La Chiesa: “noi” di Ebrei e Gentili

Nella lettera di Benedetto XVI al Gran Rabbino di Vienna Arie Folger riguardo all’intervento dello stesso Benedetto XVI su Communio (4/2018) dal titolo «Grazia e vocazione senza pentimento», il papa emerito fa riferimento a una possibilità di interpretazione di teologia della storia che favorirebbe il dialogo ebraico-cristiano.

La nota è interessante, perché è proprio una certa teologia della storia che ha caratterizzato i rapporti tra ebrei e cristiani per quasi due millenni nello schema della teologia della sostituzione; ed è ancora una teologia della storia che permetterà forse di trovare un posizionamento adeguato della Chiesa e di Israele all’interno del dialogo, sviluppando una teologia coerente con il rifiuto di quella della sostituzione.

Il tempo, la Chiesa, Israele

Egli inquadra il tema all’interno del problema del «già e non ancora», che viene a descrivere come il «tempo della Chiesa». L’utilizzo di questa espressione è ambivalente: per Benedetto XVI sembra essere sia il tempo storico-cronologico seguito alla resurrezione di Gesù, sia l’esperienza soggettiva della Chiesa, si potrebbe forse dire: «il tempo che è la Chiesa». A questo si riferisce l’autore quando scrive: «Il tempo della Chiesa è per i cristiani ciò che per Israele furono i quarant’anni nel deserto. Il suo contenuto essenziale è pertanto l’esercizio di apprendimento della libertà dei figli di Dio, che non è meno difficile per i “popoli” di quanto lo sia stato per Israele».

Questa lettura è suggestiva dal punto di vista spirituale, ma debole nel fondamento teologico. Paolo parla piuttosto di una libertà in atto, una libertà costitutiva che non va appresa, se non nel senso che la libertà si apprende in quanto si esercita. Nel culmine della polemica di Galati scrive: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi, non lasciatevi dunque imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5,1). È molto interessante per il nostro successivo discorso che Paolo usi il pronome «noi-ci», mettendosi all’interno, come ebreo, di quell’esperienza dell’essere in Cristo che ha reso possibile il «noi» di ebrei e gentili che è la Chiesa.

Papa Benedetto XVI invece parla dei «popoli» e lo fa, del tutto consapevolmente, in riferimento alla Chiesa: «Se si accoglie questa nuova visione del tempo dei popoli, viene offerta una teologia della storia che gli ebrei possono non accettare in quanto tale, ma che forse può offrire un nuovo livello nella comune lotta per il nostro impegno comune».

Teologia della storia

Anche se la Chiesa all’atto pratico e per molti secoli è risultata essere costituita quasi interamente dai popoli, cioè dai «Gentili», è indispensabile non dimenticarsi della sua originaria costituzione da Ebrei e Gentili, poiché questo è il modo in cui il Nuovo Testamento fonda una teologia della storia che riguardi la Chiesa ed è anche l’unico ingresso al problema se non si vuole incorrere in pericolosi vicoli ciechi.

Il tema della teologia della storia, in rapporto a Israele e la Chiesa, è trattato in maniera compiuta in Efesini attraverso la categoria di mysterion – tipico, nel suo uso teologico forte, di questa lettera e di Colossesi – che indica non solo lo svelamento della partecipazione dei Gentili all’adorazione del Dio di Israele, e neppure solo la chiarificazione di come ciò avvenga in Cristo, generando una comunione affatto nuova che costituisce la Chiesa.

La distinzione di Ebrei e Gentili è una realtà teologica, rivelata dall’elezione di Israele, ed è l’asse onnicomprensivo su cui si muove la storia della salvezza e le conseguenti forme dell’attesa messianica. Il fatto dunque che venga meno questa divisione, mantenendo in una realtà nuova le precedenti identità, non significa solo che è superata una distinzione tra le tante, come se i tifosi di Real Madrid e Barcellona decidessero di tifare insieme per una terza squadra; ma che è in atto la fine di tutte le divisioni. Ossia, che la comunione in cui Dio ha da sempre voluto coinvolgere tutto il genere umano attraverso la storia dell’Alleanza e dell’Elezione – e che sembrava impossibile! – è finalmente incominciata, che la riconciliazione del mondo è entrata nella storia e che la Pace, esito di tutte le attese messianiche, è vera.

La comunità messianica

Il mysterion annunciato è tale, quindi, in quanto svelato ora, nel tempo della Chiesa (Ef 3,5). La sua condizione essenziale è di esprimere che la realtà escatologica ha fatto irruzione nella storia. La valenza apocalittica con cui il mysterion costituisce la Chiesa è di marcare questa differenza: essa o è nel presente e nella storia degli uomini in assoluto la comunità messianica, o non è.

L’unità nelle differenze che la Chiesa racconta, non è – e non potrebbe essere – solo la comunione dei Gentili che imparano la libertà come già Israele ha fatto; quell’unità è espressa solo se si tiene conto della sua costituzione originaria da Ebrei e Gentili, che fa appunto cadere ogni altra divisione.

Il mysterion svelato da Dio e interpretato da Paolo è un sinonimo della Chiesa. Intuizione che già il Concilio Vaticano II aveva avuto nelle due famose espressioni della LG: segno e strumento dell’unità di tutto il genere umano (LG 1) e sacramento dell’unità di tutto il genere umano (LG 9).

La Chiesa quindi è nel tempo l’anticipazione di una comunione definitiva di tutti gli esseri umani. Il ruolo della Chiesa è questo: non è che apprenda la libertà, come se fosse una cosa che potrebbe non acquisire. Molto di più, ha il dovere di testimoniare questa libertà: ad esempio la libertà di non avere nemici; la libertà di non avere confini; la libertà di non avere una caratterizzazione identitaria, tantomeno nazionale o peggio nazionalista; da ultimo, la libertà di riconoscere il posto di tutti quegli Ebrei e Gentili che non sono in Cristo, poiché la storia palesemente non è finita e compito esclusivo della Chiesa è di essere quel segno reale della fine della storia, in mezzo a tutti coloro che mandano ancora avanti la storia.

Coloro che non sono in Cristo

La presenza di Israele e dei Gentili che non sono in Cristo è infatti caratterizzata da identità, da confini, da conflitti, da diverse credenze religiose e diversissime culture, finché non ci sia lo svelamento pieno, alla fine dei tempi, della comunione operata nel Messia, attraverso di lui.

Come scrive in modo emblematico e suggestivo Jacob Neusner: «Il racconto che Gesù faceva del regno di Dio attirava i miei occhi verso l’alto, verso il cielo. Ma io vivevo, e vivo tuttora, in questo luogo e in questo momento, dove i buoi danno cornate e le famiglie litigano. Il regno dei cieli potrebbe venire, forse non troppo presto, ma finché è sopra di me, la Torah mi insegna che cosa significa vivere qui e ora nel regno di Dio» (Un rabbino parla con Gesù, San Paolo 2007, 187-188).

La Chiesa, invece, ha il compito di essere una cosa completamente diversa. Se rinnega questo compito, tradisce se stessa e disconferma la sua testimonianza e persino la sua esistenza. Quella parte della Chiesa che proviene da Israele, è una porzione all’interno di Israele che non ambisce alla totalità, ma che sente nella voce del maestro Gesù una chiamata ad essere segno e strumento di quest’anticipazione del Regno, pienamente coerente con le aspettative di Israele: «Gesù non si rivolge all’Eterno Israele, ma ad un gruppo di discepoli» (Ivi, 58).

