Ancora sui giovani, attraverso Star Wars

star wars

Ho trovato molto stimolanti per alcune intuizioni i recenti interventi su Settimana News di Thies Münchow (17/12/2017) e di Andrea Franzoni (24/12/2017), pur discordando dalle loro conclusioni riguardo l’interpretazione del vissuto dei giovani e del rapporto tra le generazioni.

Su ogni film degli Jedi ormai viene detto di tutto, con il sospetto che le valutazioni siano più o meno parziali a seconda che ci si posizioni tra quelli come me, che si accontentano di due spade laser, una battaglia spaziale e qualche creatura strana, e quelli che cercano in Star Wars un film d’autore, magari un po’ alla francese. Ho volutamente enfatizzato gli estremi, per introdurre la prima considerazione.

Quando si tratta di un prodotto della cosiddetta cultura pop si avverte subito un sospetto per il fatto di essere mainstream, di strizzare l’occhio al merchandising e di essere solo l’ultimo atto di un impero come la Disney che – come recitava un simpatico post su Facebook in questi giorni – fra qualche decennio conquisterà l’intera galassia a forza di acquisizioni miliardarie. E sempre si sfugge, con un certo atteggiamento di superiorità, alla vera domanda: come mai una cosa così parla a tutti, mentre altre rimangono strette in una supposta cultura alta, per lo più autoreferenziale?

Bisognerebbe, inoltre, essere molto più cauti nello stabilire giudizi di appartenenza cristiana o non cristiana a storie che non hanno un obiettivo religioso. La considerazione di una concezione «neo-pagana dell’universo che è anche fortemente anticristiana»[1] sta alla storia di Star Wars come se volessimo giudicare il Signore degli Anelli anticristiano perché gli elfi sono immortali. Sarebbe molto meglio interrogare le storie senza pregiudizi o post-giudizi inappropriati e chiedersi invece: che cosa interpretano con il loro potere di affascinare? In altre parole: che cos’è che Star Wars dice meglio di altri, pur con tutti i suoi (presunti) difetti?

Rottamazione

Thies Münchow individua, e io concordo, il punto più alto del film quando Kylo Ren e Ray si sbarazzano del Leader Supremo Snoke e poi giocano come alla Playstation contro le sue guardie. Il signore dei cattivi, pur riconoscendo nel suo apprendista una Forza indomita e senza pari, lo ha trattato fino a questo momento come un giovane garzoncello, umiliandolo addirittura per imporre i suoi scopi e la sua visione del potere. Kylo Ren, in tutta risposta, lo inganna proprio mentre questi commette un errore provocato della propria supponenza.

Ray si trova lì in quel momento, perché anche lei – a suo modo – si è dovuta «sbarazzare» di Luke Skywalker, che si ostinava a rifiutarsi di darle il suo aiuto. La scena è oggettivamente molto bella: con uno sfondo pompeiano in cui cadono i lapilli e le macerie di un mondo esploso, per un istante i due si trovano alleati, in equilibro perfetto di bene e male, in cui uniti potrebbero diventare sovrani invincibili della galassia. In tale gesto di ribellione di Kylo Ren (e Ray) c’è un atto supremo di rottamazione.

Per la prima volta il potere non viene trasmesso dall’oligarchia dei cavalieri (buoni o cattivi che siano) per diritto/dovere di successione – atto che ha la sua origine sempre in chi lo precede – ma perché viene preso – atto che ha come protagonista chi viene dopo, colui che emerge sulla scena. In fondo, la Forza stessa è un po’ anarchica: Luke e Leia hanno sangue reale, ma la Forza, in Anakin, veniva dal nulla e Ray è figlia di due signori nessuno.[2]

L’evento di Kylo Ren e Ray non ha precedenti, perché non si tratta qui di un passaggio al male con la presenza dei maestri buoni dall’altra parte (come nel caso di Anakin con ObiWan in Episodio III), o viceversa (come nel caso della redenzione di Darth Vader al cospetto di Lord Sidius in Episodio IV). In quei momenti c’era sempre l’alter ego predecessore. Qui invece, finalmente, i predecessori sono spazzati via. L’unico alter ego è giovane ed è perfettamente alla pari.[3]

Cari giovani, prendete parola

Non si tratta tanto della riflessione sull’uso e l’abuso del potere, quanto su come ci si sbarazzi di una presenza egemonica che non lasci spazio.

In questo momento del film ci si trova a una specie di punto zero. Un evento altissimo, anche cinematograficamente. «L’evento porta necessariamente con sé la decisione. E la decisione soltanto implica parzialità» scrive Thies Münchow nelle sue interessantissime considerazioni. Ma nella decisione che ne consegue, lui rileva la caduta di stile del film, un ritorno ai soliti schemi di bene e male, laddove tutto invece poteva accadere. Lo sviluppo della narrazione negherebbe la vera svolta della saga.

Io ritengo, invece, che la svolta sia già tutta contenuta nella scena precedente. Dopo la decisione dei due protagonisti la narrazione non può che riproporre l’unico tema a cui effettivamente corrisponda la realtà: cosa ne sarà dell’ultimo alfiere della rivoluzione? «Ho visto tutti i viventi che si muovono sotto il sole stare con quel giovane, che era subentrato al re. Era una folla immensa quella che gli stava davanti. Ma coloro che verranno dopo non si rallegreranno neppure di lui. Anche questo è vanità, un correre dietro al vento.» (Qo 4,15-16). Non appena costui/costei sceglie di nuovo il potere, il potere stesso genererà di nuovo la lotta tra il bene e il male. Nemmeno Tolkien ha potuto sfuggire a questo, tanto che il famoso anello non può che essere distrutto. Così, la scena di Kylo Ren e Ray che si contendono (e spezzano a metà) la spada laser, simbolo supremo di questo nuovo spazio acquisito, è certamente di nuovo la storia di chi sceglie il potere e di chi cerca un’altra via per dare seguito alla rivoluzione.

