazze di Nazaret.

Come se il re avesse fatto scambio con l’ultimo dei servi in cucina per condividerne la fatica e conoscerne l’impegno, in Gesù, Dio non si è lavato le mani come Pilato, ma se le è sporcate con le piaghe degli uomini e persino con le loro miserie. E mentre si sporcava le mani, lavava i piedi di coloro a cui veniva in soccorso, perché fosse chiaro a tutti che Dio era al lavoro per permettere a loro di riposare. Eppure, le mani di Dio sono mani trasfigurate: conservano i segni delle piaghe, ma sono mani pulitissime e belle… ci hanno insegnato a impastare la farina, ad accarezzare una pecora intimorita o un leone ammansito, sono le mani che fasciano, che benedicono, che abbracciano, che promettono e che indicano traguardi.

Per essere in noi ad ogni respiro, poi, Dio si è fatto Spirito. Delicatissimo, ma indispensabile. Nascosto quando stiamo bene; evidente quando è più freddo. Quando c’è un inno alla vita nelle nostre esistenze è sempre lo Spirito di Dio che si fa vicinissimo e che guida il futuro.

La Santissima Trinità è la storia di Dio con noi, la storia della sua opera con l’uomo, nelle ore del giorno, in attesa di potersi riposare insieme nell’abbraccio l’uno dell’altra. Un esito di intimità, non di distanza, che possiamo custodire nella memoria e nel cuore con queste magnifiche parole del Talmud:

Dodici sono le ore del giorno:
nelle prime tre il Santo,
benedetto egli sia, si dedica alla Torah;
nelle seconde tre giudica tutto il mondo
e quando vede che questo meriterebbe la distruzione,
si alza dal trono del Giudizio
e siede su quello della Misericordia.

Don Davide




Pentecoste

È una Pentecoste molto particolare quella che ci apprestiamo a celebrare, perché piena di contrasti e per questo intensa nel richiamo allo Spirito. 

Il respiro è il grande imputato dell’epidemia: è una malattia che si trasmette per via aerea e colpisce a sua volta le vie respiratorie. Invece, lo Spirito è il respiro che dà la vita.  

Il presidio più sicuro è la mascherina, che però a sua volta affatica il respiro ed appare quasi un bavaglio, copre parte del volto. Invece lo Spirito è l’energia della vita, che ha fatto parlare i discepoli – divenuti apostoli – con coraggio e a viso scoperto. 

Siamo ingabbiati in tanti protocolli, che peraltro ci aiutano a lavorare e ad avere una vita quasi normale. Invece, lo Spirito è libertà. 

Vale la pena rileggere San Paolo: “Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore.” (2Cor 3,17-18) 

 Lo Spirito Santo è proprio questo scarto tra il mondo come è e il mondo come viene trasformato da Dio. Lo Spirito è questo surplus, una forza che non ci appartiene, la Creazione Nuova di Dio che ci viene data realmente, ma in dono.  

Lo Spirito Santo è la riserva, mai consunta, contro tutte le forze di morte.  

Possiamo, appunto, essere preoccupati del respiro volatile che gira nell’aria, essere costretti a coprirci la bocca e parte del volto, irrigidirci nei protocolli: nondimeno, lo Spirito del Signore ci fa respirare a pieni polmoni, ci permette di essere noi stessi e di parlare liberamente con gli amici, ci tiene liberi, anche se fossimo in prigione. 

Non è un invito a trasgredire le regole di prudenza, ma la consapevolezza, che la rivoluzione radicale inizia nel nostro spirito, abitato dallo Spirito di Dio.  

Anche in questo caso possiamo riascoltare le parole di San Paolo, che interpreta perfettamente questa “riserva spirituale” che ci fa vivere: “Siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; feriti, ma non uccisi (…) siamo afflitti, ma sempre lieti; poveri, facciamo ricchi molti; sembriamo gente che non ha nulla e invece possiamo tutto!” (2Cor 4,8-9; 6,9-10) 

PentecosteQuesto vuole dire che non dobbiamo mai abbatterci o sentirci sconfitti: può darsi che siamo tristi, per qualsiasi ragione, ma possiamo tornare ad essere felici; potremmo avere fatto un grave errore, ma non c’è niente di irrimediabile; potrebbe accadere che ci sentiamo in difetto, o che siamo sopraffatti da qualcosa di negativo o dalla nostra debolezza, ma questa situazione non dice la verità della nostra esistenza. 