In questo senso la nota di Benedetto XVI è felice perché intuisce che il rapporto tra ebraismo e cristianesimo è legato alla teologia della storia, ma non coglie forse il punto cruciale che è il passaggio storico salvifico dell’inserimento in Cristo della distinzione originaria e permanente nella Chiesa di Ebrei e Gentili che possono vivere ora in comunione: non più, cioè, e in realtà mai solo una Chiesa «dei popoli».

 

Testo scritto per SettimanaNews del 6 ottobre 2018




Ancora sui giovani, attraverso Star Wars

star wars

Ho trovato molto stimolanti per alcune intuizioni i recenti interventi su Settimana News di Thies Münchow (17/12/2017) e di Andrea Franzoni (24/12/2017), pur discordando dalle loro conclusioni riguardo l’interpretazione del vissuto dei giovani e del rapporto tra le generazioni.

Su ogni film degli Jedi ormai viene detto di tutto, con il sospetto che le valutazioni siano più o meno parziali a seconda che ci si posizioni tra quelli come me, che si accontentano di due spade laser, una battaglia spaziale e qualche creatura strana, e quelli che cercano in Star Wars un film d’autore, magari un po’ alla francese. Ho volutamente enfatizzato gli estremi, per introdurre la prima considerazione.

Quando si tratta di un prodotto della cosiddetta cultura pop si avverte subito un sospetto per il fatto di essere mainstream, di strizzare l’occhio al merchandising e di essere solo l’ultimo atto di un impero come la Disney che – come recitava un simpatico post su Facebook in questi giorni – fra qualche decennio conquisterà l’intera galassia a forza di acquisizioni miliardarie. E sempre si sfugge, con un certo atteggiamento di superiorità, alla vera domanda: come mai una cosa così parla a tutti, mentre altre rimangono strette in una supposta cultura alta, per lo più autoreferenziale?

Bisognerebbe, inoltre, essere molto più cauti nello stabilire giudizi di appartenenza cristiana o non cristiana a storie che non hanno un obiettivo religioso. La considerazione di una concezione «neo-pagana dell’universo che è anche fortemente anticristiana»[1] sta alla storia di Star Wars come se volessimo giudicare il Signore degli Anelli anticristiano perché gli elfi sono immortali. Sarebbe molto meglio interrogare le storie senza pregiudizi o post-giudizi inappropriati e chiedersi invece: che cosa interpretano con il loro potere di affascinare? In altre parole: che cos’è che Star Wars dice meglio di altri, pur con tutti i suoi (presunti) difetti?

Rottamazione

Thies Münchow individua, e io concordo, il punto più alto del film quando Kylo Ren e Ray si sbarazzano del Leader Supremo Snoke e poi giocano come alla Playstation contro le sue guardie. Il signore dei cattivi, pur riconoscendo nel suo apprendista una Forza indomita e senza pari, lo ha trattato fino a questo momento come un giovane garzoncello, umiliandolo addirittura per imporre i suoi scopi e la sua visione del potere. Kylo Ren, in tutta risposta, lo inganna proprio mentre questi commette un errore provocato della propria supponenza.

Ray si trova lì in quel momento, perché anche lei – a suo modo – si è dovuta «sbarazzare» di Luke Skywalker, che si ostinava a rifiutarsi di darle il suo aiuto. La scena è oggettivamente molto bella: con uno sfondo pompeiano in cui cadono i lapilli e le macerie di un mondo esploso, per un istante i due si trovano alleati, in equilibro perfetto di bene e male, in cui uniti potrebbero diventare sovrani invincibili della galassia. In tale gesto di ribellione di Kylo Ren (e Ray) c’è un atto supremo di rottamazione.

Per la prima volta il potere non viene trasmesso dall’oligarchia dei cavalieri (buoni o cattivi che siano) per diritto/dovere di successione – atto che ha la sua origine sempre in chi lo precede – ma perché viene preso – atto che ha come protagonista chi viene dopo, colui che emerge sulla scena. In fondo, la Forza stessa è un po’ anarchica: Luke e Leia hanno sangue reale, ma la Forza, in Anakin, veniva dal nulla e Ray è figlia di due signori nessuno.[2]

L’evento di Kylo Ren e Ray non ha precedenti, perché non si tratta qui di un passaggio al male con la presenza dei maestri buoni dall’altra parte (come nel caso di Anakin con ObiWan in Episodio III), o viceversa (come nel caso della redenzione di Darth Vader al cospetto di Lord Sidius in Episodio IV). In quei momenti c’era sempre l’alter ego predecessore. Qui invece, finalmente, i predecessori sono spazzati via. L’unico alter ego è giovane ed è perfettamente alla pari.[3]

Cari giovani, prendete parola

Non si tratta tanto della riflessione sull’uso e l’abuso del potere, quanto su come ci si sbarazzi di una presenza egemonica che non lasci spazio.

In questo momento del film ci si trova a una specie di punto zero. Un evento altissimo, anche cinematograficamente. «L’evento porta necessariamente con sé la decisione. E la decisione soltanto implica parzialità» scrive Thies Münchow nelle sue interessantissime considerazioni. Ma nella decisione che ne consegue, lui rileva la caduta di stile del film, un ritorno ai soliti schemi di bene e male, laddove tutto invece poteva accadere. Lo sviluppo della narrazione negherebbe la vera svolta della saga.

Io ritengo, invece, che la svolta sia già tutta contenuta nella scena precedente. Dopo la decisione dei due protagonisti la narrazione non può che riproporre l’unico tema a cui effettivamente corrisponda la realtà: cosa ne sarà dell’ultimo alfiere della rivoluzione? «Ho visto tutti i viventi che si muovono sotto il sole stare con quel giovane, che era subentrato al re. Era una folla immensa quella che gli stava davanti. Ma coloro che verranno dopo non si rallegreranno neppure di lui. Anche questo è vanità, un correre dietro al vento.» (Qo 4,15-16). Non appena costui/costei sceglie di nuovo il potere, il potere stesso genererà di nuovo la lotta tra il bene e il male. Nemmeno Tolkien ha potuto sfuggire a questo, tanto che il famoso anello non può che essere distrutto. Così, la scena di Kylo Ren e Ray che si contendono (e spezzano a metà) la spada laser, simbolo supremo di questo nuovo spazio acquisito, è certamente di nuovo la storia di chi sceglie il potere e di chi cerca un’altra via per dare seguito alla rivoluzione.

star wars ultimi jedi

La cosa veramente nuova, in questo caso, è che entrambi la rivoluzione l’hanno già fatta. Il messaggio per i giovani è: «Cari giovani, c’è davvero bisogno di una rottamazione, di una rivoluzione. Non avverrà un passaggio di consegne: prendete parola, prendete i vostri “eventi”, ma prendeteli. (Se penso alla vita della Chiesa, non posso che riscontrare la profonda corrispondenza di questo invito alle sfide che si manifestano). Però sappiate che appena vi ritroverete la spada laser in mano, tornerete subito ad avere il problema di come gestire i cambiamenti che avrete portato. Le ombre delle rivoluzioni fallite o sfociate nel loro contrario saranno sempre il vostro Lato Oscuro. E Kylo Ren e Ray perennemente il vostro monito. Ogni volta che dovrete prendere una decisione, non potrete non pensare a loro due che si contendono (e spezzano) una spada laser».

