La nostra fede tra chiese, strade e case

Stavo pensando, in questi giorni, che il termine “parrocchia” gode di una bellissima contraddizione. Nella lingua greca, deriva dall’immagine di essere per strada, dal concetto di viandante, quindi è collegato all’idea di pellegrinaggio, di instabilità e di precarietà. Questo significato è passato nella configurazione della parrocchia intesa come casa tra le case delle persone e come luogo che si affaccia sulle strade, però nel tempo la parrocchia è diventato il simbolo di qualcosa di radicato, di molto stabile, alcune volte anche di pesante.

Senza volere fare dell’inutile retorica, vorrei perciò che cogliessimo questi giorni in cui la chiesa di S. Maria della Carità, la nostra chiesa principale, è chiusa, come un’occasione per essere richiamati al significato originario della “parrocchia”. Non è facile, è un esercizio ascetico, perché avere la chiesa comoda, in ordine, capiente e funzionale rende tutto più facile. Eppure, così ci ricordiamo che la parrocchia non è fatta dalle mura della chiesa, ma è fatta di pietre vive, delle persone; è fatta per muoversi snella tra la vita di donne e uomini, lungo le nostre strade.

Siamo, poi, estremamente fortunati, di potere disporre anche della deliziosa chiesa di S. Valentino, che sempre di più vorrei sentissimo come un santuario nel nostro territorio parrocchiale, che in questi giorni diventa il luogo principale delle nostre celebrazioni… come una piccola città che diventasse la sede di un grande giubileo! Sappiamo che la chiesa è piccolina, ma cercheremo di distribuirci, in modo da poter celebrare tutti con gioia.

Infine, dobbiamo ringraziare, perché non sono molte le chiese a Bologna che si possono permettere di celebrare la messa perfino in una sagrestia abbastanza capiente, che svolge in questi giorni anch’essa la funzione di supplente della nostra chiesa.

C’è un altro segno che ci richiama al significato profondo della parrocchia, intesa come una chiesa-accanto-alle-case. In quest’ultima settimana abbiamo iniziato le benedizioni pasquali, che portano la liturgia – che di solito celebriamo in chiesa – nelle nostre case, insieme alla visita dei ministri della parrocchia.

Come comunità siamo in cammino, siamo pietre vive, e ci muoviamo con mille relazioni testimoniando il Signore Gesù lungo le strade, nelle case, mettendoci accanto alla vita delle persone.

In questo senso, sarebbe bello cogliere il momento della visita per la benedizione pasquale, come opportunità per riscoprire esplicitamente il nostro cammino di fede. Vi invito, perciò, se potete, ad apparecchiare un piccolo altare domestico, a mettere una tovaglietta con un crocifisso e ad accendere una candela (magari quella del nostro Battesimo), in modo da rendere evidente che – mentre siamo in movimento tra chiese, strade e case – l’incontro con le vostre famiglie diventa una celebrazione di amicizia, di prossimità e di vita.

Don Davide




Pastorale di guarigione

Il prossimo sabato, memoria della B.V. di Lourdes, si celebra la Giornata mondiale del malato. È un segno della dedizione che la chiesa desidera avere nei confronti di tutte le persone sofferenti, nel corpo ma anche nell’anima, in comunione con il Santuario di Lourdes, dove la cura dei malati è uno dei carismi più importanti.

Si è soliti definire questa attenzione come “pastorale degli ammalati”, che è un settore molto importante della vita concreta della chiesa; ma tale definizione ha due limiti: sottolinea l’aspetto negativo e definisce dei confini troppo rigidi, come se fosse un ambito che riguarda solo chi si dedica ai malati in modo diretto. Per esempio: la cosiddetta “pastorale degli ammalati” non dovrebbe riguardare anche il catechismo, o i gruppi dei ragazzi? Non dovrebbe sensibilizzare gli adulti della parrocchia?

