Un figlio e un bambino – Omelia Natale 2018

Il dono di uscire da noi stessi

“Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio.” (Is 9,5).

Dio si rende presente in mezzo a noi nei panni di un bambino, in modo che si compia il miracolo di spossessarci di noi stessi, perché quando nasce un figlio, o ti viene dato un bambino, è così: il tuo tempo non è più riservato, ti dedichi completamente e diventi responsabile di lui.

Ho visto mio fratello quando è nato il mio primo nipote – immaginatevi un uomo grande e grosso, fintamente burbero e che mai avrei pensato che si potesse calare in questo ruolo – tenere in braccio suo figlio come un papà navigato. Si dice che quando nasce un figlio si impara subito a fare la mamma e il papà; magari c’è qualche impaccio all’inizio, però sei subito attenta e ci tieni ad accudirlo. Spesso le giovani mamme e i giovani papà accettano i consigli, ma sono anche gelosi del loro modo di prendersi cura dei bimbi.

Sottolineo: è una cosa che in parte si impara, ma che soprattutto è frutto quasi immediato di questo evento dirompente che sconvolge la vita per sempre, da un momento all’altro. Prima si era autonomi e si faceva quel che si voleva. Dopo c’è un altro e ci sarà per sempre.

Allo stesso modo Dio vuole realizzare in noi la vita adulta, l’uscita dal nostro egoismo, l’arte di non preoccuparci più di noi stessi e quella sorta di gelosia per la cura di un altro.

Una mia amica qualche giorno fa mi scriveva che la vita riserva sempre dei momenti stupendi, ma la leggerezza, quella è riservata all’età giovanile. Anche se sembra una riflessione un po’ amara, in fondo è vera: perché quando diventi responsabile di una persona non puoi più essere tanto leggero. Ci sono una gioia e un lusso legati a una perdita: hai sempre quel pensiero fisso, sei completamente portato fuori da te stesso.

Dio ci fa questo regalo: aprire il cuore e vincere la preoccupazione costante di salvaguardarci e proteggerci.

E se sei responsabile di qualcuno, vuole dire che sei prezioso, vuol dire che hai un ruolo ben preciso nella storia del mondo, vuole dire che senza di te quella creatura sarà un pochino più sola, e quindi è quanto mai importante che tu ci sia, che te ne prenda cura.

(Sento già l’obiezione: quindi chi non ha nessuno, chi non ha figli o ruoli, o è solo vuol dire che non vale? Vuol dire che non conta nulla? Ovviamente non è così, ma vi chiedo di pazientare ancora un attimo. Per ora voglio insistere su un altro aspetto.)

Il dono di Dio non si realizza solo quando nasce un figlio, ma ogni volta che qualcuno ti viene dato, perché tu possa essere fratello e sorella, padre e madre, qualunque sia il rapporto di età.

Ricordo le prime volte che, da giovane educatore, portavamo i bimbi a campi estivi. La sera gli preparavamo la camomilla e gli leggevamo i libri della buona notte. Fino al giorno prima a fare gli spacconi fra amici e a considerare dei poveretti quelli che perdevano il sabato pomeriggio dietro a dei cinni o una settimana d’estate a fare i campi, e il giorno dopo sei lì, seduto sulle scale di una casa vecchia e fredda, a raccontare le storie.

Una volta sgridai due ragazze del primo anno del liceo perché le avevo trovate ancora sveglie a tarda notte, con la torcia accesa sotto le lenzuola. Avevano dovuto scegliere se venire alla due giorni o studiare latino: avevano deciso di venire al ritiro, e stavano traducendo una versione di latino con la torcia, sotto le coperte per non farsi beccare. Alla fine mi sono messo a fare la versione con loro.

Dopo otto giorni di un campo itinerante, l’ultima sera, all’una di notte una ragazza mi confida di essere anoressica. Tu vuoi solo andare a letto, hai gli occhi che ti si chiudono, ma capisci che in quel momento devi essere lì, ascoltarla tutto il tempo che serve.

Nei nomi che vengono dati a questo “bambino” riconosciamo che il suo potere è di rendere chiaro il discernimento, di strapparci fuori da noi stessi, di insegnarci una maternità e una paternità sempre più dilatate, che vanno in entrambe le direzioni… dal più vecchio al più giovane, ma anche, notatelo bene, dal più giovane al più vecchio. Sì, anche voi giovani siete padri e madri, fratelli e sorelle per chi ha più anni di voi!

L’ultimo nome è “Principe della pace”. Quando sei strappato fuori da te stesso si compie il grande miracolo: è questa la via per la pace del cuore. Quel frastuono di calzature di soldato che cessa improvvisamente e quei mantelli intrisi di sangue che vengono bruciati nel fuoco, sono il segno di una guerra che finisce soprattutto dentro noi stessi.