Discepoli e maestri

L’altro insegnamento de Gli ultimi Jedi è riguardo al ruolo dei maestri. Stabilita la rottamazione operata dai giovani, cosa ne rimane del rapporto dei maestri con i loro discepoli? Saranno maestri offesi di questo rifiuto? Che tipo di maestri saranno costoro su cui ricadono, proprio per questo, responsabilità sempre più grandi?

Trovo importante notare, innanzitutto, che la Ray inesperta ritiene inizialmente di potere fare qualcosa soltanto con la guida di un maestro, ma compie il suo passo decisivo solo nel momento in cui si scontra con il fallimento/rifiuto del proprio mentore. Forse è necessaria questa delusione e una tale dolorosa presa di distanza, perché un apprendista possa tirare fuori veramente qualcosa di nuovo.

Non a caso il grande Yoda, consapevole di ciò, salutò prematuramente con la propria morte il giovanissimo Luke prima che lui ritenesse di essere pronto, per lasciargli lo spazio necessario al suo vero apprendistato, quello della realtà (Episodio V). La rottura tra Ray e Luke, ingabbiato nel suo fallimento, permette almeno a Ray di seguire le proprie intuizioni.

L’interpretazione di Andrea Franzoni legge in questo processo un esito decadente: i maestri abdicano al loro ruolo, «il futuro si costruisce sul fallimento dei maestri, da soli e senza una guida».[4] Ma questa analisi coglie solo una parte del messaggio, e perciò inevitabilmente lo distorce.

Meraviglioso insegnamento

Il punto vero, come dice l’emblematica scena del dialogo tra Yoda e Luke, non è che le nuove generazioni si formano sugli sbagli dei loro maestri: in questo modo la costruzione verrebbe edificata storta, una rovina compromessa dalle fondamenta, e l’unica possibilità di ovviare a tale problema sarebbe che un maestro fosse perfetto, cosa impossibile. Il punto vero è che i maestri devono convertire la loro ridicola presunzione oligarchica, dice Yoda. In tal senso, Luke sostiene il vero quando afferma che, proprio all’apice del loro potere, i Maestri Jedi hanno permesso l’ascesa di Lord Sidius.

Quale meraviglioso insegnamento, questo, laddove i nostri maestri, i fondatori, i custodi, i garanti della tradizione, pretendono una tale purezza da non riuscire più a cogliere i veri problemi dei giovani e del mondo! Yoda insegna a Luke che non c’è cosa che si trovi nei libri che Ray non sappia già dall’inizio (come a dire: quel tipo di sapere non serve più a nulla!) e che la questione decisiva è che i maestri imparino dai fallimenti e che trovino un nuovo modo di «non perdere»[5] i propri apprendisti. Ciò che non si deve in alcun modo fraintendere è che i maestri devono imparare dai propri fallimenti, non i giovani dai fallimenti dei maestri, come invece pare che affermi l’interpretazione di Franzoni. Esito a cui approda il film, in effetti, e che giustifica il finale dopo la resa dei conti di Kylo Ren e Ray contro Snoke e i suoi scagnozzi.

Infatti Luke, per non perdere anche Ray, non si proporrà più come suo maestro in veste tradizionale, ma le concederà tempo perché possa scoprire in lei stessa le vie della Forza. Contrariamente al giudizio che vede in Episodio VIII una trama incerta e spezzettata, gli autori – probabilmente non del tutto consapevolmente, come accade in questi casi, ma trainati dalla forza della storia – ci propongono un messaggio di estrema coerenza e forza interpretativa dell’oggi.

I giovani devono avere la forza di operare una rottamazione. Non gli sarà concesso da nessuno questo passaggio, che dovranno conquistarsi anche con delle rotture. Quei pochi maestri rimasti, che vorranno non fare i permalosi o gli oligarchi attaccati al potere, potranno avere la massima stima di quei giovani intraprendenti, creare lo spazio e concedere loro tempo finché non trovino la loro strada, poi congedarsi serenamente vedendo due soli: quello che tramonta e quello che sorge.[6]

 

Davide Baraldi

 


[1] A. Franzoni, «Star Wars VIII: Gli ultimi Jedi». La rinuncia dei maestri, in SettimanaNews 24/12/2017.

[2] Bellissima, in quest’ottica, anche l’ultima scena del film, con il bimbo piccolo – un outsider completo con il simbolo della Resistenza – che manifesta le vie della Forza e usa la scopa come una spada laser, guardando l’infinito.

[3] Sulla composizione di questo equilibrio tra Kylo Ren e Ray, il film è costruito meticolosamente.

[4] A. Franzoni, «Star Wars VIII: Gli ultimi Jedi». La rinuncia dei maestri, in SettimanaNews 24/12/2017.

[5] Citazione testuale dello scambio tra Yoda e Luke.

[6] La vocazione di Luke era stata espressa nella celeberrima scena dei due soli su Tatooine (Episodio IV) e ora fa inclusione con la fine della sua vita, in modo eccellente e tutt’altro che improvvisato.

 

Testo scritto per Settimana News il 31 dicembre 2017




Generazione Selfie

Una fotografia dei giovani a fine estate non può trascurare la canzone di Lorenzo Fragola e Arisa dal titolo Generazione Selfie, che ha imperversato in tutte le spiagge e in tutte le radio accese nei giorni del solleone. Perché i giovani scattano i selfie e, a dire la verità, anche i meno giovani, gli adulti e qualche anziano, secondo quel principio contemporaneo che tutti tendono a ciò che è giovanile.

Una coincidenza interessante accompagna queste considerazioni, almeno per chi si sta impegnando in questi giorni a programmare l’attività pastorale dei gruppi nelle proprie parrocchie. L’Azione cattolica italiana, infatti, ha proposto come immagine guida dei sussidi dei ragazzi proprio quella della fotografia, con lo slogan: “Pronti a scattare”. Metafora ricchissima, ci basti pensare che, quando Gesù raccontava le parabole, faceva la stessa operazione di un bravo fotografo: fissava una realtà che era davanti ai suoi occhi, osservandola sotto una particolare luce e con una specifica angolatura e messa a fuoco. Se avesse avuto in mano una Canon, o uno smartphone, avrebbe scattato una foto.

Il selfie è più bello

Sono stato testimone qualche giorno fa della passione per i selfie. Un gruppo di ragazzi ammucchiati decide di farsi una foto, più precisamente un selfie, con lo sfondo delle Dolomiti. Inquadratura impossibile, loro sono troppi, il telefono a distanza di braccio è troppo vicino e l’orizzonte invisibile. Dico: “Dai ragazzi, ve la faccio io la foto!”. Risposta: “Ma il selfie è più bello!”.

Il selfie è più bello?! Dal punto di vista tecnico non c’è una sola ragione che renda un selfie più bello di una foto scattata da un altro. Inoltre, l’elemento paradossale è che, a dispetto del titolo, che si è imposto come una sorta di consacrazione del selfie, la canzone di Arisa e Fragola esprime in maniera intelligente una notevole problematizzazione di quest’esperienza:

«Siamo l’esercito del selfie, di chi si abbronza con l’iPhone,
e non abbiamo più contatti,
soltanto like a un altro post…
Ma tu mi manchi, mi manchi, mi manchi,
mi manchi in carne ed ossa».

