Dagli scritti del beato don Giuseppe Puglisi (1991) 

(Testo di meditazione proposto dal Seminario Arcivescovile di Bologna per il mese di febbraio 2024) 

Siamo testimoni della speranza. Il testimone per eccellenza è Gesù, il testimone fedele e verace (cf. Ap 1,5). Attraverso la sua morte e resurrezione Gesù testimonia la realtà dell’amore infinito di Dio che «ha tanto amato il mondo da dare il suo unico Figlio» (Gv 3,16), e dell’amore infinito del Figlio, il quale ha un amore così grande da dare la vita per i propri amici (cf. Gv 15,13). Questo amore di Dio infinito, eterno, da sempre rivolto verso l’uomo, è presente nella storia dell’umanità intera e di ogni uomo. Il discepolo è testimone, soprattutto testimone della resurrezione di Cristo, risorto e presente, Cristo che ormai non muore più ed è all’interno della comunità cristiana, e attraverso la comunità cristiana, è presente nella storia dell’umanità. 

La testimonianza cristiana è una testimonianza che va incontro a difficoltà, una testimonianza che diventa martirio. Dalla testimonianza al martirio il passo è breve, anzi è proprio questo che dà valore alla testimonianza. 

La testimonianza fa penetrare nell’intima natura di Gesù Cristo, nel segreto del suo essere, nella realtà misteriosa della sua persona. Il testimone sa che il suo annunzio risponde alle attese più intime e vere dell’umanità intera e dell’uomo singolo. L’uomo sperimenta che vivere è sperare, il presente è mediazione tra il già e il non ancora, tra il passato e il futuro e chiaramente ognuno di noi costruisce il proprio futuro sulla base del proprio passato. La speranza è la risultante dell’amicizia nel senso più rigoroso del termine; solo gli amici sperano, solo dove c’è l’amicizia c’è speranza.

Il testimone della speranza è colui che testimonia questa amicizia di Dio; colui che testimonia proprio un’amicizia fedele e a tutta prova di Dio stesso. 

Certo, testimone della speranza è uno che esercita, potremmo dire, la vigilanza; la speranza è vigilante. Gesù parla veramente di attenzione alla presenza di lui, alla sua venuta; ma Gesù è venuto, è presente; testimonianza della speranza è proprio una testimonianza vigilante, attenta alla presenza di Gesù. Il testimone è testimone di questa attenzione alla presenza del Signore, attenzione a Cristo che è presente anche dentro di sé. Il testimone è testimone di una presenza del Cristo presente dentro, anzi dovrebbe diventare trasparenza di questa presenza; e testimonia la presenza di Cristo attraverso questa sua vita vissuta proprio con questo desiderio costante di vivere in una comunione sempre più perfetta con lui, sempre più profonda con lui, in una fame e sete di lui. 

A chi, nel profondo, conserva rabbia nei confronti della società che vede ostile, il testimone deve infondere speranza mostrando, insieme all’annunzio della presenza del Signore che ama, fiducia e donando fiducia. 

A chi è pieno di paure, di ansie e quindi non vuole muoversi, perché ha avuto esperienze negative, il testimone della speranza cerca di infondere certezza, risolutezza creativa, coraggiosa, indicando modi concreti e validi di servizio, facendo comprendere che la vita vale se donata. 

A chi è sfiduciato, impaziente, perché ciò che desidera tarda a realizzarsi, deve infondere senso di abbandono in lui, in Cristo. 

A chi è disorientato, il testimone della speranza indica non cos’è la speranza, ma chi è la speranza: la speranza è Cristo; e lo indica attraverso una propria vita orientata verso Cristo. 

Testimone della speranza è colui che, attraverso la propria vita, cerca di lasciar trasparire la presenza di Colui che è la sua speranza,

la speranza in assoluto in un amore che cerca l’unione definitiva con l’amato e intanto gli manifesta questo amore nel servizio a lui, visto presente nella Parola e nel Sacramento, nella comunità e in ogni singolo uomo, specialmente nel più povero, finché si compia per tutti il suo Regno e lui sia tutto in tutti; manifesta insomma quel desiderio ardente di un amore che ha fame della presenza del Signore. 