star wars ultimi jedi

La cosa veramente nuova, in questo caso, è che entrambi la rivoluzione l’hanno già fatta. Il messaggio per i giovani è: «Cari giovani, c’è davvero bisogno di una rottamazione, di una rivoluzione. Non avverrà un passaggio di consegne: prendete parola, prendete i vostri “eventi”, ma prendeteli. (Se penso alla vita della Chiesa, non posso che riscontrare la profonda corrispondenza di questo invito alle sfide che si manifestano). Però sappiate che appena vi ritroverete la spada laser in mano, tornerete subito ad avere il problema di come gestire i cambiamenti che avrete portato. Le ombre delle rivoluzioni fallite o sfociate nel loro contrario saranno sempre il vostro Lato Oscuro. E Kylo Ren e Ray perennemente il vostro monito. Ogni volta che dovrete prendere una decisione, non potrete non pensare a loro due che si contendono (e spezzano) una spada laser».

Discepoli e maestri

L’altro insegnamento de Gli ultimi Jedi è riguardo al ruolo dei maestri. Stabilita la rottamazione operata dai giovani, cosa ne rimane del rapporto dei maestri con i loro discepoli? Saranno maestri offesi di questo rifiuto? Che tipo di maestri saranno costoro su cui ricadono, proprio per questo, responsabilità sempre più grandi?

Trovo importante notare, innanzitutto, che la Ray inesperta ritiene inizialmente di potere fare qualcosa soltanto con la guida di un maestro, ma compie il suo passo decisivo solo nel momento in cui si scontra con il fallimento/rifiuto del proprio mentore. Forse è necessaria questa delusione e una tale dolorosa presa di distanza, perché un apprendista possa tirare fuori veramente qualcosa di nuovo.

Non a caso il grande Yoda, consapevole di ciò, salutò prematuramente con la propria morte il giovanissimo Luke prima che lui ritenesse di essere pronto, per lasciargli lo spazio necessario al suo vero apprendistato, quello della realtà (Episodio V). La rottura tra Ray e Luke, ingabbiato nel suo fallimento, permette almeno a Ray di seguire le proprie intuizioni.

L’interpretazione di Andrea Franzoni legge in questo processo un esito decadente: i maestri abdicano al loro ruolo, «il futuro si costruisce sul fallimento dei maestri, da soli e senza una guida».[4] Ma questa analisi coglie solo una parte del messaggio, e perciò inevitabilmente lo distorce.

Meraviglioso insegnamento

Il punto vero, come dice l’emblematica scena del dialogo tra Yoda e Luke, non è che le nuove generazioni si formano sugli sbagli dei loro maestri: in questo modo la costruzione verrebbe edificata storta, una rovina compromessa dalle fondamenta, e l’unica possibilità di ovviare a tale problema sarebbe che un maestro fosse perfetto, cosa impossibile. Il punto vero è che i maestri devono convertire la loro ridicola presunzione oligarchica, dice Yoda. In tal senso, Luke sostiene il vero quando afferma che, proprio all’apice del loro potere, i Maestri Jedi hanno permesso l’ascesa di Lord Sidius.

Quale meraviglioso insegnamento, questo, laddove i nostri maestri, i fondatori, i custodi, i garanti della tradizione, pretendono una tale purezza da non riuscire più a cogliere i veri problemi dei giovani e del mondo! Yoda insegna a Luke che non c’è cosa che si trovi nei libri che Ray non sappia già dall’inizio (come a dire: quel tipo di sapere non serve più a nulla!) e che la questione decisiva è che i maestri imparino dai fallimenti e che trovino un nuovo modo di «non perdere»[5] i propri apprendisti. Ciò che non si deve in alcun modo fraintendere è che i maestri devono imparare dai propri fallimenti, non i giovani dai fallimenti dei maestri, come invece pare che affermi l’interpretazione di Franzoni. Esito a cui approda il film, in effetti, e che giustifica il finale dopo la resa dei conti di Kylo Ren e Ray contro Snoke e i suoi scagnozzi.

Infatti Luke, per non perdere anche Ray, non si proporrà più come suo maestro in veste tradizionale, ma le concederà tempo perché possa scoprire in lei stessa le vie della Forza. Contrariamente al giudizio che vede in Episodio VIII una trama incerta e spezzettata, gli autori – probabilmente non del tutto consapevolmente, come accade in questi casi, ma trainati dalla forza della storia – ci propongono un messaggio di estrema coerenza e forza interpretativa dell’oggi.

I giovani devono avere la forza di operare una rottamazione. Non gli sarà concesso da nessuno questo passaggio, che dovranno conquistarsi anche con delle rotture. Quei pochi maestri rimasti, che vorranno non fare i permalosi o gli oligarchi attaccati al potere, potranno avere la massima stima di quei giovani intraprendenti, creare lo spazio e concedere loro tempo finché non trovino la loro strada, poi congedarsi serenamente vedendo due soli: quello che tramonta e quello che sorge.[6]

 

Davide Baraldi

 


[1] A. Franzoni, «Star Wars VIII: Gli ultimi Jedi». La rinuncia dei maestri, in SettimanaNews 24/12/2017.

[2] Bellissima, in quest’ottica, anche l’ultima scena del film, con il bimbo piccolo – un outsider completo con il simbolo della Resistenza – che manifesta le vie della Forza e usa la scopa come una spada laser, guardando l’infinito.

[3] Sulla composizione di questo equilibrio tra Kylo Ren e Ray, il film è costruito meticolosamente.

