Notti magiche

Si è appena conclusa una bella messa, all’aperto, nell’appennino bolognese. È un tardo pomeriggio di inizio settembre rischiarato dalla luce calda e brillante del crepuscolo, è fresco e non c’è più il frinire assordante delle cicale. L’unico suono che si sente, armonioso, è quello di trenta ragazzi che scherzano, ridono, si abbracciano. L’atmosfera è elettrizzata: si capisce che c’è qualcosa nell’aria. Quel tipo di esperienza è l’esatta descrizione del passaggio dello Spirito Santo, per chi ha avuto la grazia di sperimentarlo, almeno una volta, nella vita.

Le ragazze e i ragazzi sono di seconda e terza media, qualcuna inizia la prima superiore. Sono venuti al campo lasciando a casa il cellulare (avete capito bene: lasciando a casa il cellulare per otto giorni!), sottoponendosi al tampone prima di partire e tenendo nei giorni iniziali la mascherina in ogni momento, anche quando giocavano.

Uno degli educatori ha ancora la chitarra in mano e strimpella qualcosa mentre rientra in casa. Un paio di ragazze si uniscono a cantare. Una nota tira l’altra: “Facciamo questa!”, “Cantiamo quest’altra…”. L’educatore si appoggia a suonare sul pianerottolo a metà delle scale e le due ragazze gli siedono a fianco. In breve tempo, tutti i ragazzi si sistemano sui gradini e cantano insieme a squarciagola per quarantacinque minuti. Una scena d’altri tempi. Un momento di magia interminabile… finché le cambusiere non li attraggono con motivazioni più che convincenti.

Mentre questo prodigio stava prendendo forma, ero stato raggiunto dal programma del G20 delle Religioni, che si svolge proprio a Bologna in questi giorni (dal 12 al 14). Un evento importantissimo di dialogo tre le religioni e le istituzioni e con appuntamenti di alto livello: scorrendo il nome dei relatori, oltre a quelli di alcuni leader religiosi, si trovano quelli del Presidente Draghi e del Presidente Mattarella; pensavo: “Wow! Dev’essere interessantissimo andarci!”.

Poi sentivo i canti provenire dalla tromba delle scale e – come con la Madeleine di Proust, ma con l’emozione del suono, invece che del gusto – in un baleno ho rievocato tutti i momenti belli del campo, i sorrisi soprattutto e le condivisioni della loro vita, e ho pensato: “Io non farei cambio con questa esperienza per nulla al mondo! Non c’è G20 che tenga: io non vorrei essere, in questo momento, in nessun altro posto che qui.”.

Lunedì 13 festeggio diciotto anni dalla mia ordinazione presbiterale – divento maggiorenne – e d’ora in poi posso firmarmi le giustificazioni da solo per fare fughino dagli incontri diocesani noiosi! Scherzi a parte, ritengo che un simbolo efficace di questi anni di ministero sia proprio la possibilità di condividere con la mia parrocchia questo apice meraviglioso del campo estivo, con la stessa confidenza con cui lo farei con la mia famiglia a tavola.

Trovo un riscontro, abbastanza preciso nel racconto degli Atti degli Apostoli. Anche gli apostoli, infatti, hanno dovuto testimoniare la fede davanti ai capi del popolo, Paolo addirittura al cospetto del Re, del Governatore e dell’Imperatore stesso… ma le comunità più belle (e con esse le pagine migliori) sono nate da piccoli rapporti semplici e veri, da comunità molto curate nella genesi e nella crescita della fede.

Al termine dell’ultima serata del campo, io ho dovuto salutare, perché il giorno successivo avevo il Battesimo della mia nipotina. Sono uscito fuori insieme ai ragazzi, che andavano ad ammirare le stelle. Mentre percorrevo in auto il viottolo per uscire, una ragazza mi dice al finestrino (cito testualmente): “A proposito don, volevo dirti che è stato fantastico! Volevo che tutte le cose che facevamo, non finissero mai!”.

Quest’estate, tra gli Europei e le Olimpiadi, abbiamo cantato le notti magiche, ma – a dirla tutta – non c’è una notte più magica di così.

Lo tengo come il biglietto di auguri per la maggiore età del mio ministero.

