Camminare, conversare, sostare

Tre verbi che ci permettono di accostarci al mistero della resurrezione.

“Camminava con loro” (Lc 24,15)

Anche se il trekking sta tornando di moda e si capisce l’importanza fondamentale delle passeggiate all’aria aperta, possibilmente in mezzo al verde dei prati o ancora meglio di un bosco, abbiamo ancora molto bisogno di recuperare questa consapevolezza del camminare, che ci aiuta a sfuggire dalle spire del traffico quotidiano, e a ritrovare lentezza, tempo di distensione, stacco tra un’attività e l’altra. In realtà, lo faccio io stesso, camminiamo con il viso rivolto al display del cellulare: sfruttiamo il tempo di rispondere ai messaggi e alle mail, oppure di controllare i feed dei nostri social.

Camminare dovrebbe essere il modo di sedersi accanto al reale

Sembra paradossale, ma è proprio come facevano una volta gli anziani, fuori dalle latterie di paese, sulle sedie intrecciati coi fili di plastica e la struttura in ferro.

Da Gerusalemme a Emmaus è un lungo cammino, circa 11 km. In quel tragitto i discepoli hanno avuto il tempo di tirare fuori le loro delusioni e amarezze, ripercorrere i ricordi, sentire dei moti dell’animo e prendere confidenza con il pellegrino sconosciuto.

“Conversavano” (Lc 24,14)

“Conversare” è molto più di “parlare” o “scambiarsi delle informazioni”. Spesso, la fretta ci induce a queste ultime due modalità, sia nella vita professionale, che in quella famigliare. Capita, poi, che con gli amici manchino argomenti, e anche se ci sarebbe il tempo di conversare, lo sprechiamo in discussioni e comunicazioni vacue.

Conversare significa arrivare a mettere in sintonia le nostre emozioni profonde.

È un processo articolato e delicato, che richiede lentamente di abbassare le difese e superare le diffidenze, e aprirci per poterci muovere dalla posizione in cui eravamo noi alla dimensione in cui si trova l’interlocutore. Spesso, invece, la conversazione è intesa come un portare l’altro dove siamo noi, ma in questo caso perde la ricchezza della possibilità di versare il cuore l’uno nell’altro e arricchirsi reciprocamente.

“Resta con noi” (Lc 24,29)

Sostare… Chi si ferma più? Il filosofo Pascal sarebbe seriamente preoccupato per la salute spirituale della nostra generazione, perché anche quando ci fermiamo, rischiamo di farlo non per “condividere” qualcosa, ma per “fare” qualcosa. Sostare è l’unica via per dare spazio ai ricordi, e permettere loro che si incidano, come nel marmo, nel nostro spirito e nella nostra memoria.

Sostare sostanza la nostra esistenza reale.

Mettersi su una panchina e contemplare le montagne. Sedersi sulla spiaggia e ammirare il mare. Annusare il profumo di un fiore. Stare a tavola qualche minuto dopo che si è finito il pasto. Si può sostare anche facendo qualcosa, senz’altro, l’importante è avere la consapevolezza di chi c’è con noi e di cosa stiamo facendo in quel tempo condiviso e prezioso.

Gesù conduce questi passaggi come la migliore guida spirituale possibile.

Più abile di Socrate nella maieutica (non me ne vogliano i classicisti e i filosofi!), più resistente di un maratoneta, e buontempone come un bolognese a tavola!

In questa esperienza del reale, vissuta con calma, tempo disteso, e pacatezza, accade una cosa prodigiosa. La vita vissuta si riaccende in un ricordo sensibile – quella benedizione, quel pane spezzato… – improvvisamente acquista di significato e diventa promessa di una vita futura e tanto desiderata.

L’amore espande i sensi e apre la finestra della resurrezione: il cuore ardeva e lo riconobbero.

Era vivo, e non avevano più bisogno nemmeno di vederlo.

Don Davide




Misericordiate

“Sia benedetto Dio, per la sua misericordia!” (1Pt 1,3)

Questa esclamazione della seconda lettura si intona perfettamente con il senso dei giorni di grande festa che viviamo.

È grande festa perché è la Domenica in Albis, la Domenica della Misericordia – appunto – che si celebra ancora con tutta la solennità di Pasqua.