Bisognerebbe piuttosto parlare di “pastorale di guarigione”, perché evidenzierebbe che lo scopo è quello di dare conforto e speranza e, attraverso la vicinanza concreta, percorre vie possibili di benessere. Sono molte, infatti, le guarigioni possibili. Nella fede, noi sappiamo che insieme alla medicina è possibile la guarigione del corpo, per la quale si prega devotamente e si celebrano benedizioni e sacramenti, in modo particolare il Sacramento dell’Unzione degli Infermi. Ma c’è anche la guarigione dello spirito, laddove un’esperienza di sofferenza e di conforto porta a una conversione, al desiderio di cambiare vita, al rianimarsi della fede e della speranza. C’è anche la guarigione dell’anima, che permette alle persone di portare la propria malattia con enorme dignità e di farne, anche nel logoramento del corpo, un cammino di vita. Tutto questo è possibile solo se ci sono degli uomini e delle donne che sanno esprimere attenzione, aiuto concreto, vicinanza continuativa, amicizia, intercessione nella preghiera.

Così il termine “pastorale di guarigione” mette in moto tutti. Sabato prossimo alle 16, celebreremo il Sacramento dell’Unzione degli Infermi. E ciascuno di noi, immediatamente, pensa se ne ha bisogno oppure no, e di conseguenza valuta se venire alla celebrazione oppure no. Ma chi non ha un amico malato per cui pregare? Chi non ha un parente per cui è preoccupato, da affidare alla cura particolare del Signore e all’intercessione di Maria? Chi non ha delle cose in cui guarire? Ecco: scopriamo di essere tutti coinvolti.

Sarebbe bello, quindi, che la Giornata del malato, diventasse una “Giornata di tutti”, perché cogliamo che va al cuore dell’azione pastorale della chiesa.

Tanto è vero che, ancora più appropriatamente, si dovrebbe parlare di “pastorale del Regno”, perché Gesù associa all’irruzione del Regno di Dio, prima di tutto la sua presenza, ma subito dopo la cura e la guarigione dei malati. È il primo modo in cui l’amore del Padre, che tutto vince, si manifesta nel mondo e incomincia a guarire. È davvero impressionante, in quest’ottica, rileggere la testimonianza che Gesù dà di se stesso a Giovanni Battista: «Riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti resuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11,6). Non dice: organizziamo una bella festa con il catechismo, o un buon pranzo parrocchiale; ma dice: i malati sono guariti.

La cosiddetta “pastorale degli ammalati” (per intenderci) è un modo, anzi IL modo di essere cooperatori del Regno di Dio, e di testimoniare quella promessa di vita, che il Signore ci ha fatto, quando non ci sarà più affanno e sarà tersa ogni lacrima dai nostri occhi.

 Don Davide




La politica di Dio

Viene da chiedersi: “C’è qualcosa di meno sapiente delle Beatitudini?”. Potremmo mai dire, noi: “Beati coloro che piangono?”. Cosa ci risponderebbe chi piange veramente?

Non dovremmo forse dire, come già successe ai tempi di Malachia: “Dobbiamo invece proclamare beati i superbi, che pur facendo il male, si moltiplicano e, pur insultando Dio, restano impuniti.” (Mal 3,15).

Sì, sfida posta dalle Beatitudini è uno sport estremo. Potremmo essere anche tentati di pensare che Gesù ha calcato la mano, ha voluto iniziare la sua predicazione col botto, in modo che tutti gli dessero attenzione, come fanno gli ammaliatori e i potenti. Ma qui, Gesù non ha voluto fare il bravo oratore, e usare la retorica. Certo, Gesù era anche un ottimo oratore, ma inaugurando la sua predicazione con le Beatitudini ha voluto andare al succo delle cose.

Gesù aveva appena chiamato i primi quattro discepoli, due coppie di fratelli, dichiarando così – in modo simbolico – di dare inizio a un nuovo corso delle relazioni tra gli uomini (non più come Caino e Abele o Esau e Giacobbe), di volere inaugurare una nuova tappa della storia della salvezza (Giacobbe era il padre di Israele, così nuovi discepoli saranno “pescatori di uomini”) e di volere percorrere, insieme a chi vorrà seguirlo, un cammino di libertà e di amore (“lasciarono il padre”).

Ora le Beatitudini sono la prima cosa che impariamo al seguito del Maestro. Il mondo deve cambiare.