Don Davide




Il potere delle parole (per gli Under 20)

Quanti sordi e muti ci sono nel nostro mondo! Non le persone che hanno difficoltà fisiologiche, che spesso comunicano addirittura meglio degli altri. A loro va tutto il rispetto dovuto.

Ci sono tanti muti di fronte alle ingiustizie, giovani che non difendono i loro amici e le loro amiche, responsabili che non parlano della crisi climatica o, peggio, ne distorcono la percezioni, presunte autorità le cui parole sono così insulse che anche il loro suono risulta vuoto oppure stonato.

E poi ci sono i sordi che non vogliono ascoltare, chi non fa lo sforzo di mettersi in relazione, i peggiori sono quelli che non si meravigliano più e che non vogliono imparare.

Ma voi no, ragazze e ragazzi! Cogliete oggi l’invito di Gesù che guarisce un sordomuto dicendo: “Apriti!”. Doveva avere risuonato con un tale carisma, quel comando, che i narratori lo riportano ancora nella lingua originale: “Effatá”, come quando una parola è talmente forte che ti rimane in mente per sempre.

Io vi dico: leggete libri, guardate film e serie tv, ascoltate la musica, non rinunciate mai a parlare dopo avere pensato con un po’ di saggezza cosa comunicare. E se la gente si stupirà, come accadeva con Gesù, meglio così! Scoprirà che siete recettivi e sarà costretta a riconoscere che avete qualcosa da dire.

Don Davide




Visioni di coraggio

Riprendono la pastorale più attiva, la scuola e l’università, il lavoro e gli impegni personali e la prima parola che risuona in questa domenica è: “Coraggio! Non temete!” (Isaia 35,4-7). I profeti hanno sempre la capacità di infondere speranza e di rigenerare la forza di guardare al futuro, e se pensiamo agli anni di pandemia da cui veniamo e alla crisi della pastorale, che sembra essersi ormai rassegnata a delle chiese semivuote e alla difficoltà di appassionare e coinvolgere i giovani, pare che ce ne sia proprio bisogno.

Accogliamo volentieri perciò lo sguardo dei profeti, che penetrano prospettive che è difficile persino intuire. Concretamente, nel contesto in cui risuona l’oracolo del profeta Isaia, il regno di Israele era sotto l’assedio delle truppe di Sennacherib, imperatore d’Assiria. Sembrava non ci fosse speranza alcuna. Invece il profeta – contro il parere di tutti e fronteggiando contrarietà e umiliazioni – non offre solo un oracolo di vittoria, ma la prospettiva di un mondo nuovo. L’esito della vicenda darà ragione al profeta.

Per vedere la realizzazione delle profezie, però, bisogna credere alla Parola di Dio. Da questa domenica, allora, cogliamo due suggerimenti a cui aderire con fede.

Per prima cosa dobbiamo riconoscere di essere sordi e muti proprio di fronte alla Parola di Dio. Sembra un’affermazione ripetuta banalmente, ma occorre prendere atto che non abbiamo una consuetudine significativa con la Parola di Dio, non l’ascoltiamo (siamo sordi) e ancora meno siamo capaci di testimoniarla in maniera affascinante (siamo muti): in verità, sembriamo sempre dei principianti nella vita spirituale, che invece è necessaria per orientare le nostre scelte di vita, per rafforzare la nostra personalità e le nostre relazioni, e per osservare un rigore morale che riguarda prima di tutto la nostra dignità.

In secondo luogo possiamo cercare di vivere una carità più limpida, non tanto nelle cose eclatanti, quanto negli atteggiamenti fraterni, nel vivere con più cordialità i rapporti in parrocchia e fuori, essere gentili, non discriminare, non dare giudizi affrettati, impegnarsi a volere bene, gioire di condividere la fede con la propria comunità.

C’è un grande desiderio, in fondo, in ciascuno dei credenti, di una fede viva e di una comunità così amorevole e propositiva, da rallegrare persino il deserto e la terra arida.

Don Davide




La salvezza di Dio comprende tutto

Due figure femminili accomunate da un particolare
La pagina del Vangelo di questa settimana (Marco 5, 21-43) non lascia spazio a dubbi sull’Amore che Dio nutre per noi, perché qui esso è espresso da suo figlio Gesù di Nazaret, attraverso due guarigioni di due donne molto diverse, ma accomunate da qualcosa di interessante.