È grande festa perché abbiamo le Prime Comunioni dei bimbi – ben 48! – e il Battesimo di quattro bimbi.

In questo periodo abbiamo celebrato abbondantemente la misericordia, sia attraverso il sacramento della Riconciliazione, sia nelle traboccanti liturgie del Triduo Santo.

Ricevendo grande conforto, ho incontrato tante persone in sincera ricerca della verità sulla propria vita e autentiche nella loro richiesta di perdono ricevuto e di riconciliazione data, anche quando quest’ultima è particolarmente difficile.

Gesù risorto, in mezzo ai suoi, consegna un mandato molto preciso: “A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi.” (Gv 20,23)

In altre parole: se non «misericordiate» voi, chi lo farà?

Se non testimoniate voi la compassione e la tenerezza di Dio, come potrà essere conosciuto?

Tutti questi bambini che fanno la Comunione e le loro famiglie, e i pupetti e le pupette che ricevono il Battesimo ci inteneriscono.

Abbiamo un compito preciso: testimoniare a loro, come chiesa e comunità parrocchiale, la bontà di Dio, la sua guida sicura, l’amore concreto di Gesù, il calore interiore dello Spirito Santo. Da questa meraviglia verranno educati.

Siamo certi che cresceranno orgogliosi e grati di essere figli e figlie di Dio.

E che questa compassionevole benevolenza della misericordia, che ricostruisce la fiducia nella vita, raggiunga ogni persona che conosciamo e si allarghi al mondo intero.

Troppi dolori e troppe atrocità, nascondono il vero volto di Dio.

Gesù risorto, che sta in mezzo a noi augurando e affidandoci pace e misericordia, vuole che tutti lo possano incontrare.

Don Davide




Com’era quel giorno?

Chissà com’era il mattino del giorno di Pasqua, nei pressi del sepolcro di Gesù, poco fuori Gerusalemme.

Mi sono sempre chiesto se c’erano dei segnali, ai quali le donne non avevano prestato attenzione, o che non erano in grado di percepire a causa del turbamento che ancora agitava il loro animo.

C’era forse un silenzio surreale – quasi meravigliato – oppure gli uccellini volavano più festosi del solito e le rondini facevano le loro evoluzioni tra il porticato del Tempio?

Le persone che si svegliarono presto percepirono qualcosa di diverso? L’aria era frizzante o lieve?

Ci fu almeno un soldato rapito da un presagio di pace o un sacerdote ammansito dalla dolcezza del pentimento?

E l’alba com’era? Rossa come il fuoco, rosa come i fori di pesco, gialla come un campo di girasoli o azzurra come lo specchio del Mare di Galilea circondato dai colli?

Infine, la pietra rotolata era luminosa od oscura? La luce entrava nel sepolcro aperto, oppure usciva da esso un bagliore più chiaro del giorno, come l’acqua dolce quando si mescola con quella salata nell’estuario di un fiume?

A queste mie curiosità non c’è risposta.

In quel misterioso tempo intermedio, una cesura è avvenuta nella storia del mondo, il sepolcro è diventato una porta d’accesso tra l’uomo e il divino, una frattura nella crosta dura dell’esistenza, attraverso la quale Dio è entrato nel tempo.

Credo che tutto annunciasse la resurrezione, pur essendo tutto perfettamente uguale agli altri giorni.

Era una vibrazione improvvisa, inattesa, come un colore fuori dallo spettro visivo, come una melodia oltre il nostro campo uditivo.

Una sorpresa, che da allora in poi chiede di essere riconosciuta attraverso la fede.

È un senso spirituale, che si aggiunge ai nostri cinque sensi e che non è solo un sesto senso, ma una facoltà che va allenata, riconoscendo le ferite che diventano feritoie, come le piaghe di Gesù, e le porte chiuse che vengono aperte, ogni volta che l’amore trova un pertugio.

Celebriamo la Pasqua con la consapevolezza di questa sorpresa, che può sempre raggiungere la nostra vita, mentre ci chiede di allenare la fiducia che ci permette di accoglierla.

Don Davide




Il privilegio di Dio

Tu sei magnifico e onnipotente, Signore. Nella tua dimora regale, seduto sul trono di gloria, come ogni sovrano, chissà quanti privilegi hai!

