La Preghiera, per dare voce allo Spirito

Tutti affannati ad esistere, ma c’è qualcosa che ci fa vivere davvero?

La presenza delle chiese di S. Maria della Carità e di S. Valentino della Grada, affacciate sulle strade che tutti i giorni percorriamo, sembra porre continuamente questo interrogativo.

Siamo presi dalle nostre incombenze, lo facciamo cercando di essere fedeli alle nostre responsabilità – e questo ci fa onore – ma c’è qualcosa che unifica tutto questo, conferendogli senso? C’è uno Spirito che anima il nostro vivere, facendo diventare ogni nostra relazione, ogni nostro impegno e il tempo che scorre inesorabile, sorgente di vita?

Una chiesa se ne sta lì – come nel caso delle nostre, da secoli – aperta la maggior parte delle ore del giorno, umile, silenziosa, accogliente. Non strepita, non dice: “Ehi, venite qui a trovare ristoro!” ma c’è.

La preghiera, per dare voce allo spirito

Qualcuno attende le sette di mattina per entrare puntuale, ad accendere una candela. Qualcuno, nelle mattine d’estate, non vede l’ora di ammirare il portone principale spalancato. Qualcuno, passando davanti, si fa il segno della Croce… Qualcuno non ci fa nemmeno caso che ci sia una chiesa. Si gode la protezione del portico che si confonde con gli altri di Bologna, ed è bello anche così: che ci sia una chiesa che vuole essere pienamente “dentro” la sua città.

La comunità cristiana gode della presenza di questi luoghi, dove dare voce allo Spirito, per sentirsi amati e imparare ad amare.

Vorrei che pensassimo ai molti gesti umili di preghiera che si compiono, quotidianamente, nelle nostre chiese. Certo, non si esauriscono in esse: si prega anche a casa, a scuola, nel luogo di lavoro, mentre viaggia… ma quello che avviene nelle chiese è simbolico e rappresentativo di tutto il resto.

Chi entra nelle nostre chiese ha la percezione di essere in un’altra dimensione: a S. Maria viene accolto dall’abbraccio della penombra e da un’aula maestosa, che ci fanno sentire allo stesso tempo umili e custoditi dalla maestà del Signore. Siamo come quei poveri che vengono accolti sotto il mantello di Maria, nell’antica immagine della Madonna della Carità. A S. Valentino, invece, si viene accolti da un abbraccio affettuoso e intimo, protetti in una piccola aula, dove sentiamo di potere dire ogni confidenza a Gesù.

Poi, si consumano tanti riti e pensieri. Le candele accese, le preghiere in ginocchio, il ricordo per una persona cara, le preoccupazioni per i figli, l’affidamento della propria salute, la tenerezza per la persona amata, le speranze per il lavoro o gli esami dell’università, le preoccupazioni della vita.

Tutto questo viene raccolto nella liturgia, che è la preghiera della chiesa, perché la raccoglie tutta, ogni parola detta, ogni pensiero elevato a Dio, in ogni parte del mondo. Nulla viene lasciato fuori.

Così il nostro spirito si dilata. C’è come un grande alito di vita che attraversa la nostra esistenza, la unifica, la rende coerente nei mille gesti quotidiani con cui cerchiamo di dare la vita per le persone che amiamo.

Ogni cristiano è testimone di questo: pregare è il primo atto dell’esistenza cristiana e, ancorché trascurato, è il più importante.




“Entrerà e uscirà e troverà pascolo” (GV 10,9)

La benedizione del Signore sia su di te quando entri, la benedizione del Signore sia su di te quando esci

Benedire è uno degli atti più antichi dell’umanità, un gesto che sfida la nostra inclinazione al male, mentre va ad attingere alle forze più importanti che ci legano e ci avvicinano agli altri: la benevolenza, la stima, la disponibilità all’amicizia, la fiducia.

Ad Abramo, il Signore, proprio mentre lo benedice, augura: “Possa tu essere una benedizione!”. Sii benedetto tu e possa tu essere considerato una benedizione per gli altri! Possa tu essere quell’uomo dalla cui radice viene l’amicizia tra tutti gli uomini! Possa tu farlo non mettendo alla prova, ma dando fiducia.