 

A cura dei seminaristi.

 




Irrompe il Vangelo

A Ninive era dilagato il male, tanto da ricevere una sentenza che non è una condanna, ma una profezia: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta” (I lettura). Se Ninive avesse continuato così, l’esito della sua convivenza come città sarebbe stata l’autodistruzione.

Purtroppo questa descrizione è più attuale di quanto pensiamo:

quante sono le città degli uomini o in generale le realtà umane così tanto devastate da prospettare un esito di autodistruzione? Per questo motivo, innanzitutto, dobbiamo prendere seriamente il nostro convivere civile e sociale e impegnarci per il bene, la rettitudine e l’amicizia.

Ci incoraggia la testimonianza di San Paolo: “Passa la scena di questo mondo” (II lettura). Non è, infatti, un invito alla rassegnazione. L’apostolo ha sperimentato che c’è qualcosa di nuovo e potentissimo all’opera nel tempo che ci è dato, tale da convincere il re di una città a vestirsi di sacco e cenere, e da mettere nel cuore di poveri pescatori il desiderio di cambiarlo, questo mondo.

Irrompe il Vangelo.

Stupisce che nel periodo di Natale abbiamo celebrato i misteri tra i più alti della fede, ma la liturgia ci dice che il Vangelo irrompe nelle parole di un uomo adulto, consapevole di sé, nella ferialità delle giornate di pescatori e di ciascuno di noi.

Irrompe il Vangelo, quando i ragazzi vanno a scuola.

Irrompe il Vangelo nel traffico cittadino, mentre si raggiunge il lavoro.

Irrompe il Vangelo nel tempo di una casa, di una parrocchia, di un’associazione di volontariato o sportiva.

Irrompe il Vangelo nelle ferie dei nostri giorni e nell’ordinarietà della nostra vita.

Voglio proporre chiasmo dell’annuncio di Gesù: “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino” e trasformarla così:

“Il tempo è vicino e il Regno di Dio è compiuto”.

Ogni attimo è l’istante per scegliere ancora il Vangelo, come se fosse la prima volta.

Ogni attimo e il momento per riconoscere l’amore di Dio che ci trasforma.

Don Davide




Abitare e ospitare

“Maestro dove abiti?” (Gv 1,38)

Riprendiamo l’anno pastorale con il tempo ordinario e tutto il cammino che faremo frequentando il vangelo di Gesù secondo Marco è un tentativo continuo di trovare dimora presso di lui, cioè di abitare stabilmente con lui. Come succede a chi abita insieme, si tratta di salutarlo al mattino, di ritrovarlo quando torniamo a casa, di sapere che abbiamo un punto di riferimento durante la giornata, di “avvisarlo” quando facciamo qualcosa e di contattarlo quando succedono cose belle.

Significa cercare questo rapporto con Gesù che ci dà una casa.

L’inizio di questo tempo liturgico è caratterizzato dall’impegno di stabilire un legame al quale possiamo sempre ritornare e nel quale trovare rifugio e riposo (cf. Mt 11,25-30).

È un’esperienza emozionante, perché sappiamo di poter riprendere a muovere i nostri passi con lui:

se siamo neofiti c’è tutta la scoperta del dell’incontro con Gesù, se siamo cristiani da tanto tempo possiamo sentire la gioia di sentirci nuovamente messi in gioco, di conoscerlo più profondamente, di sperimentare con più sorpresa la sua grazia e la sua provvidenza. E poi si tratta anche di fare sentire questa vicinanza di Gesù a tutti coloro che ancora non la conoscono e non l’hanno sperimentata.

Questa esperienza spirituale ci spinga a ricambiare l’ospitalità

e, come accadde ai discepoli di Emmaus, a fare spazio a Gesù nella nostra casa: nella nostra casa interiore, cioè il nostro spirito, e nella nostra casa esteriore, cioè nelle nostre vite.

Così possiamo rendere tutta la parrocchia una casa in cui Gesù è nostro gradito ospite,

sia per i nostri fratelli e sorelle che sono invitati nello stesso amorevole clima domestico, sia riconoscendo Gesù in loro stessi come presenza del Maestro che chiama ciascuno di noi.