Il numero 12 (1+2= 3)
Nel racconto, entrambe hanno a che fare col numero 12: la donna è malata da tempo e questo dato ci viene fornito chiaramente: “una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici”;
La figlia di Giairo, il quale implora l’aiuto di Gesù perché lei sta morendo ha un’età precisa la fanciulla (…) aveva infatti dodici anni 

Il dodici indica la pienezza dell’anno, composto di dodici mesi, ma anche e soprattutto perché rappresenta il numero dell’elezione, quello del popolo di Dio. “

Dodici i figli d’Israele-Giacobbe; Dodici quindi le tribù d’Israele; Dodici gli apostoli: esso è un numero simbolico che rappresenta la totalità della vita, la ricomposizione di qualcosa che in origine era perfetto e armonico e finalmente, dopo aver superato mille difficoltà, ritorna Uno, Sano, Integro.

Il sangue e la tenacia
Una volta mi capitò di avere un’emorragia dal naso, improvvisa e violenta: ero nel chiostro della mia università ospitata da un ex convento, dove noi studenti ci fermavamo a chiacchierare, a mangiare un panino. C’era gente, ma nessuno si avvicinò per aiutarmi, mentre tiravo fuori fazzoletti dalla borsa tentando di bloccare il sangue.
Lo capii: erano gli anni dei primi sieropositivi all’HIV e il sangue faceva paura così come calpestare una delle innumerevoli siringhe lasciate a terra nei parchi dai tossicodipendenti.
Me la cavai, ma pensai che se fossi svenuta avrei avuto tutti attorno, mentre la sola vista del sangue, aveva scoraggiato anche i più solerti “samaritani”.

La donna di questo brano ha attraversato difficoltà infinitamente più gravi delle mie: ha subito molte sofferenze e delusioni e la sua vita si è completamente identificata con una condizione di malattia e rifiuto sociale: ma per guarire, è disposta a rischiare.
Questa donna si sente impura, ma si getta nella folla per raggiungere un contatto diretto con Gesù: non basterà vederlo, chiamarlo, ma dovrà toccarlo. Quando noi usiamo l’espressione “toccare con mano”, vogliamo dire che abbiamo fatto un’esperienza reale di quella condizione: ebbene questa donna ci riesce: “e sentì nel suo corpo che era guarita dal male”. E Gesù infatti “essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?”. Vuole guardare negli occhi chi è riuscito a ricevere per sé, parte di quel principio che ridona vita laddove sembra regnare solo morte e sofferenza. Non c’è salvezza senza incontro reale: solo quando può dirle, direttamente guardandola negli occhi: “Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”, la donna può davvero riprendere in mano la sua vita.
Gesù le dà atto di non essersi arresa, di aver avuto fiducia pur vivendo una condizione in cui l’istinto ti porterebbe a metterti in un angolo e bloccarti. Anche solo camminare perdendo continuamente sangue, ti dà la netta sensazione di essere in difetto: ti senti svenire, ti senti sporca, senti che tutti potrebbero accorgersi dei tuoi vestiti macchiati. E allora osare di voler guarire è un atto di fede che Gesù apprezza talmente tanto da dire alla donna che è salva: e mi viene da pensare che la salvi non solo dalla malattia del corpo, ma anche da tutte quelle dell’anima, in modo che finalmente possa dedicarsi a costruire il Regno di Dio su questa terra a volte polverosa ed arida, all’interno di una comunità ritrovata.

