La strada di casa

Nella pagina dei discepoli di Emmaus è assolutamente centrale il camminare. “È successo di tutto in questi giorni – dicono – anche tante cose brutte…” cose che li spingono a negare l’evidenza della resurrezione; invece, l’importante è che loro, con questo peso nel cuore, continuino a camminare, affinché il Pellegrino Misterioso si metta al loro fianco e si manifesti come il Risorto, vincendo tutte le motivazioni contrarie.

Non è un camminare generico: è il ritorno verso casa. Erano a Gerusalemme e si stanno dirigendo al loro paese: Emmaus. È il camminare come metafora del ritorno a casa. Tutti noi dobbiamo tornare verso casa, perché la nostra cittadinanza è nei cieli (Fil 3,20). Affinché questo non sia un essere strappati alla vita, ma un sapersi accolti in un luogo famigliare e pieno di affetto, il “ritorno a casa” deve compiersi anche lungo il cammino, non solo quando si arriva alla meta.

Torniamo a casa quando decidiamo di amare, quando accettiamo noi stessi scegliendo il bene, la giustizia, il coraggio e l’altruismo. Torniamo a casa quando perdoniamo e siamo perdonati; quando ci riconciliamo. Torniamo a casa quando accogliamo il nostro dovere e quando smettiamo di essere in competizione con gli altri. Torniamo a casa quando invece di lasciarci sopraffare dalle delusioni, facciamo spazio alla speranza.

In questi ultimi anni la Rai ha prodotto due serie su questa idea, una dal titolo esplicito: La strada di casa; l’altra, più recente: Doc. Entrambi protagonisti sono come un Ulisse contemporaneo, che si trova a dovere fare un lungo e difficile percorso, per riscoprire se stesso, gli affetti, la casa, il lavoro e il proprio ruolo. Il fatto che siano di alta qualità e che abbiano avuto un enorme successo, la dice lunga sulla nostalgia di questo “viaggio”.

Sembrerà assurdo che io parli del “ritorno a casa”, in un questo periodo in cui siamo stati costretti a casa da più di un mese. Diremmo piuttosto che abbiamo nostalgia dei parchi, di un viaggio all’estero, del cinema, di una cena con gli amici.

La strada di casa

Ma il cammino di ritorno dei discepoli è qualcosa di molto più profondo, che riguarda le coordinate fondamentali dell’esistenza: “Noi speravamo che fosse lui…”.

Speravamo.

Speravamo che ci fosse un senso definitivo alle cose. Invece ci troviamo qui, precari, con delle delusioni, in mezzo a mille difficoltà… solo col desiderio di ritornare a casa.

Finalmente arrivano a casa.

Questo particolare, ha fatto pensare a qualche interprete che fossero marito e moglie, una coppia. In questa logica, nel testo verrebbe ricordato solo il nome di Cleopa, in quanto permetteva di identificare anche sua moglie. Accettiamo questa suggestione. Arrivano a casa loro e pronunciano quell’invito memorabile: “Resta nella nostra casa, perché è il momento per tutti di tornare a casaanche per te, Gesù. Fa’ che questa sia la tua casa… e tu la nostra.”

In realtà tutte queste cose le dicono col cuore, quel cuore che esplodeva di sentimenti e di emozioni, mentre con le labbra dicono solo l’intuizione ancora non consapevole del tumulto interiore.

Così, Gesù che è stato tanto in casa nostra, in questo periodo, è invitato a sentirla come casa sua. E noi siamo invitati a sentirci a casa non solo con lui, ma in lui. E Gesù, a casa sua, celebra l’Eucaristia con la benedizione del pane e del vino.

Anche in questo caso, dicono gli interpreti che c’è un continuo rimando tra una cena usuale e la cena rituale eucaristica. Non è che Gesù celebri la messa… ma in quei gesti c’è un palleggio come a ping pong fra l’una e l’altra, tra la cena in casa nostra e la benedizione di Gesù sul pane e sul vino in casa sua.

Non c’è un primato.

Tutto parte dal continuare a camminare, dallo stare sempre in cammino con questo desiderio nel cuore di tornare a casa. È un tornare ad incontrare il Risorto e permettergli, in mezzo a tutte le tribolazioni, di farsi riconoscere e di farci divampare il cuore. Non sappiamo se venga prima l’abitare in lui per trovare la strada di casa; o se sia necessario tornare in noi stessi per dimorare in lui. In realtà, lui non bada a queste cose. È il Risorto, varca tutti gli ostacoli – lo abbiamo ricordato più volte – e si fa vicino al cammino di ciascuno di noi, lì dove siamo, così come siamo. E in questo ritorno – nostro e suo – c’è un rimando continuo, tra quello che abbiamo fatto in casa nostra, che è diventata casa sua, e quello che lui vuole fare in casa sua, che diventa casa nostra. Slittiamo impercettibilmente e anche noi senza confini e senza ostacoli da una casa all’altra, da una mensa all’altra, da un ospite amico al fatto di accogliere il Signore Risorto e viceversa, perché solo in questo sconfinamento di ritorno continuo noi possiamo trovare veramente la strada di casa.