Don Davide




Il Battesimo di Gesù

Leggendo il Vangelo di Marco nella narrazione del Battesimo di Gesù, come gli altri Vangeli che riportano questo evento deflagrante nella storia e nelle vite dei cristiani, siamo invitati a chiederci:

cosa avranno pensato le persone che erano radunate sulle rive del fiume Giordano?

Sappiamo che venivano da Gerusalemme, da tutta la Giudea e dalle regioni intorno al Giordano e possiamo immaginare che fossero fedeli che riconoscevano in Giovanni un profeta o forse persone curiose di incontrare questo uomo carismatico che ripeteva con insistenza che il Regno di Dio stava arrivando, che occorreva per questo convertirsi e che aiutava a farlo attraverso un rito che usava l’acqua del fiume Giordano come strumento di purificazione, in continuità con quanto profetizzava Ezechiele.

Certamente, come seguaci di Giovanni o, semplicemente, persone che lo avevano ascoltato, erano rimasti colpiti sentendolo dire: “Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non sono degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali; costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco…”.

Immaginiamo, quindi, che ogni volta che questo rituale di purificazione e perdono avveniva, nei pressi del Mar Morto, dovessero esserci una moltitudine di persone piene di fede, desiderose di riconciliazione e nell’attesa di conoscere chi potesse essere il Messia che Giovanni annunciava.

Quel giorno, fra i tanti che chiedevano di essere battezzati, c’era Gesù, che ai più doveva semplicemente apparire come uno dei tanti fedeli penitenti.

Chissà cosa hanno pensato quelli che hanno sentito Giovanni rispondere a Gesù che gli chiedeva il battesimo: “Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?”. Possiamo immaginare una folla stupita, perplessa e in questo clima sospeso di fede e interrogazione ecco l’inimmaginabile.

È ragionevole pensare che siano tutti stati travolti da una luce indescrivibile, inondati dallo Spirito, forse atterriti dalla parola di Dio e certamente nessuna di quelle vite è più stata la stessa di prima.

Noi apparteniamo alle generazioni di coloro che pur non avendo veduto credono, e Gesù ci ha definiti beati per questo.

Siamo senz’altro beati quando riceviamo il Battesimo e rinnoviamo le promesse battesimali, grazie a Gesù, che nella sua umiltà e nel suo infinito amore ha creato questo nuovo Sacramento, sentiamo il cielo che si apre, la presenza di Dio che entra nelle nostre vite, lo Spirito Santo che ci abita, illuminando i nostri sentieri.

Ogni volta è come ritrovarsi sul Giordano, rimanere attoniti fissando il cielo che si squarcia, senza fiato sentendo la parola di Dio, ricolmi di quella gioia che fa sembrare il nostro cuore umano troppo piccolo per contenerla, per fortuna siamo diventati tutt’uno con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

Elena e Luca




Preghiera a Maria – Omelia di Capodanno

Maria,

oggi ti veneriamo con un titolo altisonante:

non solo quello di Beata Vergine della Grada,

che ti riconosce vigilante su di noi

– come hanno voluto i nostri avi –

dipinta sulle mura

in questo varco d’accesso,

e protettrice dei moribondi

che qui venivano a spegnersi,

ma con il titolo di Santissima Madre di Dio,

così ci ricordi – anche se nell’immagine

è il tuo bambino che ti invita a benedirci –

che lui è Dio e che possiamo affidarci a lui,

perché è Dio, sta in mezzo a noi

e conosce e capisce tutte le sfumature della nostra umanità.

 

In questo giorno ti preghiamo innanzitutto per la pace,

ma non come la dà il mondo,

che “dicono pace pace: ma pace non c’è!” (cit. Isaia).

Ti chiediamo la pace che bacia la giustizia,

e che trasforma gli strumenti di guerra

in “armi” per arare i campi,

in tecnologie per curare e insegnare,

in utensili per costruire la pace

montandola pezzo per pezzo,

anche con il nostro contributo.