La giovinezza e la fragilità
La seconda figura femminile è giovanissima e viene descritta come senza vita, esanime, esangue. Potrebbe rappresentare l’esplosione della vita (a dodici anni, spesso si diventa donne) che viene bloccata da un qualsiasi evento improvviso e grave: qualcosa sta rubando ad una ragazza che invece dovrebbe avere tutta la vita davanti, ogni possibile futuro.
Qui Gesù su comporta come un marziano: non si scompone, dice al padre «Non temere, soltanto abbi fede!» e quando arriva a casa di Giairo e gli dicono che la bambina è morta risponde: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». Ovviamente viene deriso, ma questa volta invece di agire nella folla, sceglie pochissime persone da portare con sé nella stanza della figlioletta di Giairo e la guarisce con una frase chiara e decisa: «Talità kum». E il linguaggio cambia: scopriamo che non è più una bambina, ma una fanciulla che, come dicevamo all’inizio, ha dodici anni. Anche qui c’è un passaggio avvenuto: la bambina potrebbe aver avuto paura di crescere, oppure potrebbe essersi arresa al primo pericolo che l’ha sorpresa e non ha lottato: si è abbandonata, molto presto all’altra sorella della vita, la morte. Gesù però fa sentire forte la sua voce, per risvegliare quelle parti di noi che hanno paura di crescere, di cambiare, di lanciarsi nell’imprevedibilità della vita e donare loro nuovo vigore. Quando accogliamo la voce di Dio, diventiamo più grandi, più completi proprio perché abbiamo superato uno snodo critico della nostra crescita.

È quando superiamo le prove (e la pandemia lo è sicuramente) che produciamo finalmente una trasformazione. Le prove difficili sono le uniche che portano ad una vera crescita. In molte culture i riti iniziatici si compiono all’età di 12 anni, dopo di che si entra in un’età adulta. Quindi quando le prove si presentano, non fuggiamo, non anestetizziamoci: superiamole per diventare grandi e completi. Ricordando che all’orizzonte, come leggiamo nell’Apocalisse c’è una Donna vestita di sole ha in capo una corona di dodici stelle, vale a dire un’umanità scelta da Dio per realizzare un mondo in cui pace ed armonia regnino per tutti e per sempre.

Anna Maria




Grandi e gentili

Nelle letture di oggi ammiriamo il Signore della Creazione, che mette un argine ai flutti del mare e che intima al vento di cessare e alla tempesta di calmarsi.

Queste prime due settimane di Estate Ragazzi – la prima solo con gli animatori, la seconda anche con i bambini – sono state esattamente come dice la liturgia di questa domenica. È stato proprio come vedere il Signore della Creazione che, attraverso i ragazzi, diceva all’epidemia: “Taci, calmati!” (Mc 4,39).

Non nel senso che siano passati tutti i pericoli o che non bisogna più tenere alta la guardia contro la possibilità di contagio… ma nel senso che è stato come vedere un forte argine alle forze negative dell’epidemia, mentre si riaffermava la vitalità dei bimbi e dei giovani animatori.

C’è stato, forse, nei mesi passati un momento in cui si pensava: “Maestro, non ti importa che siamo perduti?” (Mc 4,38), sia per la paura di ammalarsi, sia perché sembrava paralizzata la pastorale e appesantita ogni possibilità di incontro e di edificazione fiduciosa.

Invece, grazie alla tenacia iniziale di Alice e Francesca, che hanno scelto con caparbietà di radunare un gruppetto di coordinatori, unitamente alla disponibilità di tempo e all’esperienza di Michele e Suor Aurora e alla collaborazione di Laura e Silvia, sono stati attivati i responsabili degli animatori e tutti loro insieme hanno dato vita a un’esperienza che – nel vero senso della parola – è stata come una boccata di ossigeno dopo il soffocamento di questa epidemia.

Inoltre, è stata ancora più sorprendente di una normale Estate Ragazzi, perché le limitazioni imposte ci hanno permesso di ritrovare il vero senso pastorale di questa iniziativa.

Il numero non tanto elevato di bambini, il momento del pranzo riservato agli animatori e le iniziative per loro nel pomeriggio e, soprattutto, la prima settimana di preparazione fatta con calma e serietà dopo la scuola per preparare al meglio le attività dei piccoli, ci hanno fatto capire meglio che il nostro obiettivo non deve essere di avere il numero più grande possibile, a costo di non riuscire a fare una proposta di valore, e col rischio di esaurire le energie dei ragazzi. L’obiettivo pastorale dell’Estate Ragazzi, invece, deve essere offrire un’esperienza di comunità piena di cura ai bimbi e del tempo di qualità per coltivare la relazione con gli adolescenti animatori.

Da questa impostazione non torneremo più indietro e spero che tutta la parrocchia diventi consapevole che queste sono le scelte che devono guidare l’edificazione della nostra comunità, non dei presunti atti di servizio al limite dell’eroismo, che però non favoriscono la qualità della proposta formativa e la cura (anche in termini di tempo dedicato) che dobbiamo ai più giovani, non solo ai bambini.