Don Davide




Sorrisero a vedere il Signore

In questi giorni sono andato in farmacia con la mascherina, ovviamente. C’era una dottoressa che non conoscevo, è stata gentile. Poi qualcuno ha fatto una battuta, abbiamo riso tutti, lo si capiva dagli occhi.

Uscendo, però, ho pensato che la mascherina mi aveva impedito di distinguere il sorriso di quelle persone. Il sorriso di una persona che conosci lo ricordi e lo riesci ad immaginare. Il sorriso di uno sconosciuto è come fargli l’identikit: capisci subito se sorride ma è forzato, se ha qualche preoccupazione, se è stanco oppure se è un sorriso aperto e spontaneo. Senza sorriso, quel gesto che scolpisce il volto, non si può quasi dire di avere “visto” una persona.

sorriso

Il Vangelo di questa domenica dice che Gesù si fece trovare improvvisamente nel mezzo dell’assemblea dei suoi discepoli, superando i muri e le porte chiuse, e che i discepoli “gioirono al vedere il Signore” (Gv 20,20).

Uscendo dalla farmacia mi è tornata in mente proprio questa frase: “i discepoli gioirono al vedere il Signore”.

I pochi che c’erano sotto la Croce, per lo più discepole, insieme a Giovanni e Giuseppe d’Arimatea, l’ultima volta lo avevano salutato con un sudario sul volto, qualcosa che ostacolava lo sguardo.

Ora lo vedono e gioiscono. E immagino un sorriso aperto di tutti, un sorriso ben visibile e festoso. E baci, abbracci, incoraggiamenti. Forse, di questi tempi, si potrebbe addirittura parafrasare: “E i discepoli sorrisero al vedere il Signore, senza quel sudario che assomigliava tanto a una mascherina…”

Attenzione, non ho nulla contro le mascherine, che sono un presidio sanitario fondamentale e che ci permetteranno di vivere una quasi normalità nei mesi che verranno.

Vorrei esprimere solo il desiderio di volti recuperati e abbracci restituiti. In questa speranza, che ha gli echi di una melodia struggente e a tratti lancinante, creiamo uno spazio per tutte le persone che stanno facendo più fatica: sappiate che, come ha detto papa Francesco, siamo tutti sulla stessa barca. Pochi sono gli eroi e i forti non sono nemmeno loro sempre forti. La pesantezza la sentiamo in tanti. E questo punto di partenza condiviso ci fa sentire almeno un po’ consolati, e sicuramente anche propositivi.

Abbiamo celebrato Pasqua e ora ripartiamo da qui.

Il Signore risorto riavvia il nostro cammino: guardiamo al futuro, un futuro prossimo, progressivo e lontano, senza stare con le mani in mano, ma sapendo che è parte essenziale della testimonianza della resurrezione anche la possibilità di tornare a vedere e sfiorarsi, e che noi ci impegniamo per questo attraversando ogni cosa.

Don Davide




Vedere la gloria di Dio

Ci sei o non ci sei? 

La grande domanda che guida il racconto della resurrezione di Lazzaro – il Vangelo di questa V Domenica di Quaresima – la domanda identica che esprimono sia Marta che Maria è legata all’assenza di Gesù, che ci fa sentire soli, o alla sua presenza, che ci custodisce: Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto”. 

Ci sei, Gesù, nella mia vita di credente? 

Ci sei, quando mi sento solo e affaticato? 

Ci sei in mezzo a questa epidemia, per curare le persone che muoiono o non ci sei? 

A differenza del famoso racconto di Gesù nella casa di Marta e Maria, qui scopriamo che è Marta ad avere una fede più grande, è radicata nel rapporto con Gesù, dialoga con lui e raggiunge una delle più grandi professioni di fede che si possano immaginare, forse la più grande di tutto il vangelo: “Io credo che tu sei il Messia, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo!”. Dire di più di così, non si può. 

Questa sua professione di fede, però, non chiude il discorso. Al contrario, coinvolge il cammino di tutti, il cammino dei singoli, il cammino dell’esperienza di un popolo, e il cammino di una comunità. 

Marta va a chiamare sua sorella, la interpella, le lascia spazio, accetta che anche lei compia un cammino e faccia i suoi passi, favorisce il suo incontro. 

“Il Maestro è qui, e ti chiama!” 

