Il bagliore del Paradiso

In quest’ultima domenica dell’anno liturgico, Gesù ci invita a guardare dalla sua prospettiva.

In un salone regale, il re sta di fronte al popolo e tutti lo guardano. Questa è la grande scena che viene descritta: “Dopo che ebbero crocifisso Gesù il popolo stava a guardare…”. Al centro, l’evangelista pone la spiegazione di questa scena: “Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».”

C’è dunque un re sul suo trono e i sudditi al suo cospetto. Stavolta, però, sono spettatori, per lo più. Osservano, probabilmente qualcuno con un certo senso di rivalsa, la caduta che prima o poi tocca tutti i monarchi. Gli altri capi lo deridono: questo è il destino normale tra chi si contende il potere. Anche chi conosce solo la logica del salvare se stesso lo deride: un re che non è nemmeno in grado di usare la sua autorità in proprio favore è un povero zimbello.

Nessuno sembra fare caso al fatto che il trono non è coerente.

I Romani non potevano davvero considerare che Gesù fosse una minaccia per l’Imperatore, mentre i capi di Israele sono davvero convinti che sia la giusta punizione per un re pretenzioso, laddove Erode, il vero re, riduceva il popolo a uno schiavetto dei Romani.

All’unico che si accorge di questo indizio elementare, ma decisivo, Gesù apre gli occhi su una scena completamente diversa. Il ladro penitente riconosce che la croce non è un trono, ma una pena e che il regno di quell’uomo che tutti invitano a mostrarsi “regale” deve essere affatto diverso.

È allora che Gesù, come in un sussurro gli parla.

“Io non ho mai voluto fare «il capo», perché tutti devono essere liberi. Anche quelli che mi amano di più, li ho lasciati liberi persino da me stesso.

“Non bisogna deridere nessuno, né infliggere dolore, né – tantomeno – governare o ingannare con le armi.

“Ci sono tanti, troppi che soffrono. Ho provato a sentire il loro dolore, a condividerlo e a restituire loro fiducia nella vita.

“A me non interessa di salvare me stesso, ma che il nostro ricordo sia presso il cuore del Padre.

E ora sali su questa specie di trono, qui dove sono io e guarda dalla mia prospettiva. Osserva.

Quel regno che dicono loro a me non interessa, ma il Paradiso per me è questo che ti ho descritto: lasciare liberi, non ingannare, dare fiducia, essere insieme presso il cuore di Dio.

Vedi, se guardi da qui, la luce è così grande che anche da questo buio puoi vedere il bagliore del Paradiso.”

Don Davide




Splendida misericordia

“Splendida è la misericordia nel momento della tribolazione,

come le nubi apportatrici di pioggia nel tempo della siccità.”

(Sir 35,26)

C’è bisogno di parole dense e degne di stare di fronte alla complessità dei giorni che stiamo vivendo.

Le parole della fede cristiana vengono accusate di essere friabili, ripetitive, tanto svuotate da lasciare solo il guscio. Talvolta questa accusa è pertinente; più spesso, con una certa superficialità, non se ne coglie la ricchezza e, soprattutto, la portata.

La realtà e l’esperienza della nostra fede, infatti, tendono a dare consistenza alle persone e ai sensi spirituali che sono necessari per abitare il mondo, per vivere bene le relazioni così numerose, mutevoli e complesse, e per conoscere la sfera misteriosa dei sentimenti e delle emozioni.

Nelle esistenze che Dio ama e di cui si prende cura, non c’è spazio per tutti quegli atteggiamenti che vanno di moda in tutte le epoche: la tracotanza dei potenti che umiliano i poveri, l’ipocrisia di chi si sente giusto contro gli altri e la mancanza di qualsiasi sensibilità spirituale di chi ostenta davanti a Dio come se potesse in qualche modo sedurlo o, peggio, ingannarlo.

Il punto è che non sono gli altri che corrono questo pericolo.

La prima lettura è netta nel dire in favore di chi Dio prende parte; invece, Gesù nel Vangelo stereotipizza il fariseo e il pubblicano per ricordarci che in tutti noi alberga l’ombra del fariseo e che dobbiamo sempre fare i conti con le sue seduzioni maligne.

