Cosa fare dei nostri talenti?

Il Vangelo di questa Domenica potrebbe farci pensare che il Signore ci valuti per il risultato che sappiamo raggiungere usando i doni ricevuti, ma non è così, non è una valutazione sul successo e men che meno una questione quantitativa. Lui, che conosce le nostre debolezze e le nostre insicurezze, ci richiede un impegno, la spinta per usare le nostre capacità, con perseveranza, per fare qualche cosa di buono nelle realtà che ogni giorno incontriamo.
Oggi è la Giornata Mondiale dei Poveri, istituita da Papa Francesco che ci esorta a

«Non distogliere lo sguardo dal povero» (Tb 4,7)

La Giornata Mondiale dei Poveri, segno fecondo della misericordia del Padre, giunge per la settima volta a sostenere il cammino delle nostre comunità. È un appuntamento che progressivamente la Chiesa sta radicando nella sua pastorale, per scoprire ogni volta di più il contenuto centrale del Vangelo.

Ogni giorno siamo impegnati nell’accoglienza dei poveri, eppure non basta.

Un fiume di povertà attraversa le nostre città e diventa sempre più grande fino a straripare; quel fiume sembra travolgerci, tanto il grido dei fratelli e delle sorelle che chiedono aiuto, sostegno e solidarietà si alza sempre più forte. Per questo, nella domenica che precede la festa di Gesù Cristo Re dell’Universo, ci ritroviamo intorno alla sua Mensa per ricevere nuovamente da Lui il dono e l’impegno di vivere la povertà e di servire i poveri.”
Quanto spesso ci verrebbe da distogliere lo sguardo, e a volte lo facciamo, specie quando chi ci chiede aiuto è insistente, a volte non ci convince e ci fa venire dubbi, …ma sarà vero che ha bisogno, ma non sarà uno stile di vita? È difficile esaminare tutto, è difficile ricordare sempre che abbiamo di fronte un fratello, una sorella che stanno chiedendo innanzitutto la nostra attenzione e ai quali non possiamo negare almeno un sorriso o una buona parola. Ricordo l’esortazione di mons. Antonio Riboldi, Parroco del Belice e poi Vescovo di Acerra:

“non dobbiamo parlare dei poveri, ma essere poveri…” .

C’è proprio la necessità di stare accanto alle persone con un impegno di ascolto e di vicinanza; tante volte ci sentiamo impotenti davanti ai problemi che si presentano, cerchiamo di dare un aiuto concreto, di individuare una via che porti ad una soluzione. Nelle volte in cui non si riesce a compiere il percorso di guarigione o di superamento di una grossa difficoltà si è tentati dallo scoraggiamento o dal pensare che sia stato tutto inutile, ma non è così, e allora capita che sia l’ascoltato che conforta chi sta cercando di aiutarlo perché si è instaurato un dialogo di condivisione che già di per sé ha un grande valore.
Servire i poveri vuol dire innanzitutto affiancarsi nel cammino e condividere il peso della vita; non risolvere miracolosamente i problemi, ma farli sentire non più soli ad affrontarli, consapevoli di avere a fianco qualcuno che si può sempre chiamare nei momenti bui, qualcuno che non giudica, che non si pone più in alto, che apprezza la tua umanità.
Essere amici e fratelli dei poveri è una ricchezza che tutti dovremmo provare.

Antonella e Paolo Nipoti




Cammino di Nicodemo, cammino della Chiesa

Il Maestro e il discepolo

 

Il nome Nicodemo è un nome greco composto da ‘vittoria’ e ‘popolo’. Dal greco in italiano si può declinare il suo significato traducendo: 

‘Vincitore del popolo’ 

‘Vincitore fra il popolo’ 

‘Vittoria del popolo’. 

È chiara l’idea di Giovanni che, nel percorso di Nicodemo, vuole rappresentare una vittoria: quella del popolo, della gente comune. 

Il dialogo con Gesù non è solo l’inizio di un percorso; le ragioni di Gesù sono ‘con-vincenti’. Si vince insieme; non io sì e tu no, o viceversa. Con Gesù vincono tutti, anche chi vuole distinguersi dalla gente comune, ma è pur sempre del popolo. 

Il Vangelo ci aiuta a riflettere anche su questi tempi avversi, dove si possono contare almeno 18 guerre nel mondo (secondo altre stime 34), una ora anche in Europa: in queste guerre perdono tutti, anche se nella contrapposizione finale dovesse apparire un vincitore.  

Nella trasformazione che Nicodemo compie al seguito di Gesù, il Maestro indica la via per essere vincenti tutti.

Maestro e discepolo ci fanno strada, noi li seguiremo ancora.




Rebecca e l’Ascensione

In settimana sono passato davanti a un bar alle 18 dove un gruppo di giovani stava facendo aperitivo. Sembravano minorenni, ma questo non coincideva con lo spritz che ciascuno aveva davanti a sé, e parevano sereni e senza tipizzazioni eccessive. Nell’istante di passargli accanto ho intercettato l’unica ragazza presente che diceva: “Cioè, il giorno del tuo compleanno devi bere fino a ubriacarti, questo è fisso. Poi se sei da sola o in compagnia non fa differenza…”

Chiameremo questa ragazza Rebecca.

Io stavo pensando a cosa avrei potuto scrivere per questa Domenica dell’Ascensione e mi sono chiesto: perché Rebecca pensa che ci sia gusto a ubriacarsi, magari anche da sola? Oppure: che cosa cerca, o viceversa, che cosa vuole nascondere?