Il Maestro è qui, c’è eccome. Entra in tutte le situazioni, non fa venire meno la sua presenza. Sa che Lazzaro è morto. Si è accorto che c’è tanta sofferenza e difficoltà. E chiama te!  

Questo è il momento di incontrarlo. 

Questo è il momento di una vocazione. 

È stupendo che Gesù non consumi l’incontro come un fuoco con la stoppia. Lui aspetta la sua amica fuori dal villaggio. Le concede il tempo di un piccolo cammino, di uscire da se stessa, di pensare quello che lei vuole dirgli. 

Maria è più in difficoltà di Marta. Forse è arrabbiata con Gesù, si ferma all’obiezione, non ha altre parole. Dice solo: “Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto.” Non aggiunge nessuna professione di fede, anche se già questo lamento agli occhi di Dio è una supplica piena di amore e di fiducia. 

E piange. 

Maria è in crisi, ha bisogno di attraversare  il dolore e la commozione insieme a Gesù. E Gesù piange con lei. E di fronte a questa scena di dolore così intensa, tutti piangono. Gli abitanti di Betania sono scettici: “Costui che ha ridato la vista al cieco, non poteva fare sì che il suo amico Lazzaro non morisse?”. 

Anche Marta, che pure aveva fatto quella professione di fede grandiosa, vacilla, ed è sopraffatta dal dolore. Pensa che in fondo, nemmeno Gesù lo possa affrontare davvero. “Signore è già tardi… in realtà le nostre speranze sono svanite. Rimane solo l’amicizia, l’affetto, il conforto umano.” 

Qui Gesù tiene il punto: “Non ti ho detto che se crederai, vedrai la gloria di Dio?” 

La gloria di Dio, per gli ebrei, non è qualcosa di spirituale, di astratto. Al contrario è un’esperienza molto concretauna presenza ingombrante. Il segno tipico della gloria di Dio era il fumo denso che riempiva la tenda del santuario di Dio, al punto che nessuno, quando la Gloria era sulla tenda, poteva entrare o uscire.   

Qual è dunque, quest’esperienza così concreta e decisiva? È la fede di un singolo e di una comunità che viene suscitata nei nostri giorni fragili, e il fatto di condividere la lotta contro la morte di un intero popolo. 

Attenzione perché qui si rischia il più grande fraintendimento alla storia di Lazzaro. Il messaggio non è la sua rivitalizzazione, perché di fronte a quella, noi pensiamo subito all’illusione di non morire mai, e diciamo: “Eh, ma i nostri morti non li fai rivivere!”. Il punto decisivo, per noi, è che possiamo credere in Gesù, come singoli e come popolo, e avere una nuova esperienza di vita solo affrontando e attraversando la questione della morte. 

Soltanto in questa luce trova senso la decisione apparentemente assurda e macabra di Gesù di tardare la visita a Betania, per poi andare dopo a resuscitare Lazzaro. Gesù vuole che non esorcizziamo la morte, ma che la consideriamo nella nostra vita, compiendo il cammino della fede e tenendo ferma la speranza.  

Ve lo immaginate Lazzaro, fuori dal sepolcro? Gesù gli dice, vieni fuori, ma doveva essere ben difficile camminare mummificato! 

Allo stesso modo, guidati dalla fede e chiamati dalla speranza, anche noi compiamo piccoli passi, legati, incerti, in equilibrio precario, e veniamo sciolti dalle bende della morte che ci avvolge e vorrebbe impedirci di andare. 

Ieri un amico mi ha scritto: “Io posso anche morire domani, se ho imparato ad amare.” 

Cos’è che rende piena improvvisamente la mia vita con un atto d’amore? 

Questo è il punto cruciale del racconto della resurrezione di Lazzaro: ed è bellissimo vedere come inizia da una professione di fede, incontra una fede in difficoltà, attraversa il dolore e la compassione, suscita la fede di una comunità intera. 

Forse, una testimonianza resa così, sarà la vera nuova evangelizzazione della Chiesa. 

Don Davide

Nebbia




La partenza e la meta

Nella liturgia di questa domenica, c’è l’invito a partire per un viaggio inedito e inatteso, lontano dai propri riferimenti e dalle proprie sicurezze (prima lettura), per arrivare a una vetta di trasformazione incredibile, in cui in una persona Dio e il mondo si toccano (vangelo). Il contesto di questo traguardo prodigioso è descritto come un mistero: una nube luminosa. È una nubeperché c’è qualcosa che sfugge alla possibilità di spiegare tutto; è luminosa, perché in questo evento si manifesta qualcosa di sorprendente e bellissimo. 

