Generazione Selfie

Una fotografia dei giovani a fine estate non può trascurare la canzone di Lorenzo Fragola e Arisa dal titolo Generazione Selfie, che ha imperversato in tutte le spiagge e in tutte le radio accese nei giorni del solleone. Perché i giovani scattano i selfie e, a dire la verità, anche i meno giovani, gli adulti e qualche anziano, secondo quel principio contemporaneo che tutti tendono a ciò che è giovanile.

Una coincidenza interessante accompagna queste considerazioni, almeno per chi si sta impegnando in questi giorni a programmare l’attività pastorale dei gruppi nelle proprie parrocchie. L’Azione cattolica italiana, infatti, ha proposto come immagine guida dei sussidi dei ragazzi proprio quella della fotografia, con lo slogan: “Pronti a scattare”. Metafora ricchissima, ci basti pensare che, quando Gesù raccontava le parabole, faceva la stessa operazione di un bravo fotografo: fissava una realtà che era davanti ai suoi occhi, osservandola sotto una particolare luce e con una specifica angolatura e messa a fuoco. Se avesse avuto in mano una Canon, o uno smartphone, avrebbe scattato una foto.

Il selfie è più bello

Sono stato testimone qualche giorno fa della passione per i selfie. Un gruppo di ragazzi ammucchiati decide di farsi una foto, più precisamente un selfie, con lo sfondo delle Dolomiti. Inquadratura impossibile, loro sono troppi, il telefono a distanza di braccio è troppo vicino e l’orizzonte invisibile. Dico: “Dai ragazzi, ve la faccio io la foto!”. Risposta: “Ma il selfie è più bello!”.

Il selfie è più bello?! Dal punto di vista tecnico non c’è una sola ragione che renda un selfie più bello di una foto scattata da un altro. Inoltre, l’elemento paradossale è che, a dispetto del titolo, che si è imposto come una sorta di consacrazione del selfie, la canzone di Arisa e Fragola esprime in maniera intelligente una notevole problematizzazione di quest’esperienza:

«Siamo l’esercito del selfie, di chi si abbronza con l’iPhone,
e non abbiamo più contatti,
soltanto like a un altro post…
Ma tu mi manchi, mi manchi, mi manchi,
mi manchi in carne ed ossa».

A dispetto di tutto ciò, il selfie è davvero in grado di raccontare una generazione o almeno qualche suo riflesso.[1] Che cosa dunque fa percepire il selfie più bello, a parte la moda?

La percezione

Quello che fa la differenza, prima di tutto, è la percezione. Nel selfie c’è la percezione di essere infinitamente più protagonisti di quello che sta accadendo, la convinzione di potere curare se stessi fino a creare un personaggio, la suggestione di mostrare di sentirsi vivi. A ben guardare, è più che altro questione di percezione, ma è appunto questa che fa la differenza. Lo ripeto: la generazione selfie ci insegna che la percezione fa la differenza.

Tutto ciò non è esente da problemi, ma almeno inizialmente dovremmo assumerlo con tutta la serietà del caso. A dispetto della tentazione retorica per cui la Chiesa non si curerebbe della percezione perché baderebbe alla sostanza, dobbiamo preoccuparci di non allontanare i giovani con la prima impressione che diamo. Ambienti brutti, incontri scialbi e quell’alone di non vero interesse per le loro cose: non si può scaricare la colpa su di loro, dicendo che sono superficiali e che non è giusto giudicare frettolosamente. Questo è vero, ma va insegnato di nuovo e non certamente come primo atto.

L’impatto iniziale, immediato, irrazionale, emotivo è il primo ponte gettato verso quel famoso nuovo annuncio di cui ancora stiamo abbozzando i primi passi. C’è un modo altezzoso o trasandato, formale o eccessivamente scialbo che caratterizza ancora un certo stile di Chiesa e degli ecclesiastici che va curato con più attenzione, senso dell’opportunità e bellezza. Non si tratta certo di legittimare la moderna ossessione per l’apparenza, ma di permettere che il processo dell’incontro, che va sempre dall’esteriorità all’interiorità, non trovi ostacoli prima di potere giungere alla meta.

Il primato del dirsi

L’altro elemento che fa la differenza è il primato del “dirsi” piuttosto che dell’essere detti. Il selfie è un modo di raccontarsi in cui l’azione soggettiva (e la successiva possibilità di essere riconosciuti, magari con un «like a un altro post») vale più di tutti gli altri elementi della comunicazione.[2] Pensiamo a Gesù che dilata il dialogo con il giovane ricco per farlo parlare e venire allo scoperto, oppure quando chiede: «Che cosa vuoi che io faccia per te?».

La nostra pastorale, invece, sottovaluta in molti aspetti – talvolta inconsapevolmente, talvolta colpevolmente – questo bisogno. Il famoso metodo esperienziale, che intercetti in modo non banale la loro domanda di vita, è ancora messo in discussione o solo balbettato. I documenti ufficiali, così come molti sussidi catechistici, dicono tantissime cose dei giovani, con il dubbio che li abbiano mai lasciati parlare veramente.

Infine, mentre i viceparroco sono una razza in via di estinzione e le risorse pastorali in favore dei giovani vengono razionalizzate (magari affidando al clero molteplici incarichi), si mantiene saldamente una struttura e un’organizzazione ecclesiale che impedisce in ogni modo ai preti di perdere tempo coi giovani, di ascoltarli e di accompagnarli a lungo.

La mia amara, personale esperienza è il rischio di risolvere le cose con qualche consiglio e poche istruzioni moraleggianti… e così continueranno con i selfie, in scenari ben diversi dai nostri. E qualcuno condannerà ancora la loro autoreferenzialità e lasceremo che Apple, Facebook o qualcos’altro intercettino i loro stili e i loro bisogni.

Il desiderio di avere in mano una reflex

Invece sarebbe bello potere reagire e riuscire a comunicare ai giovani che la foto vogliamo farla insieme, come vogliono loro, ma con una reflex, in modo che si vedano bene i volti, i sorrisi e la luce dei loro occhi, e anche le Dolomiti sullo sfondo, e poi farne un ingrandimento e tenerla tra le nostre cose più care.


[1] [Redazione], Selfie. La cultura dell’autoscatto che racconta una generazione, in Wired 20/11/2017.
[2] A questo proposito è impressionante digitare su Google: “generazione selfie” per vedere quanti articoli molto critici o addirittura catastrofici si trovano scritti dagli adulti, e poi scovare un intervento fresco, positivo e pieno di energia che riporta, guarda caso, la prospettiva dei ragazzi di Radio Immaginaria: vd. F. Taddia, Selfie di una generazione: “Vedrete, diventeremo adulti felici”, in La Stampa 25/08/2017.

Don Davide

 

Testo scritto per SettimanaNews il 12 settembre 2017




Il virus benefico dell'”Estate Ragazzi”

Estate è tempo di centri estivi, un meraviglioso virus che colpisce i ragazzi dopo la scuola, provocando in loro sintomi di incondizionata generosità, serenità, allegria e voglia di vivere che, alle volte, pare soffocata tra i banchi delle loro aule. Perciò, come se fossimo in un laboratorio di microbiologia, procedo in questa riflessione estiva con un’osservazione sperimentale di questo virus di cui i giovani sono portatori sani.

Un’osservazione sperimentale

La scena è quella della verifica delle attività a fine giornata. Li osservi, i ragazzi e le ragazze: sono le 6 del pomeriggio ed è ancora un caldo che ti sciogli e pensi che loro sono stati lì a correre e a giocare con i marmocchi da almeno sette ore. Hanno la maglia lercia, nelle mani residui di vernice, terra e ogni altro materiale utilizzato. Stanno abbracciati gli uni con gli altri, qualcuno poggia la testa sulla spalla di un’amica, qualche sentimento si manifesta in modo palese dalle posture dei corpi.

Non importa se sono ufficialmente impegnati, immorosati (come si dice a Bologna) o fidanzati. Quello che conta è che vivono spontanei; per una volta non hanno timore che il don li rimproveri. Infatti fumano, anche. Non tutti, ma alcuni, liberamente, in questo momento di relax al riparo dei bambini, fumano, recuperando immediatamente la loro tensione all’età adulta.

Nel frattempo si confrontano su come sia andata la giornata, talvolta anche aspramente. Ogni tanto pare che litighino. Il don, che cerca di supervisionare tutto senza ingerire, nutre qualche timore che le cose siano andate male.

Invece, appena i responsabili dichiarano chiuso il momento di verifica, partono le battute, tutti sorridono, arrivano i gelati e le merende, scattano tornei mondiali di calcetto, basket, pallavolo o il mitico schiacciasette. E pronti per una nuova giornata, si riparte.

Tre osservazioni

Da questa esperimento raccolgo alcune osservazioni.