Mentre lottiamo contro il fariseo in noi, sentiamo il bisogno di misericordia del pubblicano.

Come le nubi che si addensano di pioggia, così le parole della nostra fede diventano vere e dense, quando riconosciamo l’obiettivo – quello di essere umili e veri davanti a Dio – e ci sforziamo di non smarrire la direzione.

In questa quotidiana lotta per identificare in noi il fariseo che addita il pubblicano, sentiamo il bisogno di un grande manto di misericordia, come una pioggia diffusa in una stagione di siccità.

Don Davide




La fede

“Troverà ancora la fede?” (Lc 18,8)

Da varie domeniche la liturgia interpella la nostra fede, il nostro vivere e comportarci come uomini e donne credenti.

In molte fiabe, in molti racconti, in tante storie edificanti e di avventura, uno dei protagonisti ad un certo punto, spesso nei momenti più difficili, invita “ad avere fede”, basandosi sul fatto che il bene trionferà, che c’è una sorta di energia cosmica a cui attingere, che dispiega la sua potenza e guida il tutto verso l’armonia e l’eventuale soluzione della vicenda.

L’insegnamento di Gesù sulla necessità di “pregar sempre, senza stancarsi mai” – che sembra impossibile anche solo a sentirlo – si trova tra l’invito alla vigilanza e al discernimento e questa domanda enigmatica sulla fede.

Pregare, quindi, significa esercitarsi tenacemente a essere vigili rispetto alla vibrazione del mondo e accedere a quella sapiente linfa vitale che lo tiene nell’esistenza e lo riporta all’armonia.

Questo dell’allenamento dei sensi spirituali è uno sport per lo più disatteso.

Invece, la possibilità di toccare con mano la potenza di Dio c’è, dice Gesù.

Ma come tutte le cose che contano bisogna scovarne la magia con un autentico desiderio.

Don Davide




SS.ma Trinità

Così tante cose belle

da vivere,

così tante persone

da amare,

e così poco tempo

per farlo.

Tuttavia voglio vivere

accordato alla Tua provvida

Provvidenza,

come semicroma agganciata

al suo pentagramma.




Preghiera piccola

Spirito Santo,

donaci una fede piccola non nel senso di poca, ma nel senso di semplice, umile. Quella fede così piccola da sradicare le montagne. Una fede “minore” come avrebbe detto San Francesco, che non vuole essere “superiore” agli uomini, ma sotto la luce di Dio.

Una fede così aderente alla tua manifestazione, da essere franca nella sua pacatezza, tale da non avere preoccupazioni né pretese di sorta nemmeno davanti a un governatore romano o a un sommo sacerdote: “Se sia giusto, davanti a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi. Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato” (At 4,19-20).

Una fede che cerchi l’intelligenza nella sapienza e la ragionevolezza nella matrice della Croce.

Una fede che non voglia avere ragione, ma sentimento; e che alla rassicurazione protettiva del dogma, cerchi preferibilmente l’emozione e l’inquietudine dell’incontro vivo con Cristo. Una fede che riconosca la Verità, che è Gesù Risorto, e la rispetti nella sua autenticità sempre inaccessibile alle nostre parziali e imperfette verità, piene di egoismo.

Spirito Santo,

che ci lasci la Croce come memoria del Risorto, donaci un ancoraggio essenziale non ai fondali degli abissi, ma al cielo, perché tu non sei etereo, sei concreto come un osso, sei l’essenziale di tutte le cose, spogliate da volontà di potenza, spogliate da trionfalismi, spogliate da rivendicazioni, rivalse e competizioni.

Tu, Spirito Santo,

sei la fede pura, perfetta come l’oro, limpida come un diamante e semplice come un granello di roccia; fede che si realizza quando ci affidiamo all’amore e riconosciamo che Dio è più grande di tutto e possiamo consegnarci a voi, Santissima Trinità, e custodire l’amicizia, l’affetto e il dono della Parola che illumina il nostro cammino.

Spirito Santo,

in questo giorno di Pentecoste, ti supplichiamo il dono della pace non come la dà il mondo, che sono sempre piccole ancorché utili paci, ma come la dà il Risorto, che la crea, laddove noi non siamo capaci di farla.