Cammino

Vorrei che tutti, con la nostra personale sensibilità, potessimo sentire l’invito a partire in un cammino di cui non sappiamo i contorni e i riferimenti, ma con l’unica certezza che la storia è saldamente nelle mani di Dio e che, se intraprendiamo questo viaggio con fiducia, saremo un luogo – un luogo fisico e spirituale al contempo – in cui Dio e il mondo si toccano. 

Vorrei che ciascuno di noi potesse sentire questo “inizio”: sia chi è disperato perché non si celebra la messa domenica, sia chi è più timoroso e prudente; sia chi è più scettico e sospettoso, sia chi si affida più serenamente alle indicazioni che sono state date… per tutti vorrei che risuonasse un invito personale: non rimanere ancorato a quello che sai già, ai tuoi schemi, alle tue certezze, ai tuoi orizzonti di riferimento. Prova a metterti in ascolto delle ragioni dell’altro, a entrare in sintonia con la paura o col coraggio, con la fede o con la mancanza di fede, con lo sgomento o la serenità. Prova a cogliere le possibilità che questo viaggio ti offre. Sarà un cammino pazzesco, roba da fare venire le vertigini; talvolta ti chiederai se ci sia un sentiero o se sia tutta una follia.  

Potrebbe succedere che nelle cose più terribilmente umane, siamo condotti a toccare delle vette di grandezza spirituale: dalla paura del contagio alla generosità del proprio lavoro; dal sospetto all’amicizia solidale; dal disagio per la privazione delle nostre routine allo spazio per un incontro spirituale. 

Non mancheranno il disorientamento e la sete, questa “sete” così al centro dei nostri cammini pastorali; non mancherà la paura e lo sconforto e lo scontro con il nostro limite. Ma ci saranno anche momenti di esaltazione, un cielo sopra di noi colmo di infiniti punti di luce.  

È importante che lo facciamo con Gesù, questo cammino. Ognuno lo tenga vicino a sé con la lettura del Vangelo, con la preghiera personale, con il ricordo, mettendo in pratica l’amore concreto. 

Con lui, saremo trasfigurati. Cambieremo. 

Cambierà il nostro modo di essere chiesa, forse più consapevole delle cose preziose che abbiamo? 

Cambierà il nostro modo di vivere, segnato da una riscoperta di ciò che davamo clamorosamente per scontato? 

Forse ci sorprenderemo, ma quando ricorderemo i momenti di svolta della nostra vita annovereremo anche questo, scaturito dalla disponibilità a “partire”, fissando la meta di una montagna lontana. 

È meraviglioso e incoraggiante ricordare che quel primo passo di Abramo è stato l’inizio del cammino della fede e il seme della storia di un popolo. 

È meraviglioso credere che questo nostro primo passo possa essere altrettanto. 

Don Davide 

 




Una prova, tre tentazioni

“Prova” e “tentazione” nella lingua del Nuovo Testamento potrebbero essere considerati come sinonimi. Nella prima domenica di Quaresima si parla delle tre tentazioni di Gesù. Anche noi, a partire dalla prova che stiamo subendo, potremmo subire alcune tentazioni. Vale la pena metterle in luce, per non essere sedotti e lasciare che una prova si trasformi in peccati ben più gravi di quello di saltare il “precetto festivo” che sembrava preoccuparci tanto.

La prova è quella, ovviamente, del virus che all’inizio ha spaventato tutti e ora, dopo che abbiamo conosciuto il nemico, sembra essere un po’ meno mostruoso.

Come atteggiamento quaresimale di solidarietà con i più deboli e poveri, dobbiamo innanzitutto riconoscere come questo virus, che ha colpito l’Occidente, abbia gettato l’allarme, mentre quelli che generano vere e proprie epidemie nei paesi poveri del mondo ci lascino sostanzialmente indifferenti. C’è un elemento di serietà e di fratellanza da riscoprire e che ci interpella come condizione necessaria della nostra sensibilità cristiana.

tre tentazioni

La prima tentazione è di farci prendere dal panico, e di dimenticare le dinamiche più ovvie di comunione fraterna. “Non di solo pane vive l’uomo” risponde Gesù nella prima tentazione. L’uomo ha un alimento per la sua intelligenza e per il suo spirito: la reazione di accaparrarsi le scorte di fronte alla prima minaccia, assomiglia tanto al dare sfogo al criterio: mors tua vita mea, come se uno si dovesse preoccupare solo di sé e non del fatto che c’è un legame sociale da mantenere. “Non di solo pane” ci ricorda anche che alcune dinamiche del convivere che diamo per scontate, in realtà devono essere custodite proprio dalla nostra vigilanza spirituale, oserei dire dalla nostra magnanimità, una virtù di cui tutti dovremmo avere più cura. Nelle situazioni di vera crisi, solo donne e uomini dalla grande anima hanno offerto risposte e soluzioni significative.