[4] A. Franzoni, «Star Wars VIII: Gli ultimi Jedi». La rinuncia dei maestri, in SettimanaNews 24/12/2017.

[5] Citazione testuale dello scambio tra Yoda e Luke.

[6] La vocazione di Luke era stata espressa nella celeberrima scena dei due soli su Tatooine (Episodio IV) e ora fa inclusione con la fine della sua vita, in modo eccellente e tutt’altro che improvvisato.

 

Testo scritto per Settimana News il 31 dicembre 2017




Simeone, Anna e una famiglia

Nell’ultimo giorno dell’anno, la liturgia ci propone due figure suggestive: Simeone, per il quale si compì la promessa di non morire senza vedere il Messia, e Anna, profetessa simbolo di un’attesa lunga e paziente.

Simeone è una figura eccezionale: in tutta la lunghissima storia dell’attesa messianica, lui ebbe l’intuizione che quello fosse il tempo giusto… e fu guidato da questo ascolto interiore al grande appuntamento.

Anche Anna spicca per la sua singolarità: non esistevano profetesse al tempo di Gesù. Tantomeno sappiamo di figure femminili rilevanti al Tempio. Invece Anna, con una vita passata nell’autenticità, doveva essersi conquistata un’enorme autorevolezza, riconosciuta da tutti.

A conclusione di questo anno, ci chiediamo: ho saputo cogliere gli appuntamenti di Dio? La mia vita è stata autentica? Ho meritato autorevolezza nei compiti e nelle responsabilità che mi sono stati affidati?

C’è soprattutto un tema importante riguardante le promesse e le speranze. Tutti confidiamo in una promessa: promessa di vita buona, in equilibrio, felice. Spesso, rispetto a questa promessa, che assume subito i tratti della speranza, ne va della nostra fede in Dio. Se le promesse non sono vane, se la nostra speranza non è frustrata, allora è più facile affidarsi, credere, fare esperienza di Lui.

Ma quando le promesse tardano e le nostre speranze si affaticano? Sappiamo che tutte le promesse di Dio vengono confermate in Gesù (cf. 1Cor), ma come si traduce questo, concretamente, nella nostra vita?

Ci accostiamo, quindi, alla fine del nuovo anno, pensierosi. Quali promesse attendiamo ancora? Quali speranze, ormai, sentiamo con il fiato corto? Come possiamo ascoltare la presenza di Gesù? Come possiamo scoprire che è in lui che possiamo vedere compiuta la Promessa?

Sicuramente siamo invitati a prendere molto sul serio un rapporto ancora più personale, ricercato e intimo con Gesù: la preghiera personale, l’ascolto e il dialogo con la sua Parola, l’amore fattivo per fratelli e sorelle in difficoltà.

Oggi la chiesa festeggia anche la famiglia di Gesù, chiamata la Santa Famiglia. Una famiglia “santa”, certo, ma tutt’altro che esente dai problemi e dalle difficoltà concrete delle nostre famiglie, perciò anche una famiglia che può dare l’esempio alle famiglie, soprattutto in due aspetti.

Il primo: non è stata una famiglia alla quale tutto è andato come pianificato. Le sorprese, che hanno colto Maria e Giuseppe ben più che impreparati, non sono affatto mancate. Anche a loro è accaduto che dopo avere difeso il loro bimbo in ogni modo, è bastata una distrazione per smarrire Gesù diventato ragazzo. Anche a loro sarà toccato affrontare disparità di ruoli e voci maligne. Anche loro hanno dovuto affrontare lo smarrimento di fronte al destino di un figlio impossibile da decifrare. Le cose che mettono le famiglie, soprattutto quelle giovani, di fronte alla propria inadeguatezza, non sono mancate neanche alla famiglia di Gesù, quindi coraggio! Non è segno di stranezza, ma solo di vita reale.

Secondo: da quanto ne sappiamo, la famiglia di Gesù è stato il bacino dove egli stesso ha appreso la sua umanità bellissima e aperta. Da ciò raccogliamo un invito alle famiglie a non chiudersi nelle loro dimensioni, a non dimenticarsi di chi la famiglia non ce l’ha o ce l’ha – come si dice – un po’ scalcagnata. Di non dimenticarsi delle persone sole, delle donne che vorrebbero un figlio e per mille ragioni non lo possono avere; o di quelli per cui la famiglia è solo un ricordo pieno di dolore e di difficoltà. Credo che le famiglie cristiane, che si compiacciono di festeggiare la Famiglia di Gesù e di ritrovarcisi, debbano e possono essere famiglie aperte e attente, che sanno riconoscere quando è il momento di non parlare solo di pannolini, di bimbi o di problemi di figli adolescenti… ma che sanno intercettare il mondo più complesso e arricchirlo e impreziosirlo con la testimonianza di un amore tenero, sincero e bello.

Don Davide




Natale: il giorno della grazia

Cos’hanno a che fare un venditore di teste di pollo e un venditore di trippa con la Natività, splendente sotto una corona di gloria?

E un povero calzolaio che vende scarpe spaiate, un vasaio, un mercante di sedie?

Gesù viene in un’umanità concretissima, rappresentata nel modo più essenziale possibile in un contesto volutamente spoglio di qualsiasi ambientazione, per enfatizzare questo segno: Gesù in mezzo all’esistenza operosa delle persone.

C’è una bellezza inesprimibile in questa scelta di Gesù, che non attira a sé i capi e i nobili del tempo, i sacerdoti o i soldati romani, ma il un popolo normale, ordinario. Questo ha permesso, nei secoli, di rappresentare il presepe in ogni modo e che ciascuno potesse sentire raccontata e accolta la propria storia in quella scena magica.