1. Il sudore (che non è mai un problema) dice quante energie i giovani abbiano da tirare fuori. Penso a tre ambiti in cui quest’esperienza contrasta completamente con la vita di fede che offriamo loro.

a) La liturgia. Sembra che non ci sia niente di meno energetico o dinamico di una liturgia cattolica. Talvolta pare quasi che ci si compiaccia di una certa pesantezza e lentezza, come se fosse l’unico modo di elevarsi a Dio, quando invece è l’unico modo di schiacciare un sonnellino. E si vedono le energie dei giovani implodere, come se non desiderassero altro che questa tortura finisca al più presto.

b) Gli incontri di formazione. Più che di incontri, bisognerebbe parlare di modelli: i nostri modelli di formazione sono per lo più teorici, concettuali, mentali. È rarissimo che ci siano delle dinamiche che coinvolgano il corpo in maniera non artificiosa, e diventa quasi impossibile che l’esperienza della fede passi dalla mente al corpo, dalla testa alla vita.

c) La carità. Dovremmo trovare modi e tempi per proporre esperienze attive di carità, roba da fatica di muscoli e sudore sulla pelle. Qualcosa che però faccia poi toccare tangibilmente il frutto di questa fatica: l’incontro con la famiglia per la quale si è fatta la raccolta o l’utilizzo dello spazio che si è andato a risanare.

2. Il gruppo. L’incredibile differenza tra l’impegno dei giovani durante l’anno e quello nei centri estivi è la presenza di un gruppo molto numeroso. In questo fenomeno si riconosce il bisogno di coinvolgimento, ma soprattutto il sentirsi parte di qualcosa di più grande. Allo stesso tempo, si vede la necessità di fare un’esperienza di Chiesa che sia vivace e ampia, non ridotta agli spazi angusti del gruppo parrocchiale, che talvolta – pur con tutto il bene che porta – appare più che altro una riunione di sopravvissuti.

3. La responsabilità. Nelle mie evoluzioni da giovane cappellano (sempre in prima linea, armato di braghini corti, cappellino e t-shirt degli animatori) a parroco (costretto, volente o nolente, a delegare molta responsabilità), ho visto che i giovani, accordandosi fra di loro e guidati da qualcuno appena più grande, sono in grado di fare cose impensabili se solo solo gliele chiedesse il parroco, tipo lasciare il cellulare per un’intera giornata, darsi appuntamento prestissimo al mattino, dividersi fra di loro per essere più distribuiti nel pranzo o nelle varie attività. È il prodigio della responsabilità consegnata, quella molla che ti fa capire che vali, che la tua presenza è importante, che puoi fare la differenza. Forse, da questo laboratorio di osservazione, possiamo quindi anche ricordarci che niente è così decisivo, nella formazione dei giovani e nella loro esperienza di fede, quanto la consegna di un ruolo da protagonisti.

Conclusione

Sono le 8 di sera. Sono passate quasi due ore dall’inizio dell’osservatorio sperimentale. Il don è andato a dire la messa ed è tornato per salutare gli ultimi rimasti. Negli occhi dei responsabili nota la stanchezza, ma anche la soddisfazione per un altro giorno messo a bilancio… e un po’ di questo orgoglio lo condivide con loro. Ancora qualche accordo per una birra o un gelato alla sera, poi tutti si disperdono… “Ciao don, a domani”.

“Ciao, a domani!”. Il portone si chiude e anche il cancello del cortile. “Ehi, sono rimasti fuori i palloni! E i vassoi della merenda?! Quante volte vi ho detto di rimettere a posto i vassoi della merenda!?”. Sbam! Sbatte una finestra del primo piano che non è stata chiusa. “Chi va a chiudere?”. Il don si guarda intorno, ma ormai non c’è più nessuno. “Accidenti!”.

Il virus ormai ha terminato il suo effetto. Almeno per oggi non sono più infetti e, per fortuna, nemmeno perfetti.

Don Davide

 

Testo scritto per SettimanaNews l’8 agosto 2017




La felicità è un’impronta

L’orma del sedere sul divano, o l’impronta del piede sulla strada?

Sembra questa la posta in gioco del papa nella sua partita con i giovani. L’anno scorso, durante la GMG a Cracovia, aveva già parlato della “divano-felicità”: “la tentazione di pensare che la felicità dipenda da un buon divano”. L’aveva definita “la paralisi silenziosa che può rovinare di più la gioventù” e si era lamentato di quei giovani che vanno in pensione dalla vita a vent’anni.

Come un abile giocatore di poker aveva detto: “Ci sto, gioco!”. Aveva messo sul piatto un bel centone e aveva provocato i giovani a raccogliere la sfida. E loro, i giovani, l’hanno fatto. In mille modi, da Cracovia al recentissimo incontro a Milano, hanno risposto all’appello, trascinando il papa a tirare fuori le sue migliori energie, e raccogliendo parole e suggestioni che in più di un’occasione sono parse indimenticabili.

Ma ora che è finito il primo giro, il papa si prepara a vedere le carte. Anzi, rilancia sullo stesso tema: “Maria non era una giovane-divano!” dice nel suo videomessaggio per la Giornata mondiale della Gioventù di quest’anno. Implicitamente, chiede: e voi? Sembra quasi di sentirlo, con la sua tipica inflessione spagnoleggiante: Non siatelo anche voi, dai!

Il montepremi che papa Francesco, come i migliori e più temibili giocatori di poker ha fatto accumulare, è niente di meno che la felicità. Dando come tema il grido di esultanza di Maria che apre il Magnificat: “Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente” (Lc 1,49), ha ricordato ancora una volta ai giovani che non c’è esperienza della felicità possibile, se non restituendo ciò che Dio ha fatto per noi. Non seduti sul divano, ma mossi dall’entusiasmo e dalla gratitudine! Viene in mente la terribile immagine di Nietzsche dell’Ultimo Uomo, “il più spregevole”, quello che siede in poltrona, strizza l’occhiolino e dice: “Noi abbiamo inventato la felicità!” (Così parlò Zarathustra, Prefazione, par. 5). Ci possiamo illudere che la felicità sia lasciare la nostra bella orma calda sul divano, ma non è invece la nostra vita un desiderio quasi inconfessato di lasciare un’impronta? Il papa dice: c’è un modo di farlo bene, con onestà, non schiacciati da inutili ambizioni.

La felicità non è già data una volta per tutte, è itinerante, si scopre nel cammino, cambia di forme, si accompagna all’inedito. La tradizione della Chiesa ci consegna l’Eucaristia come cibo dei pellegrini: nutriti da questo cibo, che ci fa rendere lode e trasformare in salvezza ogni giorno il vissuto quotidiano, siamo invitati a saltare giù dal divano e lasciare la nostra impronta nel mondo.

Don Davide




I giovani, maestri dell'”et et”

Celebriamo la Veglia, che non è breve, con le sette letture in versione integrale e i salmi cantati. Alla fine, ci si ritrova tutti a mangiare una colomba e un uovo di cioccolato. Ben oltre la mezzanotte le due ragazze si avvicinano per salutarmi: «Noi ci fermiamo solo un attimo, perché abbiamo una festa…».

Quattro pensieri

Primo pensiero: «Una festa? A quest’ora?! Dopo la Veglia di Pasqua?!».

Secondo pensiero: «E perché no?!».

Terzo pensiero: «Hanno celebrato la festa con la comunità cristiana. Cosa dovrebbero fare di più? Dovrebbero andare a casa a mantenere il clima spirituale?!».

Quarto pensiero: «Proprio ieri sera, Venerdì Santo, moltissima gente della mia parrocchia è venuta alla Commemorazione della passione di Gesù, e poi è andata a vedere il derby cestistico cittadino…».

Lo confesso: il derby il Venerdì Santo è una condizione limite. Il giovane parroco, che ha la chiesa affianco al Palazzo dello Sport, aveva qualche riserva e non ha ceduto alla tentazione. Ma il resto… perché no?!

Retaggi

In un baleno divento consapevole dei retaggi della mia formazione: alcune cose, solo ad immaginarle, non eri un buon cristiano. E se eri un giovane e volevi essere cristiano, quasi quasi dovevi guardarli un po’ dall’alto in basso quelli che si divertivano veramente… E se proprio volevi essere “moderno” e “vivo”, al massimo pensavi di fare “balotta” (= festa in allegria, nello slang) in parrocchia.

In un baleno, mi si apre anche il cuore: ma che belli questi giovani, che non rinunciano alla Veglia Pasquale, e poi raggiungono i loro coetanei per divertirsi. E magari si trovano a rispondere alla domanda: «Come mai sei arrivato solo ora? Dov’eri?» – «Ero in chiesa, alla Veglia di Pasqua!». E fanno in un secondo quella nuova evangelizzazione riguardo alla quale noi (Chiesa istituzionale) sappiamo solo riempire dei documenti.