Eppure, sei sceso ad abitare in mezzo a noi e non hai scelto un hotel a 5 stelle, ma il retro di un’abitazione, e anche i cherubini e i serafini – che di solito popolano il tuo palazzo – non hanno disdegnato, come te, la compagnia di qualche animale: un asino, un bue – chissà – forse anche due conigli, una capretta, qualche gallina e tre pecorelle.

L’apostolo Paolo ha preso pezzi di una canzone orale del tempo e ne ha composto un inno, su questo viaggio che hai compiuto, Gesù, dall’alto al basso e poi di nuovo verso l’alto, in un livello intermedio tra la terra il cielo, quello della croce. Noi l’abbiamo un po’ ammansita questa meditazione, ma potremmo renderla così: “Pur essendo Dio, non ritenne un privilegio essere Dio, ma svuotò se stesso” (Fil 2,6-7).

Cosa si può pensare di più atroce della situazione degli uomini e donne che vengono venduti, ancora oggi, in molte parti del mondo?

La fine del tuo viaggio – di questa discesa dal trono del cielo, al pagliericcio della terra, fino al giaciglio della croce a mezz’aria – inizia proprio così: sei venduto, per farti morire. Come gli schiavi, come le vittime dei trafficanti di organi, come i giovani e inesperti soldati mandati al macello da chi ha le ville con la piscina.

Qual è dunque il privilegio di Dio?

Qual è il tuo privilegio, Gesù?

Che cosa ritieni degno, tu, dell’esistenza di Dio?

Per rispondere a questa domanda, i narratori del tuo ultimo tratto sulle nostre strade, elencano una serie di situazioni vertiginose.

Sentirsi ingiustamente motivo di scandalo, solo per essere stato testimone di un Dio libero, mite e amorevole; fare parte dei rinnegati, i dissidenti dalla loro patria, gli omosessuali dalle loro famiglie, gli inefficienti dalla società dei consumi, i malati e gli anziani lasciati soli, chi si sente cacciato e rifiutato dagli affetti più cari.

Inoltre, il privilegio che scegli per te è, Gesù, condividere la sorte di quelli che vengono bullizzati, sostituirti ai prigionieri e ai carcerati, giungere perfino ad affiancarti nel dolore di chi viene torturato.

Infine, fermare il braccio di chi usa la violenza nel nome Dio.

Tutto questo è il privilegio di cui ti fregi, proprio perché sei Dio.

Ed ora, camminare di nuovo in quello che era il Paradiso Terrestre deturpato dal peccato, senza più fare paura agli esseri umani, anzi, facendoti vicino ad ogni uomo e ogni donna soli, che soffrono in terra, in mare e in ogni luogo, per consolarli come una madre che prende in braccio il suo bambino, per alleviare il dolore, perché nessuno abbia più paura del buio e degli orchi.

Il privilegio che rivendichi, Gesù, è entrare in tutte le sofferenze e coccolarle d’amore.

Ma il privilegio di Dio è anche sedere a tavola con gli amici, benedire il pasto e i doni della terra, scoprire – meraviglia inattesa – che ci sono fratelli e sorelle sconosciuti, pronti ad asciugarti il sangue e il sudore dal volto, disposti ad aiutarti a portare la croce.

Alla fine di questa contemplazione, ti preghiamo Signore Gesù – noi che siamo guardinghi e prudenti, e magari un po’ timorosi – insegnaci ad essere “invidiosi” dei tuoi privilegi, anzi a “morire di invidia” per te, nella Settimana Santa.

Don Davide




La medicina del mondo

All’inizio del racconto evangelico di questa domenica, per cinque volte in sei versetti, si dice che Lazzaro era malato.

Lazzaro è figura del mondo, che è malato.

Se non si ridesta dal suo sonno, sprofonda nell’ombra della morte. Al contrario, Gesù lo richiama alla vita, perché si manifestino le opere di Dio.

L’opera di Dio è questa: richiamare alla vita il mondo.

Contrariamente al nostro corpo biologico che ha bisogno del riposo per guarire, il nostro corpo spirituale, per essere sanato, ha bisogno di ridestarsi.

La parola di Gesù è come un tuono in quest’ultima domenica, prima della Grande Settimana, la Settimana Santa: VOI togliete la pietra, e TU Lazzaro vieni fuori.

