Avvento

Candele dell'Avvento 2018Tra i tempi liturgici che celebriamo lungo l’anno, l’Avvento è quello che ha iniziato ad esistere per ultimo.

I cristiani, all’inizio, cominciarono a riunirsi alla domenica per celebrare e condividere la fede in Gesù morto e risorto attraverso l’Eucaristia. Poi, iniziarono a celebrare una volta all’anno l’anniversario della morte e risurrezione con la festa della Pasqua.

Organizzarono, successivamente, la Settimana Santa e un tempo per celebrare con maggior ampiezza, la vita nuova di Cristo risorto: il tempo pasquale e un tempo di preparazione: la Quaresima.

Nell’anno 354 appare indicata per la prima volta come festa il 25 dicembre, che coincideva con la festa romana del “giorno del Sole” (la festa dei giorni che iniziano ad allungarsi), una festa che commemorava la nascita di Gesù e da qui nacque l’Avvento per il desiderio di prepararne la celebrazione.

L’Avvento è quindi il tempo liturgico di preparazione al Natale, in cui si ricorda la prima venuta del Figlio di Dio fra gli uomini e contemporaneamente è il tempo in cui, attraverso tale ricordo, lo spirito viene guidato all’attesa della seconda venuta del Cristo alla fine dei tempi.

Il tempo di Avvento comprende quattro domeniche: nella prima si contempla la gloriosa manifestazione del Salvatore alla fine dei tempi; nella seconda la persona e la predicazione di Giovanni Battista; nella terza, chiamata anche “domenica della gioia”, l’attenzione è ancora sul ministero del Battista. La quarta domenica di Avvento, ripropone gli eventi che precedettero immediatamente la Nascita di Cristo: contempliamo Maria, la Madre di Dio che porta al mondo il figlio suo, come anche Giuseppe, suo sposo.

La comunità parrocchiale è invitata a scandire queste quattro settimane meditando una parola ispirata all’Enciclica Laudato si’ di papa Francesco, mentre i ragazzi del catechismo faranno un percorso su altrettante parole, analoghe, che evocano l’ambientazione giocosa della cucina e lo slogan di prenderci gusto, secondo questo schema:

  ADULTI CATECHISMO
1 sett. SOLIDARIETA’ EUFORIA
2 sett. URGENZA MANI IN PASTA
3 sett. UGUAGLIANZA ATTESA
4 sett. PROFUMO SOBRIETA’

L’euforia del clima natalizio riverbera o dovrebbe riverberare la solidarietà di cui parla papa Francesco come via di fraternità e di nuova amicizia, che dovrebbe essere vissuta più facilmente proprio nel tempo di Natale.

L’urgenza ci richiama al bisogno di mettere le mani in pasta, di fare la nostra parte, di impegnarci nella storia di questo mondo, di non tirarci fuori.

L’attesa, tipica dell’avvicinamento alla festa di Natale, si esprime soprattutto come desiderio di uguaglianza. Attendiamo che tutti gli uomini siano uguali, che ci sia giustizia, diritti e pace per tutti e che tutti possano avere le stesse condizioni di bene per vivere la festa con le persone amate.

Infine, la nuova sobrietà che auspica papa Francesco ha esattamente il profumo di ciò che è buono, ed esprime la vita del mondo e di ogni uomo, come dovrebbe essere: qualcosa che non puzza, ma anzi, che profuma di buono!

Luciano e Isabella Bocchi

I catechisti e don Davide




Nella casa di Betania

Nella casa di BetaniaIo e don Valeriano siamo certamente Marta e Maria (Lc 10,38-42), con l’unica eccezione che io non rimprovero don Valeriano affinché mi aiuti (in verità lui fa tantissimo, per tutti noi) e lui non se ne sta solo a contemplare il Signore (privilegia la preghiera, ma non solo).

Io sono lieto e rassicurato che lui si goda “la parte migliore” e che nessuno si sogni di togliergliela. Ne sono lieto, perché dopo le fatiche del ministero, dovrebbe essere lo sbocco per tutti i preti di potere rimanere nella propria “famiglia”, regalando quel tocco di sapienza che la vita ha insegnato; ne sono rassicurato, perché anche se io talvolta mi trovo a trascurare “l’unica cosa necessaria”, so che la preghiera di don Valeriano non manca mai e sostiene la crescita nella fede e nel servizio di tutta la nostra comunità.