Non so davvero come sia possibile che la Chiesa, in alcuni periodi della storia, si sia assestata sull’ordine costituito, ma il Vangelo dice che finché ci saranno poveri, afflitti, emarginati, cercatori di pace, persone che non cedono alle seduzioni perverse, donne e uomini miti e umili, costruttivi… deve essere all’opera una forza di cambiamento. Quel futuro espresso da Gesù: “saranno” evoca molto intensamente la forma ebraica dei Dieci Comandamenti, che potrebbe essere meglio tradotta con un verbo futuro: “Non avrai altro Dio; santificherai le feste; non ucciderai ecc. ecc.”. Il vangelo è scritto in greco, non in ebraico, ma abbiamo sufficienti ragioni per dire che un autore ebreo come Matteo scriveva in greco ma pensava in ebraico, e quindi ha fatto echeggiare nel ricordo delle Beatitudini la forma imperativa, vincolante. Il “comandamento” inteso nel senso migliore del termine. L’indicazione della via. “Se qualcuno è afflitto, dovrà essere consolato. Se qualcuno cerca la giustizia e la pace dovrà essere saziato… Chi è puro di cuore, non può essere che non veda Dio…”

Ecco qual è la sapienza delle Beatitudini: è una sapienza politica. Esse sono un manifesto politico, sono la “campagna elettorale” di Gesù. Che infatti non è andata a finire tanto bene. Sì, perché noi rischiamo di fare come nel simpatico film di Ficarra e Picone, L’ora legale. Tutti diciamo di desiderare il cambiamento, ma poi dimostriamo di non volerlo veramente. Perché il cambiamento ci impegna. E mentre noi pensiamo che torni a nostro vantaggio, subito capiamo che deve andare anche a vantaggio degli altri, e allora le cose cominciano a starci strette.

Ma Gesù è abituato a mantenere le sue promesse elettorali, ancorché scomode, e vuole che “i suoi” facciano altrettanto. Quindi, questo popolo “umile e povero” (Sof 3,12) di cui parla il profeta nella prima lettura si deve rimboccare le mani e mettersi al lavoro, perché le Beatitudini sono la politica di Dio.

Don Davide




Una pastorale “alla spina”

Un omaggio

La recente morte del grande sociologo Z. Bauman, padre dell’idea della società liquida, mi spinge a evocare alcuni caratteri di una pastorale “liquida”, che si potevano intuire uno o due decenni fa, e di cui oggi forse conviene prendere atto.

Due esperienze

È di questi giorni la notizia che il vescovo di Modena ha acceso una nuova febbre del sabato sera, con l’iniziativa Voi dunque pregate così: molti giovani si radunano in una parrocchia della diocesi in un clima di preghiera e di riflessione non troppo strutturato, alla fine del quale il vescovo risponde informalmente alle domande che la serata ha suscitato ai ragazzi.

Chi ha la fortuna di conoscerlo, potrebbe pensare che il gradimento di questa iniziativa sia dovuto anche alle qualità umane e spirituali di don Erio (come si fa chiamare lui), il che è senz’altro vero, ma dobbiamo comunque cogliere gli spunti pastorali che vengono da questa esperienza. Il confronto con un appuntamento significativo della diocesi di Bologna può confermarci in alcune direttrici.

In anni passati, si ricorda non senza nostalgia una cattedrale stracolma di giovani il sabato sera, per le veglie di avvento e quaresima, in un appuntamento che, fino a qualche anno fa, è stato memoria collettiva.

La ricetta non era molto diversa. Si veniva a pregare insieme, si diceva qualche salmo (ma non l’Ufficio delle Letture), si imparava qualche canto bello e, dopo, si ascoltava l’omelia di qualche prete della diocesi, sempre diverso, dotato del dono della predicazione. Alla fine capitava che i giovani si intrattenessero anche a lungo per scambiare due chiacchiere, prima di continuare la serata in un locale o al cinema.

Ricordo il me quindicenne che si organizzava con gli amici e gli educatori del gruppo per partecipare a questo rito collettivo. Erano i miei primi approcci ad un’esperienza ecclesiale che non fosse solo quella della parrocchia.

In seguito, le cose cambiarono e non fortuitamente. La linea divenne che si doveva pregare con l’Ufficio vigiliare, si cominciò a riportare i canti nei ranghi di un presunto direttorio e la predicazione fu affidata solo ai vescovi (titolare e ausiliari) della diocesi. A questo seguì il micidiale spegnimento delle luci, per impedire che i giovani sostassero in chiesa dopo la preghiera. Infine, accanto a qualche strafalcione predicativo che avrebbe meritato una sommossa, arrivarono le sgridate, perché non si doveva venire alla veglia con l’intenzione o la scusa di andare al pub dopo.