Riconosco in questi miei retaggi una tentazione a cui gli operatori pastorali spesso non sanno resistere: quella di fare proposte valide, ma in opposizione alla vita concreta dei giovani. Un esempio lo riscontro nella recente Marcia della pace che si è celebrata nella mia città: la sera del 31 dicembre 2016, occupando dal primo pomeriggio alla sera inoltrata. Era una bellissima iniziativa, e sappiamo che la chiesa celebra la Giornata mondiale della pace il primo gennaio. Ma mi chiedo: c’era proprio bisogno di porre un mare di giovani, appassionati della causa della pace, di fronte alla scelta se festeggiare l’ultimo dell’anno insieme agli amici, magari in cose organizzate da tempo, o partecipare all’evento? Avrebbe davvero perso così tanto di significato farla, ad esempio, il 6 gennaio?! Alla marcia, per nota di cronaca, c’era molta meno gente di quanta avrebbe potuto essercene.

L’uno e l’altro

Si potrebbe definire una regola: l’uno e l’altro, ossia del non creare opposizioni. Un conto è un sano atteggiamento penitenziale il Venerdì Santo, o nei momenti giusti. Un conto è l’arte del discernimento che ci educa – dentro percorsi e sapientemente – alla radicalità della fede. Un conto sono i retaggi.

Allora penso a quel meraviglioso principio della dottrina cristiana dell’et et che regge i migliori dogmi che ci siamo dati, da quello cristologico: «vero Dio e vero uomo», a quello sacramentale: «natura e grazia», fino alle dimensioni pratiche: «misericordia e giustizia».

Ricordo quando ai ritiri spirituali o ai campi estivi non potevi portare la musica… Oggi non c’è minuto della vita di un giovane che non sia accompagnato da una qualche canzone. Ci viene la tentazione di pensare che così siano dispersivi, che non tengano il raccoglimento, appunto… ma è tutto diverso. Magari stanno operando una nuova sintesi e nuovi processi interiori. Sequeri ha scritto che «la musica è il luogo di vero discorso per l’intelligenza degli affetti».[1] Loro elaborano qualcosa di cui i grandi sono analfabeti, e lo fanno da maestri dell’et et, laddove noi, ancora, culliamo nostalgie per l’out out, in nome di una presunta radicalità che non convince.

Quale nuova radicalità, invece, si può trovare in questa capacità di abitare spazi e attraversare mondi diversi? Con una certa naturalezza, loro – i giovani – rendono testimoniale la forma di vita ordinaria del cristianesimo, senza farla percepire importuna e inopportuna, ma anzi con un tratto di amicizia che porta il vangelo in quelle famose periferie dell’umano che, altrimenti, raggiungiamo solo nei nostri proclami pastorali.

Non è questo un modo di vivere l’incarnazione? Un vero segno dei tempi.

Don Davide

 


[1] Sequeri, Gregoriano contemporaneo, in «Luoghi dell’Infinito», n. 169, gen. 2013, 19-23, p. 22.

 

Testo scritto per SettimanaNews il 28 giugno 2017




Il cristiano e la città

Il cristiano non possiede la città, la serve.

Il nemico è l’individualismo

Il cristiano vuole combattere il vero nemico che è l’individualismo, il demone che ci mette gli uni accanto agli altri, ma senza gli altri. L’individualismo rende lontano o addirittura pericoloso quello di cui abbiamo tutti bisogno, il prossimo; oppure ce lo fa accettare solo come lo vogliamo noi e quindi ci fa allontanare chi non conosciamo, facendo crescere l’inimicizia.

Non vogliamo nemmeno un individualismo di campanile o di gruppo, che ci fa credere sufficiente alzare un muro per risolvere i problemi, che non accetta la complessità e la sfida di un mondo che è davvero piccolo e che entra anche nel nostro giardino. Il campanile ci aiuta a collocarci nel grande mondo, ma senza questo ci isola! Quanto sono prive di senso le beghe da campanile! E che responsabilità abbiamo, invece, verso i tanti che soffrono nel mondo! Solo imparando a stare assieme la città degli uomini vive e gli uomini con lei.

«L’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita che indebolisce lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone, e che snatura i vincoli familiari. L’azione pastorale deve mostrare ancora meglio che la relazione con il nostro Padre esige e incoraggia una comunione che guarisca, promuova e rafforzi i legami interpersonali. Mentre nel mondo, specialmente in alcuni Paesi, riappaiono diverse forme di guerre e scontri, noi cristiani insistiamo nella proposta di riconoscere l’altro, di sanare le ferite, di costruire ponti, stringere relazioni e aiutarci “a portare i pesi gli uni degli altri”» (EG 67).

L’individualismo produce nella città degli uomini tante patologie di solitudine. Basti pensare alle dipendenze. Uno degli inganni dell’individualismo è che illude di potere vivere bene da soli. Invece senza la comunità non c’è individuo. E la comunità non è una somma di individui! Non stiamo bene quando siamo isolati. La persona, l’uomo è relazione. Il male ci vuole divisi, magari con tutti i confort, ma individualisti. Anzi. Perché l’uomo è relazione e senza questa si perde, si dispera, si chiude. La Chiesa non vuole una città di individui senza il noi, ma una piazza dove impariamo tutti a riconoscerci ed aiutarci.

Indifferenza, sorella dell’individualismo

L’individualismo ha una sorella: l’indifferenza. Si trucca molto bene. Non la si distingue subito. Anzi. Qualcuno pensa che non la ha «perché soffro tanto» o che basti un po’ di bonomia per dimostrare interesse verso l’altro. L’indifferenza si rivela nel non fare, nell’accontentarsi (per gli altri!), nel difendersi con la logica di Caino: «A me che importa?», «io che c’entro?», «non è possibile!». Non fare niente, anche se con eleganza, fa sempre male!

A volte insinua il banale assuefarsi al dolore degli altri. «Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cf. Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, “zoppi, storpi, ciechi, sordi” (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo» (Discorso di Papa Francesco a Firenze). Piazze e ospedali da campo. C’è bisogno. La folla non può aspettare, ha bisogno di pane.

 

Don Davide




Discorso del Vescovo

Cogliendo la ricorrenza del Corpus Domini, nell’anno del Congresso Eucaristico, vorrei proporre in queste domeniche la lettura di alcune parti del discorso del Vescovo al termine dell’Assemblea Diocesana dell’08/06/2017.

IL CORPUS DOMINI E LA CHIESA IN USCITA

Oggi abbiamo allargato ancora di più il nostro dialogo. E questo è oggi il grande valore di questa Assemblea! Farlo è faticoso, ma è l’unico modo perché cresca tra noi qualcosa di vero e che ci unisca nel profondo.

La comunione è fondamentale per la Chiesa e per la città. Non vogliamo sia solo in alcuni momenti straordinari, come per esempio avvenne nel terremoto o di fronte a tragedie incancellabili come le ferite delle stragi che la nostra città porta.

Siamo nel pieno del Congresso eucaristico, un momento importante, con il quale misuriamo il nostro cammino. Siamo aiutati a contemplare il mistero della presenza di Cristo nell’eucaristia, di Dio che si offre, pane di amore, di vita che non finisce e che insegna a vivere, presenza che orienta e rafforza. Riscopriamo lo stesso corpo nei suoi fratelli più piccoli. Condividiamo il pane del cielo e questo ci aiuta a condividere quello della terra. Nella città si nasconde la presenza di Dio. I cristiani aiutano a svelare questa presenza e la cercano perché quella che contemplano nel mistero del Corpus Domini la riconoscono concreta nel Corpus pauperum e nel prossimo.

San Petronio è il nostro protettore. Di chi? Di tutti! L’amore dei cristiani non filtra mai gli interlocutori, non pone condizioni, fa sempre il primo passo verso il prossimo, non considera nessuno straniero. Tutta Bologna si identifica con lui e con questa sua casa da sempre civica, in un’appartenenza che unisce profondamente la Chiesa e la città degli uomini. La Chiesa non può pensarsi senza la città degli uomini. È il luogo in cui essa vive, potremmo dire, dove trova se stessa. Tutti, anche la Chiesa, capiscono chi sono solo incontrando l’altro e uscendo all’aperto.

Perché Petronio protegge? Non era certo il più potente secondo la logica di forza degli uomini! San Petronio protegge perché discepolo di Cristo, aiuta tutti, non si preoccupa di difendere il suo ma si preoccupa del noi e trasmette quella forza e quella intelligenza di amore che lo Spirito ha donato. Il cristiano non possiede la città, la serve.