A dispetto di tutto ciò, il selfie è davvero in grado di raccontare una generazione o almeno qualche suo riflesso.[1] Che cosa dunque fa percepire il selfie più bello, a parte la moda?

La percezione

Quello che fa la differenza, prima di tutto, è la percezione. Nel selfie c’è la percezione di essere infinitamente più protagonisti di quello che sta accadendo, la convinzione di potere curare se stessi fino a creare un personaggio, la suggestione di mostrare di sentirsi vivi. A ben guardare, è più che altro questione di percezione, ma è appunto questa che fa la differenza. Lo ripeto: la generazione selfie ci insegna che la percezione fa la differenza.

Tutto ciò non è esente da problemi, ma almeno inizialmente dovremmo assumerlo con tutta la serietà del caso. A dispetto della tentazione retorica per cui la Chiesa non si curerebbe della percezione perché baderebbe alla sostanza, dobbiamo preoccuparci di non allontanare i giovani con la prima impressione che diamo. Ambienti brutti, incontri scialbi e quell’alone di non vero interesse per le loro cose: non si può scaricare la colpa su di loro, dicendo che sono superficiali e che non è giusto giudicare frettolosamente. Questo è vero, ma va insegnato di nuovo e non certamente come primo atto.

L’impatto iniziale, immediato, irrazionale, emotivo è il primo ponte gettato verso quel famoso nuovo annuncio di cui ancora stiamo abbozzando i primi passi. C’è un modo altezzoso o trasandato, formale o eccessivamente scialbo che caratterizza ancora un certo stile di Chiesa e degli ecclesiastici che va curato con più attenzione, senso dell’opportunità e bellezza. Non si tratta certo di legittimare la moderna ossessione per l’apparenza, ma di permettere che il processo dell’incontro, che va sempre dall’esteriorità all’interiorità, non trovi ostacoli prima di potere giungere alla meta.

Il primato del dirsi

L’altro elemento che fa la differenza è il primato del “dirsi” piuttosto che dell’essere detti. Il selfie è un modo di raccontarsi in cui l’azione soggettiva (e la successiva possibilità di essere riconosciuti, magari con un «like a un altro post») vale più di tutti gli altri elementi della comunicazione.[2] Pensiamo a Gesù che dilata il dialogo con il giovane ricco per farlo parlare e venire allo scoperto, oppure quando chiede: «Che cosa vuoi che io faccia per te?».

La nostra pastorale, invece, sottovaluta in molti aspetti – talvolta inconsapevolmente, talvolta colpevolmente – questo bisogno. Il famoso metodo esperienziale, che intercetti in modo non banale la loro domanda di vita, è ancora messo in discussione o solo balbettato. I documenti ufficiali, così come molti sussidi catechistici, dicono tantissime cose dei giovani, con il dubbio che li abbiano mai lasciati parlare veramente.

Infine, mentre i viceparroco sono una razza in via di estinzione e le risorse pastorali in favore dei giovani vengono razionalizzate (magari affidando al clero molteplici incarichi), si mantiene saldamente una struttura e un’organizzazione ecclesiale che impedisce in ogni modo ai preti di perdere tempo coi giovani, di ascoltarli e di accompagnarli a lungo.

La mia amara, personale esperienza è il rischio di risolvere le cose con qualche consiglio e poche istruzioni moraleggianti… e così continueranno con i selfie, in scenari ben diversi dai nostri. E qualcuno condannerà ancora la loro autoreferenzialità e lasceremo che Apple, Facebook o qualcos’altro intercettino i loro stili e i loro bisogni.

Il desiderio di avere in mano una reflex

Invece sarebbe bello potere reagire e riuscire a comunicare ai giovani che la foto vogliamo farla insieme, come vogliono loro, ma con una reflex, in modo che si vedano bene i volti, i sorrisi e la luce dei loro occhi, e anche le Dolomiti sullo sfondo, e poi farne un ingrandimento e tenerla tra le nostre cose più care.


[1] [Redazione], Selfie. La cultura dell’autoscatto che racconta una generazione, in Wired 20/11/2017.
[2] A questo proposito è impressionante digitare su Google: “generazione selfie” per vedere quanti articoli molto critici o addirittura catastrofici si trovano scritti dagli adulti, e poi scovare un intervento fresco, positivo e pieno di energia che riporta, guarda caso, la prospettiva dei ragazzi di Radio Immaginaria: vd. F. Taddia, Selfie di una generazione: “Vedrete, diventeremo adulti felici”, in La Stampa 25/08/2017.

Don Davide

 

Testo scritto per SettimanaNews il 12 settembre 2017




Il virus benefico dell'”Estate Ragazzi”

Estate è tempo di centri estivi, un meraviglioso virus che colpisce i ragazzi dopo la scuola, provocando in loro sintomi di incondizionata generosità, serenità, allegria e voglia di vivere che, alle volte, pare soffocata tra i banchi delle loro aule. Perciò, come se fossimo in un laboratorio di microbiologia, procedo in questa riflessione estiva con un’osservazione sperimentale di questo virus di cui i giovani sono portatori sani.

Un’osservazione sperimentale

La scena è quella della verifica delle attività a fine giornata. Li osservi, i ragazzi e le ragazze: sono le 6 del pomeriggio ed è ancora un caldo che ti sciogli e pensi che loro sono stati lì a correre e a giocare con i marmocchi da almeno sette ore. Hanno la maglia lercia, nelle mani residui di vernice, terra e ogni altro materiale utilizzato. Stanno abbracciati gli uni con gli altri, qualcuno poggia la testa sulla spalla di un’amica, qualche sentimento si manifesta in modo palese dalle posture dei corpi.

Non importa se sono ufficialmente impegnati, immorosati (come si dice a Bologna) o fidanzati. Quello che conta è che vivono spontanei; per una volta non hanno timore che il don li rimproveri. Infatti fumano, anche. Non tutti, ma alcuni, liberamente, in questo momento di relax al riparo dei bambini, fumano, recuperando immediatamente la loro tensione all’età adulta.

Nel frattempo si confrontano su come sia andata la giornata, talvolta anche aspramente. Ogni tanto pare che litighino. Il don, che cerca di supervisionare tutto senza ingerire, nutre qualche timore che le cose siano andate male.

Invece, appena i responsabili dichiarano chiuso il momento di verifica, partono le battute, tutti sorridono, arrivano i gelati e le merende, scattano tornei mondiali di calcetto, basket, pallavolo o il mitico schiacciasette. E pronti per una nuova giornata, si riparte.

Tre osservazioni

Da questa esperimento raccolgo alcune osservazioni.