Così la cattedrale si svuotò di giovani. Poi si svuotò e basta. Si scese in cripta. E chi scrive, adesso, non sa più se continui ad esserci qualcosa di simile.

Da questo racconto e confronto tra le due esperienze, raccolgo due spunti pastorali, più un terzo che lascerò per una prossima riflessione.

1. L’informalità

Questo tratto contraddistingue l’esperienza del mondo giovanile. Se un educatore di parrocchia lasciasse decidere ai ragazzi del suo gruppo come disporsi, vedrebbe che i ragazzi non si metterebbero sulle sedie in cerchio, ma seduti sul tavolo con le gambe a penzoloni, o sulla sedia con lo schienale davanti o in molte altre soluzioni che solo loro riescono a immaginare. Per avere una riprova, basta osservare alcuni adolescenti che studiano (o dicono di farlo) sdraiati per terra, con i piedi sul divano, il pc sulla pancia, il telefono a portata di mano e almeno tre applicazioni social aperte contemporaneamente.

Di recente, ascoltavo divertito il racconto di una difesa di Dottorato, dove, a dispetto della candidata e dei professori elegantissimi, gli altri colleghi dottorandi erano sbracati ai limiti dell’inverosimile.

Nelle biblioteche più moderne delle università si nota che le sale studio hanno sempre di più lo stile di un locale informale, con divanetti, tavolini, poltroncine. Niente di paragonabile alla sala della famosa scena del film Centochiodi.[1]

Se tutto ciò sia opportuno non è mia intenzione stabilirlo. Però si osserva questa tendenza e vale la pena di prenderne atto. La Chiesa salvaguarda l’educazione alla forma in molti altri modi, non ultimo la liturgia; forse si può avere il coraggio di offrire contesti informali, tanto per la preghiera quanto per la pastorale, dove i giovani possano sentirsi a loro agio in quello che cercano. In qualche università americana si parla di Theology on Tap, di teologia alla spina. L’immagine rende l’idea.

2. La qualità affettiva

In un momento pastorale, i giovani cercano senz’altro anche la percezione di stare bene; in genere, è uno stare bene con l’altro/gli altri. Non dovremmo disprezzare questo fatto, perché è in gioco la ricerca di senso, magari declinata in forme post-moderne. Si tratta soprattutto di poter vivere qualcosa che è degno di essere vissuto qui e ora, a confronto con tutte le altre cose belle che adesso potrebbero essere vissute altrove, con la certezza che, se questo tempo non è vissuto vantaggiosamente, è tempo sprecato. Quindi, oltre alla dimensione delle relazioni, c’è la ricerca di qualcosa che piaccia, che faccia stare bene, che dia la sensazione che la vita è vissuta.

Se confrontiamo questa ricerca esperienziale ai noiosissimi incontri o alle noiosissime celebrazioni che ancora proponiamo ai giovani, e ripensiamo alla sistematica erosione degli spazi informali, amichevoli e spontanei, di tutte le nostre iniziative pastorali, capiamo quanto siamo distanti da un reale interesse per loro.[2]

Al cappellano entusiasta perché i giovani sono andati a fare per la prima volta gli esercizi spirituali, potrà capitare di sentire replicare alla domanda: “Come è andata?”, la seguente risposta: “Bene, mi sono divertito”. Il divertimento non è esattamente la categoria che associeremmo alla qualità degli esercizi spirituali – e a Pascal verrebbe un infarto –, ma la risposta, ancora una volta, rende l’idea.

Un rilancio

Come accennato, ci sarebbe un terzo elemento, che riguarda il non creare, o almeno tentare di risolvere, le opposizioni. Lo lascio così, in sospeso per un prossimo scritto, sperando di potere suscitare qualche curiosità al lettore, e augurandomi che queste riflessioni, che sono state necessariamente brevi e semplificative, possano stimolare un dialogo di reazioni e precisazioni.


[1] Si tratta dell’Aula Magna della Biblioteca Universitaria di Bologna.
[2] Questa è una delle tesi, con cui concordo, espresse nel bel libro di A. Matteo, La prima generazione incredula, Rubbettino 2010.