Siamo soltanto al giro di boa. Ci aspetta un’altra settimana, in cui speriamo che tutto continui a procedere al meglio, ma anche se dovesse esserci qualche inconveniente, non negherebbe la bellezza di quanto fatto finora e la fiducia che grazie ai ragazzi abbiamo ritrovato e che possiamo continuare ad avere.

Queste righe, cari coordinatori e coordinatrici, responsabili, animatori e animatrici sono esplicitamente un omaggio per voi. Probabilmente, il Grande Gigante Gentile ha soffiato nelle vostre vite un sogno che nemmeno osavate sperare. Tutta la comunità vi ringrazia per il vostro impegno e perché, anche senza pensarci e forse senza saperlo, siete stati grandi e gentili e avete messo un argine all’epidemia, molto più potente di qualunque vaccino.

Don Davide




Cose grandi e umili

Nella liturgia di oggi c’è un tema di leadership cristiana.

Il profeta Ezechiele propone una parabola al termine di una riflessione che offre un confronto serrato fra Dio e tutti gli altri re e imperatori che hanno preteso di rivaleggiare con il suo potere.

Essi, dice il profeta, sono come alti cedri, maestosi e imponenti, ma il Signore eleva tra questi cedri un ramoscello, una cosa piccola, ancora nascente, la pone sulla cima del monte… perché “sappiano tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore: che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso…” (Ez 17,24).

Gesù ci propone, innanzitutto, la parabola del seme che cresce da solo, per affermare che il Signore mette in gioco una forza inarrestabile che permette al seme di crescere, anche indipendentemente dall’attività del contadino. In seguito, Gesù introduce una differenza significativa con il riferimento corrispettivo del profeta Ezechiele: il granello di senape non è come il ramoscello del cedro. Il granello di senape cresce e diventa il più grande di tutte le piante dell’orto e gli uccellini possono fare il nido alla sua ombra, nel senso che senz’altro possono trovare un piccolo ristoro, ma certamente non svolazzare e rifugiarsi sotto di esso come sotto il cedro.

Siamo dunque invitati non tanto alle piccole cose, ma a quelle grandi vissute con un atteggiamento umile e prudente: non tante cose, ma una che possa crescere; non la pretesa di essere uno spazio immenso o la presunzione di coinvolgere tutti, ma la disponibilità di fare ombra a chi vuole.

Ci si potrebbe chiedere dove vada a finire lo slancio missionario, la conversione pastorale che papa Francesco ci chiede. Mi sembra che il punto sia la decisione ferma di vivere questo impegno in maniera non autoreferenziale, che vuole dire non nella cornice della nostra visione e del nostro punto di vista, ma col tentativo di cogliere la realtà, le sfumature e le connessioni.

In questo senso, la grandezza della pianta di senape non è di essere immensa, ma di esserci per le altre piante dell’orto: di portare ombra in modo che tutto possa svilupparsi in maniera salutare e giusta, e così di favorire e collaborare con l’energia che Dio mette in ogni cosa che deve crescere.

Don Davide




Tre saluti

Il saluto

Le preghiere a Maria iniziano con un “saluto”: in latino ave, salve, gaude, laetare… Questi giorni di preghiera alla B.V. della Salute mi fanno pensare al desiderio e al bisogno di salutarsi, non solo come gesto di buona educazione, ma soprattutto come segno di incontro. Da una parte c’è voglia di incontrarsi, dall’altra sperimentiamo tutti la fatica di riattivare dinamiche che in questi mesi avevamo dovuto necessariamente abbandonare, come quelle di venire agli appuntamenti e partecipare ai momenti di riflessione e di formazione insieme. La fatica è data dal fatto di osservare che le cose possono iniziare, ma non ancora liberamente, che l’ombra della pandemia si è allungata sulla nostra vita e sembra non togliere quel fastidio e quella percezione di minaccia che ci hanno afflitto in questi mesi.

