Non ci ardeva forse il cuore?

Non ci ardeva forse il cuore, sabato scorso, quando tutta la città era in fermento e si sentiva l’aria frizzante per l’arrivo del papa? Non ci ardeva di carità quando, al centro per i rifugiati, papa Francesco ha ricordato quelli che non ce l’hanno fatta e che non ci sono più? Non ci ha fatto ardere di buoni propositi quando, all’Angelus, ha chiesto alla città di Bologna di rimanere un esempio nella testimonianza del Vangelo o quando ha raccomandato ai preti e ai religiosi di essere con il popolo, semplici e poveri, per condividere il Vangelo?

E non ha fatto come Gesù, riattualizzando d’un colpo le parole dei profeti, sedendo a mensa con i poveri e tutti coloro che avevano bisogno di riscatto?

E non ha letteralmente infiammato i nostri cuori con il suo discorso all’Università, parlando di cultura, di speranza e di pace, nell’orizzonte di un’Europa unita, contro tutti i populismi e le retoriche, come non si sentiva fare da anni?!

Sì, l’abbiamo riconosciuto nello spezzare il pane… ma non lui, cioè papa Francesco. Grazie al papa, e soprattutto grazie al suo rapporto così schietto e sulle stesse corde con il vescovo Matteo, nel catino suggestivo e trepidante dello stadio, trasformato in una cattedrale contemporanea, abbiamo riconosciuto Gesù risorto! Sì, Gesù risorto, vivo, presente in mezzo e insieme alla sua Chiesa, che ci ha confortato, ha fatto risuonare la sua parola con mille sfumature e ci ha dato la direzione.

Una Chiesa non clericale, fatta di pastori davanti, in mezzo e dietro al popolo; una Chiesa richiamata ai tratti (non ai valori) inconfondibili del Vangelo: i poveri, l’annuncio del Regno agli ultimi, la misericordia data e ricevuta. Una Chiesa tesa a raggiungere tutti e ad aprire una via per ciascuno.

Il vescovo Matteo, il giorno di San Petronio, ha ringraziato la città, per la preparazione della visita del papa, lo svolgimento della giornata e l’accoglienza profonda che Bologna gli ha riservato. Era da tempo che il giorno del patrono non si sentivano parole gentili nei confronti della città, piuttosto che rimproveri, provenienti da una supposta posizione di superiorità. È uno stile che, inequivocabilmente, i nostri pastori ci consegnano. Non perché non ci siano i problemi o perché la Chiesa debba abdicare al suo compito critico e di vigilanza, ma per costruire rapporti di vera amicizia, aiutarsi e camminare insieme.

Così, oggi, giorno della conclusione del Congresso Eucaristico nelle nostre parrocchie, il vescovo ci consegna la sua nota pastorale, per confermarci nella direzione di questo cammino, dal titolo: Non ci ardeva forse il cuore?

Incoraggiati da questa consegna, iniziamo il nuovo anno pastorale con l’immagine bellissima di Gesù che, dopo avere spiegato il significato profondo delle Scritture, essere stato ospitato a tavola e avere spezzato il pane con i segni dell’Eucaristia, ci fa percepire nitidamente che cosa fa ardere il cuore e brillare il volto.

L’egoismo ci spegne, il Vangelo ci infiamma. La divisione perde, la comunione vince. L’odio ci fa morire, l’amore ci fa vivere.

Don Davide




Il cristiano e la città

Il cristiano non possiede la città, la serve.

Il nemico è l’individualismo

Il cristiano vuole combattere il vero nemico che è l’individualismo, il demone che ci mette gli uni accanto agli altri, ma senza gli altri. L’individualismo rende lontano o addirittura pericoloso quello di cui abbiamo tutti bisogno, il prossimo; oppure ce lo fa accettare solo come lo vogliamo noi e quindi ci fa allontanare chi non conosciamo, facendo crescere l’inimicizia.

Non vogliamo nemmeno un individualismo di campanile o di gruppo, che ci fa credere sufficiente alzare un muro per risolvere i problemi, che non accetta la complessità e la sfida di un mondo che è davvero piccolo e che entra anche nel nostro giardino. Il campanile ci aiuta a collocarci nel grande mondo, ma senza questo ci isola! Quanto sono prive di senso le beghe da campanile! E che responsabilità abbiamo, invece, verso i tanti che soffrono nel mondo! Solo imparando a stare assieme la città degli uomini vive e gli uomini con lei.