 

Don Davide

 

Testo scritto per SettimanaNews il 23 gennaio 2017




Un popolo tra tenebre e luce

“Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce” (Is 9,1). Per essere illuminati, bisogna innanzitutto riconoscere che il nostro mondo fa quotidiana esperienza delle tenebre. È di questi giorni la triste conferma che pochissime persone del mondo detengono una incredibile maggioranza delle ricchezze del mondo; le notizie dei fronti della guerra continuano a raggiungerci; condividiamo le sofferenze di tanti nostri fratelli e sorelle in Italia piagati dalle calamità naturali, o da tante altre drammatiche piaghe sociali.

Non dobbiamo però pensare che siano cose di cui sono responsabili solo “gli altri”: si tratta di modelli e di strutture dei quali anche noi facciamo parte: un modello di organizzazione dell’economia con cui noi corriamo il rischio di avvallare delle situazioni di disuguaglianza; gli assetti della politica e della cultura per cui non ci sentiamo coinvolti nelle cose che accadono lontano; un modo di comprendere (o di non comprendere) i vincoli e le responsabilità della convivenza comune, che non ci fa vivere come Paese solidale sempre, non solo quando succedono le catastrofi.

L’irruzione della luce il Vangelo ce la racconta nell’inizio della storia dei primi discepoli con Gesù. Lui li chiama e loro si trovano coinvolti in questa vicenda con lui. Il Vangelo, fra le righe, ci fa sentire una certa nostalgia per l’entusiasmo di quel momento, che certamente nelle prime fasi non era nemmeno consapevole, ma a cui molti anni dopo gli apostoli devono avere ripensato con un’emozione particolare: lì stava iniziando qualcosa di nuovo e così sorprendente che non avrebbero mai potuto immaginare. La loro storia con Gesù stava iniziando.

Quella storia è raccontata come quando ci si innamora e come uno squarcio di libertà.

Abbiamo sempre pensato che “lasciare il padre”, in questo racconto, fosse un riferimento alla radicalità della sequela. Senz’altro quest’elemento c’è. Ma lasciare il padre evoca innanzitutto l’esperienza nuziale: “lascerà suo padre e suo madre e si unirà alla sua donna”. Qui, sicuramente, il Vangelo non vuole fare una riflessione sul celibato, ma vuole dire che l’incontro con Gesù è segnato da quel tipo di amore che si prova quando ti innamori pensando che hai trovato la persona della tua vita.

In secondo luogo, la psicologia contemporanea ci insegna che “lasciare il padre” evoca la grande libertà che è data dall’amore. L’esperienza, cioè, della vita adulta, plasmata nella libertà di potere camminare in una storia nuova, anche lasciando i propri retaggi, le proprie sicurezze, i propri condizionamenti, per potere camminare verso la costruzione di qualcosa che il Signore ci chiede di generare anche in maniera nuova.

In che modo si può esprimere questa libertà, senza che sia soltanto l’ultima trovata arbitraria e illusoria? San Paolo, nella seconda lettura, ci istruisce su questo, con quella che è chiamata la logica della croce, ossia il criterio dello Spirito: una logica che rifiuta i criteri del mondo e che sceglie la via disarmata, dove si manifesta davvero la forza dello Spirito, il suo fascino e la sua potenza: una via di pace.

In questa domenica noi accompagniamo con grande simpatia i ragazzi che parteciperanno alla Giornata diocesana della Pace e ci auguriamo che crescano come costruttori di pace e di un mondo nuovo e che davvero possano essere migliori di noi.

Don Davide




Una sfida alla violenza

Giovanni vedendo Gesù venirgli incontro, dice: Ecco l’agnello di Dio. Un’immagine inattesa di Dio, una rivoluzione totale: non più il Dio che chiede sacrifici, ma Colui che sacrifica se stesso.

E sarà così per tutto il Vangelo: ed ecco un agnello invece di un leone; una chioccia (Lc 13,31-34) invece di un’aquila; un bambino come modello del Regno; una piccola gemma di fico, un pizzico di lievito, i due spiccioli di una vedova. Il Dio che a Natale non solo si è fatto come noi, ma piccolo tra noi.