Gesù bambino non disdegna nemmeno quella parte della nostra umanità più meschina e ingannatrice, quella che tira a campare come meglio può. Nel nostro presepe, infatti, c’è anche un venditore fraudolento. Lo riconoscete? Gesù non vuole che si producano scarti; dunque, che tutti si avvicinino a lui! Che nessuno rimanga indietro, perché quale errore mai potrebbe essere guarito, se non davanti all’innocenza di Gesù bambino? Quale orgoglio si potrebbe sanare, se non di fronte all’umiltà della mangiatoia? Come potremmo sentirci accolti, giustificati, riscattati e in pace, se non in ginocchio davanti al presepe? Che si possa comprare senza spesa ogni bene prezioso, perché oggi è il giorno della grazia!

A ben vedere, però, leggendo “tra le statuine”, possiamo scoprire che il nostro presepe, in realtà, non è senza contesto. Annibale Carracci raccolse nella seconda metà del ‘500 in un’opera dal titolo: Le arti di Bologna, i disegni di un centinaio di mestieri di strada. L’opera andò quasi completamente perduta, ma è conosciuta grazie alle incisioni di Giuseppe Maria Mitelli, che un secolo dopo ricodificò questi mestieri, che hanno ispirato la creazione di queste statue.

C’è un filo rosso che ci rimanda alla storia della nostra città di Bologna e alle opere più importanti della nostra chiesa.

Guardando il presepe, quindi, in un momento di silenzio interiore, noi possiamo ascoltare il racconto dell’esistenza degli uomini e delle donne che ci hanno portato fino a qui, ad essere quelli che siamo, e sentire le loro voci che ci istruiscono ancora. La nostra parrocchia ha secoli di storia e noi ne siamo grati.

Desideriamo continuare questo percorso con la testimonianza della nostra fede e immergendoci nell’esistenza concreta di chi vive, lavora e spera nella nostra città. Vogliamo immaginarci come di camminare in mezzo al presepe e di comprare un cesto da mettere in chiesa per la raccolta alimentare, la verdura per il pinzimonio nel pranzo di Natale e l’uva, magari, per l’ultimo dell’anno. Ad ognuno rivolgere una parola. Con ciascuno un gesto di amicizia.

Sono le nostre strade e noi le abitiamo.

Sono le storie che ci hanno fatto; cerchiamo di restituire quanto abbiamo ricevuto.

Don Davide




Natale: gli inizi

“E così, sei tu!” pensa Maria, sognante, mentre avvolge di panni Gesù. Come ogni mamma finalmente si gode il momento in cui conosce suo figlio. Dopo averlo sentito e portato dentro per tanti mesi, ora lo vede, lo tocca. Non fosse per quell’aura luminosa, non ha davvero i segni di un infante diverso da tutti gli altri.

E anche Giuseppe lo osserva. Lo scruta, diremmo quasi. Inizialmente incredulo, poi rassicurato in sogno, aveva visto crescere la pancia di sua moglie. Eppure, come tutti i papà, aveva fatto fatica a rendersi conto davvero di avere un bambino. Ed eccolo lì. Vero, in carne e ossa. “Nostro figlio”, pensa.

Qualcosa di nuovo inizia per questa famiglia. I gesti di accudimento, l’apprendistato dei genitori, i primi passi nell’educazione, che incomincia dall’amore. E una trasformazione di vita radicale: il tempo speso, praticamente tutto, per un altro.

In questo gesto di sradicamento da loro stessi, Dio plasma un’alleanza ancora più amorosa di quella precedente, una storia della salvezza ancora inedita. Maria e Giuseppe, senza che se ne rendano conto, vengono trasformati. La loro trasfigurazione è già iniziata, ma sotto il cielo di Betlemme tutto viene ricreato, come un presepe che si fa nuovo ogni anno.

Anche per le persone coinvolte in questo evento, inizia qualcosa di nuovo. Prima di tutto lo stupore, la meraviglia che muove passi lenti e incerti, ma senza deviazioni, verso l’umanità di Gesù. Poi, forse, il senso di essere benedetti, di essere resi parte di qualcosa di inaspettato, una pace che scende nel cuore e va a riconciliare i nostri errori, a guarire le nostre ferite e i sensi di colpa. Infine, una promessa di pace per il mondo, che in quel cielo e in quella terra sembra tutto rappresentato.

Gesù mi invita, a compiere questo viaggio interiore verso lo stupore e la meraviglia. Guarda quello che accade, cogli i segni, i gesti di amore, la gratuità, i sorrisi delle persone! Esci da stesso, molto concretamente: spendi il tuo tempo per gli altri e l’Altro, non risparmiarti e non fare calcoli. Lascia perdere i tuoi sensi di colpa e il pensiero di non potere essere degno di quell’appuntamento e di quell’incontro! Non tutto è già fatto, ma Gesù inizia con te e insieme a te qualcosa di nuovo. La trasformazione del tuo cuore è in atto. Stai dando la tua vita e nemmeno te ne accorgi, mentre il Signore raccoglie ogni goccia di questo tuo dono.

Neanche vedi dove cadono le grazie che il Signore ricava da te, ma accade! Il cuore di quella tua amica è stato confortato; quel papà si è messo in gioco; quella ragazza ha incominciato a pregare; un giovane si educa alla pace.

La sorpresa ci coglie impreparati. Abbiamo desiderato tanto conoscerti, Gesù, vederti, toccarti, sapere che sei vero. Improvvisamente ti palesi a noi in ogni modo.

Così sei tu, Gesù: il tempo in cui, senza che ce ne accorgiamo, iniziano le cose buone che sono nel mondo e la nostra trasformazione.