Così, nel quarto anniversario dell’inizio del mio servizio, mi gongolo di questa somiglianza della nostra parrocchia con la casa di Betania. Un luogo dove in modi diversi si cerca di essere attenti all’accoglienza di Gesù, accettando da lui anche le correzioni su come ciò possa essere fatto meglio.

In effetti sento il bisogno di un rapporto più intimo con lui, più raccolto nella preghiera, nell’ascolto della sua parola e nella contemplazione. Mi chiedo se in mezzo a piani pastorali, sinodi e prospettive missionarie, la parte migliore e l’unica necessaria non sia ritrovare un’amicizia affettuosa e personale con Gesù, che tutti ci mettiamo con gli strumenti della nostra personalità e creatività a costruire questo legame a tu per tu.

E poi, nella casa di Betania c’è un fratello – Lazzaro – che non compare nella famosa scena del Vangelo di Luca, ma che conosciamo bene dall’episodio del suo risuscitamento da parte di Gesù (Gv cap. 11).

Lì veniamo istruiti su un affetto fortissimo che lega i tre fratelli e su un’amicizia tra loro e Gesù unica in tutto il Vangelo (come abbiamo scritto nel bigliettino di Natale). Mi piace pensare, allora, che in questa casa di Betania c’è anche un “fratello” impegnato là fuori, nella vita di ogni giorno: un fratello che è simbolo di ciascuno di voi, un fratello per il quale si prova un affetto smodato e con il quale si condivide un amore unico per Gesù.

Nella casa di Betania e nei suoi dintorni, Gesù ripetutamente ha voluto che i suoi più cari amici aprissero gli occhi sul mistero di un amore e di una vita più forti della morte e noi, insieme, non potremmo desiderare nulla che corrisponda di più e meglio alla sua volontà.

Don Davide




La speranza della vita

La Commemorazione dei fedeli defunti è un giorno pieno di affetto e di nostalgia. Il ricordo delle persone care in alcuni casi è un pensiero sereno e grato, per una vita lunga e compiuta che ci ha lasciato tanto bene; in altri casi può essere una ferita aperta, un sentimento molto doloroso, per un addio precoce, per una sofferenza che ci ha scavato e per un lutto che non si riesce a superare.

La Chiesa celebra questa giornata subito dopo la Festa di tutti i Santi, proprio per inondare di speranza questo periodo commosso e mesto nella luce della resurrezione. Non celebriamo i morti, ma coloro che abbiamo amato con la fiducia che siano vivi insieme a Gesù e al Padre di tutti.

Qualcuno storce il naso sentendo parlare di commemorazione dei fedeli defunti: come – sembra dire – solo i fedeli, i credenti? Non ricordiamo tutti i defunti? E quelle povere persone che piangono la morte di qualcuno non credente? Per loro non ci sarebbe consolazione?! Ovviamente non è così. La dicitura “fedeli defunti” sta a indicare, come già accennato, che questo ricordo è nel contesto di una speranza e che la Chiesa vorrebbe sostenere tutti, amichevolmente e senza alcun atteggiamento di sfida, di giudizio o di rivalsa. La Chiesa universalizza il suo messaggio, condivide questo sguardo verso la vita eterna come un patrimonio comune, in modo che tutti possano celebrare una memoria consolata e che non faccia più male.

In quel giorno tutti commemorano i propri cari, tutti vanno al cimitero a portare un fiore, o dicono una preghiera o fanno un ricordo affettuoso, sia chi crede che chi non crede. In questa processione di tutti gli esseri umani sensibili, la Chiesa tiene accesa una luce, anche per chi fa più fatica a vederla.

Don Davide




I bimbi e i giovani

«Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò» (Mc 10,10). Questa breve citazione del Vangelo ci ricorda che al di là del politicamente corretto, accogliere i bambini non è facile. Tanto meno lo era al tempo di Gesù. La formula è fortissima: Gesù si indignò dell’atteggiamento dei discepoli. 