Infine, Spirito Santo,

ti chiediamo una fede essenziale, non affannata, ma piena di cura e di sorrisi, di legami rispettati e di alleanze mantenute o ritrovate, anche grazie al perdono.

Una fede non competitiva, né tra noi né col mondo, ma trasformante, sia di noi che del mondo.

Una fede buona e amorevole come una nonna con i suoi nipoti.

Don Davide




I luoghi vivi

Mi è stato chiesto di scrivere l’omelia della Veglia di Pasqua. Ho trascritto gli appunti che avevo, nel modo meno schematico possibile, consapevole che rimane un testo che avrebbe ancora bisogno di molte rifiniture.

Introduzione. Il fuoco.

La Veglia di Pasqua inizia con il fuoco dello Spirito, come simbolo di un nuovo vigore e di una luce calda e piena di energia nella notte e, nella liturgia, non si sa se prepari la resurrezione di Gesù (perché serve per accendere il Cero Pasquale) o ne sia il frutto (perché è il segno che rinnova tutto), ma divampa!

Questo vigore, che Dio immette nella storia e con cui rinnova il mondo, è espresso nella potenza con cui Dio ha liberato il suo popolo dalla schiavitù (I lettura: Es 14), nella tenerezza che Dio esprime al suo popolo (II lettura: Is 54), nella forza con cui trasforma continuamente il nostro cuore indurito, lo intenerisce e ci rende più capaci di amare (III lettura: Ez 36), infine, nella vita nuova che ci fa vivere, anche quando meno ce l’aspettiamo (Epistola).

Sono convinto che se noi pensiamo al punto in cui siamo arrivati adesso nella vita, scopriremmo con meraviglia tanti traguardi, tante cose buone che ci troviamo a vivere, magari continuamente nascosti o offuscati dalle fatiche e dalle cose che non vanno, che però non devono coprire tutta la prospettiva.

Ma, in concreto, che cosa significa tutto questo per noi?

Il Vangelo ci fa ascoltare la domanda dei testimoni della resurrezione alle donne: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?” (Lc 24,5).

Ci chiediamo: che cosa è vivo? Che cosa trasmette vita?

Che cosa, quindi, da vita alla Chiesa? Che cosa dobbiamo praticare, lasciando indietro quello che non dobbiamo più cercare?

Seguendo il racconto del Vangelo possiamo raccogliere tre indicazioni.

Primo. La tenerezza.

Le donne vanno al sepolcro, non perché sono animate dalla fede nella resurrezione, ma perché sono mosse dalla tenerezza: vogliono compiere un gesto buono nei confronti del Maestro. Non possono fare più niente per lui, ma hanno ancora affetto, e lo vogliono esprimere con l’azione di sciogliere le bende e ungere il suo cadavere, come segno di rispetto ai morti. È un gesto e un pensiero che ci riempie il cuore di tenerezza.

Paradossalmente, questa tenerezza è in grado di riscattare anche le dimensioni abitate dalla morte. I testimoni dicono che non bisogna cercare tra i morti, ma loro – andando a compiere un gesto tenero per un defunto – scoprono la via della vita.

Poco prima della Quaresima abbiamo celebrato il funerale di una bimba. In quel momento drammatico possiamo raccogliere tutte le fatiche della vita e gli orrori che si consumano, anche nelle guerre presenti, che si esprimono nella loro forma più acuta, ingiusta, dolorosa e radicale nella morte di una piccolissima bimba. Oggi pomeriggio, nel silenzio del Sabato Santo, i suoi genitori sono venuti a dire una preghiera per lei.

Una delle profezie più intense della resurrezione, nel profeta Isaia, recita così: “Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni; né un uomo che dei suoi anni non giunga alla pienezza” (Is 65,20).

Mi tengo queste attese e queste speranze nel cuore.

Vedo, però, che in qualche modo misterioso, quando tu esprimi tenerezza, una vicinanza sincera, amicizia, lì c’è il Signore risorto che si fa raggiungere e si svela.

Secondo. Alleanza.