Don Davide




Gratitudine sulle spalle, davanti l’entusiasmo

Sono orgoglioso di potere celebrare 100 anni di esistenza dell’Azione Cattolica nella “mia” – meglio: nostra – parrocchia. È una ricorrenza che sento non solo con quella gratitudine che si prova per le cose importanti che accadono in parrocchia, ma soprattutto come un’occasione per un ringraziamento personale per tutto quello che l’Azione Cattolica ha dato alla mia vita di cristiano e di prete.

Ricordo nitidamente l’emozione quando capii da ragazzo che associarsi consapevolmente era una via maestra per fare esperienza di chiesa. Non una via competitiva, unica o esclusiva, ma una via maestra, che mi insegnava, nel vero senso della parola, un metodo per educare, per curare la mia formazione personale, per edificare la mia comunità parrocchiale e per essere chiesa. L’esperienza da giovane di Azione Cattolica è stata la ricchezza che mi sono portato nei primi anni di seminario: un ritmo di preghiera personale, la scelta di confessarmi e farmi accompagnare nei miei passaggi, l’abitudine a qualche lettura formativa, la consapevolezza orgogliosa di avere un ruolo nella chiesa. Sono stati gli assi che su cui si è arricchita anche la mia formazione seminaristica.

All’Azione Cattolica, lego anche molte delle esperienze più gioiose e belle della mia vita da prete. Come emblema di tutte, vorrei ricordare una serata di preparazione di un campo estivo, con un’equipe eccellente di educatori e di seminaristi. Un seminarista, ormai a tarda notte, mi dice stupefatto che era rimasto impressionato dalla competenza e dalla autorevolezza con cui gli educatori proponevano chiavi di lettura e idee. Aveva colto nel segno: l’AC mi ha consegnato sempre il confronto con persone alla pari e questo è una ricchezza impareggiabile nel ministero di un prete, che permette di non clericalizzare e di amare la Chiesa. Una ricchezza che si traduce poi concretamente in scambi preziosi, amicizia e conforto.

Sento già l’obiezione nell’aria, che non è solo l’Azione Cattolica a offrire questo. È vero. Non ho nessun imbarazzo a riconoscerlo, perché ho amiche e amici carissimi, laici esemplari nella vita della chiesa e del mondo, che si sono formati negli scout o nei movimenti o solo in parrocchia. Il punto è che l’AC allena questo metodo come suo obiettivo primo e lo fa strutturalmente al servizio delle parrocchie, cioè del cammino ordinario della chiesa.

All’Azione Cattolica parrocchiale, specificamente, riconosco inoltre il merito di continuare ad essere un luogo non solo di formazione, ma anche di pensiero e di avere un affetto manifesto per i giovani e la loro formazione.

Sarei tentato di esporre cosa mi attendo e spero per i prossimi cento anni di vita della nostra associazione. Ma ci sono sfide e opportunità all’orizzonte della nostra chiesa locale più vicine, perciò vorrei provare semplicemente a tracciare alcuni auspici per questo tempo pastorale prossimo.

Dal punto di vista personale, chi si impegna nell’Azione Cattolica deve allenare la propria comprensione della pastorale della chiesa. Dovrebbe essere un uomo o una donna capace di riconoscere quali sono le dinamiche essenziali nella vita di una comunità cristiana (parrocchiale e non) ed avere l’attitudine al discernimento, a capire quali leve e quali metodi bisogna usare e quali no. Questa competenza non è clericale. Non riguarda solo le scelte di parrocchia, ma soprattutto una visione complessiva e ordinata su come concretamente il vangelo può essere testimoniato e riconosciuto all’opera. Chi fa parte dell’Azione Cattolica dovrebbe sentire questo compito come la condizione essenziale per la propria appartenenza.

Dal punto di vista associativo, auspico un gruppo di persone che sappiano ripudiare sapientemente la ripetitività del passato: che non si ancorino a formule esauste o a strutture interne più adatte a organismi come l’Onu e la Nato che a piccoli gruppi di cristiani discepoli-missionari. Desidererei, invece, uomini e donne che sappiano discernere quale sia la grande risorsa del cristianesimo nel nostro tempo: che raggiungano delle consapevolezze maturate insieme e condivise, che possano diventare esercizio comune di stile e di vita evangelica. Quali forme, quali metodi, quali linguaggi? È fonte di ispirazione la conclusione del Vangelo di Marco nell’accenno al parlare “lingue nuove” (Mc 16,17), perché il cammino del discepolo-testimone, mentre guarisce la sua stessa incredulità, gli doni anche questi nuovi “segni” per comunicare la ricchezza della fede.

In parrocchia, mi aspetto che l’Azione Cattolica sia un appoggio affidabile per accompagnare ogni cambiamento strutturale che la nostra Chiesa di Bologna dovrà fare, senza nostalgie di inutili campanilismi o barricate pastorali a oltranza. Desidero, infine, che l’AC parrocchiale sia come il motore che garantisce l’amore per i giovani: una sorta di predilezione per le loro vite, che si esprime nel desiderio di essere veri adulti, senza alcun rimpianto di giovanilismo o assurda competizione nei loro confronti. Che tutti coloro che amano i giovani delle nostre strade (non solo quelli “di parrocchia”, ma anche quelli “di fuori”) possano sapere di trovare un gruppo con cui fare squadra e e attrezzarsi ad accompagnare le giovani generazioni con tutta la custodia, l’amore e la sapienza educativa verso la loro vita adulta nel mondo.

Don Davide




L’Avvento e le tre parole

Papa Francesco, al termine della messa allo stadio di Bologna, ci ha lasciato tre consegne: il Pane, la Parola e i Poveri. Tutti e tre scritti con l’iniziale maiuscola, perché sono i modi in cui il Cristo si rende presente tra noi.