«L’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita che indebolisce lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone, e che snatura i vincoli familiari. L’azione pastorale deve mostrare ancora meglio che la relazione con il nostro Padre esige e incoraggia una comunione che guarisca, promuova e rafforzi i legami interpersonali. Mentre nel mondo, specialmente in alcuni Paesi, riappaiono diverse forme di guerre e scontri, noi cristiani insistiamo nella proposta di riconoscere l’altro, di sanare le ferite, di costruire ponti, stringere relazioni e aiutarci “a portare i pesi gli uni degli altri”» (EG 67).

L’individualismo produce nella città degli uomini tante patologie di solitudine. Basti pensare alle dipendenze. Uno degli inganni dell’individualismo è che illude di potere vivere bene da soli. Invece senza la comunità non c’è individuo. E la comunità non è una somma di individui! Non stiamo bene quando siamo isolati. La persona, l’uomo è relazione. Il male ci vuole divisi, magari con tutti i confort, ma individualisti. Anzi. Perché l’uomo è relazione e senza questa si perde, si dispera, si chiude. La Chiesa non vuole una città di individui senza il noi, ma una piazza dove impariamo tutti a riconoscerci ed aiutarci.

Indifferenza, sorella dell’individualismo

L’individualismo ha una sorella: l’indifferenza. Si trucca molto bene. Non la si distingue subito. Anzi. Qualcuno pensa che non la ha «perché soffro tanto» o che basti un po’ di bonomia per dimostrare interesse verso l’altro. L’indifferenza si rivela nel non fare, nell’accontentarsi (per gli altri!), nel difendersi con la logica di Caino: «A me che importa?», «io che c’entro?», «non è possibile!». Non fare niente, anche se con eleganza, fa sempre male!

A volte insinua il banale assuefarsi al dolore degli altri. «Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cf. Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, “zoppi, storpi, ciechi, sordi” (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo» (Discorso di Papa Francesco a Firenze). Piazze e ospedali da campo. C’è bisogno. La folla non può aspettare, ha bisogno di pane.

 

Don Davide




Ascensione. Essere in Cristo

Caro don Valeriano,

sarebbe giusto che questa lettera aperta, in un’occasione così speciale, fosse indirizzata a te, invece voglio dedicarla alla nostra comunità.

Se non mi sbaglio, secondo le regole della grammatica, nostra è un pronome possessivo, ma in questo caso non indica alcun possesso, bensì appartenenza. È la nostra comunità, nel senso che ne facciamo parte, che le apparteniamo, e come preti prestiamo in essa e per essa il nostro servizio.

È profondamente appagante sentire questo “nostra” così vero: in questi giorni mi ha fatto pensare che – al di là di quello che si vede o delle nostre valutazioni pastorali (spesso dettate da un giudizio solo umano e poco capace di riconoscere il corso segreto degli affetti) – in cinquant’anni tanti semi piantati con larghezza portano frutto e crescono. Quello che si raccoglie magari non sono i grandi successi pastorali, o i modelli di una chiesa trionfante, ma la qualità delle relazioni e la consapevolezza del valore di legami umani e spirituali tessuti nel corso di una vita.

È la meravigliosa realtà che Paolo descrive con l’essere in Cristo, ossia quel vincolo di comunione che costituisce la comunità, ben al di là dei legami visibili e ne fa una cellula del Regno di Dio.

Allora riprendo questo testo da capo e ricomincio così:

Cara Comunità,

non so davvero come ringraziarti per l’impegno di questi giorni, e in generale in questo maggio di fuoco.

Come parroco, alcune volte ho lo scrupolo di chiedere troppo. Poi vedo tanto entusiasmo, così tanta disponibilità e provo semplicemente a godermi questo fiume di gratuità che scorre e sana, e disinfetta la vita.

Sapete, alcune volte mi capita ancora di parlare del “parroco” e di pensare a don Valeriano. Non penso che sia mancanza di responsabilità o velleità di sfuggire al mio ruolo, ma solo l’esperienza affettuosa di sentire una presenza affidabile che mi fa compagnia.