La seconda tentazione, che è molto connessa alla prima, è di confondere lo spirituale con il mondo fisico. “Buttati – dice il diavolo – gli angeli ti custodiranno!” Quasi come a dire: “Vai nudo al centro dell’epidemia, se hai fede non ti accadrà nulla!” Gesù risponde con grande precisione che non è così che funzionano le cose. Lo spirituale si è incarnato nelle dinamiche fisiche e creaturali del mondo: questo è lo specifico cristiano. Non serve dire: “Se noi preghiamo, l’epidemia non arriverà!” e tutto il corollario di analoghe frasi spiritualistiche. Tutto il buono, invece, passa dal legame di alleanza con Dio e con i fratelli. Dobbiamo chiederci: cosa posso fare per custodire la presenza di Dio in me e l’amore per i fratelli a partire dall’amore di Dio? Porsi questa domanda significa stare nel faticoso lavoro della vita spirituale e dell’apprendimento della sapienza cristiana e della saggezza pastorale della chiesa.

La terza tentazione è quella del potere. È ben più che una tentazione ed è sotto gli occhi di tutti: attraverso i social o lo scempio che fanno alcuni politici, l’inclinazione a sfruttare una situazione grave a proprio vantaggio, l’occasione di volere avere ragione o di dire l’ultima parola, o di essere più forti degli altri. Gesù ci mostra, senza mezzi termini, che questa tentazione può solo essere scacciata: “Vattene!” dice al diavolo, mostrando che dobbiamo avere un’opposizione radicale a questi atteggiamenti che risvegliano in noi il desiderio sottile di dominare, di avere potere, di essere migliori degli altri. “Vattene!” è l’unica parola da opporre: l’unica forza che ci permette di non mettere una barriera tra noi e gli altri e di non allontanarci irrimediabilmente da Dio.

Don Davide




Dedizione

A ridosso della conclusione dell’anno liturgico, quando le cose si ricapitolano e si fanno dei bilanci “spirituali” le letture della messa ci propongono la scena dell’obolo della vedova. È un momento in cui anche Gesù fa una sorta di “bilancio”: sa che sta per andare incontro alla sua passione, vede una scena commovente che ai suoi occhi si carica di un significato gigante e dice: “Ecco! Questa immagine ricapitola tutto il Vangelo! È una sintesi perfetta di tutto ciò che volevo dire e insegnare!”.
Sono, dunque, parole importanti quelle di Gesù. Sono parole pesanti che appaiono rassicuranti, ma non lo sono affatto: sono piuttosto taglienti e severe. Hanno il tenore di un monito. Sono molto vicine a una requisitoria.
Esse sono strutturate su due termini: “Guardatevi!” e “superfluo”.

Il monito a guardarsi dagli scribi e da quello fanno, cioè a stare ben lontani dal loro modo di fare (rileggersi come e cosa fanno gli scribi e meditarlo!) è un atto d’accusa senza sfumature. La vedova al tempo di Gesù non è solo una figura che suscita commozione; è il gradino più basso della scala sociale, insieme agli esclusi come i lebbrosi. Sia nei profeti dell’Antico Testamento che negli Atti degli Apostoli il rispetto e la cura delle vedove è il punto su cui sta o cade la qualità religiosa della vita di un credente e della sua comunità.
Degli scribi, Gesù dice che divorano le case delle vedove, e pregano davanti a tutti per farsi ammirare! Divorano i poveri e pregano per ostentare! Divorano e pregano: non si potrebbe immaginare un connubio più abietto!
Gli scribi siamo tutti noi quando ci interessa farci vedere, ma non siamo realmente interessati al bene delle persone. Gli scribi sono tutti quelli che fanno così.

E poi ci sono i “superflui”. Sì, avete capito bene. “Superfluo” è una parola durissima di Gesù: mettono quello che non serve a niente. Potrebbero averlo sprecato al gioco, messo in un investimento perso, oppure persino bruciato: a loro non cambierebbe niente. Non cambierebbe il loro tenore di vita, le loro preoccupazioni, perciò non cambia niente nemmeno a riguardo della loro solidarietà, del loro impegno. Mettono quello che è superfluo, quello che non serve a niente. Pensano che almeno, nel tesoro del tempio, servirà a qualcosa, ma Gesù dice di no. A nessuno servirà se per una volta qualche vedova mangerà un panino con quei loro soldi: non cambierà la storia del mondo, né la condizione di quella vedova. A Dio serve solo che cambi il loro cuore… e il mio, il nostro. La cosa terribile è che questo atteggiamento di non cambiare il proprio cuore, e quindi di non cambiare il mondo, rende superflui noi stessi. Se non ci convertiamo… siamo superflui. Non serviamo all’unica cosa che Dio vuole per la sua creazione: che ci vogliamo bene, che allarghiamo gli spazi della giustizia e della pace.