Il cammino della chiesa di Bologna, dopo avere dedicato l’anno del Congresso alla riflessione sul Pane condiviso, si concentra ora sull’ascolto della Parola di Gesù. È una continuazione del percorso precedente, non solo per la successione che ci ha proposto papa Francesco, ma soprattutto perché la parola che continua a suscitare echi, nel nostro cuore, è quella che abbiamo fatto risuonare tante volte nell’anno passato: “Date loro voi stessi, da mangiare!” (Mt 6,37). Dai te stesso! Non fare mancare il tuo contributo. Sei tu, chiamato a essere discepolo. Scopri che nel consumarti c’è la bellezza della risposta alla chiamata all’amore.

I poveri, fortunatamente, sono sempre al centro dell’attenzione e dell’opera del papa e del vescovo, che così danno una testimonianza luminosa alla chiesa e al mondo, e incoraggiano ogni comunità cristiana a fare altrettanto.

Sarebbe bello se fossimo capaci di fare di questo ascolto che ci è chiesto, una vora occasione di rinnovamento, a partire dalla condivisione di quello che la parola di Dio ci ispira. Se fossimo attenti nel sentire cosa Gesù ci dice, avremmo sempre una spinta rivoluzionaria, anche se fossero piccolissime cose, perché avrebbero la potenza di quella trasformazione evangelica che ha scatenato lo Spirito dopo la Pentecoste.

Alla fine di questo anno liturgico, poi, si celebrerà il Sinodo dei Giovani. O meglio: sinodo dei vescovi (che giovani non sono) per pensare ai giovani e dire loro qualcosa di vicino. Ma il papa, nel meraviglioso discorso che ha fatto per indire il Sinodo [cercatelo digitando su Google “Papa sinodo giovani”, ne vale la pena!], dice che invece vuole che si ascoltino i giovani, e tutti i giovani, anche quelli non cattolici e atei… perché sia veramente un Sinodo dei giovani.

Dovendo fare un discernimento del percorso che il papa e il nostro vescovo ci hanno fatto fare fin qui, direi che sono quattro le domande a cui dobbiamo rispondere:

  1. Come dobbiamo trasformare la nostra pastorale per essere chiesa in uscita, e noi stessi discepolimissionari?
  2. Quali scelte dobbiamo fare per essere in aiuto dei poveri operativamente e più di prima?
  3. Come dobbiamo cambiare l’assetto delle nostre parrocchie nel Centro storico?
  4. Quali rivoluzioni dobbiamo accettare perché i giovani tornino a sentire la chiesa vicina e ad esserne parte?

Il tempo di Avvento inizia con un grido: “Oh, se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,17). È un grido pieno di nostalgia e di bisogno: un bisogno di speranza quasi disperato per la situazione compromessa del popolo del Signore.

Non ce lo vogliamo nascondere: alcune volte abbiamo la sensazione che anche la nostra esistenza di chiesa sia gravemente compromessa. Contro la tentazione di pensare così, il vescovo ci esorta a credere nella trasformazione del cuore che l’ascolto della parola di Dio può operare, e noi raccogliamo questo invito, con atteggiamento umile e spirito rinnovato, a partire dal dono della parola che il Signore ci fa ogni anno, ogni domenica e ogni giorno, nella liturgia.

Don Davide




L’anno della Parola

Quest’anno, l’arcivescovo ha consegnato alla Chiesa di Bologna “l’Anno della Parola” come cammino pastorale.

Leggiamo le sue indicazioni.

 Dalla Lettera pastorale dell’Arcivescovo:

Non ci ardeva forse il cuore?

“L’incontro con la Parola non è una lezione, un programma. È tutto il programma, da cui comprenderemo i nostri passi. È il Verbum Domini che ci è rivolto, perché ci accorgiamo finalmente della sua presenza in mezzo a noi, ci liberiamo dalla paura, affrontiamo il male che ci vuole isolati, che ci fa sentire abbandonati, che fa credere che dobbiamo fare da soli, confidare solo nel nostro orgoglio per stare bene e conservare quello che abbiamo per non perderlo.

Esattamente il contrario dell’amore che Dio ci annuncia. Nella Babele delle nostre parole si presenta quella del pellegrino, la Parola, che cammina con noi e ci vuole scaldare il cuore e fare sentire la sua speranza oggi. È la verità che cerchiamo per capire la nostra vita e quella di un mondo così complicato e difficile da comprendere. Non è chiesto al discepolo di capire tutto, ma di aprire il cuore e la mente…

Iniziare la riflessione sulla Parola di Dio ci aiuterà a rivedere anche gli aspetti concreti della nostra vita personale e di comunità. Penso alla liturgia, alla carità, alla catechesi (per l’iniziazione cristiana, per la preparazione ai sacramenti, per i fidanzati) e all’intero campo della pastorale (familiare, giovanile, anziani, e così oltre), perché siano sempre più sostenuti e illuminati dal semplice e decisivo incontro con la Sacra Scrittura. Sarà il cammino dei prossimi anni.

I gruppi della Parola, che si riuniscono già in molte parrocchie e che potrebbero iniziare ovunque e con modalità diverse e adatte agli interlocutori, sono proprio come i due discepoli di Emmaus che parlano di sé, si lasciano interrogare da Gesù e ascoltano tutto quello che lo riguarda. Così si genera e si rigenera la comunità dei fratelli” (pp. 71ss).

Dal Sussidio per l’anno pastorale della Chiesa di Bologna

Indicazioni per vivere le tappe dell’anno pastorale

La prima giornata della Parola celebrata da Papa Francesco a Bologna il 1 ottobre scorso apre il nuovo anno pastorale che la nostra Chiesa di Bologna sta iniziando.