[…]

Questa assemblea contiene le piazze di tutte le nostre città e paesi, anche i più piccoli. Tutte le comunità sono importanti e amate. A Gerusalemme i discepoli uscirono sulla piazza ed iniziarono a parlare e rendendosi così conto che sapevano parlare a tutti, che tutti ascoltavano e soprattutto capivano. Certo, all’inizio avevano paura, tanto che stavano chiusi, tra loro. Ci sarà stato chi pensava inutile uscire, che farlo li avrebbe confusi tanto che non avrebbero più saputo chi sono. Qualcuno avrà elencato tutti rischi possibili, i pericoli, invocando la necessità di restare al chiuso come se sono i muri a proteggere e non l’amore. Qualcun altro voleva un programma dettagliato, chiaro, definitivo, sicuro, per paura dell’imprevisto. Qualcuno pensava che il mondo non si meritava nulla, studiava solo le parole per spiegargli gli errori perché andava punito per quello che aveva fatto a Gesù. Qualcuno sperava di continuare le discussioni tra loro, perché prima bisognava finire quell’interminabile ma appassionante confronto su chi fosse il più grande oppure imparare bene quello che è necessario per affrontare la piazza. Qualcuno avrà pensato che tanto tutto era inutile, che non sarebbe cambiato nulla, che era meglio pensare banalmente a quello che li riguardava. Qualcuno si era attrezzato bene dalla finestra e osservava e giudicava tutto e tutti dalla sua stanza.

Lo Spirito, che è l’amore, spinge invece ad uscire. La Chiesa non vuole guardare da lontano, paurosa e orgogliosa allo stesso tempo. Anche se avessimo le idee giuste, senza l’incontro non nasce nulla. E l’incontro riguarda ognuno e tutte le nostre comunità. Se non siamo per strada, se non visitiamo, se non ascoltiamo, se non guardiamo negli occhi, se non tocchiamo, se non ci facciamo carico, non capiamo per davvero, il prossimo non ci capisce. Prossimità per riconoscere l’altro. E perché accada bisogna uscire da quelle mura che sono i pregiudizi, le abitudini, la scontatezza, il narcisismo religioso. Il luogo della comunità è la strada. Lì dobbiamo affrontare gli imprevisti, ma anche troviamo la nostra vera forza, quella per cui ogni incontro diventa grande se siamo piccoli, cioè umili.

Matteo Maria Zuppi,

Arcivescovo di Bologna

 

Continuiamo a proporre il discorso del Vescovo a conclusione dell’Assemblea Diocesana del Congresso Eucaristico, che ha un forte sapore programmatico per la pastorale della Chiesa di Bologna.

DUE NEMICI: INDIVIDUALISMO E INDIFFERENZA

Il nemico è l’individualismo

ll cristiano vuole combattere il vero nemico che è l’individualismo, il demone che ci mette gli uni accanto agli altri, ma senza gli altri. L’individualismo rende lontano o addirittura pericoloso quello di cui abbiamo tutti bisogno, il prossimo; oppure ce lo fa accettare solo come lo vogliamo noi e quindi ci fa allontanare chi non conosciamo, facendo crescere l’inimicizia.

Non vogliamo nemmeno un individualismo di campanile o di gruppo, che ci fa credere sufficiente alzare un muro per risolvere i problemi, che non accetta la complessità e la sfida di un mondo che è davvero piccolo e che entra anche nel nostro giardino. Il campanile ci aiuta a collocarci nel grande mondo, ma senza questo ci isola! Quanto sono prive di senso le beghe da campanile! E che responsabilità abbiamo, invece, verso i tanti che soffrono nel mondo! Solo imparando a stare assieme la città degli uomini vive e gli uomini con lei.

«L’individualismo postmoderno e globalizzato favorisce uno stile di vita che indebolisce lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone, e che snatura i vincoli familiari. L’azione pastorale deve mostrare ancora meglio che la relazione con il nostro Padre esige e incoraggia una comunione che guarisca, promuova e rafforzi i legami interpersonali. Mentre nel mondo, specialmente in alcuni Paesi, riappaiono diverse forme di guerre e scontri, noi cristiani insistiamo nella proposta di riconoscere l’altro, di sanare le ferite, di costruire ponti, stringere relazioni e aiutarci “a portare i pesi gli uni degli altri”» (EG 67).

L’individualismo produce nella città degli uomini tante patologie di solitudine. Basti pensare alle dipendenze. Uno degli inganni dell’individualismo è che illude di potere vivere bene da soli. Invece senza la comunità non c’è individuo. E la comunità non è una somma di individui! Non stiamo bene quando siamo isolati. La persona, l’uomo è relazione. Il male ci vuole divisi, magari con tutti i confort, ma individualisti. Anzi. Perché l’uomo è relazione e senza questa si perde, si dispera, si chiude. La Chiesa non vuole una città di individui senza il noi, ma una piazza dove impariamo tutti a riconoscerci ed aiutarci.

Indifferenza, sorella dell’individualismo

L’individualismo ha una sorella: l’indifferenza. Si trucca molto bene. Non la si distingue subito. Anzi. Qualcuno pensa che non la ha «perché soffro tanto» o che basti un po’ di bonomia per dimostrare interesse verso l’altro. L’indifferenza si rivela nel non fare, nell’accontentarsi (per gli altri!), nel difendersi con la logica di Caino: «A me che importa?», «io che c’entro?», «non è possibile!». Non fare niente, anche se con eleganza, fa sempre male!

A volte insinua il banale assuefarsi al dolore degli altri. «Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cf. Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, “zoppi, storpi, ciechi, sordi” (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo» (Discorso di Papa Francesco a Firenze). Piazze e ospedali da campo. C’è bisogno. La folla non può aspettare, ha bisogno di pane.

 Matteo Maria Zuppi,

Arcivescovo di Bologna

 

Continuiamo a proporre il discorso del Vescovo a conclusione dell’Assemblea Diocesana del Congresso Eucaristico, che ha un forte sapore programmatico per la pastorale della Chiesa di Bologna. – 3° parte.

 ACCOGLIENZA E CONDIVISIONE

Questa sera abbiamo ascoltato anche tanti problemi. Sono sempre nuovi. Noi non vogliamo affatto immaginare una città che non esiste e pensiamo che ogni città degli uomini può cambiare! E parlare dei problemi che ci sono non significa mai minimizzare le cose che facciamo già! Anzi. Siamo consapevoli di appartenere ad una delle regioni del nostro paese e dell’Europa con tantissima storia e più in crescita. L’accoglienza è la nostra forza e ereditiamo tanta sapienza umana e spirituale! […] Questo è il metodo con cui si possono affrontare i problemi. Finite le ideologie non vogliamo inizino i personalismi! E dobbiamo anche dire: quante occasioni sprecate, quando non dialoghiamo e sciupiamo i tanti mezzi per “scarsi e rachitici fini”.

Per noi la città degli uomini non potrà mai essere un luogo anonimo. Al contrario! (EG 210). «Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!».

Bologna e tante nostre città, scusate se insisto ancora su questo, da sempre hanno avuto, anche nella loro stessa caratteristica architettonica, il gusto di essere accoglienti e protettive per tutti, ad iniziare dal forestiero. Humanitas e Dignitas fanno tanto parte di essa. I portici altro non sono che i corridoi di questa casa comune.

Ecco cosa vuole la Chiesa, con fermezza e con tanta vicinanza. Perché Dio è nella città. (EG 71). «La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero, sebbene lo facciano a tentoni, in modo impreciso e diffuso».

Le nostre città sono cambiate. Per certi versi dobbiamo scoprirle di nuovo e interrogarci sul loro futuro e che cosa questo ci chiede! A Bologna ogni dieci anni cambia uno su cinque dei suoi abitanti! Quasi la metà degli appartamenti è abitata da un single. A Bologna risiedono 60.000 stranieri, che lo sono come definizione, ma non possono esserlo per i discepoli di Colui che si riconosce nei forestieri e dice che qualsiasi cosa abbiamo fatto a uno di loro la abbiamo fatta a lui. Ottomila ci sono nati e speriamo abbiano presto regole chiare per diventare anche di diritto quello che sono già, italiani.

C’è tanta mobilità. Ogni anno da Bologna vanno nell’area metropolitana più di 4.000 persone. La mobilità spesso significa anonimato.

Non possiamo accontentarci di risposte burocratiche. Queste sono le più pericolose, perché danno la convinzione, la presunzione, di avere fatto. C’è tanta sofferenza nascosta. La vediamo solo se ci fermiamo, se andiamo vicino, se non la accettiamo come normale o se non aspettiamo solo che passi.

Quante sfide! Quanta insopportabile ineguaglianza. Sentiamo la passione che nasce dalla sofferenza di tanti!

Matteo Maria Zuppi,

Arcivescovo di Bologna

 

Continuiamo a proporre il discorso del Vescovo a conclusione dell’Assemblea Diocesana del Congresso Eucaristico, che ha un forte sapore programmatico per la pastorale della Chiesa di Bologna. – 4° parte.

IL VANGELO CHE POSSIAMO ESSERE NOI

Oggi diciamo che le risposte dipendono anche da noi! L’invito di dare da mangiare è rivolto a “voi”. Cioè “noi”. «Voi stessi date loro da mangiare». In un momento in cui è facile credere che il problema non ci riguarda o che debbo pensare a me, la Chiesa vuole dire che sente tutta la responsabilità di trovare il pane per chi ha fame e che lo offre gratuitamente.