Il Vangelo, dice Gesù, è tutto ciò che si distanzia da questi due modi di vivere l’esperienza religiosa, e tutto ciò che invece, raccoglie la propria vita in un clamoroso, ancorché piccolissimo, gesto di dedizione.

Don Davide




Un ragazzo con un lenzuolo

Nella scena dell’arresto di Gesù nel Getsemani, l’evangelista Marco inserisce un particolare enigmatico: un ragazzo, vestito solo di un lenzuolo, che prova a seguire Gesù anche dopo il suo arresto. Le guardie sono indisposte da questa presenza, lo afferrano ed egli, lasciando il lenzuolo, fugge via nudo.

È una figura che non ha alcun collegamento con la narrazione, almeno apparentemente, tanto da destare le più svariate interpretazioni, fino a fare immaginare che sia la firma dell’autore del vangelo stesso, con un’ammissione di umiltà: quel ragazzo sarebbe Marco, che prova a seguire Gesù anche nella Passione, ma anche lui scappa nella sua nudità.

C’è un tentativo estremo di seguire Gesù, anche nel momento della Croce, di non lasciarlo solo e di non fare come tutti gli altri discepoli, ma anche questo tentativo fallisce.

È un’immagine potentissima del nostro bisogno di vita, dell’urgenza di celebrare la Pasqua non solo liturgicamente, ma togliendo via il vecchio dalle nostre vite e accogliendo il nuovo che lo Spirito del Risorto si accinge a portarci.

Nella figura di «un ragazzo», però, scorgiamo anche un altro significato. Vediamo l’estremo tentativo di qualche giovane di seguire Gesù, in una ricerca di radicalità, prima di venire definitivamente confuso.

I giovani se ne vanno, non solo dalle nostre chiese, ma dalla fede, dal rapporto con Gesù, dalla dimensione religiosa della vita. E anche quelli che provano resistere tenacemente in un tentativo di radicalità di vita, vengono poi «afferrati», invece che accompagnati; «spogliati», invece che riempiti; spaventati e confusi, invece che incoraggiati a confermare la direzione.

Non vedo simbolo più eloquente della “passione” che si consuma – insieme a quella di Gesù – della Chiesa e del mondo.

La chiesa senza giovani morirà, e non bisogna risolvere la cosa troppo superficialmente rifugiandosi nella provvidenza dello Spirito Santo, il quale si fa sentire… se i cristiani ascoltano. Bisogna piuttosto pensare a quanto è accaduto alle chiese del Nord-Africa o dell’Asia Minore dopo i primi secoli del cristianesimo.

In questo gesto di ultima spoliazione, si manifesta l’esito di tutte le trivialità e le superficialità dentro e fuori la Chiesa: la miopia di chi si lamenta perché la vita della Chiesa cambia; le proteste di chi non ha la messa all’ora e al minuto che vuole lui e nella chiesa che piace a lui; la mancanza di comprensione di chi si lamenta perché deve fare 100 mt in più per raggiungere una funzione… L’ottusità di chi pensa che tutti i problemi del mondo derivino dalla Chiesa; la disonestà intellettuale e spirituale; la severità con cui vengono giudicati i preti e i ministri della chiesa quando non sono brillanti, attivi e capaci; la banalizzazione di tutte le cose.

Nel giovane resistente, spogliato persino dell’ultimo lenzuolo e fuggitivo, ci specchiamo in un salutare bagno di purificazione, con la speranza che a Pasqua lui, la Chiesa e ciascuno di noi possiamo essere di nuovo vestiti.

 Don Davide




L’autorità di Gesù

Gesù ha iniziato ad annunciare l’amore di Dio Padre. Ha chiamato i suoi discepoli, è appena entrato in sinagoga e subito la sua autorità travolgente si manifesta e non può non essere riconosciuta.

È un’autorità che comunica un amore che trasforma, una parola che guida alla verità (prima di tutto del cuore) e che ha il potere di strappare dalla nostra vita le inclinazioni maligne. È la parola che ci apre alla fraternità e alla guarigione.

Questa autorità di Gesù è quella che produce gli effetti del Vangelo. Gesù compare sulla scena e succede di tutto: gli spiriti maligni vengono scacciati, i lebbrosi accolti e guariti, i malati sanati, gli ipocriti smascherati, i poveri diventano oggetto di attenzione, gli sconsolati recuperano un senso alla loro vita.

Oggi abbiamo il dono essere richiamati a questa autorità di Gesù, quasi come premessa dei tanti discorsi che sono stati fatti, e che faremo, sui grandi temi del mondo di oggi: i poveri, gli emarginati, i migranti, le sfide della carità, il rinnovamento pastorale della nostra diocesi, la chiesa “in uscita”.