 

Ti chiediamo, cioè, la pace di Gesù,

quella di cui noi ci assumiamo in pieno la responsabilità

in tutti i nostri gesti:

quella che non dissemina il peccato personale nel mondo,

quella che cerca la riconciliazione e perdona,

quella che prega per i nemici,

benedice coloro che maledicono,

aiuta la persona incappata nei violenti

e ama quotidianamente i propri amici.

 

All’inizio di questo anno, Maria,

ti affidiamo i bimbi che nasceranno:

perché siano amati sapientemente,

e possano crescere come artefici di un futuro

che cuce la volontà di Dio

“come in cielo così in terra” (cit. Matteo).

Ti preghiamo per tutti coloro che moriranno:

perché abbiano qualcuno vicino a tenergli la mano,

e ogni dolore, di chi parte e di chi rimane,

venga alleviato.

Però ti supplichiamo, Madre di tutti, che nessuno muoia più

in mare, nel deserto o tra le montagne della nostra Europa.

 

La prima volta che Gesù si è rivelato come Dio,

tu eri a Cana; ti preghiamo quindi anche per chi si sposerà:

fa che non manchi mai

il vino della gioia e dell’amore nelle loro case

e che possano trasformare le eventuali crisi

in grazie tanto abbondanti quanto 6 giare da 120 litri.

 

Maria, tu ci hai mostrato

– e noi avremmo dovuto apprenderlo fin dall’inizio –

che la donna è uguale in diritti,

dignità e responsabilità all’uomo:

fa’ che non dobbiamo aspettare un altro anno

perché ogni donna sia rispettata

e nessuna sia picchiata, violentata o uccisa.

Fa’ che non dobbiamo aspettare un altro anno

perché ogni donna che lavora e vuole anche essere madre

non sia discriminata in alcun modo,

perché le donne siano pagate come gli uomini

e perché, nelle nostre comunità cristiane,

rispettiamo anche tutte le donne

che scelgono di non diventare madri

e di realizzare il dono della propria vita

in modo a loro più consono.

 

Ti preghiamo, infine, per le giovani e i giovani,

che sono il nostro presente futuro,

o meglio, il loro stesso futuro presente.

Ti preghiamo per quelli che abbiamo incontrato in parrocchia,

all’Estate Ragazzi, nei gruppi,

nel gruppo giovani, nell’Azione Cattolica e nei movimenti,

e nei nostri lavori:

aiutaci a non dimenticarci di nessuna e nessuno di loro;

che siano sempre presenti,

davanti al Padre e al tuo Figlio risorto,

attraverso la tua intercessione e la nostra preghiera.

 

Qualche giovane c’è nelle nostre assemblee

e nella nostra comunità,

molti mancano, troppi ci mancano,

e noi cerchiamo di volere bene a tutti,

di stimarli e di continuare a incoraggiarli.

Quella tua mano benedicente si stenda su di loro, Maria,

la tua benedizione li raggiunga ovunque si trovino:

sentano un fremito di fiducia e un presagio d’amore,

anche se non immaginano da dove venga,

e la tua protezione e la nostra preghiera

possano accompagnarle e accompagnarli

a conoscere Gesù

e a vivere appieno la loro vocazione.

 

Amen.




Santa Famiglia

Una Santa Famiglia? Perché no?

Tutti noi vorremmo una bella famiglia, una famiglia felice, addirittura una famiglia santa, se crediamo in Dio. Il brano del Vangelo che la Liturgia ci propone oggi parla proprio di questo: come è, come si riconosce la santità di una famiglia, quella di Gesù.

Il racconto non riporta miracoli o gesti speciali, ma solo gesti ordinari.

Ci viene infatti presentata una famiglia che va al Tempio e incontra altre persone, che appartengono ad altre famiglie, con età e storie completamente differenti: un vecchio e una vedova. Una famiglia che non si isola davanti a sconosciuti, ma si ferma e ascolta. E se non capisce, non rifiuta, non controbatte, ma ripone nel cuore, per pensarci con calma.

Sono cose normali, ma portano frutto.

Il figlio, la finestra aperta sul futuro di quella famiglia, cresceva in sapienza, età e grazia.

La santità di questa famiglia non viene dal fare cose straordinarie, ma dal modo in cui fa quelle normali.