Questa settimana ricominciamo il catechismo: speriamo non solo che Gesù non si indigni, ma che anzi sia orgoglioso di noi. I bimbi sono allegri e adorabili per tanti aspetti, ma al catechismo sono anche tanti, chiassosi, a volte stanchi. Noi ci proponiamo di fare in modo che il tocco di Gesù raggiunga comunque tutti, che nessuno sia impedito di andare da lui. 

Chiedo, in questo, l’alleanza di tutta la comunità, la complicità delle famiglie, la stima, l’amicizia e la vicinanza per tutti i catechisti, la preghiera di tutti. Sappiate che c’è molto bisogno, perché da noi si verifica questo strano fenomeno: i bimbi aumentano e i catechisti diminuiscono! 

 Domenica scorsa è iniziato anche il cosiddetto Sinodo dei Giovani a Roma, in Vaticano. Anche il nostro vescovo Matteo è stato chiamato dal papa a partecipare. 

Le letture di oggi ci propongono un modello di uomo e di donna che, paradossalmente non è ancora stato raggiunto. Prima ancora di pensare alla dimensione coniugale, infatti, questi testi ci parlano di uomo e donna come costitutivi dell’essere umano. Pienamente uguali nello statuto esistenziale e nei diritti, diversi nella ricchezza della varietà, talvolta complementari. 

Vorrei augurare a tutte le giovani e i giovani, perciò, di diventare donne complete e uomini integri. Se penso a un sogno per ciascun giovane è che oggi si goda la sua giovinezza, in tutte le cose positive che esprime e con tutti i valori che rappresenta, ma che poi sappia essere pienamente donna o uomo adulto. 

E che abbia qualcuno che faccia strada senza sbarrarla, qualcuno che possa essere di esempio senza invidia o volontà di potenza. 

 

Signore Gesù, 

che hai voluto i piccoli con te, 

hai amato i giovani fissando su di loro il tuo sguardo 

e hai riconosciuto le donne; 

per questa preghiera, 

effondi lo Spirito Santo 

sui bimbi, sui giovani e le giovani, 

perché possano fare splendere il mondo 

del tuo amore, 

con la loro umanità. 

Concedi ad ogni adulto 

di stimare i giovani, 

di seguirli, accompagnarli, stare loro affianco 

senza ingombrare lo spazio, 

e di essere così testimoni trasparenti 

della libertà che Dio Padre 

ha voluto per loro. 

Amen. 

 

Don Davide




Chi vuole seguirmi…

Carissimi amici e amiche,

molti di voi hanno già ripreso a pieno regime il ritmo del lavoro, ma l’inizio della scuola scandisce un vero e proprio ricominciamento, così come la tradizionale Tre Giorni del Clero bolognese stabilisce ufficialmente l’avvio di un nuovo anno pastorale.

Tutto ricomincia: le famiglie sono alleggerite nel vedere tornare a scuola i figli, allo stesso tempo riprende la frenesia degli sport e delle altre incombenze. La città si riempie, diventa impossibile trovare parcheggio, ci si dà appuntamento nei tradizionali luoghi di ritrovo, sapendo che non mancherà (quasi) nessuno; che sia lo stadio o la messa domenicale o il proprio locale preferito, si sa di avere di nuovo dei luoghi di “comunità”.

C’è qualcosa di rassicurante e bello nel riprendere i ritmi conosciuti e la scansione degli impegni e dei propri riti. Allo stesso tempo c’è anche un’inquietudine di fondo, per quell’ombra che si alza nel nostro spirito al ricordo dei momenti frenetici, delle fatiche e delle angustie provocate dalla vita quotidiana.

Guardiamo al tempo che ci sta davanti con i migliori propositi, ma anche con trepidazione.

In questa domenica, la liturgia ci offre un prezioso consiglio nell’invitarci ad aprire l’orecchio senza opporre resistenza e a stare dietro a Gesù, a metterci nella posizione della sequela con il desiderio di sentirci rassicurati dalla sua guida.