In questo – così afferma la riflessione cristiana su Abramo – c’è qualcosa di profondamente giusto.

I cristiani di una comunità parrocchiale ambiscono a generare questo clima di benevolenza reciproca. Vorrebbero essere, nei loro desideri migliori, una benedizione; ma vogliono anche accogliere l’estraneo, colui che non appartiene alla comunità e ogni nuovo incontro come una benedizione.

Chi viene in parrocchia e chi ne esce possa ricevere una parola buona ed edificante e portarla fuori.

In tale clima di benedizione, desideriamo vivere la nostra presenza nel mondo senza paura. Non vogliamo essere preoccupati di questo tempo, come se fosse molto peggiore dei precedenti, ma lo cogliamo come un momento opportuno per vivere il Vangelo. Non siamo spaventati dalla cultura e dall’abbandono della fede, perché percepiamo l’opportunità di condividere nuovamente la grazia di Cristo. Non ci arrocchiamo in parrocchia o, peggio, nelle sagrestie, ma offriamo la bellezza della preghiera e il tesoro dell’esperienza spirituale cristiana a tutti coloro che abbiano voglia di scoprirlo.

Entrerà e uscirà e troverà pascolo

Entrando e uscendo attraverso Gesù, la porta delle pecore (cf. Gv 10), sappiamo di potere trovare pascolo dentro e fuori. Ci muoviamo tra chiesa e mondo contaminandone i confini: mentre proviamo a testimoniare il regno di Dio, viviamo con umiltà nella Chiesa e ci ricordiamo a vicenda che il Signore si è incarnato ed è entrato in questa nostra esistenza per parlare dell’amore di Dio, non ne è uscito per trovare una dimensione rassicurante. Sappiamo che la chiesa è sempre anche mondo, e che nel mondo si possono trovare chiese più autentiche che al nostro interno. Cerchiamo la via della santità imparando a sedere a tavola con chi è chiamato peccatore, apprendendo che i pubblicani e le prostitute passeranno davanti nell’essere accolti dall’amore di Dio. Non abbiamo paura dello scambio delle ricchezze: siamo consapevoli di avere dei tesori da dare e accettiamo volentieri chi vorrà condividerli con noi.

In questo movimento di entrata e uscita, in noi stessi, nella chiesa e nel mondo, vogliamo trovare alimento spirituale per l’esistenza cristiana e per il cammino di santità, perché sappiamo che il sacro e il profano ora sono definiti da ciò che plasmato o meno dalla carità di Cristo e consideriamo tutto questo una benedizione.




“Venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv. 1, 14)

Il senso dell’intera storia della parrocchia è la sua capacità di “abitare” un territorio

È una frase bellissima, quella del Prologo del Vangelo di Giovanni, che letteralmente dice: “Ha messo la sua tenda in mezzo a noi” (Gv 1,14). In un testo che vuole richiamare l’Esodo di Israele nel deserto, in una cultura che ha radici nomadi, questa affermazione potrebbe essere tradotto ai nostri giorni scrivendo: “Ha messo la sua casa tra le nostre case” o, ancora meglio: “Ha preso il suo appartamento nel nostro condominio.” Ve lo immaginate, Gesù, il Verbo Incarnato, alla nostra riunione di condominio?

Venne ad abitare in mezzo a noi

Gesù fa proprio così! Partecipa alle nostre cose, discute con noi, non vuole imporre la sua, collabora a ciò che è necessario per migliorare la nostra casa.

Così deve fare anche una comunità cristiana. La parrocchia non è la chiesa, o la canonica, o i cosiddetti “locali parrocchiali”. La parrocchia è la capacità della comunità di abitare il territorio. In un certo senso, potremmo dire che i nostri locali parrocchiali devono essere i nostri bar, i parrucchieri, gli uffici, la farmacia, i ristoranti, i negozi… insieme alle nostre abitazioni.

Paradossalmente, uno dovrebbe poter dire: “Vado in parrocchia” e poi uscire fuori. Questo è il sogno di Papa Francesco, il sogno di una “Chiesa in uscita”, il sogno di discepoli-missionari.