C’è di più. Questo di più di bene, di amore, di capacità e di dignità ce lo svela lo Spirito che viene ad abitare in noi e, se dovesse mancare qualcosa, lui – con la nostra apertura interiore – è in grado di crearlo e di trasformarci. 

 E anche nel cammino della Chiesa valgono le parole di San Paolo. Abbiamo vissuto una grande tribolazione, insieme a tutti, la vita cristiana è affaticata, disattesa. Le nostre comunità riescono a creare poco coinvolgimento. I giovani spariscono o sono già spariti. 

Ma continua ad esserci una riserva di cuori e di volontà al servizio di Dio, impegnati nella trasmissione della fede, col fuoco della carità per chi è nel bisogno. 

Immagino lo Spirito, in questo giorno di Pentecoste, come nel primo istante della Creazione. Mentre tutto è nel caos, lo Spirito torna a mettere ordine nelle cose e a preparare una comunità che, fraterna in ogni parte del mondo, esprima la lode di Dio.  

Don Davide




Avrete forza dallo Spirito Santo

“Finalmente, Signore! È questo il tempo in cui rimetti a posto le cose? In cui si torna a messa senza mascherina, il catechismo riprende con migliaia di bambini, facciamo l’ER e i campi… ci abbracciamo e ci baciamo!”

“Ma, veramente… – obietta il Signore – io non ho detto questo!

Delusione dei discepoli. “Cavoli, ci avevamo sperato!” esclamano schioccando le dita.

“Quello che vi posso dire – dice il Risorto – è che vi sarà data la forza: sì avrete forza dallo Spirito Santo che vi sosterrà e vi aiuterà ad essere miei discepoli e testimoni anche in questa situazione che continua ad essere complicata.”

Ho riadattato questo dialogo tra i discepoli e Gesù, prima della sua ascensione, immaginandolo contemporaneo.

È un giorno di festa, questo, e strano, perché torniamo a celebrare insieme la Pasqua della settimana dopo quasi tre mesi. Non ci rendiamo mai abbastanza conto di cosa questo abbia significato e di cosa comporterà per il futuro. Basti pensare che dal tempo delle persecuzioni in poi, non era mai accaduto che non si potesse celebrate l’Eucaristia insieme.

È inutile fare finta di niente. Le nostre comunità ne escono e ne usciranno ferite. Al di là della retorica di una certa resilienza, questo fatto avrà conseguenze sulla vita della chiesa nei prossimi anni.

Il grande impianto della chiesa in occidente, che già scricchiolava in molti modi, è parso crollare da un giorno all’altro insieme a quello del mondo.

Tutto chiuso.

E anche adesso che qualcosa sta riaprendo… Come faremo? Le assemblee, le feste, gli incontri, gli abbracci, la vita insieme… Che ne sarà?

Spirito“Tranquilli! – siamo tentati di dire noi, come i discepoli – Ecco è passato! È questo il tempo in cui il Signore ricostituirà il suo regno!”. Il suo regno, che in realtà è il nostro regno, il nostro modo di pensare, sono le sicurezze dei discepoli.

Ma Gesù ci dice: “Tranquilli sì, non perché sarete confermati nelle vostre certezze rassicuranti, ma perché se scegliete di aprirvi allo Spirito, allora scoprirete orizzonti più ampi. Io intanto vin garantisco di esservi vicino, di stare con voi, anche di consolarvi, quando ne avrete bisogno. Per il resto, forse, bisogna accettare che appaiano altre urgenze, altri bisogni su cui riedificare la chiesa e ricostruire la nostra pastorale.”

Oggi abbiamo ripreso o riprenderemo a celebrare la Domenica insieme. Considerato questo sconquassamento, ho sentito l’esigenza di intervenire in modo vistoso sulla liturgia, soprattutto perché i testi possano esprimere il vissuto. Questo non è stato un tradimento della sublimità liturgica, ma lo sforzo di prendere sul serio la presenza concreta del popolo nella celebrazione. Come dirò anche a messa, per adesso vorrei esservi vicino e dirvi una parola affettuosa e di incoraggiamento, come fanno un papà o una mamma, semplicemente, dopo che i figli hanno passato un brutto spavento.

Il peggio magari è alle spalle, ma c’è come un’ombra lunga di quell’inquietudine, e quindi il bisogno di sentirsi garantiti in uno spazio dove si possa tornare sereni.

Don Davide