Abbiamo questa grande opportunità che nessuno ci può togliere: invece di lasciarci angustiare o intimorire, cogliamo l’occasione per discernere ciò che Gesù ci vuole comunicare in ogni circostanza. Lui ci vuole bene, vuole farci sentire custoditi e vuole che la nostra vita sia positiva e piena di senso. Proviamo a credere che in quello che ci capita c’è comunque Gesù che ci sta davanti e ci rassicura dicendo: “Anche se il sentiero è difficile, segui i miei passi e andrà tutto bene!” come farebbe un’abile guida alpina su un sentiero di alta montagna.

Agli studenti vorrei dire: il mondo del futuro si prepara a sfide che non possiamo neanche immaginare. Gli scenari mutano e si trasforma il modo della nostra conoscenza. Cambieranno le competenze richieste per abitare la complessità del mondo. In questo piccolo cosmo, sarà necessario essere lucidi e non perdere la tenerezza. Perciò, cari studenti, vi invito a cogliere il tempo della scuola come un tesoro per voi: pensate soprattutto a quello che potete imparare! Nulla è superfluo, arricchite il vostro tesoro interiore, imparate le associazioni e le connessioni, apprendete alla perfezione la parola scritta e orale, testimoniate la correttezza e il rispetto tra voi e coi professori. Gli uomini e le donne che guideranno il mondo con più giustizia e più compassione di quanta ce ne sia al presente, siete già voi oggi.

Alla nostra comunità parrocchiale dico che ci attendono molti grandi cambiamenti. Dovremo aprire il cuore all’amicizia e alla comunione tra le parrocchie. Dovremo avere stima di chi porta avanti un lavoro comune e incoraggiarlo, anche con il nostro appoggio. Dovremo liberarci dalle abitudini pastorali, dalle comodità, dai sentieri già conosciuti, e tracciarne di nuovi obbedendo alla parola di Gesù che ci dice: “Stai dietro a me”.

È molto consolante potere essere certi che sia il Signore a fare strada. A noi aprire l’orecchio, ascoltare e seguirlo.

Don Davide




La preghiera

Avvicinandoci ormai alla Pasqua, prendiamo in considerazione l’ultima delle opere della Quaresima, che mirano a creare in noi le condizioni di una vera conversione.

La prossimità della Pasqua è tanto più significativa, in questo caso, in quanto la preghiera ci mette in relazione diretta con il Dio della vita: il Signore presente e vivo nella nostra vita e il Padre suo, che ogni vita raccoglie nelle sue mani, donando a ciascuna il suo amore.

La preghiera, quindi, specialmente in Quaresima, si intende senza dubbio come fedeltà pratica: l’impegno a partecipare a un’eucaristia settimanale, o il proposito di leggere le letture della messa quotidianamente, o la scelta di qualche momento di raccoglimento in chiesa.

Questa atteggiamento programmatico e concreto è indispensabile nel cammino della Quaresima e riflette anche un bel grado di umiltà: piegarsi a una fedeltà piccola, quotidiana, con la fiducia che il Signore ne farà un’occasione per la sua grazia.

Ma la preghiera, soprattutto, è una questione di fiducia. La preghiera nella luce della Pasqua ci interpella su questo punto: abbiamo fiducia che la nostra supplica non sia vana? (cf. 1Cor 15, 58). Riusciamo a vincere quella resistenza tremenda che ci fa dire che in fondo non conta niente, che noi preghiamo ma tanto il Signore non ci esaudisce, che le cose non cambiano, pensando che un atto di fiducia nel Dio della Vita non può che essere assoluto? Viene in mente la stupenda preghiera dei tre condannati nel libro di Daniele, forse uno dei passaggi più belli sulla preghiera dell’intera Bibbia.

Tre giudei alla corte di Nabucodonosor si rifiutano di adorare la statua d’oro che il re ha fatto erigere. Con la tracotanza che caratterizza i sovrani, Nabucodonosor li minaccia, arrivando a chiedere loro: “Quale dio vi potrà liberare dalla mia mano?” (Dn 3,15). I ragazzi danno una risposta che in un paio di versetti è il miglior trattato sulla preghiera che possiamo immaginare: “Noi non abbiamo bisogno di darti alcuna risposta in proposito; sappi però che il nostro Dio, che serviamo, può liberarci dalla fornace di fuoco ardente e dalla tua mano, o re. Ma anche se non ci liberasse, sappi o re che noi non adoreremo mai i tuoi dei e la statua d’oro che hai fatto erigere.” (Dn 3,16-18).