Pentecoste, energia della Chiesa

Il tempo della Chiesa è accompagnato dallo Spirito del Risorto

La solennità di Pentecoste compie il Tempo di Pasqua e svela pienamente la grazia donata dalla resurrezione di Gesù, ma non chiude un cammino, anzi lo riapre: il dono dello Spirito Santo proietta la vita della Chiesa in avanti e la anima per tutto il tempo rimanente dell’anno liturgico.

Noi non viviamo solo nel tempo. Noi siamo tempo. Il tempo non è qualcosa di esterno al nostro essere: è la percezione della nostra esistenza attraverso tutto quello che siamo. Le feste della Chiesa e il ritmo della liturgia conferiscono al tempo che noi siamo una qualità diversa: non è solo scorrere cronologico, ma esperienza di salvezza e coscienza del significato profondo della nostra vita. Perciò, la Pentecoste ci rimette in cammino e dilata il dono dello Spirito. Sappiamo di vivere con questa forza spirituale che ci accompagna, che determina il modo in cui guardiamo la storia, che ci dà speranza, fiducia e coraggio ad ogni passo del nostro cammino.

È così che lo Spirito del Risorto si manifesta come Spirito della Vita. Esso unifica tutti i nostri sensi, per farci percepire e persino toccare la Vita in cui siamo immersi e che si manifesta nelle forme che arricchiscono la nostra umanità: la bontà, l’amicizia, l’amore, l’emozione, l’empatia, il coraggio, la gioia, il gusto, l’armonia, la bellezza.

Lo Spirito ci consola. Ci ricorda che queste forze sono talvolta come un fiume carsico, non appaiono, ma scorrono sotterranee, finché non trovano uno sbocco e continuano a irrigare la terra.

Infine, lo Spirito ci conferma anche nella verità di questa destinazione buona dell’esistenza. La Chiesa si pone a servizio, con umiltà e abnegazione, sapendo che – nonostante le apparenze contrarie – procede con il vento a favore. Questo è il vento che, nelle sere d’estate all’aperto, fa crepitare la legna e muove la fiamma. Mille sono le volute del fuoco, le sfumature dello Spirito, che a ognuno chiede di lasciarsi guidare per illuminare le notti.

Don Davide

Fuoco di Pentecoste




Lieti nella speranza grati per il dono della vita

Abbiamo tutti bisogno di scoprire che la nostra vita è preziosa e ha una destinazione bellissima

Alla fine del capitolo 15 della Prima lettera ai Corinzi, dopo una riflessione serrata sul mistero della resurrezione, Paolo scrive una frase di una bellezza struggente: “Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore” (1Cor 15,58).

Le cose non sono vane.

Dopo una meditazione così intensa, uno si sarebbe aspettato una conclusione solenne e aulica, invece l’apostolo ci consegna un incoraggiamento semplicissimo e vero. La fede nella resurrezione di Gesù non toglie gli ostacoli, non evita le difficoltà e non risolve tutto magicamente, eppure ci dà le motivazioni per essere saldi e irremovibili, tenendo il timone ben saldo e la rotta dritta, sapendo che nessuna fatica è vana, che tutto viene custodito da lui. Il Signore raccoglie con il suo amore ogni istante e ogni passo della nostra vita, rendendola preziosa e conferendole senso.

Non c’è consapevolezza più lieta e serena di questa. La Pasqua, in fondo, è la parola grazie detta sulla nostra esistenza.

In modo particolare, quest’anno, siamo grati per la vita giovane, per la vita dei giovani. La Chiesa ha voluto metterli al centro del proprio Sinodo, affinché possano essere ascoltati da tutti e protagonisti del rinnovamento ecclesiale. Nelle catacombe romane, spesso, il Signore risorto è rappresentato come un giovane: la resurrezione è giovane. Uno dei segni della Pasqua è la vitalità nello Spirito delle prime comunità cristiane: piccole “parrocchie” con energia, dinamismo, fantasia da vendere, entusiasmo e coraggio.

Vogliamo che la speranza divampi dalla nuova vivacità che i giovani sapranno infondere alla Chiesa, una vivacità che deve essere fatta a modo loro e non contenuta dalla tradizione. Vogliamo colmare le chiese di giovani e vedere nei loro volti quello del Risorto, ed essere grati ancora una volta per il dono della vita, che rinnova le proprie energie attraverso di loro.

Don Davide