Guardando la passione e la partecipazione di questi giorni penso che succeda lo stesso anche a voi e ne sono felice.

Nel riconoscere questi cinquant’anni di dedizione alla chiesa di don Valeriano, io penso anche a ciascuno di voi: ai ragazzi che fanno gli esami, a quelli che hanno assunto i primi incarichi nella nostra comunità, a quelli che hanno compiuto diciott’anni, a chi inizia l’università e a chi la finisce, a chi inizia o cambia il lavoro, a chi si fidanza, chi sceglie di sposarsi, chi vive giorno dopo giorno la sua fedeltà, chi cambia la vita perché sono arrivati dei figli, chi festeggia gli anniversari, o la pensione o, più semplicemente, il raggiungimento di qualsiasi obiettivo, o l’adempimento di un impegno.

Penso ad ogni traguardo, insomma, piccolo o grande, della vita o di questo tempo presente, con la consapevolezza che sono tutti  rispecchiati in quello di don Valeriano e nella grande partecipazione della nostra comunità.

Don Davide




Il soccorso e la salute

Come sempre, Maria ci spinge a una singolare adesione alla vita della nostra chiesa. Il papa e il vescovo ci hanno ripetutamente detto di uscire dai nostri confini, che preferiscono una chiesa magari un po’ sgangherata, ma che vada fuori, per le strade, e incontri le persone con una testimonianza di fede semplice e gesti di amicizia.

La Madonna, in una duplice veste, aiuta la nostra parrocchia a raccogliere questo invito.

Quest’anno coincidono i due momenti della tradizionale processione della Madonna del Borgo San Pietro, conosciuta anche come Beata Vergine del Soccorso, e la conclusione dell’Ottavario della Madonna della Salute.

Nel 1527, durante l’inizio di un’epidemia di peste, la statuetta venerata nella cappella del Borgo San Pietro venne portata in processione lungo le strade infettate. Al suo ritorno, secondo le cronache, la peste immediatamente scomparve. Il Senato Bolognese allora emise il voto di portare in processione la statua (oggi l’immagine) della Madonna del Soccorso, fino al Borgo del Pratello e all’Oratorio di San Rocco (vicino al quale c’era il cimitero degli appestati e dei lebbrosi), come ringraziamento per essere scampati all’epidemia. Da allora, quella processione, pur sempre più esigua, si ripete ogni anno.

La nostra parrocchia, dal canto suo, usualmente conclude l’Ottavario di preghiera alla Beata Vergine della Salute con una processione.

Si è deciso, pertanto, di unificare i due momenti, e di ravvivare così una delle processioni più antiche della nostra tradizione cittadina. Questa scelta ci spingerà a camminare lungo Via del Pratello, recuperando la storia della nostra città, e offrendo un segno di amicizia semplice a tutti coloro che affiancheremo.

Vorrei, infatti, che non fosse una processione “militante”, ma fraterna e testimoniale: testimoniamo, appunto, il soccorso che ci viene dalla fede, e la supplica per la salute (corporale e spirituale) che tutti cerchiamo e di cui tutti abbiamo bisogno.

In quest’occasione, la nostra parrocchia unita alla comunità del Borgo San Pietro rappresenteranno davvero la chiesa come un ospedale da campo, secondo la nota immagine del papa: un posto dove si cerca un po’ di soccorso per la propria salute e – per chi è più sensibile – per la propria salvezza.

Mi piacerebbe che, oltre la gioia dei palloncini dei bimbi che saranno lanciati al cielo, e i colori dei fiori che saranno regalati come segno di amicizia, lasciassimo dietro ai nostri passi una piccola traccia di gioiosa vitalità per la nostra città.

Don Davide




Le ferite tra le dita

Il Risorto viene ripetutamente incontro ai suoi, riuniti, mostrando loro le mani e il capo con le ferite trasfigurate, per vincere la loro incredulità.

Lo sfortunato Tommaso è l’unico non presente alla prima edizione di questo memorabile appuntamento. Gli altri, e la chiesa dei millenni successivi, gli danno dell’incredulo, perché anche lui vorrebbe vedere e toccare le piaghe del Signore risorto.