A Maria, così graziosamente esperta di saluti, affidiamo questi momenti di incontro, soprattutto il primo attimo, quello in cui ci si rivede, ci si avvicina, ci si sorride in modo che il sorriso possa essere percepito dagli occhi, perché la ricca espressione del volto è nascosta dalla mascherina, e così ci si accoglie. È un piccolo ricominciamento quanto mai prezioso, che ci deve fare percepire l’opportunità del momento, la grazia offerta in ogni incontro.

Altre due “saluti”

Giocando con le parole (consapevole di forzare la lingua italiana) ci sono almeno altre due “saluti” che vorrei considerare, in questa festa della B.V. della Salute.

 

La salute spirituale

Abbiamo pregato tantissimo, in questa pandemia, per la salute del corpo, ed è stato quanto mai necessario. Vorremmo affidare a Maria anche la salute dell’anima: ossia la possibilità di avere cura non solo del corpo biologico, ma anche del nostro corpo spirituale, del nostro essere persona.

Consegno due piccole regole, per coltivare quest’altra “salute”:

1)Praticare la gratitudine consapevolmente. Prendersi qualche momento, nella settimana, per ringraziare: concretamente, suggerisco di (I) venire a fare una preghiera in chiesa, (II) di ringraziare una persona che se lo è meritato, (III) di scrivere su un quaderno quattro o cinque motivi molto concreti per cui io posso essere grato, in questo periodo. Queste tre cose, una volta alla settimana, richiedono meno di cinque minuti e operano benefici per una vita intera.

2)Avere una piccola lettura spirituale. Può essere l’appuntamento con questa rubrica settimanale, oppure il commento alle letture del giorno con uno dei tanti sussidi che esistono, oppure un bel libretto… che potrebbe farvi compagnia in estate, accanto al vostro romanzo preferito!

 

Lo stato di salute della Chiesa

C’è, infine, una cosa ben più preoccupante, una pandemia molto più difficile da sconfiggere. È il virus che colpisce la fede, rende difficile credere, fa sentire la vita ecclesiale come asfittica e, soprattutto, le nuove generazioni dalla vita cristiana, quasi come se fosse inconciliabile con la loro giovane e bella età. Ma non dobbiamo crederci! È la distorsione del virus che provoca queste cose! Come i polmoni sono fatti per respirare, così la vita cristiana è fatta per i giovani… perché la fede rinnova il mondo e lo Spirito lo ringiovanisce, quindi se non si trova questa corrispondenza è perché noi non siamo abbastanza coerenti. Ricordiamo che il Risorto, nelle catacombe dei primi cristiani, è rappresentato come un giovane!

Chiediamo a Maria, quindi, anche la salute della Chiesa e della pastorale. Invito tutti voi, in modo particolare i responsabili, a pensare con coraggio, quest’estate, a come vivere la pastorale in modo ancora più evangelico e bello, perché la nostra comunità cresca, sia piena di giovani e sia un luogo dove si condivide la fede volentieri.

Don Davide




Dio non fa preferenze

La “rivelazione” di Pietro

Pietro è uno dei personaggi simbolo del Nuovo Testamento. Lo conosciamo in tutta la sua umanità e ci appare in diversi quadri, a volte con una caratteristica di immediatezza umana in cui ritrovarci, a volte in una dimensione simbolica che ci può rappresentare nelle diverse forme. Nasce come Simone (Dio ha ascoltato/Dio ascolta) e diventerà Cefa (che significa Pietro/a). Ora, sappiamo bene quanto sia significativo, in entrambi i testamenti della Bibbia, dare un nome. Appare contraddittoria la forma di una pietra solida, quasi eterna, che nasce da un cambiamento, come se il capo degli apostoli fosse indicato come una persona che alla fine si manifesterà, nonostante tutti i suoi limiti, come ‘solido nell’ascolto di Dio’ e nel miglioramento personale.

Lo vediamo, infatti, nel brano odierno degli Atti (10, 25-27.34-35.44-48), in uno splendido esempio cangiante, di conversione da una propria visione di Dio e degli uomini, all’ascolto di Dio e all’azione dello Spirito tra gli uomini. Egli afferma: «Sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga».

Una delle innovazioni straordinarie del messaggio di Gesù è proprio questo: non guardare la provenienza di nessuno: Dio è madre e padre di tutti. Noi siamo fratelli e sorelle, tutti.