Il racconto inizia e si conclude menzionando esplicitamente il suo stile: presentandosi al Signore, cioè vivendo sotto lo sguardo del Signore.

La famiglia di Gesù è allora certamente la Santa Famiglia, il modello per tutte le famiglie.
Ma anche della famiglia di Abramo e Sara, di cui parlano le altre letture, si può dire che sia stata una Santa Famiglia, perché anche loro hanno affidato la loro vita al Signore.
E noi? Anche noi possiamo affidare la nostra vita al Signore per far diventare Santa la nostra famiglia!

In questa famiglia c’è spazio per tutti: bambini, adulti e anziani.

Tutti contribuiscono e vanno ascoltati perché tutti hanno qualcosa da dire davanti al Signore. Per Maria e Giuseppe, per Abramo e Sara, il Signore era il Dio che con l’Alleanza sul Sinai aveva promesso di stare sempre col suo popolo per proteggerlo con la sua potenza. Per noi, il Signore sotto il cui sguardo porre la nostra vita è quel Gesù che, dopo aver vissuto nella sua famiglia, ha mostrato come la potenza di quella protezione si manifesta nella mitezza e nella tenerezza.

Questa festa ci dice allora come, vivendo sotto lo sguardo del Signore, anche noi possiamo essere una Santa Famiglia, se siamo adulti, o prepararci ad esserlo, se siamo giovani. E la bellezza della speranza che nasce dal fare nostro il senso di questa festa è l’augurio migliore per iniziare il nuovo anno.

Carla e Paolo Bassi




Credo il Natale

Credo che il Natale è la nascita di Gesù, il Figlio di Dio, il salvatore del mondo.

Credo che il Natale vada celebrato con la Chiesa e nella propria comunità. Credo che in questi rapporti, ci sia uno spazio speciale per le famiglie.

Credo il Dio di Gesù Cristo, che abbiamo conosciuto dentro la storia del popolo di Israele, come testimoniano le bellissime profezie di Isaia e di Michea che ascoltiamo in questi giorni. Soprattutto quella di Isaia 2, che vede il giorno in cui si smonteranno i missili e si costruiranno scuole.

Credo che il presepe è un dono che soltanto l’intuizione di uno come Francesco d’Assisi poteva lasciarci. È ancora più bello non solo quando puoi ammirarlo da fuori, o guardarci dentro, ma quando puoi guardare “da dentro” come in quello della nostra parrocchia.

Credo sia bello pure l’albero di Natale, soprattutto quando è fatto con i bambini. E – a proposito – credo ci rendano più lieti anche le lucine e gli addobbi, e tutti i segni di festa che ci sono, perché noi che lo viviamo spiritualmente sappiamo che alla fine il Natale coinvolge tutti. Mi colpisce quando si sentono nei locali le canzoni che parlano di Gesù bambino. E non possono essere ridotte solo a una favoletta, quando senti i cantanti più famosi del mondo che interpretano Silent Night e gridano: “Christ the Saviour is born!”.

Nessuno potrà farci dimenticare il Natale sacro, a meno che non lo lasciamo andare noi stessi.

Tuttavia è necessario che a Natale i negozi e le attività commerciali chiudano, e gli sport si fermino. Magari già dal pomeriggio della Vigilia.

Comunque una gara c’è e ci dev’essere: è quella della solidarietà e sì – certo – credo che siano meglio i panettoni e i pandori solidali, e anche le Stelle di Natale. Credo, però, che la vera solidarietà sia rivolta ad ogni sofferenza del mondo.

Credo che sia vero che a Natale possiamo essere tutti più buoni. Non è automatico, ma la liturgia dice:

“È apparsa la grazia di Dio, che ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani” (Tt 2,11-12).

Credo che solo curando la vita spirituale si possa avere una luce, vedere il cielo aperto e ascoltare gli angeli, ossia Dio che ti guida.

Vedo, infine, in questa notte santa, una donna, un uomo, un bambino e una platea di persone di tutti i generi attorno. Credo che gli uomini non “devono” fare la guerra e che, fin da quella scena, dovesse essere fuori di dubbio e messa in pratica in ogni aspetto la perfetta uguaglianza in dignità e diritti delle donne, nelle loro differenze. Credo che i bambini debbano essere coperti da un magico scudo di paglia, talmente leggero da non sentirlo ma inscalfibile come l’armatura di un mandaloriano, e che chi vorrebbe violarli si scontri con le corna di un toro e il calcio di un asino.