La gratuità è una dimensione fondamentale per vivere bene nella città, soprattutto quando sembra che tutto abbia un prezzo e il consumismo ci ha reso tutti più diffidenti e calcolatori. La gratuità non è un problema di mezzi! Mi ha sempre sorpreso l’avarizia dei ricchi! La Chiesa ha sempre solo cinque pani e due pesci, ma crede che solo dividendo il pane si moltiplica. Vorremmo che tutti possano contemplare nelle nostre comunità e nelle nostre persone quel volto di una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza che papa Francesco ha indicato come programma alla Chiesa italiana.

Lo aspettiamo qui a Bologna, in quella che sarà la prima giornata della Parola e la conclusione del nostro CED. La Parola da cui nasce e si ricrea tutto, voce di quel Corpo che contempliamo! Vorremmo che il 1° ottobre ci confermi in questa scelta e vogliamo presentargli una Chiesa così. «Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà. L’umanesimo cristiano che siete chiamati a vivere afferma radicalmente la dignità di ogni persona come Figlio di Dio, stabilisce tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria e l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura», ci chiedeva a Firenze. Farlo inizia da chi resta ai margini. Le nostre comunità possono essere ancora di più una geografia affettiva nella città per tanti che hanno bisogno di protezione e relazione. La Chiesa non pensa affatto in termini buonisti, come quelli che in nome di falsa misericordia fasciano le ferite senza prima curarle; che assistono, ma senza capire e combattere le cause e senza trovare le soluzioni, anche a costo di sacrificio.

Abbiamo bisogno di vere belle notizie! Non sono quelle che hanno gli onori della cronaca, ma quelle che cambiano la vita per davvero. Tutti possiamo dare questa bella notizia. Infatti c’è in ogni uomo il desiderio di essere accolto come persona e considerato una realtà sacra, perché ogni storia umana è una storia sacra, e richiede il più grande rispetto.

Diceva papa Benedetto: «La città, cari fratelli e sorelle, siamo tutti noi! Ciascuno contribuisce alla sua vita e al suo clima morale, in bene o in male. Nel cuore di ognuno di noi passa il confine tra il bene e il male e nessuno di noi deve sentirsi in diritto di giudicare gli altri, ma piuttosto ciascuno deve sentire il dovere di migliorare se stesso!

I mass media tendono a farci sentire sempre “spettatori”, come se il male riguardasse solamente gli altri, e certe cose a noi non potessero mai accadere. Invece siamo tutti “attori” e, nel male come nel bene, il nostro comportamento ha un influsso sugli altri. Spesso ci lamentiamo dell’inquinamento dell’aria, che in certi luoghi della città è irrespirabile. È vero: ci vuole l’impegno di tutti per rendere più pulita la città.

E tuttavia c’è un altro inquinamento, meno percepibile ai sensi, ma altrettanto pericoloso. È l’inquinamento dello spirito; è quello che rende i nostri volti meno sorridenti, più cupi, che ci porta a non salutarci tra di noi, a non guardarci in faccia… La città è fatta di volti, ma purtroppo le dinamiche collettive possono farci smarrire la percezione della loro profondità. Vediamo tutto in superficie. Le persone diventano dei corpi, e questi corpi perdono l’anima, diventano cose, oggetti senza volto, scambiabili e consumabili. La più bella notizia per noi è Gesù. Lui ci insegna a credere e ad essere noi stessi, tutti, una buona notizia di amore per gli altri, per i tanti che abitano la città degli uomini.

Abbiamo bisogno di buone notizie, vere, per combattere la paura e per prevenire il male. Non vogliamo restare prigionieri della disillusione che porta ad accontentarsi e a non cercare il futuro. Siamo in un tempo di paura. I rischi, le minacce, la crisi, i mutamenti. Noi vogliamo costruire oggi quello che saremo domani.

Matteo Maria Zuppi,

Arcivescovo di Bologna

 

Siamo arrivati alla conclusione del discorso del Vescovo all’Assemblea Diocesana del Congresso Eucaristico, che ha un forte sapore programmatico per la pastorale della Chiesa di Bologna. – 5° parte.

 SIAMO SOLO ALL’INIZIO

Il cristianesimo è vicinanza, comunità, popolo, insieme. La missione è incontro e costruzione di amicizia su scenari del mondo che si scoprono nuovi o almeno rinnovati. Vogliamo trasformare deserti in foreste! Quanti deserti nelle città. Avvicinarsi a qualcuno è sempre un rischio, ma anche un’opportunità: per me e per la persona alla quale mi avvicino. Facciamo che non manchi mai la relazione, la prossimità, cioè l’amicizia sociale. Il nostro parlare sia semplice e amico verso tutti. Apriamo il cuore.

La prima bella notizia possiamo essere ognuno di noi, con il nostro sorriso, con la nostra gentilezza, con la visita, con l’ascolto, con l’elemosina, con l’aiuto concreto. Non restiamo sempre ad aspettare, non calcoliamo tutto, non restiamo diffidenti e non ci arrendiamo alle prime difficoltà. Vogliamo città degli uomini dove tutti si comprendano e nessuno sia straniero.

I prodigi della Pentecoste che si possono realizzare sono una solitudine sconfitta, l’abbandono riempito, lo scarto che diventa al centro delle attenzioni, lo straniero che diventa un fratello, un disilluso che rinasce. Questo non è il libro dei sogni, ma proprio i cinque pani che già abbiamo, che non dobbiamo andarci a cercare e possiamo distribuire a tutti.

Niente è impossibile a chi crede! Apri le porte del cuore e il mondo si aprirà all’amore. Non avere paura di sbagliare, non fare nulla è il vero sbaglio. Non cercare subito i risultati. Farlo è già la risposta e l’efficacia! Noi non siamo dei volontari che si sacrificano, ma operai di umanità toccati dall’umanità di Gesù.

Chiesa e città sono compagni di viaggio, che tendono alla stessa meta di salvare la persona. Il dialogo di oggi non è una tattica o una strategia. È la visione del futuro e la scelta di iniziare a costruirlo. Sento la consolazione di vedere già tanti frutti, la conferma del talento che abbiamo e anche di come i cinque pani regalati sfamano tanti e producono frutti di accoglienza, di solidarietà.

Sento l’urgenza di farlo per i tanti che aspettano. Sarà la sfida del nostro futuro. Sento anche la gioia di poterlo fare e di poterlo fare assieme, anche se a volte la fatica e la stanchezza ci invitano a chiuderci. Diceva spesso mons. Capovilla: «Tantum aurora est». Sì, siamo solo all’inizio.

Matteo Maria Zuppi,

Arcivescovo di Bologna




Pentecoste

Pentecoste: si compie la rivelazione della Pasqua e si compie, nel vero senso della parola, un lungo e denso cammino che ha riguardato la nostra comunità.

Vale la pena di ripercorrerlo, perché ha coinvolto quasi tutto il tempo liturgico di Pasqua: le Cresime dei nostri ragazzi, la festa della B. V. della Salute con la processione delle “due” Madonne, i due turni delle Prime Comunioni che ci hanno fatto intenerire e la festa di don Valeriano. Senza contare tutto il “prima”: dall’inizio della Quaresima, in stato di nomadismo, per la messa in sicurezza della nostra chiesa principale, è stato davvero un anno pieno.

E anche oggi abbiamo due cammini che si compiono, segnando un traguardo e un nuovo inizio.

Padre Alberto ci saluta, dopo 17 anni di servizio encomiabile nella nostra comunità. La sua disponibilità parla da sola. Ma soprattutto vorrei sottolineare la dedizione alla Confessione, che per molti era diventata un punto di riferimento sicuro nel proprio cammino spirituale. Padre Alberto ha fatto amare e toccare con mano l’esperienza della riconciliazione a tantissimi di noi, e questo è il regalo più grande che ci ha fatto, di cui non lo ringrazieremo mai abbastanza. Il suo percorso con noi finisce, ma inizia un nuovo ministero, ancora più immerso in presa diretta nella vita pastorale, e noi siamo sicuri che lo Spirito continuerà a ravvivare i tanti suoi carismi a servizio della comunità in cui viene mandato.

Oggi si compie anche il percorso di catecumenato di Ylenia Abigàil, che riceve e celebra i sacramenti dell’Iniziazione Cristiana. Siamo contenti di avere l’onore di accoglierla noi nella Chiesa, attraverso la nostra parrocchia. La gioia di vedere che lo Spirito continua a fare nascere nuovi cristiani è incomparabile. Garantiamo anche a Ylenia la nostra preghiera, e che qui in parrocchia si potrà sentire sempre a casa propria.

L’effusione dello Spirito sulla Chiesa, in questo giorno di Pentecoste, compie spiritualmente anche il cammino del Congresso Eucaristico. Lo Spirito Santo spinse gli apostoli ad uscire dal Cenacolo e a testimoniare Gesù con coraggio e con forza di persuasione. Gli incontri erano diventati un’occasione per la presenza del Regno.