1. Il sudore (che non è mai un problema) dice quante energie i giovani abbiano da tirare fuori. Penso a tre ambiti in cui quest’esperienza contrasta completamente con la vita di fede che offriamo loro.

a) La liturgia. Sembra che non ci sia niente di meno energetico o dinamico di una liturgia cattolica. Talvolta pare quasi che ci si compiaccia di una certa pesantezza e lentezza, come se fosse l’unico modo di elevarsi a Dio, quando invece è l’unico modo di schiacciare un sonnellino. E si vedono le energie dei giovani implodere, come se non desiderassero altro che questa tortura finisca al più presto.

b) Gli incontri di formazione. Più che di incontri, bisognerebbe parlare di modelli: i nostri modelli di formazione sono per lo più teorici, concettuali, mentali. È rarissimo che ci siano delle dinamiche che coinvolgano il corpo in maniera non artificiosa, e diventa quasi impossibile che l’esperienza della fede passi dalla mente al corpo, dalla testa alla vita.

c) La carità. Dovremmo trovare modi e tempi per proporre esperienze attive di carità, roba da fatica di muscoli e sudore sulla pelle. Qualcosa che però faccia poi toccare tangibilmente il frutto di questa fatica: l’incontro con la famiglia per la quale si è fatta la raccolta o l’utilizzo dello spazio che si è andato a risanare.

2. Il gruppo. L’incredibile differenza tra l’impegno dei giovani durante l’anno e quello nei centri estivi è la presenza di un gruppo molto numeroso. In questo fenomeno si riconosce il bisogno di coinvolgimento, ma soprattutto il sentirsi parte di qualcosa di più grande. Allo stesso tempo, si vede la necessità di fare un’esperienza di Chiesa che sia vivace e ampia, non ridotta agli spazi angusti del gruppo parrocchiale, che talvolta – pur con tutto il bene che porta – appare più che altro una riunione di sopravvissuti.

3. La responsabilità. Nelle mie evoluzioni da giovane cappellano (sempre in prima linea, armato di braghini corti, cappellino e t-shirt degli animatori) a parroco (costretto, volente o nolente, a delegare molta responsabilità), ho visto che i giovani, accordandosi fra di loro e guidati da qualcuno appena più grande, sono in grado di fare cose impensabili se solo solo gliele chiedesse il parroco, tipo lasciare il cellulare per un’intera giornata, darsi appuntamento prestissimo al mattino, dividersi fra di loro per essere più distribuiti nel pranzo o nelle varie attività. È il prodigio della responsabilità consegnata, quella molla che ti fa capire che vali, che la tua presenza è importante, che puoi fare la differenza. Forse, da questo laboratorio di osservazione, possiamo quindi anche ricordarci che niente è così decisivo, nella formazione dei giovani e nella loro esperienza di fede, quanto la consegna di un ruolo da protagonisti.

Conclusione

Sono le 8 di sera. Sono passate quasi due ore dall’inizio dell’osservatorio sperimentale. Il don è andato a dire la messa ed è tornato per salutare gli ultimi rimasti. Negli occhi dei responsabili nota la stanchezza, ma anche la soddisfazione per un altro giorno messo a bilancio… e un po’ di questo orgoglio lo condivide con loro. Ancora qualche accordo per una birra o un gelato alla sera, poi tutti si disperdono… “Ciao don, a domani”.

“Ciao, a domani!”. Il portone si chiude e anche il cancello del cortile. “Ehi, sono rimasti fuori i palloni! E i vassoi della merenda?! Quante volte vi ho detto di rimettere a posto i vassoi della merenda!?”. Sbam! Sbatte una finestra del primo piano che non è stata chiusa. “Chi va a chiudere?”. Il don si guarda intorno, ma ormai non c’è più nessuno. “Accidenti!”.

Il virus ormai ha terminato il suo effetto. Almeno per oggi non sono più infetti e, per fortuna, nemmeno perfetti.

Don Davide

 

Testo scritto per SettimanaNews l’8 agosto 2017




I giovani, maestri dell'”et et”

Celebriamo la Veglia, che non è breve, con le sette letture in versione integrale e i salmi cantati. Alla fine, ci si ritrova tutti a mangiare una colomba e un uovo di cioccolato. Ben oltre la mezzanotte le due ragazze si avvicinano per salutarmi: «Noi ci fermiamo solo un attimo, perché abbiamo una festa…».

Quattro pensieri

Primo pensiero: «Una festa? A quest’ora?! Dopo la Veglia di Pasqua?!».

Secondo pensiero: «E perché no?!».

Terzo pensiero: «Hanno celebrato la festa con la comunità cristiana. Cosa dovrebbero fare di più? Dovrebbero andare a casa a mantenere il clima spirituale?!».

Quarto pensiero: «Proprio ieri sera, Venerdì Santo, moltissima gente della mia parrocchia è venuta alla Commemorazione della passione di Gesù, e poi è andata a vedere il derby cestistico cittadino…».

Lo confesso: il derby il Venerdì Santo è una condizione limite. Il giovane parroco, che ha la chiesa affianco al Palazzo dello Sport, aveva qualche riserva e non ha ceduto alla tentazione. Ma il resto… perché no?!

Retaggi

In un baleno divento consapevole dei retaggi della mia formazione: alcune cose, solo ad immaginarle, non eri un buon cristiano. E se eri un giovane e volevi essere cristiano, quasi quasi dovevi guardarli un po’ dall’alto in basso quelli che si divertivano veramente… E se proprio volevi essere “moderno” e “vivo”, al massimo pensavi di fare “balotta” (= festa in allegria, nello slang) in parrocchia.

In un baleno, mi si apre anche il cuore: ma che belli questi giovani, che non rinunciano alla Veglia Pasquale, e poi raggiungono i loro coetanei per divertirsi. E magari si trovano a rispondere alla domanda: «Come mai sei arrivato solo ora? Dov’eri?» – «Ero in chiesa, alla Veglia di Pasqua!». E fanno in un secondo quella nuova evangelizzazione riguardo alla quale noi (Chiesa istituzionale) sappiamo solo riempire dei documenti.

Riconosco in questi miei retaggi una tentazione a cui gli operatori pastorali spesso non sanno resistere: quella di fare proposte valide, ma in opposizione alla vita concreta dei giovani. Un esempio lo riscontro nella recente Marcia della pace che si è celebrata nella mia città: la sera del 31 dicembre 2016, occupando dal primo pomeriggio alla sera inoltrata. Era una bellissima iniziativa, e sappiamo che la chiesa celebra la Giornata mondiale della pace il primo gennaio. Ma mi chiedo: c’era proprio bisogno di porre un mare di giovani, appassionati della causa della pace, di fronte alla scelta se festeggiare l’ultimo dell’anno insieme agli amici, magari in cose organizzate da tempo, o partecipare all’evento? Avrebbe davvero perso così tanto di significato farla, ad esempio, il 6 gennaio?! Alla marcia, per nota di cronaca, c’era molta meno gente di quanta avrebbe potuto essercene.

L’uno e l’altro

Si potrebbe definire una regola: l’uno e l’altro, ossia del non creare opposizioni. Un conto è un sano atteggiamento penitenziale il Venerdì Santo, o nei momenti giusti. Un conto è l’arte del discernimento che ci educa – dentro percorsi e sapientemente – alla radicalità della fede. Un conto sono i retaggi.

Allora penso a quel meraviglioso principio della dottrina cristiana dell’et et che regge i migliori dogmi che ci siamo dati, da quello cristologico: «vero Dio e vero uomo», a quello sacramentale: «natura e grazia», fino alle dimensioni pratiche: «misericordia e giustizia».