Credo che tutti, proprio ogni persona sia invitata a celebrare Gesù, il Cristo, e che non ci sia anima sulla Terra che non sia sorella di Gesù e Figlia di Dio. È un legame di sangue che si può rifiutare, ma da quella notte la Luce splende e chi vuole l’accoglie.

Don Davide




L’uomo del deserto e il portavoce

Giovanni il precursore è il più grande fra i nati da una donna. Lo Spirito Santo in lui si manifesta ancora prima della sua venuta al mondo, quando è nel grembo materno.

E l’epoca di Giovanni vide un fiorire di gioventù radicalmente votata al Signore. Il luogo della meditazione scelto da Giovanni e da quelli come lui è il deserto.

Persino Gesù si recherà nel deserto per pregare, digiunare e, nell’assoluto silenzio, nella più alta solitudine, unirsi a Dio nella contemplazione.

E nella perfetta solitudine del mistico Gesù verrà tentato dal demonio in quella lotta terribile che pone l’uomo, persino il figlio di Dio nella sua natura umana, innanzi alla scelta suprema fra Dio e i beni mondani. Il mistico rinuncia al caos mondano, si ciba di locuste e miele selvatico, diviene anche nella sua figura corporea un essere potentemente spirituale. La sua opera è invisa ai sacerdoti del tempio, poiché coloro che da lui vengono purificati dai peccati mediante il battesimo non sentono più l’esigenza di offrire olocausti. E allora i sommi sacerdoti mandano degli emissari a chiedergli chi egli sia.

Alla domanda Giovanni non si sottrae. Risponde di non essere il Cristo, rivela la sua identità triplice di testimone, profeta e sommo sacerdote del Messia che viene. Di se stesso Giovanni ha tutto: egli è una voce che grida nel deserto. Il deserto che è il luogo fisico e psichico nel quale si è ritirato affinché questa voce, profetica e sacerdotale, non potesse essere confusa con il clamore mondano: grida l’ultimo dei profeti e il primo di una nuova stirpe di sacerdoti, si presenta come il primo uomo chiamato da Dio a seguire una voce, Abramo. Giovanni il precursore, ha dentro di se la parola di quella voce che chiama Abramo, incarna quella voce di totale cambiamento che avrà l’apice del suo compimento in Gesù.

Giovanni sente dentro di sé la voce: “Vattene”. Sono uomini che sentono quel “Vattene nel deserto” esci dalla tua consuetudine, dal rumore mondano, vattene nel luogo del perfetto silenzio della contemplazione dove è Dio.

Chi è oggi l’uomo del deserto?

È quella scandalosa creatura che, con le parole del poeta Massimo Morasso, può essere chiamata “il portavoce”.

Qual è il deserto nel quale l’uomo del nostro tempo può ritirarsi per incontrare Dio?

Nel raccoglimento dentro se stesso, nell’attenzione che è un’attitudine in prima istanza interiore possiamo udire la voce che parlò ad Abramo, identica, nei millenni. L’anima è la depositaria della chiave, è la protagonista onnipotente della chiamata perché è divina. Un’anima digiuna di cibo terreno e per questo più affamata e delle parole dell’Eterno delle verità gloriose dei Cieli. Una volta tornati dal deserto con questo tesoro intangibile di cui l’anima è custode siamo chiamati a diventare, in quanto eredi di Giovanni, il portavoce. Questo è rendere testimonianza alla luce nel nostro tempo. “Vattene nel deserto, abbandona le tue comodità, conoscimi, custodiscimi, diventa il mio portavoce”.