È stata per noi una grazia non solo gradita ma provvidenziale, perché ci sollecita a ritrovare la centralità della Parola di Dio nella vita della Chiesa: Dio dialoga e parla con gli uomini per costruire una vera e duratura comunione. Questo dono è stato raccolto dalla Lettera pastorale dell’Arcivescovo, Non ci ardeva forse il cuore?, che costituisce un solido orientamento per la pastorale in senso missionario e che ci accompagna in questo anno.

L’esperienza dei due discepoli di Emmaus, icona biblica scelta dall’Arcivescovo, ci insegna che la Parola di Dio riscalda il cuore e lo rende plasmabile dallo Spirito e capace di comunicare l’amore scaturito dall’incontro con il Crocifisso risorto.

Rimettere al centro della nostra vita e della pastorale la Parola di Dio è il tema generale dell’anno, che si esprimerà in tre momenti per far crescere la nostra consapevolezza di essere discepoli-missionari e vivere fino in fondo la conversione pastorale in senso missionario.

Il metodo per vivere le tappe

Siamo tutti impegnati a vivere le tre tappe, cioè i tre momenti durante l’anno in cui ascoltare, riflettere in maniera comunitaria sulla Parola di Dio, sulle nostre prassi pastorali per orientarci al futuro con una visione coraggiosa, creativa e piena di speranza.

Il metodo con cui svolgere gli incontri proposti, sia la lectio divina sia i successivi due incontri, è quello sperimentato lo scorso anno e cosiddetto “metodo di Firenze”, che favorisce la partecipazione sinodale di tutto il gruppo creando un clima di accoglienza e di arricchimento comune.




Invitare alle nozze

«Mandò i suoi servi ad invitare alle nozze» (Mt 22,2).

In questa domenica, viene conferito il Mandato a tutti i catechisti, educatori e responsabili della nostra parrocchia. È un rito festoso, in cui, a nome di tutta la comunità, si affida ufficialmente l’incarico alle persone disponibili, si ricorda loro che sono al servizio e non dentro un’impresa personale, e che il Signore manda i suoi servi ad invitare alle nozze, non a una cosa triste.

Il servizio ecclesiale dovrebbe essere come quegli amici che organizzano i giochi festosi per gli sposi: richiede impegno, ma con quanto entusiasmo e affetto lo fanno!

Ancora di più, l’appartenenza alla chiesa dovrebbe essere come una festa di nozze: un’esperienza gioiosa, estremamente curata, dove si mangiano cibi succulenti e bevande deliziose – talvolta spirituali, come l’ascolto della parola di Dio, un ritiro, una bella celebrazione; talvolta materiali, come le merende o i bei pranzetti che ogni tanto si fanno.

Ci dobbiamo chiedere: stiamo invitando alle nozze o a un funerale? L’invito è curato? La partecipazione è bella o assomiglia di più a un necrologio? L’abbiamo spedita come si fa a un capo azienda che non possiamo non invitare per buona educazione, o c’è un rapporto personale e riusciamo a dire: “ci tengo che tu ci sia”?

E poi: la festa è pronta? O abbiamo cibo precotto, patatine confezionate, tovaglie sporche, location brutte e sedie scomode?

È interessante notare, nel vangelo, che tutto ciò non basta. Nonostante un invito alle nozze fatto come si deve e un banchetto eccellente, molti invitati rifiutano.

Niente paura. Timone dritto e obiettivo chiaro: qui c’è pronta una festa di nozze, non una merendina. La merendina la puoi rimettere nella scatola e mangiarla un altro giorno; la festa di nozze va goduta e ci sarà sicuramente qualcuno che ha il piacere di farlo. E allora: apriamo le porte! Oltre che una chiesa in uscita, che sia anche una chiesa aperta! Che tutti coloro che vogliono il privilegio di partecipare siano accolti! E che goda chi ha fame e sete!

E alla fine, si scopre che i servi stessi sono invitati alle nozze! Che strana festa, questa! Il padrone è così buono che, pur avendo servi numerosi, ha organizzato un catering esterno, in modo che anche i servi possano fare festa, essere serviti e mangiare leccornie!

Mi auguro davvero che tutti, tutti possiamo avere la chiara consapevolezza di essere invitati a una festa di nozze; che nessuno di noi ritenga il non esserci una cosa di poco conto; che non ci sia bisogno di insistere come il padrone nel vangelo e, anzi, ciascuno desideri non perdersi questa festa per nulla al mondo.

Don Davide




Non ci ardeva forse il cuore?

Non ci ardeva forse il cuore, sabato scorso, quando tutta la città era in fermento e si sentiva l’aria frizzante per l’arrivo del papa? Non ci ardeva di carità quando, al centro per i rifugiati, papa Francesco ha ricordato quelli che non ce l’hanno fatta e che non ci sono più? Non ci ha fatto ardere di buoni propositi quando, all’Angelus, ha chiesto alla città di Bologna di rimanere un esempio nella testimonianza del Vangelo o quando ha raccomandato ai preti e ai religiosi di essere con il popolo, semplici e poveri, per condividere il Vangelo?

E non ha fatto come Gesù, riattualizzando d’un colpo le parole dei profeti, sedendo a mensa con i poveri e tutti coloro che avevano bisogno di riscatto?

E non ha letteralmente infiammato i nostri cuori con il suo discorso all’Università, parlando di cultura, di speranza e di pace, nell’orizzonte di un’Europa unita, contro tutti i populismi e le retoriche, come non si sentiva fare da anni?!

Sì, l’abbiamo riconosciuto nello spezzare il pane… ma non lui, cioè papa Francesco. Grazie al papa, e soprattutto grazie al suo rapporto così schietto e sulle stesse corde con il vescovo Matteo, nel catino suggestivo e trepidante dello stadio, trasformato in una cattedrale contemporanea, abbiamo riconosciuto Gesù risorto! Sì, Gesù risorto, vivo, presente in mezzo e insieme alla sua Chiesa, che ci ha confortato, ha fatto risuonare la sua parola con mille sfumature e ci ha dato la direzione.