Al centro di tutto, come fonte irradiante; prima di tutto, come inizio generativo, ci sta Gesù, l’incontro con lui, il risuonare della sua parola nella nostra vita, il fatto di vedere raccontato nel suo essere l’amore del Padre. Siamo messi di fronte alla sua autorità: è quest’esperienza che ci trasforma e ci dà l’energia necessaria.

È l’incontro con Gesù che ci spinge ad essere discepoli-missionari autentici. È l’assiduità con lui che ci rende più sensibili alle esigenze dei poveri, a cui “è annunciata la buona novella”. È lo sguardo posato su di lui che ci fa vedere negli emarginati, nei migranti il suo stesso volto. È assimilando i suoi criteri che noi possiamo rinnovare la Chiesa perché sia ancora e sempre testimone della resurrezione.

Mentre ci dedichiamo e ci preoccupiamo giustamente delle tante sfide concrete che ci si pongono come credenti e come comunità cristiana, la domenica di oggi ci dà l’opportunità di ricordarci che tutte queste cose trovano la loro unica risposta autorevole a partire da Gesù, dalla fede e dal nostro rapporto con lui, di cui ci dovremmo preoccupare in maniera NON meno concreta del resto.

Colgo pertanto l’occasione, pertanto, di proporre una piccola verifica del nostro legame personale con Gesù come suoi amici e discepoli.

  1. Che intensità relazionale ho con Gesù? Lo credo una persona viva e presente? Ho un modo concreto e personale (come si ha con tutti gli amici) di stare con lui?
  2. L’amicizia con Gesù orienta la mia vita? Determino le mie scelte, i miei comportamenti, il mio stesso modo di amare, in base a quello che riesco a capire di Gesù, dal Vangelo?
  3. La mia preghiera ha una dimensione affettiva con Gesù? Quando prego, prego magari con fede, ma solo in maniera precisa o comunitaria, oppure riesco a metterci qualcosa di mio? Dialogo con Gesù? Gli dico i miei sentimenti, i miei stati d’animo, le mie emozioni, i miei progetti, il bisogno di chiarezza nelle mie scelte?

In questo modo, la nostra amicizia con Gesù non sarà come quella con qualsiasi altro maestro, ma come quella con uno che ha autorità sulla nostra vita: un’autorità che ci rende liberi e che ci inclina al desiderio di amore… e DI AMARE.

Don Davide




La Parola che fa rotolare le pietre

Signore Gesù, sembra quasi che tu li sfidi i sepolcri.

I pesi sul cuore, i “non ce la posso fare” e in generale i massi che chiudono le tombe tu proprio non li sopporti.

Sarà forse per questo che ti diverti sistematicamente a farle saltare via, le pietre?

Viene da invidiarti, Signore: a noi non riesce così bene di togliere i macigni.

Ciascuno di noi ti raggiunge, ogni settimana, qualcuno ogni giorno, in chiesa, o con la sua preghiera o con il pensiero. Abbiamo le nostre vite, piene di cose belle, e anche faticose. Alcune le conosco, di altre intuisco solo qualcosa, ma so che possono essere molto pesanti. Ci sono macigni nel cuore e nell’anima.

Sarebbe bello se la tua parola che risuona ci convincesse che ce ne possiamo liberare, o che – portandoli con te – si possono alleggerire. Come disse Francesco d’Assisi quando abbracciò il lebbroso, scoprire che anche ciò che è amaro e insopportabile si potrebbe trasformare in dolcezza di anima e di corpo.

Sai cosa ci impressiona del racconto di Lazzaro? Che quando incontri Maria, sua sorella, ti commuovi come faremmo noi. Come se pensassi che se anche Maria non regge una situazione così – lei che era buona e credente – allora deve essere davvero insostenibile. E quando ti dicono che non c’è più speranza, tu piangi perché per te non può essere così, che la forza dei macigni sia così grande.

Non è il pianto della disperazione il tuo, è il pianto della sfida e della ribellione.

E così, per il tuo amico, ordini: «Togliete la pietra!».

Sento che lo dici a ciascuno di questi amici: togliete la pietra! Sento che lo dici agli educatori per ciascuno dei loro fratelli e sorelle più piccoli: togliete le pietre! Sento che lo ripeti agli adulti, alle famiglie, agli anziani… a chi ha dei sogni e pensa che siano bloccati.

Quando una pietra rotola via dal sepolcro, una vita si rimette in cammino.

Allora ti preghiamo, Signore: se dobbiamo dare nuovo smalto alle nostre liturgie, e valorizzarne le parti, fa che ogni volta che proclamiamo e ascoltiamo la tua parola dall’ambone, che è simbolo del Sepolcro aperto e vuoto, fa che risuoni il tuo ordine: via la pietra!