È esattamente la posizione degli altri discepoli: loro hanno visto e hanno creduto; Tommaso fa un proclama che potremmo definire “da spaccone”, dice che se non vede e non tocca lui non crede. Ma alla fine, poi, come per tutti gli altri, vedere il Signore risorto che gli viene incontro è più che sufficiente perché sbocci in lui la migliore professione di fede che ci potremmo aspettare: mio Signore e mio Dio.

Quello che chiede Tommaso è di fare anche lui un’esperienza vivida dell’incontro con Gesù risorto, come gli altri che ne avevano già avuto il dono.

Noi abbiamo in mente, grazie a Caravaggio e a molti altri pittori, che Tommaso metta il dito nella piaga del costato di Gesù, ma leggendo il testo del vangelo scopriamo che questo particolare non viene raccontato. Non è così.

Piuttosto che volere mettere noi il dito nelle piaghe di Gesù, è lui che, per vincere tutte le nostre incredulità, mette le sue piaghe fra le nostre dita. Consegna le sue ferite alle nostre mani, perché noi ce ne prendiamo cura.

“Tocca le mie ferite – dice Gesù – e non essere più incredulo, ma credente!”

Se c’è una via per accendere la fede e riconoscere Gesù come nostro Signore, è questa: le sue ferite, che non vengono cancellate nel suo corpo risorto, ma diventano gloriose, sono il peccato che può diventare esperienza di misericordia; sono l’odio che può essere vinto con l’amore; sono la cura per la vita, dove sembrano trionfare le forze di morte; sono la conversione dalla lontananza di Dio alla gioia dell’essere vicini a lui; sono i poveri che vengono accuditi, i malati che vengono consolati, chi ha bisogno che viene aiutato, i ragazzi e i giovani che vengono accompagnati.

Raggiungi le ferite di Gesù con le tue mani; e non avere paura: fra le tue dita non scorrerà il sangue, ma lo Spirito Santo.

Don Davide




Contemplare la meraviglia

Dopo l’intermezzo, dovuto, per commentare la presenza della grande rete in chiesa, riprendiamo l’approfondimento di alcuni aspetti della liturgia eucaristica.

Ricordo che siamo nell’anno del Congresso Eucaristico e che nel tempo di Quaresima viene chiesto alle comunità di chiedersi come si possano rendere più partecipate ed autentiche le nostre assemblee eucaristiche.

La consacrazione è il momento più alto della celebrazione dell’Eucaristia insieme alla proclamazione del Vangelo. Dopo il prefazio, che indica il rendimento di grazie specifico per quella celebrazione, inizia la preghiera eucaristica vera e propria. A seconda di quale formula si usi, la consacrazione avviene quasi subito o anche dopo un lungo memoriale e le intercessioni per la vita della Chiesa e del mondo.

La riforma liturgica ha voluto conservare un’indicazione di quando inizia la consacrazione – come forma di particolare riverenza e NON perché siano parole magiche, quasi che potessero valere senza le altre – attraverso il suono delle campanelle, che richiamano – appunto – un’attenzione e una devozione speciale per le parole di Gesù nell’Ultima Cena.

Il primo momento della consacrazione è l’epiclesi, o invocazione dello Spirito Santo sul pane e il vino perché diventino il Corpo e il Sangue del Signore. Quando il ministro dell’Eucaristia stende le mani sul pane e sul vino, è quello il momento in cui l’assemblea è invitata a inginocchiarsi.

È fondamentale, lo ribadisco ancora una volta, capire che non è un momento staccato dagli altri, ma in piena continuità con le parole che vengono dette prima e dopo: tutto il memoriale dell’opera di salvezza e dell’Ultima Cena è la preghiera che ci riporta a quell’unico sacrificio di Cristo, ma questa attenzione speciale riservata alla Consacrazione è come un invito a contemplare le meraviglie di Dio, a vedere il vero miracolo che si compie quotidianamente per mezzo della celebrazione della chiesa, l’unico vero miracolo di cui abbiamo bisogno: la presenza reale del corpo glorioso di Gesù Cristo risorto in mezzo a noi.

Diversamente dall’uso che avveniva prima della riforma liturgica, invece, l’ostensione del pane e del vino consacrati non si sottolinea più con il suono delle campanelle, perché rimane per l’adorazione silenziosa e stupita del mistero che è velato dalle specie del pane e del vino.