Nel Vangelo di Luca, per esprimere la passione, morte e resurrezione di Gesù, si usa di continuo il campo semantico del “dovere”: bisogna, bisognava, doveva… I testimoni richiamano le parole di Gesù quando era ancora in Galilea “e diceva: Bisogna che il Figlio dell’uomo sia consegnato…” (Lc 24,7).

È uno dei concetti più difficili del Nuovo Testamento e del mistero della vita di Gesù, ma sicuramente esprime il fatto che Dio, attraverso Gesù, si impegna con l’umanità. Non difende la sua libertà assoluta, si prende un impegno per salvarlo, per liberarlo dal peccato e dalla violenza che lo attanaglia, si condiziona, anche a costo di morire in croce.

Questo esempio di Dio, ci dice che l’Alleanza, allearsi, è un luogo della vita

Io mi impegno con te. Mi lego. Tu sei una cosa che mi riguarda. Ci tengo, non cambio alla prima fatica, lavoro sul nostro legame. Se serve, chiedo scusa e lo faccio prontamente.

Ho voglia di lavorare con te, pensare con te, costruire con te.

Per creare un’alleanza vera, secondo la testimonianza del Vangelo, ci vuole sacrificio, questa parola obsoleta e rifiutata, ma che è legata alla consegna che Gesù fa di se stesso. E insieme al sacrificio ci vuole condivisione: le donne che andarono al sepolcro, secondo il racconto di Luca, erano molte e compirono quella piccola spedizione insieme.

Terzo. Mediazione.

È opinione condivisa che la nostra è l’epoca delle non mediazioni, quella che non solo le ha rifiutate, ma abbattute. C’è un fondo di verità, in questo, ma adesso ci si scopre ad andare a cercare altre mediazioni, diverse da quelle precedenti, nuove, ma utili e necessarie.

Possiamo accedere a qualunque notizia, ma se ti vuoi informare decentemente, ti affidi ad un aggregatore, a un giornale o a una rivista di cui ti fidi, che faccia un po’ di mediazione dello scibile, per te. Puoi ascoltare tutta la musica che vuoi, ma utilizzi le playlist per conoscere quella più di tendenza, in mezzo alla vastità di tutto quello che è disponibile. Si potrebbero fare tanti altri esempi.

L’idea di una mediazione è fondamentale perché nel Vangelo di Luca, per comprendere la resurrezione ci vuole sempre una mediazione: dei testimoni al sepolcro (Lc 24,1-7), del pellegrino misterioso (Lc 24,13-35) o del Risorto stesso, che palesato, spiega ai suoi discepoli il mistero della resurrezione (Lc 24,36ss.).

Mi sembra che questo valga soprattutto per la responsabilità degli adulti nei riguardi dei ragazzi e dei giovani.

Per comprendere la vita, ci vuole qualcuno che medi l’esperienza, che sia capace di darne un’interpretazione significativa, che ti restituisca il vissuto e poi che sappia ad un certo punto sparire, farsi da parte, sottrarsi.

I testimoni della resurrezione nel Vangelo di questa notte spariscono dalla scena e dalla narrazione senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Il pellegrino misterioso scompare dalla vista dei discepoli non appena lo hanno riconosciuto. Il Signore risorto ascende al cielo.

Questa è davvero l’opera decisiva: la capacità di offrire una mediazione, per comprendere la vita, e poi lasciare sgombro il campo di gioco.

Conclusione. “Porrò il mio spirito” (Ez 36,27)

Il profeta Ezechiele, nella lettura che porta il percorso dell’Antico Testamento fin sulla soglia del Nuovo, parla di un’effusione dello Spirito nell’intimo di ogni essere umano, come gli inizi di una Creazione Nuova (cf. Gn 1,2).

È solo l’inizio, dunque.

Al sepolcro noi abbiamo gli attrezzi del mestiere di vivere, come si diceva una volta andiamo a imparare a bottega.

Nella celebrazione di questa Pasqua, allora, possiamo tenere una preghiera nel cuore che suona così:

Su di lui, su di lei si posi lo Spirito del Signore.

Su questi miei fratelli e sorelle, su queste mie amiche ed amici si posi lo Spirito del Signore.

Sulla mia famiglia, su mia moglie, mio marito, su questo mio figlio e questa mia figlia si posi lo Spirito del Signore.