I punti cruciali sono due.

Il primo: “non abbiamo bisogno di darti alcuna risposta in proposito”. La fiducia in Dio è assoluta: non richiede prove, non esige conferme. Accetta lo scherno e la tracotanza di chi pensa di sottolineare l’evidenza, mostrando che Dio non c’è.

Il secondo: “anche se non ci liberasse”. La fiducia e la forza della preghiera non è per nulla condizionata dal suo esaudimento inteso come lo vorremmo noi. Potremmo rileggere la frase così: “Anche se non ci liberasse come vogliamo noi, noi sappiamo che lui effettivamente ci libererà…”.

Viene in mente l’atroce preghiera di Gesù nel Getsemani, la sua morte senza risposte, il misterioso esaudimento nella resurrezione.

La preghiera è così: un atto puro di dialogo d’amore con il Dio della vita che si svolge in un credito di fiducia totale, per nulla condizionato a un tornaconto. Il gustare l’amicizia con Dio e l’affidarsi a lui, con la fiducia piena, assoluta, mai incrinata, che la sua bontà e sapienza sorpassano ogni cosa.

Don Davide




Digiuno

La seconda opera di conversione della Quaresima è il digiuno.

Non siamo più abituati a digiunare, forse anche perché troppo assuefatti ad avere tutto.

L’astinenza dalla carne, il venerdì, è diventata una pratica più formale che altro, se poi la sostituiamo con dei buoni manicaretti di pesce. Il digiuno di un pasto è quasi insignificante, quando nei ritmi di lavori quotidiani, già accade che si mangia veloce, magari un panino, o in piedi o un piatto di insalata per riprendere il lavoro.

Eppure, il digiuno alimentare conserva la sua efficacia, se ci aiuta a fare un gesto realmente penitenziale e a sentire la fame, la fatica, per condividere questa triste esperienza con chi è costretto a vivere in simili condizioni.

Il digiuno, per essere significativo, dev’essere scelto liberamente. Chi sceglie di fare il digiuno alimentare, in qualche forma umile e realista, deve trovare il modo di viverlo autenticamente, altrimenti è meglio lasciare perdere. Se si deve fare per pura formalità, non vale. Chi lo fa, sperimenta che effettivamente la pratica del digiuno scava nella nostra vita: ci rende più attenti alla preghiera, più sobri e più presenti a noi stessi.

Spesso, il digiuno alimentare, viene accompagnato dalla carità, quando si dà in beneficienza il corrispettivo di quello che si sarebbe speso per mangiare. È una pratica molto buona per dare significato al digiuno.

Oltre a questo, soprattutto nei testi dei profeti, vengono indicati tanti altri modi per praticare il digiuno affinché sia vero strumento e segno di conversione.

Il primo è astenersi dalle parole malvagie, dalle parole violente. Pensiamo a come è il nostro parlare: spesso è animato da rabbia, da verbosità, da grinta, cattiveria e giudizio. Sforzarsi di essere sobri di parole e convertire le parole cattive in parole buone, evitare i giudizi e i risentimenti è una via per praticare il digiuno efficacie, anche se difficile.

Il secondo modo è di limitare tutto ciò che ci fa sottrarre tempo agli affetti che contano. Passare un po’ più di tempo con la persona amata invece che su Facebook o davanti alla tv, giocare di più con i figli, sedersi e farsi raccontare la propria giornata dai ragazzi, scambiare una parola gentile con un collega di lavoro o con i propri dipendenti sono tutte pratiche di vero digiuno, inteso nel significato a cui ci richiama la Bibbia.

Il terzo atteggiamento è di ricordarci dei poveri, di avere presente i loro volti, di pensare che anche se non possiamo aiutarli adesso, non ci dimenticheremo comunque di loro, affinché, come abbiamo pregato domenica scorsa, non diventino trasparenti per noi, e noi per loro.

Gesù, nel vangelo, in un celebre passaggio afferma che certi demoni non si possono affrontare se non col digiuno. Chiediamo la grazia, attraverso il digiuno, serio e scelto, di poter affrontare i nostri propri dèmoni, e di sconfiggerli alla luce della Pasqua di Gesù.