Lo stesso fa lo Spirito con la Chiesa di Bologna oggi e, segnatamente, vogliamo pensare che lo faccia con la nostra parrocchia.

Accogliamo volentieri il dono della pace, con una certa serenità non presuntuosa di avere fatto il nostro lavoro. Ringraziamo il Risorto per la responsabilità di essere una comunità che cerca di riconciliare e di vivere la comunione. Con gratitudine guardiamo indietro e con coraggio avanti, chiedendo ancora la forza e l’entusiasmo per uscire, incontrare e testimoniare.

Don Davide




Ascensione. Essere in Cristo

Caro don Valeriano,

sarebbe giusto che questa lettera aperta, in un’occasione così speciale, fosse indirizzata a te, invece voglio dedicarla alla nostra comunità.

Se non mi sbaglio, secondo le regole della grammatica, nostra è un pronome possessivo, ma in questo caso non indica alcun possesso, bensì appartenenza. È la nostra comunità, nel senso che ne facciamo parte, che le apparteniamo, e come preti prestiamo in essa e per essa il nostro servizio.

È profondamente appagante sentire questo “nostra” così vero: in questi giorni mi ha fatto pensare che – al di là di quello che si vede o delle nostre valutazioni pastorali (spesso dettate da un giudizio solo umano e poco capace di riconoscere il corso segreto degli affetti) – in cinquant’anni tanti semi piantati con larghezza portano frutto e crescono. Quello che si raccoglie magari non sono i grandi successi pastorali, o i modelli di una chiesa trionfante, ma la qualità delle relazioni e la consapevolezza del valore di legami umani e spirituali tessuti nel corso di una vita.

È la meravigliosa realtà che Paolo descrive con l’essere in Cristo, ossia quel vincolo di comunione che costituisce la comunità, ben al di là dei legami visibili e ne fa una cellula del Regno di Dio.

Allora riprendo questo testo da capo e ricomincio così:

Cara Comunità,

non so davvero come ringraziarti per l’impegno di questi giorni, e in generale in questo maggio di fuoco.

Come parroco, alcune volte ho lo scrupolo di chiedere troppo. Poi vedo tanto entusiasmo, così tanta disponibilità e provo semplicemente a godermi questo fiume di gratuità che scorre e sana, e disinfetta la vita.

Sapete, alcune volte mi capita ancora di parlare del “parroco” e di pensare a don Valeriano. Non penso che sia mancanza di responsabilità o velleità di sfuggire al mio ruolo, ma solo l’esperienza affettuosa di sentire una presenza affidabile che mi fa compagnia.

Guardando la passione e la partecipazione di questi giorni penso che succeda lo stesso anche a voi e ne sono felice.

Nel riconoscere questi cinquant’anni di dedizione alla chiesa di don Valeriano, io penso anche a ciascuno di voi: ai ragazzi che fanno gli esami, a quelli che hanno assunto i primi incarichi nella nostra comunità, a quelli che hanno compiuto diciott’anni, a chi inizia l’università e a chi la finisce, a chi inizia o cambia il lavoro, a chi si fidanza, chi sceglie di sposarsi, chi vive giorno dopo giorno la sua fedeltà, chi cambia la vita perché sono arrivati dei figli, chi festeggia gli anniversari, o la pensione o, più semplicemente, il raggiungimento di qualsiasi obiettivo, o l’adempimento di un impegno.

Penso ad ogni traguardo, insomma, piccolo o grande, della vita o di questo tempo presente, con la consapevolezza che sono tutti  rispecchiati in quello di don Valeriano e nella grande partecipazione della nostra comunità.

Don Davide




Il Crocicchio: 50° di Don Valeriano

CINQUANT’ANNI DI PRETE

La figura ministeriale del prete è stata spesso ingessata in un ruolo istituzionale, al punto che in passato ci si è divisi in clericali (nel senso di favorevoli ai preti) e anticlericali. Oggi questa distinzione è molto più variegata e meno polarizzata, perché la figura del prete appare in decadenza: ci sono poche vocazioni, il ministero non è ben definito e, salvo qualche residuo atteggiamento ossequioso, al ruolo del prete non è più riconosciuto di per sé alcun valore o prestigio. La situazione non varia che la si pensi fuori dalle parrocchie o all’interno. Posto che ormai la porzione all’interno delle parrocchie descrive una piccolissima minoranza, quasi irrilevante in termini di statistica generale, anche nelle parrocchie bisogna registrare che il prete non ha più uno status ufficiale, legato al ruolo: c’è chi lo apprezza e chi preferiva quello precedente; c’è chi spera che non vada mai via e chi non vede l’ora che arrivi quello nuovo; ci sono quelli che lo criticano perché essendo giovane è troppo “moderno” e quelli che, invece, essendo anziano lo ritengono troppo “vecchio”. Poi ci sono quelli che lo vorrebbero più in chiesa e quelli che lo vorrebbero un prete di strada, e quelli che “il parroco non va mai a trovarli” e gli altri che vanno in ufficio e “il parroco non c’è mai”.

Si potrebbe andare avanti quasi all’infinito con questa buffa e a dire il vero troppo stereotipata rassegna, che però ha il pregio di mettere in luce la fisionomia sfumata, poliedrica, sovraccarica di aspettative e necessariamente “liquida” del ministero del prete oggi.

Di fronte a queste considerazioni però, possiamo cogliere il motivo profondo di fare festa a un prete come don Valeriano che da cinquant’anni svolge il suo ministero con fedeltà, spirito di servizio e impegno. Così come nella vita di un laico c’è una grandezza che tante volte si dà per scontata, ma che spesso è sotto gli occhi di tutti – quando ad esempio si pensa alla cura dei figli, alla capacità di muoversi tra i mille impegni quotidiani, all’assumersi le responsabilità della vita o all’accudire i genitori diventati anziani mentre tutto gli altri impegni rimangono e si intensificano – allo stesso modo anche nella vita di un prete c’è un tratto umile, ma che dovrebbe suscitare meraviglia e gratitudine.

Spero che sia chiaro che non è una questione di fare dei confronti, ma di vedere il reale e di capire l’importanza di celebrare un anniversario.

Si pensi all’impegno di un prete, quando cambia il ministero o la parrocchia, di amare realmente persone che ancora non si conoscono, volti che non rappresentano una storia, mentre hai un bagaglio di affetti a cui hai dato la vita, che ti lasci alle spalle. Si pensi a un parroco come don Valeriano che è stato per più di due decenni alla guida di una comunità, cedere il posto a un giovane rampante di quasi quarant’anni più giovane di lui, accoglierlo, accettare il confronto, indulgere ai suoi errori, portare pazienza con ciò che, inevitabilmente, chi viene dopo non può conoscere. Si pensi al logoramento di energie che rappresenta la guida di una comunità cristiana, che non è un’azienda con dei dipendenti, ma una comunità, appunto, in cui devi continuamente tessere relazioni, coinvolgere, suscitare partecipazione, delegare, guidare, accogliere le differenze e fare spazio a ciò che tu magari non faresti mai, e lo puoi fare solo dando tutto te stesso in ogni frangente.

A questo, si aggiunga la cura certosina per custodire un celibato autentico, che faccia fiorire la capacità di amare e non l’atrofizzi, o che cosa significhi per l’unità emotiva di un uomo amare non una persona o una famiglia, ma molti (se non proprio tutti), sempre diversi, ciascuno in un modo singolare e adatto.

Infine, si provi a fare un’ultima considerazione, che suggerisco con una specie di gioco, seguendo la vita e il ministero di don Valeriano attraverso le decadi.

Nel 1967, quando è stato ordinato don Valeriano, si era all’alba di quella che è stata definita, da alcuni sociologi, la vera cesura tra due epoche e la chiesa cambiava volto dopo la celebrazione del Concilio Vaticano II. Immaginiamo un giovane prete, con l’educazione del seminario e il vento nuovo in poppa, inserirsi in una parrocchia dove l’impostazione pastorale e il rapporto con il parroco (allora c’erano ancora i cappellani!) erano rigidamente impostati su modelli pastorali fissi da quasi cent’anni. Don Valeriano, ad esempio, racconta spesso i rientri in canonica di soppiatto per non svegliare il parroco don Brini, dopo le “fughe” con i ragazzi a giocare a pallone…

Passiamo a dieci anni dopo. Di recente mi hanno raccontato che nel 1977 si fece la processione del Congresso Eucaristico con l’Eucaristia scortata dalla polizia in assetto antisommossa e i carri armati per le strade di Bologna. Erano gli anni in cui si interrogava (già allora!) su una nuova evangelizzazione e su come far sì che una rinnovata celebrazione dei sacramenti potesse costruire la comunità cristiana.