Le campanelle si suonano di nuovo dopo che il ministro proclama il “Mistero della fede”, per sottolineare che con la risposta dell’assemblea che si rialza in piedi si conclude l’atto della consacrazione.

Queste sfumature, che potrebbero apparire rubriciste, mirano invece a cogliere il significato spirituale del vertice celebrativo dell’Eucaristia, senza però staccarlo dal resto della celebrazione, affinché possa essere vissuto non solo come atto devozionale, ma di vera partecipazione all’offerta di Gesù, e in piena unità di cuore, di intenti e di sentimenti da tutta l’assemblea celebrante.

Don Davide




Una rete gettata dall’alto

L’immagine della rete è molto usata da Gesù nella sua predicazione: all’inizio della sua predicazione invita i pescatori futuri discepoli a gettare le reti al largo; dopo la resurrezione li invita ancora a gettare la rete in luogo preciso, per una pesca miracolosa; il regno dei cieli è paragonato a una rete che prende ogni genere di pesci…

Le reti, nel vangelo, servono per pescare.

Rientrando in chiesa, dopo i lavori di messa in sicurezza, non si può non notare questa grandissima rete che ci sovrasta offre la massima garanzia di protezione. (C’è da dire, che è proprio un modo per “stare dalla parte dei bottoni”, per dirla in modo proverbiale, perché dopo avere controllato tutte le componenti – crepe, intonaco e cornicioni – e rimosso le parti fragili, abbiamo comunque voluto mettere una rete, per attendere “comodamente” la presentazione del progetto e i grandi lavori di restauro).

Guardare questa rete bianca ci deve richiamare continuamente alla missione della chiesa, fin dalla chiamata dei primi discepoli: “Sarete pescatori di uomini!”.

L’importanza di una chiesa grande, possibilmente bella, è quello di poter essere “pescatori di uomini”: non per mania di grandezza o perché confidiamo nei numeri, ma perché lo spazio sia adeguato all’assemblea liturgica presente in un luogo; perché si possa celebrare insieme e non frammentati in tante celebrazioni; perché ci possano stare tutti quelli che desiderano esserci; perché la messa sia animata, cantata e partecipata nel migliore dei modi.

Allo stesso tempo, in realtà, guardando a questa rete dal centro della chiesa, dove c’è la stella disegnata sul pavimento, mi è venuta in mente un’altra immagine, forse ancora più suggestiva. Noi siamo abituati alla metafora di Dio come Pastore… ma forse possiamo guardarlo, attraverso la rete sopra le nostre teste, come Pescatore.

Un Dio pescatore, che getta lui la rete per pescare gli uomini, perché ci siano tutti, nessuno escluso. Un Dio pescatore, non per imprigionarci in una rete, ma per “pescarci” per il Regno di Dio. Così noi possiamo guardare in alto e pensare a questa rete come una rete gettata da Dio, dall’alto, nel mare del mondo, per “prenderci” per il suo regno, per rapirci nel suo amore e non lasciarci più.

Don Davide




La Consacrazione e la Trasfigurazione

La terza tappa del Congresso Eucaristico ci invita, nel tempo di Quaresima, a riflettere su come possiamo rendere le nostre liturgie più partecipate.

Nell’intenzione del Concilio Vaticano II e della riforma liturgica che ne è seguita c’era in primo luogo, sicuramente, la volontà di affermare che la liturgia è partecipata e celebrata bene quando ne comprendiamo il significato profondo, lo gustiamo e viviamo i vari momenti della celebrazione eucaristica accompagnando con il nostro corpo e il nostro spirito il significato simbolico dei gesti che compiamo.

L’invito del vescovo, quindi, rappresenta una preziosissima opportunità per riscoprire la ricchezza della nostra liturgia.

In questa seconda domenica di Quaresima, nella quale ci guida il Vangelo della Trasfigurazione, vorrei partire da alcune riflessioni sul momento della Consacrazione, a cui seguirà una seconda parte, sempre su questo momento fondamentale della messa, domenica prossima.

Analogamente a quanto succede nella Trasfigurazione, nella Consacrazione noi vediamo nei segni del pane e del vino il corpo glorioso del Signore, così come i discepoli videro nel corpo umano di Gesù la manifestazione della sua gloria.