C’è un compito di tutti e una responsabilità personale.

LA PACE

Non bisogna mettere una pietra tombale sulla pace.

“Ma è già di quattro giorni!” dice Maria. “Questa guerra, queste guerre sono già durate così tanto! Ormai non ci si può fare più niente!” Ma proprio perché la guerra fa puzza bisogna togliere la pietra tombale sulla pace, e dare aria e sciogliere quelle bende da mummia che impediscono di percorrere la via della riconciliazione.

LA FEDE

“Se tu credi” (Gv 11,40) dice Gesù.

C’è bisogno di risvegliare la fede. Non è una cosa insensata, neppure di fronte alla morte, né impossibile.

Gesù, nella preghiera per Lazzaro ringrazia. Questo ringraziamento permette a Maria di “vedere le grandi opere di Dio”. Tu incomincia a ringraziare e scoprirai che la tua fede si risveglierà.

LE LACRIME

C’è troppa sofferenza nel mondo. Ci sono le atrocità, ma anche tanto dolore nascosto, calvari e croci che si ripetono sfrontatamente, per esempio la morte di un amico, un fratello. Anche Gesù piange. Le sue lacrime sono sorprendenti in questa situazione, in cui ha appena dichiarato di essere lì per la vita di Lazzaro, nonostante ciò si commuove nell’intimo.

Lasciamoci commuovere. Non abbiamo paura di essere sensibili.

Le lacrime somigliano tanto a quel lavacro di rigenerazione che è il Battesimo e preparano la Pasqua.

 

Così, il vangelo di Lazzaro è come il terzo tempo di una grande sinfonia in quattro movimenti. La samaritana (Gv 4), il cieco nato (Gv 9), Lazzaro (Gv 11) e la Settimana Santa.

La Settimana Santa è la grande medicina del mondo.

Essa ci offre l’ulivo della pace, la tenerezza dei gesti nella Cena di Gesù, la commozione di fronte alla sua morte, la fede che si accende nella notte della morte.

Allora potremo cantare con vera consapevolezza, nella notte di Pasqua: “Mandi il tuo Spirito Signore, e guarisci tutta la terra”.

Don Davide




Il cieco e noi

Quando nasciamo, abbiamo gli occhi chiusi, accecati dalla luce di un mondo nuovo. Qualche tempo dopo cominciamo a guardare, con quell’espressione buffa tipica dei neonati che spalancano gli occhi e li richiudono, e poi iniziano a osservare chissà cosa e chissà dove, fino a che rivolgiamo alla mamma un sorriso, rapiti da quell’amore primordiale.

La cecità nel vangelo di oggi, non è né una condizione fisica, né una condizione morale, ma uno spazio vuoto, dove si possano rivelare le meraviglie di Dio. È la “terra informe e deserta, e l’abisso tenebroso” del mondo prima della Creazione (Gn 1,2). È l’essere umano prima che venisse posto in lui “un alito di vita” (cf. Gn 2,7). Siamo noi, prima della Creazione nuova del nostro Battesimo.

È come se Gesù dicesse: “Sia la luce!” (Gn 1,3), ma anche: “Ricevi il Battesimo!”, perché “lo Spirito di Dio aleggia sulle acque” (cf. Gn 1,3).

Il cieco guarito testimonia un fatto. “Una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo” (Gv 9,25).

Come con la donna samaritana, quando Gesù le dice: “Sono io che ti parlo” (Gv 4,26), anche questo incontro progressivamente raggiunge un apice di consapevolezza: “Lo hai visto: è colui che parla con te!” (Gv 9,37).

Allo stesso modo di una mamma che parla alla sua bambina e l’accarezza, finché non apre gli occhi e la riconosce, così Dio, attraverso Gesù, parla alla nostra vita e ci accarezza, finché non apriamo gli occhi e lo riconosciamo.

Una prima volta è accaduto, quando i nostri genitori hanno scelto per noi il Battesimo (oppure lo abbiamo chiesto noi stessi).

Allora siamo stati immersi in un bagno di amore gratuito, che nulla chiede, ma testimonia solo l’affetto preveniente e incondizionato di Dio e di chi ci ama.

Ogni volta che ritorniamo a quella sorgente, come la piscina di Siloe, i nostri occhi si aprono e noi veniamo ricreati.

