Stazione da una camminata

Con gli occhi dietro le colonne degli splendidi portici di Bologna, quasi giocando a nascondino, ho osservato in un pomeriggio qualunque i giovani della mia città. Ho colto quattro aspetti, con la stessa caratteristica delle colonne della volta sotto Palazzo Re Enzo: quello che si dice vicino a una di esse, anche se sussurrato, si ode nitidamente presso quella opposta. Sotto alla volta, inoltre, ci si trova in un incrocio suggestivo, che si apre in tutte le direzioni sul centro storico.

Analogamente, ciascuno di questi quattro tratteggi che vorrei delineare è collegato e rimanda al suo opposto, e definisce uno spazio di passaggio in cui i ragazzi entrano ed escono continuamente, sempre affacciati su tutti i lati della loro vita. Perché “i giovani” non possono essere definiti, né tantomeno inquadrati; si può solo cercare di raccontarli.

Quattro tratti

La prima cosa che balza all’occhio sono i ragazzi seduti sui gradini davanti alla Sala Borsa. Un tempo erano più che altro la scalinata e il sagrato di San Petronio ad accogliere drappelli di chiacchiere amichevoli, ora i cordoni di sicurezza scoraggiano la sosta all’ombra del patrono, e le persone si spostano in un luogo più neutro e più moderno della vita della città.

Da quel punto di vista privilegiato, che permette osservare la piazza, l’incrocio delle vie più importanti del Centro, le Due Torri e, soprattutto, l’Apple Store, sono spettatori del mondo che passa. Non nel senso che sono fuori dai giochi; hanno piuttosto la convinzione di poterlo dominare, non appena lo decidono. Non sono ancora condizionati dalle disillusioni dei trentenni e ostentano un potenziale che chiede di essere scovato… se solo ne fossero consapevoli. Inoltre hanno tempo, non hanno bisogno di correre e così provocano un’invidia tremenda a coloro che col tempo cominciano a farci i conti in tutti i sensi.

Mentre ammiro con nostalgia questa sfrontata sicurezza, mi passa accanto un ragazzino non tanto alto, quattordici anni a dir molto, da solo. Biondissimo e con una faccia ancora da bambino nascosta sotto un’aria tesa, indurita. Non è più nella posizione dello spettatore: ora gli tocca attraversarlo, il mondo, e lo fa a passo svelto. C’è qualcosa di artificioso che mi fa capire che ha paura… La sicurezza di prima cede il passo all’insicurezza e mi sento improvvisamente in sintonia con le sue difficoltà, presenti e future. Ma come possono, i giovani, vivere nella città di oggi? Sono esposti a una complessità che disorienta e schiaccia, e l’età della loro formazione – soprattutto per i più deboli – appare una giungla, una battaglia feroce. Chi li aiuta a gestire la complessità e ad abitarla? Chi è che li protegge, senza risparmiare loro il compito di buttarsi nel mondo?

Mi sposto nel portico di Via Indipendenza. Di fronte ad H&M noto una famigliola: lui e lei, e la figlia. Difficile darle un’età: ha quella curvatura morbida nei lineamenti che tradisce il suo essere adolescente, ma non sai se è la bimba che è passata o la donna appena arrivata, in ogni caso c’è in lei qualcosa di nuovo. Noto la scritta di perline sulla sua maglia: FVCK. E mi si riapre un ricordo di adolescenza, quando a Londra indossai una t-shirt con una parolaccia in inglese e mi beccai una sgridata epocale da mio zio. Ma nella maglietta di questa giovane donna, con la V usata alla maniera latina, la ribellione di una parolaccia scritta sugli indumenti ha qualcosa di originale, un che di sofisticato. Un perfetto mix delle due lingue universali (quella nuova e quella antica), una sintesi di antico e moderno, di ribellione e snobismo. Esteticamente geniale e vincente. Qui, però, non c’è più l’austero e tradizionale zio londinese, ma la coppia di genitori indulgenti e questo contrasto, così vivido in me, mi fa pensare a come sia delicata e appassionante la ricerca di un equilibrio tra vicinanza e distanza, tra complicità e rimprovero, tra spontaneità e sforzo educativo riguardo alla vita dei giovani.

Sono ancora immerso in questo dilemma, quando vengo superato ad ampie falcate da due uomini in erba che si stanno confrontando sulla fine dell’università e l’inizio del lavoro. Mi sembra un déjà vu: il loro linguaggio esprime dubbi d’un tempo, roba che una volta si trattava nei saggi sull’adolescenza: “Non so cosa mi piace di più… Preferisco un lavoretto che mi piace, piuttosto che passare tutta la vita in ufficio dietro a una scrivania… Non voglio rinunciare ai miei sogni in anticipo… E comunque prima che mi paghino ne passa di tempo …”.

Ne passa di tempo

Questa è esattamente la domanda che mi viene: come è stato possibile che la vita dei “giovani” sia diventata così lunga? Com’è accaduto che si studi, ci si formi, poi ti venga chiesta della competenza prima di cominciare a lavorare, o una fideiussione che non ti puoi ancora permettere? Come è stato possibile che gli adulti si siano appropriati impunemente di un’età e un linguaggio non loro, sì che quando uno muore a settant’anni si dice: “Era giovane!”?

Come nel gioco delle quattro colonne, sento il sussurro che viene dalla prima: la vita dei giovani è la vita che tutti vorrebbero. Solo alcuni hanno il coraggio di congedarsi da essa con sapienza. E nella tensione generata da questo conflitto, si giocano molti degli aspetti che potrebbero istruirci concretamente su una Sapienza della vita, del tempo e dei passaggi.

Don Davide

 

Testo scritto per il settimanale SettimanaNews il 21 ottobre 2016