Don Davide




La Giornata Mondiale del Malato

Domenica prossima, giorno della B.V. di Lourdes, celebreremo la Giornata Mondiale del Malato, con una messa (quella delle 11) dedicata all’Unzione degli Infermi.

Già di per sé, celebrare la Giornata “del Malato” risulta essere un atto in controtendenza: primo, perché la malattia, come la morte, tende a essere rimossa, ad essere considerata un’infamia e una vergogna, oltre che una sfortuna, e quindi chiamare qualcuno “malato” risulta essere poco delicato, non rispettoso o discreto. In secondo luogo, perché associare la parola malattia all’idea di una celebrazione, potrebbe essere sgradevole, quasi blasfemo, come se fosse un rigurgito masochista della fede cristiana.

Invece, tenacemente, la Chiesa continua a non rimuovere le parole più scomode della nostra cultura, quali ad esempio “malattia”, e a celebrare questa giornata, per renderci sensibili ai problemi, e non farci percorre la via più facile, che sarebbe quella di trascurarli.

La prima cosa che la Giornata del Malato smaschera è il nostro rapporto difficile con la malattia, perché rischiamo di avere un approccio distorto alla vita. La malattia, quando compare, materializza tutte le nostre paure più recondite. Se compare in noi, rende concreta la percezione di essere più sfortunati degli altri, di non essere benedetti, di essere delle vittime. Se compare in qualcuno che ci è vicino, ci terrorizza per quello che potrebbe accadere, ci fa toccare con meno le nostre debolezze, quando vorremmo fuggirla eppure dobbiamo avvicinarla. La malattia, in qualunque modo, incrina la nostra speranza di una vita perfetta, priva di dolore, non toccata dalla difficoltà. Soprattutto, infrange il mito della vita per sempre, l’idea che il corpo non declinerà mai… La malattia, quindi, ci chiede di avere un rapporto onesto con l’esistenza e con la nostra vita. Spesso, oltre al dolore che diventa insopportabile, può essere questa mentalità sbagliata che crea le sofferenze più inaccettabili.

La seconda cosa su cui la presenza della malattia ci interpella, è che visione abbiamo di Dio. Perché è con lui che la facciamo, non appena siamo colpiti. Ci immaginiamo un Dio che tenga in mano un mondo dove non c’è nessuna esperienza negativa, ma non è così. Il mondo è creato, avviato e lasciato libero. Nemmeno il Figlio di Dio è stato risparmiato dall’ingiustizia, dalla sofferenza insensata, dalla violenza gratuita e dalla morte. E tuttavia, Dio prende posizione accanto a noi e ci dice che lui non sta mai dalla parte della sofferenza, ma sta dalla parte nostra, in questa lotta. Dio non vuole la malattia, ma lotta con noi, toccando il nostro cuore e la nostra libertà, per vincerla. La malattia, quindi, interpella la nostra responsabilità: ci mette in gioco nella solidarietà, nella cura, nella compassione… come fa lui stesso con noi. Lui non ci lascia soli; noi non dobbiamo lasciare solo nessuno. Lui si prende cura di noi; noi dobbiamo prenderci cura dei nostri fratelli e sorelle. È così che funziona.

Da ultimo la malattia associa chi soffre alla sofferenza di Cristo, e Gesù stesso viene a portare quella sofferenza. Gesù diventa il Buon Samaritano e il Cireneo al tempo stesso. Non significa che la malattia è una cosa buona. Significa che come la Croce di Gesù, che non era buona, ma Gesù l’ha cambiata per il bene degli uomini, così anche chi vive la sofferenza può scegliere di cambiarla in un cammino di purificazione, in un esercizio di pazienza, in un’offerta associata all’amore di Dio per la salvezza di qualcuno… Come avvenga questo, è un mistero che solo chi l’attraversa lo può dire. Tuttavia, molti santi e persone comuni hanno testimoniato che, ad un certo punto, anche la sofferenza peggiore poteva essere vissuta in modo buono.