Nel 1987 c’erano i Duran Duran, poco dopo sarebbe caduto il muro di Berlino, c’era stato il referendum sull’aborto all’inizio del decennio e la vita delle parrocchie cominciava a sembrare di un altro pianeta rispetto alla vita “del mondo”. E i preti lì, a cercare di reinventarsi, di proporre qualcosa che intercettasse la vita dei giovani; e giù a fare i campi estivi e a realizzare le prime tracce di quella che sarebbe poi diventata l’Estate Ragazzi.

Nel 1997 erano comparsi i computer e i cellulari. Io ero in seminario e, a dispetto di questa ventata di modernità, in seminario erano entrambi vietati: tanto per dire che rappresentazione del mondo c’era ancora all’interno delle strutture della chiesa. L’Estate Ragazzi era diventata un meccanismo imponente e a Bologna si celebrava con una certa grandeur il Congresso Eucaristico Nazionale, direi beffardamente quasi per prendere commiato dalla rilevanza pubblica della vita della chiesa. In quegli anni, si cominciava a intuire nitidamente che serviva una riforma delle parrocchie, che i preti sarebbero diventati pochi, pochissimi, praticamente scomparsi nel giro di poche decine di anni, ma si scelse di andare avanti col paraocchi, come chi sta cadendo dal grattacielo e dice: “Fin qui tutto bene, andiamo pure avanti…”.

Nel 2007 era appena stato inventato l’iPhone, se non eri su Facebook eri già considerato un apolide e il primo video su YouTube era stato caricato due anni prima: i cellulari e i computer erano diffusi a livello planetario e non erano più vietati nemmeno in seminario. Il Congresso Eucaristico Diocesano di quell’anno non se lo ricorda praticamente nessuno, ci si cominciava a disperare che non c’erano più cappellani (io che avevo appena iniziato il secondo incarico ero considerato un marziano due volte, perché non avevo ancora Facebook…) e si intravedeva la fine della chiesa italiana, o almeno bolognese, perché la nostra preghiera per le vocazioni (solo quelle sacerdotali, beninteso!) non veniva ascoltata…

Poi siamo arrivati ad oggi: don Valeriano non è più parroco, ma è ancora un grande prete, la tv non si guarda più perché trovi tutto su YouTube, se parli con i ragazzi Facebook è già vecchio, la politica – si dice – è finita (ma io non sono d’accordo), pare che abbiamo molti problemi col gender, e c’è papa Francesco che ci invita ad uscire e guida la Chiesa con inedita profezia…

Attraverso questo percorso, i preti come don Valeriano sono passati dall’invito a curare il gregge a quello di uscire fuori; dall’impegno a rinnovare la catechesi a vedere che non ci sono nemmeno i presupposti per la catechesi e che bisogna fare invece primo annuncio; da una pastorale dottrinale alla dottrina della pastorale. E in tutti questi passaggi, sono stati lì, a cercare di guidare le loro comunità, accompagnare decine e decine di generazioni nei sacramenti e nei passaggi decisivi della loro vita, a volere bene a migliaia di persone, ad adattarsi continuamente e, quasi ottantenni, a reinventarsi, aggiornarsi, sforzarsi di stare al passo, alcuni con ancora il peso della comunità sulle spalle. E mentre dicono il breviario usando lo smartphone e pensano al sito internet della parrocchia, fanno ancora le Quarant’ore, benedicono i santini, le uova e l’ulivo, ascoltano le persone, assolvono nuovi e antichi peccati, organizzano la processione con la Madonna e la Sagra del Tortellone (no dai, quella da noi no!); il tutto con l’invito ad abbondonare le sagrestie e la nobile grandezza della chiesa trionfante per andare nelle strade e fare della chiesa un ospedale da campo, sollecitati a superare gli schemi che per anni hanno dovuto difendere e a vivere come grazia un tempo che da tutti è considerato di crisi.

È per questa fedeltà umile e duttile, oggi simbolicamente espressa da don Valeriano nel suo esserci sempre, in chiesa e al servizio della nostra comunità, che noi lo festeggiamo, lo ringraziamo e celebriamo i suoi cinquanta anni di ordinazione presbiterale, perché in tutti questi anni attraverso il cambiamento del mondo, alla sequela del Buon Pastore e nella giovinezza dello Spirito, ha saputo trovare il tempo e lo spazio per le persone e per la Chiesa.

 

PICCOLA STORIA SEMI-SERIA DELLA “CARRIERA” DI DON VALERIANO

Don Valeriano è nato il 27/11/1938 a San Lazzaro di Savena. Per sei anni ha vissuto alla Croara, con i suoi genitori Enrico e Ida e i suoi fratelli Livio e Ada, finché le ultime bombe della guerra non lo hanno costretto a diventare un “cittadino”. Segno premonitore che sarebbe diventato parroco di una delle parrocchie più belle e importanti del Centro storico?

Nelle case popolari di Via Pier Crescenzi 30, ha conosciuto Padre Marella, che teneva l’oratorio nel cortile, e il giovane Valeriano cominciò così ad assimilare i tratti di una vita santa. Sempre seguito e accompagnato da Padre Marella, a sedici anni entrò nel Seminario di Pennabilli e poi in quello di Senigallia, e qui iene da porsi le prime domande: ma a Bologna non lo volevano?

Finalmente ritornò nel Seminario della sua città per la formazione teologica, fino al fatidico giorno dell’Ordinazione, il 25/07/1967, per la preghiera e l’imposizione delle mani del Card. Giacomo Lercaro, insieme a una bella schiera di preti in gamba, segno inconfondibile di un marchio di qualità.

Dopo l’ordinazione tornò nella sua parrocchia dei SS. Filippo e Giacomo, a fare il cappellano scavezzacollo, che portava i ragazzi a giocare a pallone e in gita quando il parroco Don Brini li avrebbe voluti in chiesa, in ginocchio a pregare. Ha fatto il cappellano per otto anni e mezzo, poi la sua carriera è un susseguirsi di prestigiosi incarichi e riconoscimenti: Parroco a S. Martino in Pedriolo per tre anni, poi nel 1978 Parroco a Santa Maria della Quaderna per tredici anni (mentre, in quel di Rastignano, un ragazzino di nome Davide diventava un adolescente molesto); nel frattempo Vice Assistente diocesano degli adulti di Azione Cattolica, Assistente diocesano del C.S.I., Amministratore del Quindicinale diocesano Insieme Notizie (il predecessore di Bologna7) e Co-visitatore nelle visite pastorali del Card. Biffi alla Diocesi.

Dal 12/01/1992 al 29/11/2017 è stato Parroco in carica della Parrocchia di S. Maria della Carità, che è tutt’ora la sua casa e la quale gode di avere un parrocchiano tanto illustre.

Don Davide

 

UN BUFFETTO E UNA FRASE IN DIALETTO

Mi è stato dato l’incarico di scrivere un articolo sul mio rapporto con don Valeriano. Da dove cominciare?

I miei primi ricordi di don Valeriano risalgono a quando ero ancora una bimba con i capelli cortissimi che andava alla materna. Ricordo che quando ero piccola, finita la Messa, ogni domenica, mio nonno mi prendeva per mano e mi diceva: “Andiamo a salutare don Valeriano” e lo diceva con un tono quasi solenne, come se parlasse di una persona importante. Arrivavamo poi in sagrestia e non importava quante persone ci fossero prima di noi a salutarlo: mio nonno aspettava finché non aveva potuto almeno stringergli la mano e avergli fatto un sorriso ed io mi guadagnavo dal don quasi sempre un affettuoso buffetto sulla guancia. Già da piccola, mi ricordo, mi aveva stupito quel suo grande sorriso affettuoso che non nega  mai a nessuno.

Don Valeriano é sempre stato per me, e credo per tutta la comunità, una presenza costante, ma non invadente: uno di quei capitani non autoritari, che lascia la possibilità ai suoi “sottoposti” di esprimersi e di sbagliare, ma sempre dietro di noi, presente e pronto a portare il suo aiuto quando necessario. É una persona che ho sempre ammirato per la sua ponderatezza e la sua calma: penso di non aver mai avuto la sensazione che don Valeriano si stesse alterando. Ha un modo di porsi scherzoso, ma non ridicolo, con cui conquista tutti e con cui ti fa sentire come a casa.

Ho sempre provato per don Valeriano un grande affetto sincero, come quello che si prova per il proprio nonno.

Sono profondamente convinta che, se in tutti questi anni di servizio all’interno della nostra comunità, nonostante le difficoltà, io non abbia mai mollato, sia in gran parte merito di don Valeriano. Mi é capitato spesso di arrivare in ufficio con un umore inquieto, con dell’insoddisfazione, a volte addirittura arrabbiata e don Valeriano é sempre stato capace di fare breccia nella negatività che portavo e di tranquillizzarmi. Non gli sono mai serviti paroloni o grandi concetti astrusi: é sempre bastato un “Mò Giòglia! Lassa ban ster! Te fat ban!” ed improvvisamente mi ritrovavo a ridere e mi sentivo sollevata. É sempre stato capace di sedare quei piccoli litigi che, ogni tanto, avvengono in una comunità grande come la nostra, e senza mai far uscire una delle due parti come “perdente”, ma cercando di trovare un compromesso che non penalizzasse nessuno.