Ecco l’agnello, che ha ancora bisogno della madre e si affida al pastore; ecco un Dio che non si impone, si propone, che non può, non vuole far paura a nessuno.

Eppure toglie il peccato del mondo. Il peccato, al singolare, non i mille gesti sbagliati con cui continuamente laceriamo il tessuto del mondo, ne sfilacciamo la bellezza. Ma il peccato profondo, la radice malata che inquina tutto. In una parola: il disamore. Che è indifferenza, violenza, menzogna, chiusure, fratture, vite spente… Gesù viene come il guaritore del disamore. E lo fa non con minacce e castighi, non da una posizione di forza con ingiunzioni e comandi, ma con quella che Francesco chiama «la rivoluzione della tenerezza». Una sfida a viso aperto alla violenza e alla sua logica.

Agnello che toglie il peccato: con il verbo al tempo presente; non al futuro, come una speranza; non al passato, come un evento finito e concluso, ma adesso: ecco colui che continuamente, instancabilmente, ineluttabilmente toglie via, se solo lo accogli in te, tutte le ombre che invecchiano il cuore e fanno soffrire te e gli altri.

La salvezza è dilatazione della vita, il peccato è, all’opposto, atrofia del vivere, rimpicciolimento dell’esistenza. E non c’è più posto per nessuno nel cuore, né per i fratelli né per Dio, non per i poveri, non per i sogni di cieli nuovi e terra nuova.

Come guarigione, Gesù racconterà la parabola del Buon Samaritano, concludendola con parole di luce: fai questo e avrai la vita. Vuoi vivere davvero, una vita più vera e bella? Produci amore. Immettilo nel mondo, fallo scorrere… E diventerai anche tu guaritore della vita. Lo diventerai seguendo l’agnello (Ap 14,4). Seguirlo vuol dire amare ciò che lui amava, desiderare ciò che lui desiderava, rifiutare ciò che lui rifiutava, e toccare quelli che lui toccava, e come lui li toccava, con la sua delicatezza, concretezza, amorevolezza. Essere solari e fiduciosi nella vita, negli uomini e in Dio. Perché la strada dell’agnello è la strada della felicità.

Ecco vi mando come agnelli… vi mando a togliere, con mitezza, il male: braccia aperte donate da Dio al mondo, braccia di un Dio agnello, inerme eppure più forte di ogni Erode.

(p. Ermes Ronchi)




Battesimo di Gesù. Desiderio di comunione

Tre sono i misteri che si celebrano legati alla manifestazione di Gesù: l’adorazione dei Magi; il battesimo ricevuto da parte di Giovanni Battista al Giordano; la trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana.

In questi eventi si svela che Gesù è il Messia che chiama tutti i popoli a conoscere il Dio d’Israele; che il messia è presente, confermato e indicato da un nuovo profeta: Giovanni Battista e, infine, che Gesù dona la gioia che tutti attendiamo, nel simbolo del vino buono.

Per questo, la celebrazione del Tempo di Natale giunge fino al giorno del battesimo di Gesù, quando Gesù è ormai adulto: il bimbo che è nato, ora inizia la sua opera di salvezza rivelandosi al mondo.

In tutto questo Gesù compie un palese atto di umiltà: si mette in fila con i peccatori, lui che non lo è affatto, e anche di fronte all’obiezione di Giovanni Battista, risponde che si compia ogni giustizia.

La giustizia di cui parla Gesù è quella di una grande condivisione, di un senso di comunione che oserei dire universale, con tutti quelli che sono segnati dal peccato e che non sono dispiaciuti. Non con quelli che sono assuefatti dal potere e stanno nei palazzi dei re, e che non si sognano nemmeno di andare da Giovanni Battista, in quella regione polverosa, con tutti quei poveri disgraziati! Quelli non sono dispiaciuti, non soffrono e invece fanno soffrire! Invece Gesù si mette con tutti quelli che sono dispiaciuti, che soffrono (soprattutto per causa di chi ha più potere di loro), che hanno un desiderio autentico di cambiare, che attendono la pace del Messia e la speranza operosa di un mondo migliore.

Un atto simile a quello di Gesù lo avevamo già visto nell’inchino umile con cui i Magi adorarono il bambino Gesù. Un gesto assolutamente gratuito, di un grande nei confronti di un piccolo, e per questo un gesto veramente maestoso.