A tutti quelli che non sono malati nel fisico, spetta il compito della vicinanza e dell’aiuto, perché nessuno sia lasciato solo, nessuno si senta troppo fragile o in difficoltà. Il senso del Sacramento dell’Unzione degli Infermi è esattamente questo: la sollecitudine della Chiesa che, nella fede, e con un sacramento del conforto, prova a fare sentire la sua vicinanza a tutti i malati, li affida alla grazia di Gesù e infonde loro la capacità di vivere la sofferenza come un’esperienza dell’esistenza, come una cosa che ci chiede di fare verità su noi stessi e su Dio e come una cosa che possiamo vivere insieme alla Croce di Cristo.

Il Sacramento dell’Unzione, nella fede della Chiesa, ha il potere di guarire. Alcune volte guarisce nel corpo e protegge. Ma sempre guarisce nel senso che infonde questa capacità di visione, che permette di affrontare quello che è, spesso, il più doloroso dei viaggi.

Don Davide




L’anno della Parola

Quest’anno, l’arcivescovo ha consegnato alla Chiesa di Bologna “l’Anno della Parola” come cammino pastorale.

Leggiamo le sue indicazioni.

 Dalla Lettera pastorale dell’Arcivescovo:

Non ci ardeva forse il cuore?

“L’incontro con la Parola non è una lezione, un programma. È tutto il programma, da cui comprenderemo i nostri passi. È il Verbum Domini che ci è rivolto, perché ci accorgiamo finalmente della sua presenza in mezzo a noi, ci liberiamo dalla paura, affrontiamo il male che ci vuole isolati, che ci fa sentire abbandonati, che fa credere che dobbiamo fare da soli, confidare solo nel nostro orgoglio per stare bene e conservare quello che abbiamo per non perderlo.

Esattamente il contrario dell’amore che Dio ci annuncia. Nella Babele delle nostre parole si presenta quella del pellegrino, la Parola, che cammina con noi e ci vuole scaldare il cuore e fare sentire la sua speranza oggi. È la verità che cerchiamo per capire la nostra vita e quella di un mondo così complicato e difficile da comprendere. Non è chiesto al discepolo di capire tutto, ma di aprire il cuore e la mente…

Iniziare la riflessione sulla Parola di Dio ci aiuterà a rivedere anche gli aspetti concreti della nostra vita personale e di comunità. Penso alla liturgia, alla carità, alla catechesi (per l’iniziazione cristiana, per la preparazione ai sacramenti, per i fidanzati) e all’intero campo della pastorale (familiare, giovanile, anziani, e così oltre), perché siano sempre più sostenuti e illuminati dal semplice e decisivo incontro con la Sacra Scrittura. Sarà il cammino dei prossimi anni.

I gruppi della Parola, che si riuniscono già in molte parrocchie e che potrebbero iniziare ovunque e con modalità diverse e adatte agli interlocutori, sono proprio come i due discepoli di Emmaus che parlano di sé, si lasciano interrogare da Gesù e ascoltano tutto quello che lo riguarda. Così si genera e si rigenera la comunità dei fratelli” (pp. 71ss).

Dal Sussidio per l’anno pastorale della Chiesa di Bologna

Indicazioni per vivere le tappe dell’anno pastorale

La prima giornata della Parola celebrata da Papa Francesco a Bologna il 1 ottobre scorso apre il nuovo anno pastorale che la nostra Chiesa di Bologna sta iniziando.

È stata per noi una grazia non solo gradita ma provvidenziale, perché ci sollecita a ritrovare la centralità della Parola di Dio nella vita della Chiesa: Dio dialoga e parla con gli uomini per costruire una vera e duratura comunione. Questo dono è stato raccolto dalla Lettera pastorale dell’Arcivescovo, Non ci ardeva forse il cuore?, che costituisce un solido orientamento per la pastorale in senso missionario e che ci accompagna in questo anno.

L’esperienza dei due discepoli di Emmaus, icona biblica scelta dall’Arcivescovo, ci insegna che la Parola di Dio riscalda il cuore e lo rende plasmabile dallo Spirito e capace di comunicare l’amore scaturito dall’incontro con il Crocifisso risorto.