Chiunque tu sia, Lui aspetta che tu lo riconosca

Ovviamente occorre riconoscerlo nella vita pratica, quotidiana (se non riconosciuto, Egli c’è lo stesso, ma anela al fatto che noi lo riconosciamo finalmente, in mezzo ad innumerevoli falsi maestri). Una vita in cui a ciascuno viene dato secondo il dovuto e il giusto.

Lo Spirito è per tutti, non c’è distinzione. Guarisce tutte le innaturalezze con misericordia e chiede a noi la stessa misericordia, riscoprendola in noi stessi, nella nostra natura e nel dono che Dio fa a ciascuno di noi.

Pietro è in cammino non solo da Gerusalemme verso il mondo, ma anche da un sé schematico e riduttivo, ad uno Spirito aperto, magnanime e misericordioso. È un esempio chiaro per tutti noi.

Seguendo Maria

Riconosciamo anche in Maria, la madre di Gesù, questo esempio e questo percorso. Per i bolognesi, in questi giorni, la sua immagine viene portata da San Luca in città.

In questo cammino dell’immagine mariana verso la città e dei fedeli verso Maria, facciamo tesoro del percorso che ha portato al suo “eccomi” come disponibilità all’azione dello Spirito in lei e per il mondo, ricordando quanto dichiarò il santo Papa Paolo VI: “ogni incontro con lei non può non risolversi nell’incontro con Cristo stesso” (Lettera Enciclica Mense Maio, del 29 aprile 1965).

Godiamo dei frutti della disponibilità di Maria e della forza del cambiamento di Pietro come esempio evidente dell’Amore, dello Spirito di Dio che non fa distinzioni e che è per tutti e per ciascuno di noi.

Anna Maria e Francesco




L’esempio di Gesù

Nella Chiesa siamo tutti pecorelle del gregge di Dio, dove il Pastore supremo è Gesù, pieno di cura affettuosa per ciascuno di noi. In questo averlo come punto di riferimento e guida sicura, inoltre, anche noi riceviamo l’incarico di essere pastori, come accade per un atleta che si metta ad allenare i più piccoli, o viceversa come ogni fanciullo di Estate Ragazzi che sogna di imitare il suo animatore o la sua animatrice preferita.

È l’esempio di Gesù, da mettere in pratica in molte forme, gli uni per gli altri.

Questo pastore ho quattro tratti, che lo descrivono, ci affascinano e ci incoraggiano ad imitare il suo esempio:

1)ha cura delle sue pecore, non è un mercenario, non fugge di fronte al pericolo, se serve dà la vita per loro;

2)conosce ed è conosciuto, ha stabilito una relazione consueta, potremmo dire che “ha una casa, ha un ovile”;

3)ha il cuore aperto, non coltiva i suoi in modo chiuso, soffocante, ma sente un istinto di bene magnanimo e verso tutti;

4)fa della sua vita un dono, non solamente “da morirne”, ma vive la sua esistenza con animo generoso. Non è un oppresso, ma è libero di dare.

Questa bellissima sequenza del buon Pastore, dunque, ci permette di fare un intenso esame di coscienza.

Tutti siamo suoi agnellini, ma tutti siamo anche pastori di altre pecorelle: possono essere la nostra famiglia, i nostri studenti, i ragazzi e le ragazze del gruppo di cui siamo educatori, i giovani, i dipendenti del mondo del lavoro; i pazienti, gli anziani, coloro che aiutiamo.

Senza volere affrontare ciascuno di questi tratti, desidero coglierli complessivamente e chiedere a me stesso che cosa ne è stato, sperando che altri abbiano voglia di mettersi in trasparenza di fronte a questa parola.

Sento in me la domanda: quando è venuto il lupo di questa pandemia, mi ha trovato mercenario o pastore? Riconosco le mille tentazioni di fuggire di fronte al pericolo, all’eccesso di impegno e di responsabilità. Ho cercato di mantenere le attenzioni, di fare una telefonata a chi non sentivo da tempo, di informarmi sulla salute degli ammalati e di accogliere chi desiderava parlare, ma… quanto si poteva fare di più, e con il cuore più sensibile e lieto?

E poi so che c’era bisogno di parole molto più illuminate dalla fede. Quante volte mi sono fatto chiudere in discorsi solo umani, in ragionamenti di buon senso o poveri di approfondimento, mentre sarebbe stato utile accogliere una luce profetica, penetrante, che squarciasse il buio e indicasse sentieri?