Il giorno dell’Epifania ho ricordato una frase dell’autrice Chiara Gamberale: “La speranza di un noi, in generale, nel mondo”. Un pensiero bellissimo, che esprime il clima di questi giorni, potremmo dire “il sogno di Dio”: il suo desiderio di fare una realtà affatto nuova rispetto a tutte le esperienze degli uomini, dove si possa dire con piena pace e piena verità: “noi”, senza che nessuno sia nemico, antagonista o escluso.

Ma questo sogno nasce dalla nostra volontà di metterci in questo cammino umile, come Gesù e al seguito di lui. Chiediamo la sua autenticità, la sua libertà di cuore, il suo intimo rapporto con il Padre, la sua capacità di entrare in sintonia con il cuore e il vissuto delle persone.

Ricomincia il Tempo Ordinario dell’anno liturgico e noi, con nuova fiducia e nuovo slancio, ci mettiamo nuovamente in cammino verso questo obiettivo.

 Don Davide




In piedi, costruttori di pace!

Inizia un nuovo anno, e per iniziarlo al meglio ci mettiamo tutti in marcia per la pace. In questo primo giorno dell’anno, infatti, la Chiesa celebra la Giornata Mondiale per la Pace, indetta per la prima volta da papa Paolo VI nel 1968 e la nostra città ha accolto la marcia nazionale per la pace.

Questo movimento di popolo, molto più che fisico, è simbolico. Ci è chiesto di metterci in cammino per le vie della pace attraverso la nostra vita, i nostri atteggiamenti, le nostre scelte e il nostro stile.

È un percorso che implica davvero un “inizio” in grande stile, perché non ci siamo mai decisi abbastanza per la pace, quindi è importante cogliere questo “inizio del tempo” (anche se profano) per provare a segnare una casella diversa sui nostri calendari.

In questi giorni leggevo sui quotidiani che ci affacciamo al 2017 con un po’ meno speranza e con un po’ più di disillusione, come se negli anni scorsi fra le primavere arabe e alcuni sogni di pace e di miglioramento ci fossimo illusi che qualcosa potesse veramente cambiare. Invece, parrebbe, torna la disillusione.

C’è qualcosa in me che resiste tenacemente a queste considerazioni. Il tempo non è un dio della mitologia, che stritola e divora e basta. Il tempo è anche percezione, il campo dei ricordi belli e brutti, è un luogo seminato di fondamenta. Su queste fondamenta io posso decidere di costruire. Posso decidere che siccome in questo campo sono state compiute cose brutte, sono state fatte le guerre, ho subito delle ferite, allora lascio la terra deserta, o costruisco un brutto edificio o lascio le cose in abbandono. Oppure posso decidere di cambiare segno, di coltivare i semi belli, di farli crescere, come è successo a Montesole. Fu fatto uno sterminio. La guerra tocco uno dei suoi punti di estrema disumanità. Oggi è un luogo simbolo di pace. Vi sorgono due monasteri, si lavora la terra, si produce cultura, si prega.

Ecco, il tempo è questo. Un potenziale consegnato nelle nostre mani. Dire che siamo pessimisti e disillusi, significa dire che ci sentiamo sconfitti in partenza. Noi, invece, vogliamo farne “il campo di Dio, l’edificio di Dio” (1Cor 3,9).

In questo primo giorno dell’anno, quasi per fecondarne il frutto, concludiamo anche l’Ottava di Natale: gli otto giorni, secondo il “tempo della resurrezione” in cui la Chiesa prolunga la celebrazione delle grandi feste. Nell’indimenticabile profezia di Isaia leggiamo: “Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità, e il suo nome sarà: Principe della Pace… e la pace non avrà fine” (Is 9,5-6).

In questo tempo, che è un inizio sul calendario di una nuova opera e stagione di pace, noi siamo benedetti e accompagnati dal tempo della salvezza e dalla grazia del Re della Pace. Mi viene allora da non farvi i soliti convenzionali auguri di inizio anno, ma di usare le memorabili parole di don Tonino Bello, quando a Verona iniziò a promuovere questa sensibilità per un mondo nuovo, e che sono come una sintesi di tutto il bene e l’impegno che vi vorrei augurare: “IN PIEDI, COSTRUTTORI DI PACE!”.

Don Davide