Rimettere al centro della nostra vita e della pastorale la Parola di Dio è il tema generale dell’anno, che si esprimerà in tre momenti per far crescere la nostra consapevolezza di essere discepoli-missionari e vivere fino in fondo la conversione pastorale in senso missionario.

Il metodo per vivere le tappe

Siamo tutti impegnati a vivere le tre tappe, cioè i tre momenti durante l’anno in cui ascoltare, riflettere in maniera comunitaria sulla Parola di Dio, sulle nostre prassi pastorali per orientarci al futuro con una visione coraggiosa, creativa e piena di speranza.

Il metodo con cui svolgere gli incontri proposti, sia la lectio divina sia i successivi due incontri, è quello sperimentato lo scorso anno e cosiddetto “metodo di Firenze”, che favorisce la partecipazione sinodale di tutto il gruppo creando un clima di accoglienza e di arricchimento comune.




Non ci ardeva forse il cuore?

Non ci ardeva forse il cuore, sabato scorso, quando tutta la città era in fermento e si sentiva l’aria frizzante per l’arrivo del papa? Non ci ardeva di carità quando, al centro per i rifugiati, papa Francesco ha ricordato quelli che non ce l’hanno fatta e che non ci sono più? Non ci ha fatto ardere di buoni propositi quando, all’Angelus, ha chiesto alla città di Bologna di rimanere un esempio nella testimonianza del Vangelo o quando ha raccomandato ai preti e ai religiosi di essere con il popolo, semplici e poveri, per condividere il Vangelo?

E non ha fatto come Gesù, riattualizzando d’un colpo le parole dei profeti, sedendo a mensa con i poveri e tutti coloro che avevano bisogno di riscatto?

E non ha letteralmente infiammato i nostri cuori con il suo discorso all’Università, parlando di cultura, di speranza e di pace, nell’orizzonte di un’Europa unita, contro tutti i populismi e le retoriche, come non si sentiva fare da anni?!

Sì, l’abbiamo riconosciuto nello spezzare il pane… ma non lui, cioè papa Francesco. Grazie al papa, e soprattutto grazie al suo rapporto così schietto e sulle stesse corde con il vescovo Matteo, nel catino suggestivo e trepidante dello stadio, trasformato in una cattedrale contemporanea, abbiamo riconosciuto Gesù risorto! Sì, Gesù risorto, vivo, presente in mezzo e insieme alla sua Chiesa, che ci ha confortato, ha fatto risuonare la sua parola con mille sfumature e ci ha dato la direzione.

Una Chiesa non clericale, fatta di pastori davanti, in mezzo e dietro al popolo; una Chiesa richiamata ai tratti (non ai valori) inconfondibili del Vangelo: i poveri, l’annuncio del Regno agli ultimi, la misericordia data e ricevuta. Una Chiesa tesa a raggiungere tutti e ad aprire una via per ciascuno.

Il vescovo Matteo, il giorno di San Petronio, ha ringraziato la città, per la preparazione della visita del papa, lo svolgimento della giornata e l’accoglienza profonda che Bologna gli ha riservato. Era da tempo che il giorno del patrono non si sentivano parole gentili nei confronti della città, piuttosto che rimproveri, provenienti da una supposta posizione di superiorità. È uno stile che, inequivocabilmente, i nostri pastori ci consegnano. Non perché non ci siano i problemi o perché la Chiesa debba abdicare al suo compito critico e di vigilanza, ma per costruire rapporti di vera amicizia, aiutarsi e camminare insieme.

Così, oggi, giorno della conclusione del Congresso Eucaristico nelle nostre parrocchie, il vescovo ci consegna la sua nota pastorale, per confermarci nella direzione di questo cammino, dal titolo: Non ci ardeva forse il cuore?

Incoraggiati da questa consegna, iniziamo il nuovo anno pastorale con l’immagine bellissima di Gesù che, dopo avere spiegato il significato profondo delle Scritture, essere stato ospitato a tavola e avere spezzato il pane con i segni dell’Eucaristia, ci fa percepire nitidamente che cosa fa ardere il cuore e brillare il volto.

L’egoismo ci spegne, il Vangelo ci infiamma. La divisione perde, la comunione vince. L’odio ci fa morire, l’amore ci fa vivere.

Don Davide