Una Chiesa non clericale, fatta di pastori davanti, in mezzo e dietro al popolo; una Chiesa richiamata ai tratti (non ai valori) inconfondibili del Vangelo: i poveri, l’annuncio del Regno agli ultimi, la misericordia data e ricevuta. Una Chiesa tesa a raggiungere tutti e ad aprire una via per ciascuno.

Il vescovo Matteo, il giorno di San Petronio, ha ringraziato la città, per la preparazione della visita del papa, lo svolgimento della giornata e l’accoglienza profonda che Bologna gli ha riservato. Era da tempo che il giorno del patrono non si sentivano parole gentili nei confronti della città, piuttosto che rimproveri, provenienti da una supposta posizione di superiorità. È uno stile che, inequivocabilmente, i nostri pastori ci consegnano. Non perché non ci siano i problemi o perché la Chiesa debba abdicare al suo compito critico e di vigilanza, ma per costruire rapporti di vera amicizia, aiutarsi e camminare insieme.

Così, oggi, giorno della conclusione del Congresso Eucaristico nelle nostre parrocchie, il vescovo ci consegna la sua nota pastorale, per confermarci nella direzione di questo cammino, dal titolo: Non ci ardeva forse il cuore?

Incoraggiati da questa consegna, iniziamo il nuovo anno pastorale con l’immagine bellissima di Gesù che, dopo avere spiegato il significato profondo delle Scritture, essere stato ospitato a tavola e avere spezzato il pane con i segni dell’Eucaristia, ci fa percepire nitidamente che cosa fa ardere il cuore e brillare il volto.

L’egoismo ci spegne, il Vangelo ci infiamma. La divisione perde, la comunione vince. L’odio ci fa morire, l’amore ci fa vivere.

Don Davide




La Scuola di Formazione Teologica

Il grande Aristotele, nella sua opera più famosa scriveva che la teologia è la scienza più importante di tutte e la meno utile.

Forse è questo il motivo per cui tanti sarebbero interessati a conoscere la teologia, magari anche a studiarla seriamente, ma poi non si sceglie perché non si veda come possa tornare utile (come si dice in gergo) per portare a casa la pagnotta…

È anche per venire incontro a queste esigenze che la Scuola di formazione teologica di Bologna, sotto l’alto patrocinio della Facoltà di teologia dell’Emilia Romagna, propone un corso base di teologia strutturato in modo che ciascuno possa partecipare, senza dover rinunciare ai suoi oneri quotidiani. Il corso base prevede infatti lezioni serali, un giorno alla settimana, di una o due materie a semestre. I quattro corsi che compongono il corso base sono: Teologia fondamentale; Mistero cristiano; Introduzione generale alla Sacra Scrittura e Ecclesiologia. Tradizionalmente, la scuola di formazione teologica (sigla SFT), oltre alla sede principale del seminario, ha altre sedi dislocate sul territorio.

Quest’anno, per la prima volta, si apre una sede anche nel vicariato ovest, che prevede un corso di Teologia fondamentale il martedì a partire dal 16 di febbraio, presso le nuove strutture della parrocchia di Ponte Ronca.

A questo punto, a molti verrà la domanda: e perché studiare teologia?

Per rispondere al nostro amico Aristotele, diremmo noi! Studiare teologia, infatti, da una parte ci permette di uscire dalla logica delle cose che ottengono un risultato a breve termine, dall’altra ci permette di dare un respiro alla nostra fede. Nella vita delle nostre parrocchie, soprattutto per chi è più impegnato, si rischia sempre di fare una formazione finalizzata ad acquisire capacità di fare qualcosa: un incontro, un’animazione ecc. Lo studio della teologia ha una finalità di più ampio raggio: esso intende dare al credente disponibile qualche struttura fondamentale per operare un discernimento evangelico, di fede ed ecclesiale in maniera minimamente attrezzata alle grandi sfide dei nostri giorni. Studiare un po’ di teologia, quindi, è un investimento a lungo termine, sia per i singoli – che ne avranno sicuramente da guadagnarci – sia per le parrocchie – che possono solo beneficiare da un investimento a lunga scadenza. A questo proposito, sarebbe bello che per ogni parrocchia non ci fossero solo dei singoli a frequentare questi corsi, ma magari un piccolo gruppo, in modo che possa diventare anche un’esperienza condivisa e da riportare nella propria comunità.

Credo che la scelta molto forte e voluta del vicariato ovest di avere una sede nel proprio territorio vada in questa direzione.

La seconda domanda che a qualcuno potrebbe saltare fuori è la seguente: e che cos’à la teologia fondamentale? Beh, per questa risposta… vi rimandiamo al corso! Possiamo solo dire che è la disciplina che si interroga su come si fa a rendere ragione della speranza che è noi (cfr. 1Pt 3,15).

Rendere ragione della speranza è la sfida delle sfide, come vedremo. Il papa stesso ci ha richiamati nelle ultime due encicliche alla dimensione della speranza e alla dimensione di una carità fattiva. Bisogna cioè sperare e credere in maniera che sia credibile la testimonianza del nostro amore. La teologia fondamentale prova a capire quali sono le sfide di oggi e quali sono stati i percorsi della chiesa nella storia per corrispondere a questa responsabilità.

In genere, un corso di teologia riserva piacevoli sorprese, anche per la propria fede.

Speriamo vivamente che questa occasione possa fare riscoprire anche la gioia, l’entusiasmo e la convinzione di essere credenti.

Don Davide