Mentre abbiamo la sensazione che la Consacrazione sia quasi un momento magico, in cui grazie all’unione di una formula e di un gesto accade qualcosa di incredibile (e in visibile agli occhi), il vero significato della liturgia eucaristica è che la Consacrazione non è affatto un momento a sé, ma è connessa a tutta la grande preghiera eucaristica che inizia dopo il Santo, anticipata dal Prefazio che dice qual è il motivo specifico della preghiera di ringraziamento di quella celebrazione.

Il momento che ci riporta all’Ultima Cena di Gesù e che ci mette alla sua presenza non sono solo le parole della Consacrazione, ma tutta la lunga preghiera memoriale che introduce la Consacrazione stessa e che la segue. A questa preghiera, l’assemblea si unisce dopo il rendimento di grazie finale: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo” con la risposta importantissima dell’ “Amen” che è come il sigillo di un notaio, l’autentica sul fatto che quella preghiera sale dal popolo che celebra al Padre; mentre noi, a quel punto, siamo quasi assonnati o distratti e si risponde “Amen” come riprendendosi da un torpore che ci ha presi per il fatto che in quella lunga parte aveva fatto tutto il prete, ma adesso bisogna destarsi perché “finalmente” tocca anche a noi con il Padre nostro. Niente di più sbagliato, ovviamente.

La Consacrazione è uno dei momenti più importanti della celebrazione, e viene accompagnato con due gesti che ne sottolineano la solennità – il suono delle campanelle e il gesto di inginocchiarsi – ma non bisogna per questo pensare che sia una cosa a parte. È proprio come il cuore pulsante della liturgia, insieme alla proclamazione del Vangelo: ma sappiamo che il cuore dà energia vitale all’organismo eppure sarebbe insignificante senza il corpo che lo circonda.

Don Davide




Tempo di ricominciare

Ogni Quaresima ci rimettiamo al seguito del Signore Gesù. Ogni Quaresima ripartiamo, chiedendo la grazia di seguirlo nella faticosa salita della via crucis, fino al monte della sua croce. Ogni quaresima ripartiamo dal racconto della sua vita offerta, così come hanno fatto i discepoli quando hanno tramandato le prime memorie di Gesù, e rinnoviamo anche noi il desiderio di essere suoi amici.

Ricominciare, spesso, è un sogno. La vita non concede quasi mai di ricominciare, ossia di esaudire il desiderio di riprendere le cose che abbiamo fatto, e correggere gli errori e magari farle meglio. Possiamo andare avanti; ogni tanto abbiamo l’occasione di fare delle svolte, e di cominciare qualcosa di nuovo, ed è la cosa più simile alla possibilità di “ricominciare”.

La grazia di ricominciare ci è concessa solo dentro a quel mistero di salvezza, che è l’anno liturgico con i suoi ritmi, che occupa il tempo e lo ricrea, rinnovandolo. Non è che tornano indietro le lancette dell’orologio, o azzeriamo i calendari, o resettiamo le agende dei nostri telefonini. Ricominciare è una grazia spirituale: è l’irruzione dell’amore di Dio nella nostra vita, che – attraverso la forza creatrice del suo perdono – ci rifà nuovi.

Con il Mercoledì delle Ceneri, noi abbiamo il dono di ricominciare il nostro cammino dietro e accanto a Gesù, per l’ennesima volta nella nostra vita e senza che il Signore ce lo faccia pesare. Forse qualcuno aveva iniziato con grande spinta e si è un po’ stancato; forse qualcuno, dopo un periodo di grande fervore, è stato ferito da tante delusioni e avversità e ha perso la speranza; forse ci ritenevamo bravi, e ci siamo scoperti peccatori.

Coraggio!

È tempo di ricominciare!

Abbiamo la possibilità di rimetterci in cammino. Cosa c’è di più bello che riconoscere con umiltà che abbiamo sbagliato, che abbiamo bisogno di essere ricreati, ma che desideriamo vivere e incontrare il suo amore?