Ricordo quando ai ritiri spirituali o ai campi estivi non potevi portare la musica… Oggi non c’è minuto della vita di un giovane che non sia accompagnato da una qualche canzone. Ci viene la tentazione di pensare che così siano dispersivi, che non tengano il raccoglimento, appunto… ma è tutto diverso. Magari stanno operando una nuova sintesi e nuovi processi interiori. Sequeri ha scritto che «la musica è il luogo di vero discorso per l’intelligenza degli affetti».[1] Loro elaborano qualcosa di cui i grandi sono analfabeti, e lo fanno da maestri dell’et et, laddove noi, ancora, culliamo nostalgie per l’out out, in nome di una presunta radicalità che non convince.

Quale nuova radicalità, invece, si può trovare in questa capacità di abitare spazi e attraversare mondi diversi? Con una certa naturalezza, loro – i giovani – rendono testimoniale la forma di vita ordinaria del cristianesimo, senza farla percepire importuna e inopportuna, ma anzi con un tratto di amicizia che porta il vangelo in quelle famose periferie dell’umano che, altrimenti, raggiungiamo solo nei nostri proclami pastorali.

Non è questo un modo di vivere l’incarnazione? Un vero segno dei tempi.

Don Davide

 


[1] Sequeri, Gregoriano contemporaneo, in «Luoghi dell’Infinito», n. 169, gen. 2013, 19-23, p. 22.

 

Testo scritto per SettimanaNews il 28 giugno 2017




Come gli abissi più belli dei mari

Capita di essere trasferito dalla parrocchia dopo otto anni, e una ragazza che sapevi brillante – certo – ma che era stata quasi nascosta fino ad allora, ti scrive una lettera mozzafiato dove recupera le esperienze condivise, la vita imparata, le parole ascoltate e i passaggi in cui si è sentita accompagnata.

Capita che un gruppo di ragazzi proponga al proprio parroco un’attività; questi è entusiasta e scettico allo stesso tempo: la cosa è bellissima, ma riusciranno ad organizzarsi e a portare avanti l’impegno? Arrivano suggerimenti, loro però sono autonomi, hanno un progetto e le energie per realizzarlo, incassano il permesso ufficiale e declinano gli altri aiuti ringraziando con garbo, guardando l’affettuoso prete come un nonno partigiano che volesse insegnare ad usare l’iPhone 7 al nipotino.

Capita che un giovane prete si ricordi, a una fermata dell’autobus, di dovere benedire i nuovi capi squadriglia. Invece di «ciappinare o uozzapare col telefono» (cit.) si lancia in una versione Facebook delle grandi benedizioni bibliche sul cosmo e sulle persone.

Un tesoro da non sprecare

Sono solo tre esempi, ma chiunque abbia vissuto un’esperienza rivolta ai giovani con un incarico educativo o un ruolo pastorale – e abbia conservato quella minima capacità di stupirsi che si prova di fronte al mare o a una montagna incantata dalla neve – ha potuto intravedere un patrimonio di ricchezze infinito, uno scrigno dell’interiorità che andrebbe valorizzato.

Spesso, infatti, si tratta solo di un riflesso, un indizio in una caccia al tesoro, ma la sorgente di quel bagliore si trova in un luogo assai più profondo, e rischia di rimanere nascosta. Questa è la sfida pastorale: un tesoro non rinvenuto si spreca, come un capitale investito male, che non si può usare e si logora. Tante volte sembra che non ci sia, solo perché quando vi abbiamo inciampato sopra, non abbiamo fatto come l’uomo della parabola evangelica e non siamo andati a vendere tutto, per comprare quel campo e dissotterrare il forziere (cf. Mt 13,44).

Non sarebbe questa un’esperienza del Regno, fatta con i giovani e non ai giovani? Un simile capitale andrebbe portato alla luce e incoraggiato nel vivace contesto della liberalità giovanile, e non frustrato dentro richieste di piccolo profilo, preoccupazioni moralistiche o moraleggianti di buon costume e sforzi di contenimento parrocchiale.

Baricco, in Emmaus, critica un certo modello dei ragazzi cristiani: «Il senso di colpa, sempre. Siamo dei disadattati, ma nessuno vuole accorgersene. Crediamo nel Dio dei Vangeli».[1] Bisognerebbe riuscire a rendere evidente che non è così, che la Chiesa può essere un esempio – nei gruppi, attraverso le proprie iniziative e persino nella liturgia – della capacità di dare rilievo, spessore e maturità all’interiorità bella che cova nei giovani, per i credenti e per tutti.

L’interiorità dei giovani

Sento di poterlo dire con una certa convinzione. La realtà è questa: l’interiorità dei ragazzi come gli abissi più belli dei mari. Tutto il resto è retorica.

La retorica del “non ci sono più i giovani di una volta”; la fastidiosa autogiustificazione quando li accusiamo di essere attaccati al telefonino o ai videogiochi, perché non li sappiamo integrare in una conversazione; la nostra endemica incapacità di non giudicare, non svalutare, non snobbare, non liquidare le loro ragioni e le loro domande (non parlo dell’atteggiamento tutto melassa e smorfiette che si ha con i bimbi, ma della capacità di riconoscere l’intelligenza emotiva dei ragazzi).

Anche quando si manifestano delle durezze, una forza di opposizione invincibile o delle superficialità, sono convinto che per i ragazzi, ossia in quella fase in cui i giovani si affacciano per la prima volta alla loro giovinezza, sia sempre il riflesso di qualche sensibile – alcune volte troppo sensibile – esperienza interiore.

Germoglio del Regno

Come gli abissi più belli dei mari, così l’interiorità di questi giovani “mondi” – che non ha sempre tutte le parole per dirsi e l’esperienza per farsi – non viene vista e, talvolta, nemmeno percepita da molti. Bisogna avere il coraggio di immergersi in queste acque, come dei sommozzatori dell’anima. Si scende quasi in apnea, perché appena respiri tu, finisce l’incanto loro; come le barriere coralline, che non le puoi toccare, ma solo custodirle, farle risplendere, attendere un tempo lungo perché diventino lo splendore che sono.

Forse, la parabola del seme che cresce da solo (cf. Mc 4,26-29) si riferisce in modo particolare a quella singolare esperienza del Regno che si genera nel cuore dei giovani, quando la loro interiorità e la loro sensibilità – per vie nascoste ed impossibili da seguire – cresce; quando si innamorano di un verso di una poesia o di una canzone, o vergano di getto una pagina di diario, o sognano di scrivere un libro, o si perdono suonando una musica, o si appassionano a un film. Come avvenga questo miracolo non si sa, ci ricorda il Vangelo, ma non deve mancare la fiducia che possa accadere e la prontezza di coglierne il frutto.

[1] A. Baricco, Emmaus, Feltrinelli, Milano 2009, 16.

 

Don Davide

 

Testo scritto per SettimanaNews il 22 dicembre 2016




Giovani: il difficile vissuto emotivo

L’ultimo romanzo di Jonathan Franzen, Purity (Einaudi), ha un finale folgorante, nel quale – come solo i grandi autori sanno fare – evoca in poche parole un mondo intero legato ai giovani.