Per tutti quelli fra noi che hanno del male nel corpo o, peggio, nell’anima: perché possano tirarlo fuori dal buio, trovare qualcuno con cui parlarne, guarirne ed esserne guariti.

Per tutti quelli fra noi che sono nel buio e non vedono via di uscita, perché ci sono massi enormi che sigillano le nostre speranze: facci udire una parola che ci chiami alla vita.

Per tutti quelli fra noi la cui felicità degli affetti più cari è stata ostacolata da un sepolcro vero, da una morte vera: da un lutto. Tu che sei la resurrezione e la vita non solo nell’ultimo giorno, fa sentire fin da adesso la tua presenza concreta: che ci sei, vicino a loro.

Per chi è stato tradito, per tutti i segreti nascosti nei cuori, per le fatiche con le persone che dovremmo amare e che ci dovrebbero amare, per la paura di rimanere soli o di non riuscire nella vita, per le nostre colpe di cui ci vergogniamo e i desideri troppo belli che non abbiamo il coraggio di esprimere, aiutaci a trovare una strada da seguire e un percorso da fare… perché la tua parola ci sciolga e ci lasci liberi di andare.

Don Davide




Un popolo tra tenebre e luce

“Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce” (Is 9,1). Per essere illuminati, bisogna innanzitutto riconoscere che il nostro mondo fa quotidiana esperienza delle tenebre. È di questi giorni la triste conferma che pochissime persone del mondo detengono una incredibile maggioranza delle ricchezze del mondo; le notizie dei fronti della guerra continuano a raggiungerci; condividiamo le sofferenze di tanti nostri fratelli e sorelle in Italia piagati dalle calamità naturali, o da tante altre drammatiche piaghe sociali.

Non dobbiamo però pensare che siano cose di cui sono responsabili solo “gli altri”: si tratta di modelli e di strutture dei quali anche noi facciamo parte: un modello di organizzazione dell’economia con cui noi corriamo il rischio di avvallare delle situazioni di disuguaglianza; gli assetti della politica e della cultura per cui non ci sentiamo coinvolti nelle cose che accadono lontano; un modo di comprendere (o di non comprendere) i vincoli e le responsabilità della convivenza comune, che non ci fa vivere come Paese solidale sempre, non solo quando succedono le catastrofi.

L’irruzione della luce il Vangelo ce la racconta nell’inizio della storia dei primi discepoli con Gesù. Lui li chiama e loro si trovano coinvolti in questa vicenda con lui. Il Vangelo, fra le righe, ci fa sentire una certa nostalgia per l’entusiasmo di quel momento, che certamente nelle prime fasi non era nemmeno consapevole, ma a cui molti anni dopo gli apostoli devono avere ripensato con un’emozione particolare: lì stava iniziando qualcosa di nuovo e così sorprendente che non avrebbero mai potuto immaginare. La loro storia con Gesù stava iniziando.

Quella storia è raccontata come quando ci si innamora e come uno squarcio di libertà.

Abbiamo sempre pensato che “lasciare il padre”, in questo racconto, fosse un riferimento alla radicalità della sequela. Senz’altro quest’elemento c’è. Ma lasciare il padre evoca innanzitutto l’esperienza nuziale: “lascerà suo padre e suo madre e si unirà alla sua donna”. Qui, sicuramente, il Vangelo non vuole fare una riflessione sul celibato, ma vuole dire che l’incontro con Gesù è segnato da quel tipo di amore che si prova quando ti innamori pensando che hai trovato la persona della tua vita.

In secondo luogo, la psicologia contemporanea ci insegna che “lasciare il padre” evoca la grande libertà che è data dall’amore. L’esperienza, cioè, della vita adulta, plasmata nella libertà di potere camminare in una storia nuova, anche lasciando i propri retaggi, le proprie sicurezze, i propri condizionamenti, per potere camminare verso la costruzione di qualcosa che il Signore ci chiede di generare anche in maniera nuova.

In che modo si può esprimere questa libertà, senza che sia soltanto l’ultima trovata arbitraria e illusoria? San Paolo, nella seconda lettura, ci istruisce su questo, con quella che è chiamata la logica della croce, ossia il criterio dello Spirito: una logica che rifiuta i criteri del mondo e che sceglie la via disarmata, dove si manifesta davvero la forza dello Spirito, il suo fascino e la sua potenza: una via di pace.

In questa domenica noi accompagniamo con grande simpatia i ragazzi che parteciperanno alla Giornata diocesana della Pace e ci auguriamo che crescano come costruttori di pace e di un mondo nuovo e che davvero possano essere migliori di noi.

Don Davide