E infine, rimane la vocazione delle vocazioni: non c’è un tempo migliore di un altro per vivere il Vangelo, per fare della propria vita un dono. Ripenso a tutte le volte, in quest’anno e mezzo, in cui ho pensato: “Che sfortuna vivere un periodo così!” e, con le parole del Pastore nelle orecchie, capisco: “Ci sarebbe stato un tempo migliore, per fare della propria vita un dono? Ha più valore quando è facile o quando è difficile?”.

Sento rivolte l’appello ispirato di Pietro, nella prima lettura, quando interpella riguardo a Gesù chi dovrebbe essere pastore e saggio. Ecco: la sequenza del buon Pastore mi mette in rapporto a Gesù. Forse, più nitidamente che in altri tempi, riconosco che un lupo è passato e che ancora si sentono gli ululati del branco.

Fisso il buon Pastore, risorto, e ascolto la sua voce ripetere quello che ha detto a ciascuno solo pochi giorni fa: “Vi ho dato un esempio, perché come ho fatto io facciate anche voi, gli uni per gli altri” (cf. Gv 13,15).

Don Davide




Pace, dono dell’amore

Il primo giorno dopo il sabato, quello della resurrezione, quello della nuova creazione, quello della vita nuova, oltre le porte chiuse, Gesù stette con loro. Rimase con i discepoli impauriti ancora dai Giudei e, nonostante l’annuncio della resurrezione, si sentivano ancora sopraffatti dal mondo intorno a loro.

Pace a voi, disse Gesù.

Fino a quando c’è bisogno delle ferite per risvegliarci?

E’ necessario far vedere loro le ferite (e a Tommaso chiede anche di toccarle) perché loro possano gioire. Hanno ancora bisogno in qualche modo di un corpo per poter credere in lui. E’ un’infinita incarnazione per tutti i credenti perché non possiamo pensare la vita, le parole e le opere di Gesù, come una mera ideologia. Il suo essere nella carne, lo collega a quella dei poveri del mondo: ecco perché ci sono ancora le ferite in un corpo (che noi chiamiamo glorioso) che riesce a passare per porte e pareti.

Ora, finalmente, i discepoli gioiscono nel vedere il Signore che ripete: Pace a voi.

Un nuovo sguardo e un nuovo stato del cuore

Ansie e paure non gli avevano permesso di ricevere la ‘prima’ pace. Hanno avuto bisogno ‘di vedere’ oltre per accogliere la pace offerta dal Risorto. State in pace e portatela al mondo come un per-dono, un dono per tutti, un dono perfetto. La pace per voi è uno stato interiore grazie alla Sua presenza nuova, quella che riconcilia gli uomini e il mondo ricapitolando tutte le cose in Lui (v. anche Ef 1). Ecco, adesso è il momento di condividerla con chi incontrate. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date (Mt 10,8). Il mondo cerca la pace e io la offro non solo come assenza di guerra, ma come qualcosa di più (Gv 14,27).

Questo ‘di più’, è quella pace che a volte ci sfugge proprio mentre siamo affaccendati nelle vicissitudini quotidiane, nelle storie delle nostre relazioni, in quelle pause che meglio potrebbero offrici e dare per-dono.

Per-Dono = Dono Perfetto

Perdonarci i sensi di colpa, ad esempio, o perdonare le dimenticanze altrui, è un ottimo inizio. E quando avviene, non siamo forse in pace? Non sentiamo nel nostro corpo una speciale armonia con il nostro cuore e la nostra anima: tutto suona all’altezza giusta della medesima nota.

Di più’ è quel dono gratuito, senza un perché apparente, che ci arriva quando ci facciamo raggiungere dal respiro di Cristo, il suo soffio. Fare all’unisono, almeno un respiro al giorno con lui, specialmente nei momenti più difficili, per ricordarci che Lui è con noi sempre.

Lo Spirito ci guiderà. Noi siamo il suo tempio (1Cor 6,19), quello della nuova creazione, quello ‘ri-fatto’ proprio grazie alla Pasqua di Cristo.

Pace a voi. La pace è in voi.

Anna Maria e Francesco