Su questa comunità posa, Signore, il tuo Spirito.

 

Don Davide




Sulla soglia

La resurrezione è una soglia.

Non c’è più un sasso duro a chiudere il passaggio, ma una porta aperta, che si può varcare.

Questa soglia apre una ricerca, obbliga a fare ipotesi, suscita pensieri nuovi. Più che fare un giretto nel sepolcro, le discepole non possono fare altro.

Che cosa c’è altrove?

Lì, sulla soglia, incontrano degli uomini, forse degli angeli mascherati. Sono un confine di passaggio tra il mondo di Dio e il nostro: messaggeri che con la loro parola ci portano continuamente alla sorgente dell’annuncio: “Non è qui, è risorto!” (Lc 24,6).

Anche nella versione di Giovanni c’è un gioco liminare.

Persino il tempo è una soglia: letteralmente “il primo dei sabati” (Lc 24,1 e Gv 20,1), il primo giorno di una Creazione rinnovata, l’universo nuovamente ricco di promesse di bene.

Gesù queste soglie le varca tutte.

Per lui non c’è più distinzione tra l’essere in life e on line, nel mondo ma non del mondo. Si rende presente entrando nelle stanze anche a porte chiuse, mangia con noi nell’Eucaristia, ma appena i nostri occhi cominciano a riconoscerlo e noi ad abbracciarlo, ecco che lui si sottrae e ci lascia di nuovo su quella soglia a provare nostalgia per il mondo della resurrezione.

Sulle Dolomiti c’è la via ferrata “delle Trincee”, che si sviluppa spostandosi continuamente da una parte all’altra del crinale di Porta Vescovo, affacciandosi sulla Marmolada o sulla valle di Arabba e Livinallongo. Lassù, con una buona dose di vertigini, varchi continuamente la soglia da cui ammiri uno spettacolo incredibile, di cui eri a conoscenza, ma che era quasi impossibile immaginare prima.

Uno dei salmi più belli del salterio recita letteralmente così: “Un giorno nei tuoi spazi / ne vale mille! / Ho scelto / abito sulla soglia di Dio” (Sal 83,11).

La resurrezione non è, dunque, abitare stabilmente in un luogo risolto, dove tutto è chiaro e sereno. È sempre un cominciamento, il tornare a vedere orizzonti possibili, prospettive nuove e un panorama che ti fa vivere.

Anche se questa soglia è sempre da recuperare, finché siamo qui, è importante raggiungerla.

Avere anche solo la possibilità di stare per il tempo di un battito nel cuore di Gesù che torna a vivere, e pulsa nelle vene della storia la vita divina, e srotola sotto i miei piedi un universo che si rinnova, questo vale più di ogni altra cosa.

Don Davide




La via della pace

Oggi, il cammino di Gesù nel Vangelo di Luca taglia il suo traguardo, struggente e doloroso. Gesù alla vista di Gerusalemme, aveva avuto come un presagio – un momento in cui gli era apparso chiaro che cosa il rifiuto della pace nel cuore, nelle relazioni e fra i popoli avrebbe generato – e aveva esclamato: “Se avessi compreso anche tu quello che porta alla pace!” (Lc 19,42).

Gli interpreti sostengono che l’esclamazione sia riferita a Gerusalemme, ma non è detto. Il racconto dice solo che al vedere la città, Gesù pianse su di essa – sono pochissime nel vangelo, le volte in cui Gesù piange – e pronunciò questa frase. E se, al vedere la città, avesse pensato invece a ciascuno di noi?

Se avessi compreso anche tu la via della pace…

La via della pace: nella sua passione Gesù la percorre così radicalmente da rifiutare, per se stesso, ogni forma di violenza, fino ad accettare la morte.

La via della pace la gusta con gli amici, nel clima affettuoso del cenacolo; la cerca nel Getsemani, anche nel turbamento più estremo, finché non si sente di nuovo consolato da un angelo; la ottiene per tutti coloro che incontra con la croce sulle spalle, fino all’ultimo amico imprevisto. La chiede per tutti, anche per quelli che lo crocifiggono.