Don Valeriano é sempre stato per me un punto di riferimento, quando avevo qualcosa che non sapevo bene come organizzare o c’era una qualche vicenda in parrocchia che sentivo più grande di me, andavo sempre da lui. Penso che il don sia una delle persone col cuore più grande che conosca: é stato presente per me e per la mia famiglia in momenti molto difficili e non ci ha mai fatto mancare parole di supporto e di conforto e penso che questo possa confermarlo ogni parrocchiano.

Don Valeriano é, per me, come un secondo nonno, quello che quando ti vede ti dice “Giòglia! Cum stet?!”, oppure quello che quando arrivava nello studio ed io ero lì a fare del caos mi diceva “Beh Giòglia; ban c’sa fet?!”, o quello che ancora, se metto i jeans strappati, quando mi vede mi dice: “Beh ma cus el qal brot lavurir lè?!”.

Don Valeriano per me significa tanti bei ricordi: le volte in cui mi vedeva a catechsimo da piccola e mi chiedeva “Stai facendo bene?”, tutte le coppe ACR alla fine delle quali lui faceva le premiazioni, le preghiere mattutine ad Estate Ragazzi, le chiacchiere durante le piccole pause ristoratrici nelle intense giornate di Estate Ragazzi e tanti altri.

A don Valeriano devo molto, come persona, come catechista e come cristiana e penso che mi accompagnerà per sempre il suo “Te voja!”.

Anna Giulia Ballardini

 

UNA CASA PER I SEGNI DELL’AMORE DI DIO

Vorrei condividere, con poche parole, cosa, per me, abbia significato vivere questi anni in parrocchia.     Nella vita di ciascuno di noi sono fondamentali gli “incontri”… per me l’incontro con questo ambiente è stato un’esperienza incredibile e significativa.

È stato un percorso di conoscenza graduale, iniziato con il mio trasferimento, dopo il matrimonio, qui in centro, ma soprattutto con il battesimo di mio figlio più grande. Poi è proseguito con la frequentazione della messa domenicale, l’inizio del catechismo, con i suoi appuntamenti settimanali, e con la condivisione di esperienze uniche di vita comunitaria, di preghiera, di amicizia.

Da allora non ho più smesso di frequentare la parrocchia, per il punto fermo che rappresenta per me e per la mia famiglia, per i valori di fede, amore, gratuità che sa trasmettere, valori imprescindibili in una società proiettata tutta all’esteriorità e ai beni fugaci.

Per questo devo dire GRAZIE a don Valeriano e a chi ha collaborato con lui per avere reso questo luogo una “casa”, piena di calore e di amore, dove c’è posto per tutti, dove puoi trovare SEMPRE qualcuno che ti ascolta, ti sorride e ti fa “cogliere”, nei semplici gesti di tutti i giorni, l’amore unico di Dio.

Francesca Baroni

 

LA FIGURA DEL PRETE E DEL PRETE-PARROCO

Il parroco … “chi è costui”?

Chi ha frequentato una parrocchia, qualche gruppo ecclesiale o associazione o semplicemente l’ora di religione a scuola, ha conosciuto sacerdoti che animano questi ambiti.

Tutti questi sacerdoti svolgono il loro ministero e testimoniano Gesù.  Sicuramente con attenzioni particolari a seconda della loro spiritualità e delle condizioni di vita di coloro che li circondano.

Quale è la peculiarità del prete-parroco, quale la sua “specialità”?

E’ l’attenzione, tipica del pastore, per la cura delle persone che abitano un territorio, una attenzione alla vita concreta, alla ordinarietà, alle cose di tutti giorni, a fianco delle persone che nascono, crescono, si ammalano, guariscono e muoiono.

Il prete, quando parroco,  diventa…

  • “padre” dei bambini che entrano nella comunità parrocchiale e li guida con affetto ad accostarsi ai sacramenti, a parole nuove, all’esperienza di gruppo.
  • “amico” di tutti quelli che trovano la porta aperta e la disponibilità ad essere ascoltati.
  • “dispensatore” dei sacramenti e della Parola, in modo particolare per chi cerca la misericordia del Padre
  • “consolatore” per tutti quelli che hanno situazioni difficili… di salute, in famiglia, di precarietà economica.
  • “amministratore” per tutti quelli che frequentando la parrocchia hanno bisogno della luce, del riscaldamento, degli spazi, delle attrezzature, degli arredi, delle candele …
  • “assistente sociale” per tutti quelli che hanno bisogno di un lavoro, di un pezzo di pane, di un soldino.

Sono diversi i parroci che abbiamo incontrato, dall’infanzia fino a quando abbiamo messo su famiglia, attraverso gli anni del Concilio dove con entusiasmo, un po’ di confusione, ma tanta speranza abbiamo scoperto che la Chiesa era anche nostra.

Il cammino all’interno dell’Azione Cattolica ci ha permesso di sviluppare ulteriormente questa consapevolezza e, con entusiasmo ma anche con fatica, abbiamo scoperto che era una strada nuova, non tracciata dalle precedenti generazioni.

Abbiamo anche capito che come i preti avevano luoghi e strumenti per condividere il loro ministero, era importante per noi laici fare un cammino similare e trovare le occasioni e gli strumenti per sviluppare la nostra laicità.

Siamo stati fortunati, perché sia i parroci che i preti incontrati ci hanno aiutato in questa scoperta: ognuno con accentuazioni diverse e velocità diverse.

Di solito in una comunità parrocchiale, il parroco è l’ultimo arrivato ed il primo ad andarsene; è inviato dal vescovo per un certo periodo per valorizzare i doni presenti nei laici che quella comunità abitano e frequentano.

Nonostante questo i laici di quella comunità si comportano come se il parroco fosse “il proprietario” della comunità e loro fossero chiamati nel migliore dei casi a “dargli una mano” a far sì che la “loro” comunità diventi più viva, cresca, e ci si voglia bene.

Siamo strani noi laici… forse ce l’hanno insegnato fin da piccoli ed è entrato nel nostro DNA, forse anche ai preti hanno insegnato che avrebbero avuto una loro comunità e dei bravi laici gli avrebbero dato una mano.

Ma allora?

Dobbiamo metterci insieme, laici e parroci, ad immaginare una nuova realtà dove i doni che il Signore ha dato ad ognuno siano messi in comune.

Nessuno ha la soluzione ma assieme e soprattutto se lo chiediamo come dono al Signore… possiamo farcela!

Luciano e Isabella Bocchi




L’entusiasmo di Filippo

Filippo, il protagonista della prima lettura, è un diacono: ha ricevuto un ministero dagli apostoli, per permettere al Vangelo di propagarsi, per far sì che i più bisognosi continuassero a venire accuditi e perché gli apostoli potessero continuare a dare un primato alla predicazione missionaria della Parola di Dio e non fossero attanagliati da un eccesso di questioni pratiche e gestionali.

Eppure vediamo che il ministero di Filippo va ben oltre i suoi incarichi. La sua accoglienza del Vangelo cresce in lui, e lo spinge a farsi missionario. Le sue parole sono coinvolgenti, i suoi segni grandiosi: una pletora di spiriti cattivi se ne fugge a gambe levate, e la gente, nel contatto con lui, guarisce.

Non è l’unico tra i ministri della Chiesa apostolica a compiere tali opere: dall’ombra di Pietro in poi, l’entusiasmo della resurrezione provoca meraviglie.

È bellissimo questo incoraggiamento che riceviamo dalle letture di oggi, verso la fine dell’anno pastorale e nel giorno in cui un’altra parte dei nostri bimbi fa la Prima Comunione. Il Vangelo cresce. Quello che inizia con dei segni piccoli, cresce in modo grande. E tale è anche la speranza per questi nostri amici più piccoli che oggi ricevono l’Eucaristia per la prima volta. Noi confidiamo che possano diventare “grandi” non solo di età e di fisico, ma grandi nell’animo, e di potere ammirare gioiosi e stupiti le loro opere.

La prima lettura di oggi è anche un esercizio di verifica nella fede del nostro anno pastorale. Cos’è cresciuto? Cos’è stato animato dallo Spirito e cosa no? Ci sono stati degli spiriti maligni che sono stati scacciati?

Se quest’ultima domanda trova una risposta affermativa, allora possiamo davvero ringraziare il Signore, chiedendo la grazia di essere ancora e continuamente pronti a rendere ragione della nostra fede: non solo attraverso ragionamenti precisi e pertinenti, ma soprattutto attraverso la bellezza e l’entusiasmo di una testimonianza. Come quella di Filippo.

Don Davide