Una scena emblematica

La scena è questa: la protagonista, Purity Tyler, chiamata Pip, dopo molte peripezie ha ricongiunto la madre e il padre che si odiano, per poter disporre di un ingente patrimonio che le spetta di diritto, con cui intende saldare il debito degli studi e aiutare un amico a riprendersi la propria casa. Pip, vincendo le proprie resistenze e difficoltà, ha da poco accettato di stare con Jason, un ragazzo semplice e onesto che le vuole bene veramente; con lui sta aspettando in auto l’esito dell’incontro dei genitori. Qui l’autore scrive: «Pip richiuse la portiera per non fare entrare le parole, ma l’alterco si sentiva anche con lo sportello chiuso. Le persone che le avevano lasciato in eredità un mondo rovinato stavano litigando furiosamente. Jason sospirò e le prese la mano. Lei gliela strinse forte. Doveva essere possibile fare meglio dei suoi genitori, ma non era sicura di riuscirci. Solo quando il cielo riaprì le cateratte, quando la pioggia arrivata dall’immenso, buio oceano occidentale cominciò a battere sul tetto della macchina e il suono dell’amore coprì gli altri suoni, solo allora Pip pensò che forse ce l’avrebbe fatta».[1]

Un mondo consumato

Gli adulti litigano, quello che lasciano in eredità è un mondo consumato, pieno di rovine presenti o future. Esiste la possibilità di fare meglio? E come riuscirci con un fardello sulle spalle? Vengono in mente le severe parole di Gesù: «Guai a voi, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito» (Lc 11,46).

L’asprezza e la nettezza di queste considerazioni raccontano la radicalità del conflitto tra le generazioni in cui i giovani, loro malgrado, sono coinvolti. Non si tratta più delle lotte per l’emancipazione o per le utopie di un mondo nuovo. La frattura di oggi non è attiva, dettata dal desiderio di cambiare le cose; questo aspetto, indubbiamente, è presente, ma è più una reazione di resistenza passiva, come chi sta per soffocare e cerca di respirare, o come uno che deve eseguire un lavoro con strumenti rotti.

Non è che il mondo di oggi sia peggiore di quello di ieri. I giovani di oggi (almeno nella contemporaneità occidentale che ci diamo come punto di osservazione) hanno più diritti, più libertà, più possibilità di quanto non sia mai stato prima, e godono di un rapporto con l’autorità (almeno le autorità “visibili”) più accessibile e dialogico. Tutto questo, però, si colloca in uno spappolamento emotivo senza precedenti – ereditato e che si continua ad aggravare – che è il fardello spesso non riconosciuto da nessuno (adulti o giovani che siano) che grava sulle spalle delle nuove generazioni. Non si intende solo l’ambito degli affetti, ma di tutti quei vissuti emotivi che intrecciano la fatica del vivere e la impastano con il nostro universo affettivo.

Tale sgretolamento emotivo logora anche le cose più semplici, fa apprezzare meno le possibilità che il nostro tempo dischiude e getta in una condizione di instabilità personale nella quale non si riesce ad attingere a nessuna sorgente interiore.

È difficile fare delle generalizzazioni: ci sono molti giovani che hanno migliorato drasticamente le condizioni culturali rispetto ai propri genitori, e indici di abbandono scolastico ancora altissimi; ci sono i giovani che si realizzano nel lavoro con brillanti risultati, e quelli che dipendono o sono bloccati dagli adulti che li hanno preceduti; il futuro che ha cambiato dal segno “promessa” al segno “minaccia” non è tale per tutti, e coglie solo un aspetto del problema.

Uno spappolamento emotivo

Il filosofo Alain Badiou, in un recente saggio dal titolo La vera vita (Ponte alle Grazie), propone una chiave di interpretazione di questa divergenza, affermando che la dialettica in cui vivono i giovani si muove tra due esiti: «la passione di bruciarsi la vita, la passione di costruirla […] il desiderio di una vita che si consuma nella sua stessa intensità e il desiderio di una vita che si edifica pietra su pietra per arrivare a possedere una casa solidamente piantata».[2]

Da una parte, lo slancio faustiano, il desiderio di vivere – in un’esistenza che si presenta senza alcun senso unificato – il maggior numero di istanti più o meno accettabili; dall’altra, lo sforzo architettato di trovare il proprio posto nell’ordine esistente, la somma degli stratagemmi utili al successo, la lotta per sottomettersi meglio di ogni altro al regime vigente. Un esito di ribellione, un esito di adattamento, che partono però da una condizione comune.

Anche quelli che apparentemente si adattano e stanno bene nella situazione presente sono accomunati agli altri dallo stesso spappolamento emotivo: affetti frantumati e parcellizzati, l’esperienza dell’amore completamente disillusa, relazioni costrette dentro la logica della competizione, dell’utilitarismo, del contrattualismo, il tempo del vivere che prosciuga ogni forma di gratuità, ferite che aprono voragini e non guariscono. Perfino la tendenza apparentemente contraria dei padri e delle madri a togliere tutti i pesi ai loro figli, ad appianare la strada caricandosi su di sé difficoltà che invece dovrebbero essere affrontate, risponde alla logica della medesima frantumazione.

I “genitori” di Purity, nel romanzo di Franzen, non sono solo mamma e papà. Sono il simbolo di un mondo precedente e la domanda implicita della protagonista può essere parafrasata: è possibile per un giovane fare meglio del mondo che è stato consegnato? È possibile farlo con un fardello sulle spalle che complica tutto? Nella strada dei giovani si profila una doppia fatica, con il rischio che, prima della meta, si risolva nella rinuncia e, dopo il traguardo, si estremizzi nella rivalsa. Per sostenere questa fatica, che nessuno può loro togliere, quella dei vissuti emotivi è una grammatica che tutti, attingendo alla sapienza creativa delle proprie tradizioni migliori, dovremmo sapere di nuovo imparare.

[1] J. Franzen, Purity, Einaudi, Torino 2016, 655.

[2] A. Badiou, La vera vita, Ponte alle Grazie, Milano 2016, 16-17.

 

Don Davide

Testo scritto per SettimanaNews il 24 novembre 2016




Stazione da una camminata

Con gli occhi dietro le colonne degli splendidi portici di Bologna, quasi giocando a nascondino, ho osservato in un pomeriggio qualunque i giovani della mia città. Ho colto quattro aspetti, con la stessa caratteristica delle colonne della volta sotto Palazzo Re Enzo: quello che si dice vicino a una di esse, anche se sussurrato, si ode nitidamente presso quella opposta. Sotto alla volta, inoltre, ci si trova in un incrocio suggestivo, che si apre in tutte le direzioni sul centro storico.

Analogamente, ciascuno di questi quattro tratteggi che vorrei delineare è collegato e rimanda al suo opposto, e definisce uno spazio di passaggio in cui i ragazzi entrano ed escono continuamente, sempre affacciati su tutti i lati della loro vita. Perché “i giovani” non possono essere definiti, né tantomeno inquadrati; si può solo cercare di raccontarli.

Quattro tratti

La prima cosa che balza all’occhio sono i ragazzi seduti sui gradini davanti alla Sala Borsa. Un tempo erano più che altro la scalinata e il sagrato di San Petronio ad accogliere drappelli di chiacchiere amichevoli, ora i cordoni di sicurezza scoraggiano la sosta all’ombra del patrono, e le persone si spostano in un luogo più neutro e più moderno della vita della città.