Seguendo il racconto della Passione, riconosco tre passi per percorrere la via della pace. Sicuramente ce ne sono molti altri e potremo arricchirci a vicenda, condividendo le celebrazioni di questi giorni.

1)L’amicizia. Il racconto della Passione secondo Luca inizia così: “Ho desiderato ardentemente mangiare questa pasqua con voi, prima della mia passione” (Lc 22,14). In queste parole, Gesù esprime il senso dell’esistenza: l’affetto per gli amici, il bisogno di significato e di momenti veri, la voglia di celebrare la vita e la festa, la consapevolezza di dovere morire. Tra l’amicizia e il pensiero della morte, sento uno struggimento che non si riesce a colmare e non trovo altre parole. Mi affido a Gesù. Lo seguo nella sua passione. Spero di potere arrivare a dire con lui: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Sì, nel momento della morte, con cui sentiamo di non riuscire mai a fare i conti, speriamo di potere sentire il Padre, e che stiamo consegnando a lui il nostro spirito.

2)Il disarmo. “Dobbiamo colpire con la spada?” chiedono i discepoli. Ma Gesù risponde: “Lasciate, basta così!” (Lc 22,49-51) e guarisce chi era stato ferito. Il disarmo nucleare. Radicale. Totale. Completo. Bisogna impedire in tutti i modi possibili che un governo e uno stato progettino di costruire un’arma capace di distruggere l’umanità. E chi le ha già deve smontarle, pezzo per pezzo. Ci vuole una commissione mondiale di uomini e donne dedicati a questo scopo. E bisogna introdurre nelle scuole, fin dal primo ciclo di studi una nuova materia: Storia della Pace. Il disarmo deve diventare cultura, come l’ovvia consapevolezza che non si fuma in posti chiusi. Di armi nucleari ne sono stimate 13.400 nel mondo. Se con quegli sforzi avessimo costruito ospedali, scuole e università, e progettato una rete di redistribuzione idrica e alimentare oggi non ci sarebbe nemmeno più bisogno di armi.

3)Il perdono. La vita di Gesù è la storia del Dio che scende dal trono del giudizio e sale su quello della misericordia. Delle ultime tre parole di Gesù, le prime due sono di perdono e la terza è di affidamento. Credo che Gesù sia morto sulla croce, perché era salito talmente “in alto” che non poteva semplicemente stare coi piedi sulla terra. Anche nel massimo della sua umanità, era un po’ più vicino al cielo, un po’ più in alto di tutti noi. Ma è bene che ci ricordiamo a vicenda che possiamo dire parole di misericordia e riconciliarci realmente. E che questo, per noi come per Gesù, è il traguardo più importante dell’esistenza: morire con il cuore occupato solo dal bene.

Don Davide

 




I passi del cammino

Essi lo sanno che lapidare una donna è un atto inconcepibile e sanno che il Maestro non potrebbe mai legittimarlo.

“È giusto?”.

Se dirà di sì: “Vedi, il Maestro legittima una cosa atroce”.

Se dirà di no: “Vedi, il Maestro tradisce Mosè”.

Lo sanno perfettamente anche loro che sarebbe atroce. Ma allora perché lo fanno?

Forse, hanno bisogno di essere liberati.

Sarebbero disposti ad uccidere per le loro prigioni. “Armiamoci di più! Ancora un’altra pietra!”. Non capiscono e non sono in grado di immaginare come fare diversamente.

Ma non c’è nessuna supplica in loro, se non l’ignoranza. “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno.” (Lc 23,34)

La mente è piccolina. La pietra che tengono in mano è il loro cuore.

Da una parte la religione, dall’altra le persone. In cielo Dio, in terra una donna. Come se non potessero stare insieme. Come se fossero dai lati opposti.

Gesù vede tutte le catene, colpevoli e incolpevoli, e scrive: “Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne” (Ez 36,26-27).

Lentamente, si ode lo schianto secco della pietra su pietra e lo spirare del vento, perché si è sciolto il cerchio.

“Eppure vivo” pensa la donna.

“Sì, vivi tu, e adesso anche loro” dice Gesù.

Questo è ciò che accade nel Tempio, nel luogo santo.

Questo è ciò che deve accadere nella Chiesa.

Questi sono i passi del cammino.