Ci sentiamo nuovi.

Possiamo testimoniare le grandi opere di Dio che si sono manifestate.

Se ci abituiamo a riconoscerle, anche in mezzo alle tempeste più nere, ne possiamo scorgere tante.

Ciechi alla nascita, vediamo nella vita.

Don Davide




Fare i conti con il peccato

La prima domenica di Quaresima, con grande schiettezza, ci invita a fare i conti con il peccato, manifestando la serietà di questo scontro e la rovina che porta alla vita degli esseri umani, quando sottovalutiamo questa battaglia.

Uno dei punti critici delle nostre società e del nostro tempo è proprio sminuire il valore morale delle nostre azioni.

Invece, è molto interessante e istruttivo cogliere dapprima la dinamica delle tentazioni e poi la posta in gioco che questo episodio della vita di Gesù mette sul piatto.

L’antagonista di Gesù si manifesta in primo luogo come “tentatore”, non ancora con le sembianze reali del male. Gesù ha digiunato tanto, ha fame, che male c’è se trasformasse una pietra in un pane? Non ruberebbe cibo a nessuno e non fa certo problema una pietra in meno nel sassoso deserto di Giuda!

Gesù svela quello che è nascosto, l’insidia più profonda, ossia quella di sapere relativizzare anche gli istinti primari.

Elie Wiesel, nel suo celebre e terribile romanzo La notte, racconta di una situazione nel campo di concentramento di Auschwitz, in cui un uomo stava morendo di fame, ma era finita la razione di cibo. L’autore descrive con memoria atroce e struggente la sua lotta interiore per cedere la sua porzione di cibo, perché anche lui stava agonizzando dalla fame, e la consapevolezza che in quella difficoltà era in gioco la sua stessa umanità. Alla fine, se ci pensiamo bene, sono molte le situazioni, magari anche meno drammatiche e gravi, dove possiamo e dobbiamo chiederci come fare a restare umani. Basti pensare alla rabbia che ci prende, quando subiamo un torto e subito ci pare che questo legittimi qualunque reazione.

A questo punto, il tentatore che si era presentato con la parvenza di una qualche ragionevolezza, si palesa come il diavolo.

È il nemico, ed è reale, e allo stesso tempo cerca di mascherarsi.

La proposta che fa a Gesù è quella di credere che l’uomo non abbia limiti, che possa fare quello che vuole, che non dovrà mai sperimentare il male, il dolore, la sofferenza e, in definitiva, che sia immortale. Per la seconda volta dice: “Sei il Figlio di Dio, lo puoi fare”, ma Gesù smaschera l’inganno. Persino il Figlio di Dio affronterà i limiti della vita umana, le preoccupazioni, la sofferenza e la morte. Diabolico è pensare che queste cose non entreranno mai nella vita degli uomini e che, quando accadono, siano una negazione di Dio. Invece, sono l’opera dell’avversario.

Infine, lui – il diavolo – gioca il suo asso e sottopone Gesù al miraggio del potere.

Nonostante le altre due siano fortissime, il potere viene descritto come l’apice di tutte le tentazioni, e come quella che cancella l’essere figli di Dio.

Nelle prime due, infatti, il diavolo dice: “Se tu sei il Figlio di Dio”, l’ultima è proprio tutto il contrario. Avere il potere assoluto ed esercitarlo come tale, significa rinunciare ad essere il Figlio di Dio, che non è venuto per essere servito, ma per servire.

Ci fa capire quanto grande sia questa seduzione, se ci viene raccontata come una prova a cui è stato sottoposto persino Gesù, il quale ci insegna che il miglior argine contro questa rovina dell’uomo è non prestare la propria vita al dio degli idoli, ma al Signore che libera.

Un incredibile densità in un piccolo testo, per avvedersi che la Quaresima è un tempo bellissimo e di autentica grazia evangelica… ma molto serio.

Don Davide




L’allenamento abbia inizio

In questa domenica che precede l’inizio della Quaresima, ascoltiamo il mandato di Dio a Mosé:

“Parla a tutta la comunità, dicendo loro: Siate santi, come io sono santo.” (Lv 19,17).

La santità viene declinata da Gesù in un amore che va oltre i confini della logica, della giustizia compensativa e persino del buon senso, e per questo diventa un atto di suprema libertà.