Le Ceneri sono il segno di questo ricominciamento, un segno di conversione, ma nell’amore e con gioia. Possiamo forse ricordare le ceneri della Fenice, che risorge dai propri resti. Ma vorrei dire ancora di più: le Ceneri, che usiamo per l’austero e sobrio rito all’inizio della Quaresima, sono quelle degli ulivi benedetti dell’anno precedenti: un simbolo di pace e di gioia, che preannuncia il mistero pasquale. È bello pensare che nella potenza del perdono di Dio, le ceneri che accettiamo sul capo siano un segno che deriva da un grandissimo gesto d’amore –  il Signore che guarda alla nostra miseria – e che preannunciano il nostro ricominciamento nella luce graziosa del mistero pasquale.

Don Davide




Pastorale di guarigione

Il prossimo sabato, memoria della B.V. di Lourdes, si celebra la Giornata mondiale del malato. È un segno della dedizione che la chiesa desidera avere nei confronti di tutte le persone sofferenti, nel corpo ma anche nell’anima, in comunione con il Santuario di Lourdes, dove la cura dei malati è uno dei carismi più importanti.

Si è soliti definire questa attenzione come “pastorale degli ammalati”, che è un settore molto importante della vita concreta della chiesa; ma tale definizione ha due limiti: sottolinea l’aspetto negativo e definisce dei confini troppo rigidi, come se fosse un ambito che riguarda solo chi si dedica ai malati in modo diretto. Per esempio: la cosiddetta “pastorale degli ammalati” non dovrebbe riguardare anche il catechismo, o i gruppi dei ragazzi? Non dovrebbe sensibilizzare gli adulti della parrocchia?

Bisognerebbe piuttosto parlare di “pastorale di guarigione”, perché evidenzierebbe che lo scopo è quello di dare conforto e speranza e, attraverso la vicinanza concreta, percorre vie possibili di benessere. Sono molte, infatti, le guarigioni possibili. Nella fede, noi sappiamo che insieme alla medicina è possibile la guarigione del corpo, per la quale si prega devotamente e si celebrano benedizioni e sacramenti, in modo particolare il Sacramento dell’Unzione degli Infermi. Ma c’è anche la guarigione dello spirito, laddove un’esperienza di sofferenza e di conforto porta a una conversione, al desiderio di cambiare vita, al rianimarsi della fede e della speranza. C’è anche la guarigione dell’anima, che permette alle persone di portare la propria malattia con enorme dignità e di farne, anche nel logoramento del corpo, un cammino di vita. Tutto questo è possibile solo se ci sono degli uomini e delle donne che sanno esprimere attenzione, aiuto concreto, vicinanza continuativa, amicizia, intercessione nella preghiera.

Così il termine “pastorale di guarigione” mette in moto tutti. Sabato prossimo alle 16, celebreremo il Sacramento dell’Unzione degli Infermi. E ciascuno di noi, immediatamente, pensa se ne ha bisogno oppure no, e di conseguenza valuta se venire alla celebrazione oppure no. Ma chi non ha un amico malato per cui pregare? Chi non ha un parente per cui è preoccupato, da affidare alla cura particolare del Signore e all’intercessione di Maria? Chi non ha delle cose in cui guarire? Ecco: scopriamo di essere tutti coinvolti.

Sarebbe bello, quindi, che la Giornata del malato, diventasse una “Giornata di tutti”, perché cogliamo che va al cuore dell’azione pastorale della chiesa.

Tanto è vero che, ancora più appropriatamente, si dovrebbe parlare di “pastorale del Regno”, perché Gesù associa all’irruzione del Regno di Dio, prima di tutto la sua presenza, ma subito dopo la cura e la guarigione dei malati. È il primo modo in cui l’amore del Padre, che tutto vince, si manifesta nel mondo e incomincia a guarire. È davvero impressionante, in quest’ottica, rileggere la testimonianza che Gesù dà di se stesso a Giovanni Battista: «Riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti resuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11,6). Non dice: organizziamo una bella festa con il catechismo, o un buon pranzo parrocchiale; ma dice: i malati sono guariti.

La cosiddetta “pastorale degli ammalati” (per intenderci) è un modo, anzi IL modo di essere cooperatori del Regno di Dio, e di testimoniare quella promessa di vita, che il Signore ci ha fatto, quando non ci sarà più affanno e sarà tersa ogni lacrima dai nostri occhi.

 Don Davide