Non voglio fare il paternalista, ma non posso fare a mano di ritenere che sia un pensiero non elevato. Non voglio giudicare, sto solo raccontando quello che ho ascoltato e la mia reazione emotiva e mi chiedo: come possiamo fare ad “elevare” la nostra vita?

Gesù che “sale” al cielo è una specie di metafora: il messaggio è che Gesù trascende questo mondo, attratto dall’amore del Padre e trasformato dallo Spirito Santo.

Con tutta la sua umanità, Gesù porta la nostra umanità nel regno di Dio. Questo avvenimento è certamente una grazia e un dono di Dio, ma non per questo deve farci stare con le mani in mano o imbambolati a “guardare il cielo” (cf. At 1,11)… Tutto ciò che Gesù ha compiuto, con la sua umanità, è per darci il potere di realizzarlo nella nostra.

Infatti, il mandato Signore ai discepoli è di compiere le sue opere prodigiose attraverso la fede e di farne “di più grandi” (Gv 14,12).

Sta a noi, dunque, accogliere questo dono ed elevarci.

Henry David Thoreau scrisse: “Non conosco nessun fatto più incoraggiante che l’indubbia abilità degli esseri umani ad elevare la propria vita attraverso un impegno consapevole”.

Scrivevo, prima, che Gesù si è elevato nel mondo di Dio, nel reame del divino, per elevarci verso di lui. Elevarsi, per elevare: questo è anche il nostro compito.

Ci sono quattro regni interiori che possiamo elevare: il regno spirituale, il regno dell’anima, il regno corporeo e il regno della nostra mente.

Siamo chiamati ad elevare questi regni interiori con un impegno consapevole. L’amore del Padre ci chiama e ci sospinge, lo Spirito non ci abbandonerà in questo proposito.

Allora, cara Rebecca,

senza biasimo né giudizio, ti auguro di potere fuggire dalla tentazione di trangugiare il vino per stordirti, ma di imparare a gustare la bellezza di riconoscerne i profumi, di rimanere incantata dai riflessi del suo colore rubino, ambrato, rosa o giallo paglierino e di sapere distinguere al primo sorso un Franciacorta da un Valdobbiadene.

Sarei felice se potrai brindare in compagnia, mentre festeggi la tua Maturità o la tua Laurea, o sorseggiarlo nel tuo posto preferito in compagnia della persona che deciderai di amare; e – se ti troverai a bere un calice da sola – spero che tu voglia farlo con un bel libro, ascoltando la tua musica preferita, o semplicemente apprezzando il silenzio e ammirando il panorama che prediligi.

Tutto ciò che vuoi, cara Rebecca, purché ti elevi e non ti abbassi.

Don Davide




«Lo mangerete in fretta» (Es 12,11)

Testimonianza di don Davide

Sono cresciuto imparando che preparare e celebrare la Pasqua era realmente la cosa più importante dell’anno. Abitavo a due minuti dalla chiesa, uscivo di casa, svoltavo una strada e mi trovavo di fronte al campo da calcio della parrocchia: il tempo di attraversarlo ed ero arrivato.

Il mio parroco dava il meglio di sé in occasione della Settimana Santa. Come un buon pastore guidava la comunità e noi ragazzi a organizzare, capire e gustare i riti del Triduo. Facevamo le prove dei ministranti e vivevamo le celebrazioni e passavamo il resto della giornata a giocare a calcio in parrocchia. Era un buon compromesso. Solo che alcune volte ci toccava lavarci sommariamente nei bagni della parrocchia per non arrivare inzaccherati alla solennità della liturgia.

Questo senso di qualcosa di sacro, che va custodito, preparato con cura, celebrato meticolosamente e vissuto al meglio mi è rimasto fin da allora. Nemmeno i corsi di Liturgia in seminario hanno aggiunto alcunché a questa consapevolezza.

L’indicazione finale della prima prescrizione della Pasqua ebraica, perciò, mi ha sempre stonato: «Lo mangerete in fretta» (Es 12,11). Con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano… Che razza di modo è di mangiare un agnello, dopo avere riunito tutta la famiglia e magari anche un’altra per condividerlo?

Sì, capivo che c’era tutta la questione di essere pronti ad uscire dall’Egitto… ma insomma – pensavo – “quale fretta d’Egitto! Qui le cose si devono fare bene!”.

Solo quest’anno – pochi giorni fa a dire il vero – ho capito il significato di questo versetto. Tutte queste limitazioni, non potere fare la lavanda dei piedi, il bacio della Croce… mi pesano tantissimo.

Ma la Pasqua non è comoda. La Pasqua «del Signore» (Es 12,11), come nel racconto dell’Esodo, è un atto di emergenza. È un gesto che chiede di andare allo stretto indispensabile delle cose e che parla della libertà del cuore dalla paura.

Anche Gesù l’ha vissuta allo stesso modo. Una situazione di emergenza estrema: fare della propria vita un dono oppure no?

E ora so che per primo io devo lasciare i miei ideali. C’è una Pasqua che è «del Signore» e che ci sorprende. Va ben al di là dei nostri migliori propositi: chiede di raccogliere le emergenze, di farci carico del dolore, di ridare vita dopo la morte. Come in un ospedale da campo che abbia armi spirituali.

«Lo mangerete in fretta» (Es 12,11). Lo farete scomodi.

Il Signore passerà. E la vita potrà non essere un dono, oppure sì.