Essere liberi di amare, questa è la santità.

L’itinerario quaresimale, che inizia il Mercoledì delle Ceneri, è un allenamento intensivo per raggiungere questo obiettivo. I propositi che vorremo fare, i fioretti e una maggiore attenzione alla preghiera saranno autentici, se avranno come scopo di aiutarci a raggiungere questa libertà interiore e di orientarla al bene.

Caratteristica del Mercoledì delle Ceneri è una grande convocazione.

Il profeta Gioele, nel testo molto suggestivo che viene proclamato nella liturgia, invita tutti a un’adunanza solenne, proprio tutti: ragazzi, giovani, adulti anziani e persino lattanti, e deve essere proprio così.

I bambini del catechismo e anche i gruppi dell’Azione Cattolica dei ragazzi, infatti, hanno proprio questo motto: “Ragazzi, che squadra!”, che richiama il senso di un’impresa comunitaria.

Qualcuno si stupisce quando arriva una giovane mamma con in braccio un bimbo o una bimba piccolissima, che il ministro imponga anche su di loro la cenere, perché sembra che faccia paura e che stoni con una giovane vita che ha tutta l’esistenza davanti; invece, è l’indice che tutti dobbiamo essere rinnovati dall’amore del Signore che tocchiamo concretamente, in questi giorni.

Per questo, il Mercoledì delle Ceneri, facciamo ben tre celebrazioni, la messa alle 8 e alle 19 e la celebrazione per i bimbi alle 17.30, perché tutti abbiano la possibilità di partecipare, nessuno escluso.

Porte aperte, dunque, alla gara dell’amore. L’allenamento abbia inizio.

Don Davide




Cadere nell’amore

C’è una sapienza misteriosa e divina, che viene rivelata a coloro che amano Dio (cf. 1Cor 2).

Non dobbiamo pensare a qualcosa che sia in competizione con gli altri. Magari ci vengono in mente i nostri amici o addirittura le persone più care che non hanno fede o non credono in Dio; non vogliamo affermare che costoro manchino di saggezza o che la loro vita non sia buona o, peggio, non possa essere felice.

Quando l’apostolo Paolo enuncia questa sapienza ai greci ne parla per esperienza personale, è entrato in un rapporto d’amore che – come tale – è sempre singolare, unico e irripetibile.

Quando nel libro del Deuteronomio si ricorda che Dio ha mostrato al suo popolo la vita e la morte, perché lui possa scegliere e decidere liberamente per la vita, è perché tutta la tradizione di Israele si fonda sul fatto che il popolo ha toccato con mano la potenza creatrice e benevola della relazione originale con quel Dio.

È come la vita di una persona quando è realizzata, felice, con dei buoni amici, e a un certo punto si innamora. Quel rapporto, vissuto personalmente, dà un colore, una gioia frizzante e una chiarezza assolutamente imparagonabile a quella di prima.

In questo senso la Sapienza è divina, misteriosa e nascosta: perché la si scova solo, semplicemente, se ci si innamora di Dio.

Come ci si innamora di Dio?

È impossibile avere una ricetta valida per tutti, ma sicuramente ci sono due elementi: corteggiarlo e lasciarsi corteggiare. Nel tempo… questo può condurre a “cadere nell’amore”, come nella perfetta espressione inglese che dice: “He/She is fallen in love”.

Dai e dai, è caduto nell’amore: si è innamorato.

“Amor che a nullo amato amar perdona” ha scritto più aulicamente il Sommo Poeta.

Precisamente questa è la storia che celebriamo questa domenica nella nostra comunità.

Anzi, dovremmo dire “le storie” che celebriamo.

Innanzitutto una vocazione diaconale

che sgorga prima da una vocazione matrimoniale, poi da una vocazione al servizio nell’insieme. Dai e dai, Francesco Paolo e sua moglie Anna Maria ci sono caduti di nuovo: corteggiati da e corteggiando un Dio che ci sia fare, ancora una volta hanno sentito che questi molteplici rapporti, che si intrecciano e si bilanciano come vasi comunicanti, li hanno condotti a rispondere ancora a una chiamata specifica all’amore e al servizio. Abbiamo imparato, negli incontri di formazione, che questa cosa non si spiega in maniera solo oggettiva, ma dentro una relazione personalissima con il Signore, come quando una coppia preferisce fare lunghi viaggi all’estero, e un’altra va sempre nella stessa piccola baita di montagna.