Il Magnificat, la risposta data a Maria a sua cugina Elisabetta che salutandola ha sentito esultare dentro il suo grembo Giovanni: le prime protagoniste e depositarie del più grande mistero che Dio condivide con l’umanità sono due donne in gravidanza. Esse sono la radice della regalità e del sacerdozio, sono portatrici carnali del sacro. Il salmo ci parla di una totale adesione, la totale adesione di Maria al disegno divino che la riguarda. Un’adesione che non chiede garanzie, come è quella di Giovanni. L’uomo che sa affidarsi alla sua anima è, come ricorda san Paolo, un uomo intero. Il dio che chiama Abramo, Giovanni, Elia, Maria, non mente, non è una voce falsa, è una voce affidabile che promette la santificazione dell’uomo in spirito, anima e corpo, nella sua interezza e chiede solo in cambio di astenersi dal male: di amare.

Sarah Tardino

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Per tutti sarà Natale

In un’era di attese deluse
e risposte mancate,
mentre millenarie certezze
crollano annichilite
e ideologie di carta
balbettano il nulla,
nel paradosso di esistenziali antitesi
(frenesia di onnipotenza –
proclamata casualità del tutto)
che divorano l’uomo,
nel nostro cuore
che anela all’infinito
grida ancora l’attesa:
“Quando verrai, Signore? Perché indugi?
Grovigli d’ingiustizie
incatenano l’uomo,
soprusi intollerabili ne infrangono
l’innata dignità,
e noi, Tuoi figli,
nell’oscuro crepuscolo del mondo,
non abbiamo più mani
per raccogliere strazi senza voce!”
Ma il tempo del Signore
non contempla ritardi o fallimenti
né facili vendette:
nell’alveo dei millenni
scorre il fiume infinito
di una pietà sapiente
che attende,
con pazienza amorosa,
che ogni tralcio
si riannodi alla vite,
che ogni agnello perduto
sia riabbracciato.
Egli verrà, a illuminar le genti,
incendiando i colori dell’aurora,
a ricomporre stinti frammenti
di storia senza volto
in un mosaico denso
di trama e verità.
Respirando
nel diaframma del mondo,
cooperatori di pietà e giustizia,
ogni sole che sorge
accenda il nostro cuore,
ogni umano dolore
ci appartenga.
Solo così per tutti
sarà Natale.

Carla Roli




L’editto del Re

Perché Gesù, il Signore, è Re dell’Universo?

Perché passa in rassegna il suo regno. E cosa vi trova?

Vi trova guerre, attentati, carestie, inondazioni, pestilenze, violenza. Roba da fare venire i brividi. Sono “giorni nuvolosi e di caligine” (I lettura: Ez 34,14) per il suo regno.

Ma vi trova anche delicatezza, gesti di cura impareggiabili, mani che asciugano lacrime e terreni, mense condivise, costruttori di giustizia e di pace.

Per ogni vita violata, il Signore sa che ce ne sono dieci particolarmente accudite.

L’opposto della perversa logica della vendetta.

In questi casi, cosa fa un re corretto e responsabile, un re buono? L’apostolo Paolo, nella seconda lettura, risponde: “È necessario che egli regni, finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi” (II lettura: 1Cor 15,25).

Perciò il re proclama un editto per sostenere e difendere tutto il bene che c’è e avversare il male con tutti i suoi eserciti, che non sono armati, ma assomigliano più a coloro che fanno le missioni di pace, alla protezione civile, ai volontari che vanno sui luoghi dei disastri ad aiutare a mani nude e cuori pieni.

Questo editto suona così:

  • A chi ha fame, offriamo da mangiare
  • A chi ha sete, diamo da bere
  • Chi è forestiero sia accolto
  • Se ha bisogno di vestiti, diamogli quello che serve (anche dei nostri, che ne abbiamo sempre troppi)
  • Chi ha bisogno di vestiti riceva quelli che necessita (anche dei nostri, che ne abbiamo sempre troppi) 
  • A chi è in carcere, diamo l’opportunità di riscattarsi 

Non appare un decreto impraticabile.

Sicuramente non è difficile da capire, non ci sono ambiguità. Inoltre, mentre il re emana questo editto, ci dà lui stesso un esempio, perché come fa lui, facciamo anche noi: pasce il suo gregge, la pecora affaticata e quella forte, non lascia indietro nessuna.

In questo modo Gesù, mentre scende in mezzo al suo regno, sale sul suo vero trono, per concedere a tutti la grazia della vita.

Don Davide