Da quel punto di vista privilegiato, che permette osservare la piazza, l’incrocio delle vie più importanti del Centro, le Due Torri e, soprattutto, l’Apple Store, sono spettatori del mondo che passa. Non nel senso che sono fuori dai giochi; hanno piuttosto la convinzione di poterlo dominare, non appena lo decidono. Non sono ancora condizionati dalle disillusioni dei trentenni e ostentano un potenziale che chiede di essere scovato… se solo ne fossero consapevoli. Inoltre hanno tempo, non hanno bisogno di correre e così provocano un’invidia tremenda a coloro che col tempo cominciano a farci i conti in tutti i sensi.

Mentre ammiro con nostalgia questa sfrontata sicurezza, mi passa accanto un ragazzino non tanto alto, quattordici anni a dir molto, da solo. Biondissimo e con una faccia ancora da bambino nascosta sotto un’aria tesa, indurita. Non è più nella posizione dello spettatore: ora gli tocca attraversarlo, il mondo, e lo fa a passo svelto. C’è qualcosa di artificioso che mi fa capire che ha paura… La sicurezza di prima cede il passo all’insicurezza e mi sento improvvisamente in sintonia con le sue difficoltà, presenti e future. Ma come possono, i giovani, vivere nella città di oggi? Sono esposti a una complessità che disorienta e schiaccia, e l’età della loro formazione – soprattutto per i più deboli – appare una giungla, una battaglia feroce. Chi li aiuta a gestire la complessità e ad abitarla? Chi è che li protegge, senza risparmiare loro il compito di buttarsi nel mondo?

Mi sposto nel portico di Via Indipendenza. Di fronte ad H&M noto una famigliola: lui e lei, e la figlia. Difficile darle un’età: ha quella curvatura morbida nei lineamenti che tradisce il suo essere adolescente, ma non sai se è la bimba che è passata o la donna appena arrivata, in ogni caso c’è in lei qualcosa di nuovo. Noto la scritta di perline sulla sua maglia: FVCK. E mi si riapre un ricordo di adolescenza, quando a Londra indossai una t-shirt con una parolaccia in inglese e mi beccai una sgridata epocale da mio zio. Ma nella maglietta di questa giovane donna, con la V usata alla maniera latina, la ribellione di una parolaccia scritta sugli indumenti ha qualcosa di originale, un che di sofisticato. Un perfetto mix delle due lingue universali (quella nuova e quella antica), una sintesi di antico e moderno, di ribellione e snobismo. Esteticamente geniale e vincente. Qui, però, non c’è più l’austero e tradizionale zio londinese, ma la coppia di genitori indulgenti e questo contrasto, così vivido in me, mi fa pensare a come sia delicata e appassionante la ricerca di un equilibrio tra vicinanza e distanza, tra complicità e rimprovero, tra spontaneità e sforzo educativo riguardo alla vita dei giovani.

Sono ancora immerso in questo dilemma, quando vengo superato ad ampie falcate da due uomini in erba che si stanno confrontando sulla fine dell’università e l’inizio del lavoro. Mi sembra un déjà vu: il loro linguaggio esprime dubbi d’un tempo, roba che una volta si trattava nei saggi sull’adolescenza: “Non so cosa mi piace di più… Preferisco un lavoretto che mi piace, piuttosto che passare tutta la vita in ufficio dietro a una scrivania… Non voglio rinunciare ai miei sogni in anticipo… E comunque prima che mi paghino ne passa di tempo …”.

Ne passa di tempo

Questa è esattamente la domanda che mi viene: come è stato possibile che la vita dei “giovani” sia diventata così lunga? Com’è accaduto che si studi, ci si formi, poi ti venga chiesta della competenza prima di cominciare a lavorare, o una fideiussione che non ti puoi ancora permettere? Come è stato possibile che gli adulti si siano appropriati impunemente di un’età e un linguaggio non loro, sì che quando uno muore a settant’anni si dice: “Era giovane!”?

Come nel gioco delle quattro colonne, sento il sussurro che viene dalla prima: la vita dei giovani è la vita che tutti vorrebbero. Solo alcuni hanno il coraggio di congedarsi da essa con sapienza. E nella tensione generata da questo conflitto, si giocano molti degli aspetti che potrebbero istruirci concretamente su una Sapienza della vita, del tempo e dei passaggi.

Don Davide

 

Testo scritto per il settimanale SettimanaNews il 21 ottobre 2016

 




Le parrocchie di Jurassic Park

Ho letto da poco Gli sdraiati di Michele Serra, che si chiede con onestà e non senza un certo sgomento dove si è rotto il patto generativo con le giovani generazioni.

“Generazioni”, appunto. Già il sostantivo indicherebbe il rapporto tra persone di decenni diversi nello stesso mondo e nello stesso territorio: qualcosa deve essere generato, e non si tratta, evidentemente, solo della vita biologica.

La Chiesa si chiede, impaurita, dove si sia interrotto questo passaggio. C’è senz’ombra di dubbio un problema più generale legato al modo di vivere il Cristianesimo in Occidente, ma rimane la domanda che riguarda i giovani e l’educazione alla fede: dov’è il meccanismo inceppato? Cosa si è rotto nella catena di trasmissione?

Tuttavia, pare che siamo in “buona” compagnia. Come testimonia il libretto che citavo sopra, non è un problema solo legato all’esperienza cristiana, ma anche all’educazione, alla trasmissione di modelli e di stili di vita e, non ultimo, alla speranza.

La liturgia di oggi ci pone due temi principali: la fede e la preghiera. C’è qualcosa più difficile di queste due cose oggi da trasmettere? Gesù stesso sembra mettere sul piatto la serietà del problema, domandandoci: «Ma quando il figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?».

Paolo invita il suo discepolo e amico Timoteo a rimanere saldi negli insegnamenti che ha ricevuto «fin dall’infanzia», nella fede e persino nella lettura delle Scritture. A proposito di questa consegna di generazione in generazione, all’inizio di questa lettera Paolo aveva ricordato a Timoteo la fede della nonna Lòide e della madre Eunìce. Se penso ai ragazzi di oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, la fede dei nonni (e talvolta anche quella dei genitori) appare qualcosa di appartenente all’Era dei Dinosauri.

Come nel film Jurassic Park, le nostre parrocchie rischiano di essere un grande parco-giochi della fede, dove si portano i bambini, si trova ancora qualche ragazzino e qualche giovane, infine ci sono i genitori che portano in gita i bimbi. Ma poi a casa, nel mondo, “da grandi” è un’altra cosa…

Salvo – quando ci fa comodo e ne abbiamo bisogno – affidarci alla preghiera (e magari avere il coraggio di lamentarci se il Signore non ci risponde prontamente). Gesù, invece, ci dice di pregare incessantemente, senza stancarci, per farci capire la preghiera come cartina di tornasole della nostra fede: chi prega? Chi legge con assiduità le Scritture? Chi si raccoglie nel proprio intimo e sotto la guida dello Spirito per discernere il proprio cammino di vita nella fede?

L’educazione all’esperienza di fede dev’essere un criterio di verifica delle nostre azioni e del nostro agire anche come parrocchia. La parrocchia è una comunità di educazione alla fede, nel senso più ampio e complessivo del termine, e noi dobbiamo continuamente lasciarci spronare, mettere in discussione e chiederci se questa frattura delle “generazioni” non sia anche perché non comunichiamo più l’originalità di quello che saremmo chiamati a testimoniare.

Don Davide