E poi celebriamo tutte le storie legate a San Valentino.

Vicende di fede e di guarigione nel corpo e nell’anima, e racconti di amore ciascuno nella sua forma: chi celebra un cammino fatto insieme e qualche traguardo, chi lenisce un dolore e una delusione, chi chiede il dono di incontrare non l’anima gemella, ma – come dice la Genesi – una persona che gli/le corrisponda.

Oppure, semplicemente, chi vive una sua personalissima vocazione con Gesù, una storia d’amore che nessuno deve permettersi di giudicare e che lo/la conduce a forme di vita varie, originali, profetiche e di consacrazione al servizio e all’amore secondo la fantasia di Dio, spesso assai misteriose e nascoste – come la Sapienza divina – e altrettanto spesso piene di luce e di sapore – come ci ricordava il Vangelo di domenica scorsa.

Se c’è una cosa veramente “giusta” da fare (cf. Mt 5) è ricercare questo amore personale con Dio e rispettare quello dei nostri fratelli e sorelle nella fede.

“Se hai fiducia in lui, anche tu vivrai.” (Sir 15,15).

Don Davide




Chef della pastorale

“Com’è quella persona?”

“Non sa di niente.”

Possiamo comprendere le parole di Gesù nel vangelo, aggiornandole con questa espressione comune.

Quando viene pronunciato, è un giudizio severissimo e brutto: “Non sa di niente.”

Non ha nessun sapore, non è interessante per nulla.

Abbiamo tutti in mente l’atroce severità tra il serio e lo scherzoso di un Barbieri, di un Canavacciuolo o di un Cracco nella celebre trasmissione Masterchef.

Gesù usa la forza di un paradosso: il sale è un cristallo, non perde il sapore.

L’immagine, probabilmente, è legata alla polvere di sale che rimaneva sul selciato quando la gente andava a prendere il sale da grossi blocchi che venivano lasciati nelle piazze. Quello che si sbriciolava rimaneva inutilizzato e veniva calpestato.

Mentre i concorrenti di Masterchef ce la mettono tutta per non fare brutta figura e per non ricevere una tremenda ramanzina dagli chef, mi sembra che non ci sia altrettanto la preoccupazione di essere persone che hanno una ricchezza interiore, non certo costruendosela in modo artificiale – come degli pseudo intellettuali opinionisti tuttologi – e non certo per ostentarla, ma per dare tutte le dimensioni necessarie alla propria vita: la profondità e la leggerezza, le emozioni, i sentimenti, la saldezza psicologica, l’intelligenza, la conoscenza almeno indispensabile per orientarsi nel mondo, una cura ragionevole del proprio corpo, per non trascurare il dono di questo tempio che ci è stato dato.

Quando i grandi protagonisti delle opere letterarie, teatrali o cinematografiche sono riusciti, si dice che sono personaggi a tutto tondo, che hanno uno spessore.

Gesù ci offre un invito per essere persone così, che hanno sapore,

che hanno acquisito una sapienza del vivere e che per questo possono portare un po’ di luce al mondo laddove si trovano e – proprio facendo così, proprio agendo sul e in questo nostro mondo – essere efficaci testimoni del Padre.

Ci addentriamo in un periodo particolarmente importante per la nostra parrocchia e avremo almeno cinque occasioni, cinque contrassegni di stile, per provare a mettere in pratica l’invito di Gesù.

In ordine, la “Giornata per la Vita” della Chiesa italiana, il rapporto con l’arte, attraverso la mostra presente in S. Valentino (fino al 5 febbraio), la “Giornata mondiale del Malato” della Chiesa universale, l’ordinazione di Francesco Paolo Monaco, che ci ha permesso di riflettere a lungo sul servizio come parola chiave di una comunità cristiana, infine, le celebrazioni di S. Valentino, per dare spessore e bellezza anche a una delle esperienza più belle – e per questo più svilite – dell’esistenza: l’amore.

In tutte queste cose, chiediamo la grazia di Gesù e dei santi nostri patroni, affinché chi si accosterà alla nostra comunità cristiana possa trovare del cibo buono, gustoso, saporito e preparato con cura.

Don Davide