Ora è possibile celebrare la Pasqua.

 




Il dolore e l’amore

Un pomeriggio di inizio primavera, un parchetto, un’amica in gamba con cui dialoghi e che ti confida: “Ho un po’ d’ansia”. Poi un racconto pacato, piano e lucidissimo: prima il covid, ora la guerra; la separazione dei genitori; l’anoressia e la bulimia delle amiche. Fortunatamente, in mezzo e accanto a questo, l’amore di un ragazzo.

Improvvisamente ti accorgi che la “Parabola del padre misericordioso” non è solo una storia di peccato e di misericordia, ma è il racconto della nostra generazione, anche senza il peccato e prima della misericordia.

Stando solo attaccati al testo, leggiamo che non c’è una madre né il femminile, ma non sappiamo il perché. Possiamo solo provare a immaginare cosa significhi questo vuoto, in una storia che si svolge tutta al maschile.

C’è un giovane figlio preso da pensieri nocivi, che si trasformano in propositi disastrosi; c’è un fratello più grande che sparisce. Sullo sfondo vige la regola dei soldi in uno scenario di dissolutezza e di mancanza di solidarietà. L’unico protagonista di questo paesaggio è un uomo arcigno, nemmeno disposto a dare le carrube dei porci a un malcapitato.

E quali emozioni deve avere sperimentato il figlio maggiore, che si accontenta che le sostanze siano divise anzitempo, ma non sfiora nemmeno la vita del fratello che parte?

Aveva paura? Soffriva troppo? Era occupato in altre faccende? Gli andava bene così? Covava anche lui risentimento nei confronti del padre e pensava che gli stesse bene, e che il fratello, in fondo, aveva messo in atto quello che lui non aveva avuto il coraggio di fare?

E il padre che accetta – sembra senza battere ciglio – che persona era e come stava? Era risentito? Faceva il duro? Oppure provava un abisso di costernazione?

E come ha vissuto il padre, in quel tempo che non viene precisato?

Lo ascoltiamo, per analogia, dai genitori che vengono rinnegati dai figli, o quando li vedono improvvisamente prendere strade totalmente diverse. Lo sentiamo nello sgomento di non sapere cosa fare e, ancora peggio, quando non si può proprio fare nulla.

Allo stesso tempo, riconosciamo le storie dei figli (e delle figlie) che si allontanano dalla loro famiglia per respirare, per essere liberi, per non essere umiliati, per non dovere soccombere alla logica del confronto o, semplicemente, per diventare se stessi: qualcosa di nuovo e di altro rispetto alle loro radici.

Il testo lascia aperte un miliardo di storie e di possibilità, perché ci stiano tutte.

Nella seconda parte il racconto diventa più preciso. Accoglie ogni vita e ogni intreccio in uno spazio ampio, ma ben definito.

Possiamo capirne qualcosa dal fatto che il padre scorge il figlio da “lontano”… come se in tutto quel tempo avesse tenuto un occhio sull’esistenza cruda, da mandare avanti, e uno sull’orizzonte della speranza, ferito dal dolore, in attesa di vedere comparire una figura, contro il Sole al tramonto.

A quel punto “ebbe compassione” (Lc 15,20). L’aveva avuta anche prima? Non lo sappiamo. In quel momento, però, è certo che tutta la consapevolezza dell’amore per suo figlio viene risvegliata.

La compassione è suscitata da un trasferimento di sofferenza. Improvvisamente, tutta la sofferenza inspiegabile viene trasferita sul padre. Lui la sente tutta. E l’accoglie per amore di quel figlio… e dell’altro.

Forse è a quel punto che il padre diventa misericordioso.

Gesù ha costruito il racconto in modo che ogni vicenda, ogni emozione, ogni mutamento vi possa trovare una luce, attraverso il dolore, nello spazio dell’amore e della misericordia.

Sembra non starci mai abbastanza tutto nella vita e, se commettiamo degli errori o dei peccati, in genere lo facciamo per questo motivo: perché vorremmo la vita e la cerchiamo in modo maldestro e, alcune volte, tremendo.

Ma la misericordia di quel padre è esattamente così: vedere la vita e sapere che tutti ce ne struggiamo.

Don Davide