Due volontarie della Caritas mi hanno raccontato di un imprenditore che, candidamente, si dichiarava razzista. Aveva una posizione di lavoro aperta e loro sono andate a parlargli per un ragazzo africano. Non si sa bene come abbiano fatto a convincerlo e ora… guai a chi glielo tocca! Gli ha dato la promozione e pure l’aumento!

Anche Maria e Giuseppe – soprattutto loro! – hanno vissuto concretamente questo segno: un figlio dato, un bambino nato. Le luce che improvvisamente spezza le tenebre. Una gioia moltiplicata.

Adesso mi chiedo che cosa significhi questo evento anche per chi non sente di potere dire: “Ho avuto una gioia moltiplicata…”

Ho davanti il volto dei tanti amici e amiche che soffrono perché non hanno l’amore; le donne che desidererebbero essere madri e non lo sono perché non possono o perché è passato il tempo, e che non sopportano le feste in cui si parla di pannolini e pappine; ho in mente uomini afflitti perché non hanno le risorse per corrispondere ai bisogni della famiglia; penso agli stranieri rifiutati e ai poveri non aiutati; infine le persone tristi, che non hanno motivo di gioia, e quelli che vengono scartati, non appartengono ad alcuno e non hanno nessuno per cui sentirsi utili.

Deve essere Natale per tutti.

Ho davanti il volto di ciascuna di queste persone e non ho risposte.

Vedo però che in questa semplice famiglia di Betlemme non c’è alcuna manifestazione di superiorità, o rivendicazione, o pretesa di essere un modello. Tutte queste cose gliele abbiamo aggiunte noi, dopo. Vedo più che altro la potenza di accogliere la vita così come si manifesta. Sono andati via da casa, hanno fatto un viaggio non corto, mentre erano in quel luogo Maria dovette partorire. E poi la descrizione di un gesto semplice, immediato, quello che era possibile: hanno avvolto in fasce Gesù e lo hanno messo in un lettino di fortuna.

In questa scena, non c’è nessuna pretesa di dire: “Fate come noi!” e allo stesso tempo nessuna rivendicazione del tipo: “Mannaggia, che momento per partorire!”. C’è solo una potentissima consuetudine ad accogliere la vita come si manifesta. Senza ombra di paragone, né pretesa, né giudizio o condanna per chiunque altro.

È proprio questo stesso segno che viene indicato ai pastori. “Troverete un bimbo così” (Lc 2,12): in esso si esprime l’incredibile benevolenza di Gesù e basta.

Che cosa significa sperimentare la benevolenza?

Ho pensato a una notte di Natale di tantissimi anni fa, non so dire di preciso se a San Vigilio di Marebbe o a San Cassiano in Val Badia, ma ricordo perfettamente il momento. Eravamo a messa e il coro cantò Stille Nacht in una maniera incredibile. Avevano i corni e quei vocioni da alpini cresciuti con la grappa nel biberon. C’era un’atmosfera unica: le luci soffuse, i corni, la musica, il freddo. Aveva appena nevicato. Io ero ancora un bambino e non capivo niente, ma c’era la mia famiglia, ed era tutto così bello che mi sentii rassicurato.

Non a tutti, purtroppo, capita di sentirsi così profondamente rassicurati. Molti combattono tutta la vita contro una fiducia di fondo che è loro mancata, perché ne sono stati privati.

Ma Dio, con la nascita di Gesù bambino, vuole che ciascuno di noi si senta così intimamente rassicurato. Questa è la benevolenza di Dio.

Forse, allora, il primo passo per tutti è affidarsi a questa benevolenza che ci ristora, poi ci aiuta a fare altri passi. Insieme, ci vogliono fratelli e sorelle, amiche e amici, padri e madri che non facciano mancare la propria presenza. E spero che, come per Maria e Giuseppe, dopo alcuni rifiuti si potrà aprire una porta dove trovare pace.

Don Davide




Betlemme, Bologna

C’è un tesoro quasi insondabile nel riconoscere che, tra gli eventi altisonanti del mondo, Gesù nasce nella casa di persone di cui non viene ricordato nemmeno il nome, in un ambiente affollato. 

Nessuno può sapere se quella famiglia, che si è stretta per fare spazio a due persone e a un nascituro, abbia mai realizzato di avere offerto ospitalità al Messia. Ci avranno pensato quando, nella vicina Gerusalemme, crocifissero un uomo di nome Gesù di Nazareth? Avranno ricordato di avere ospitato circa trent’anni prima una famiglia di Nazareth, che chiamò il figlio Gesù? E dopo, qualcuno di loro è diventato cristiano? Avranno scoperto che il Salvatore del mondo, il Cristo di cui ora professavano la fede, il Dio incarnato era quel bimbo che una notte ormai perduta nel tempo era nato nella loro casa, da una giovanissima mamma e da un papà premuroso? 

Ci piace pensarlo, ma non possiamo saperlo. 

Il Vangelo non ce lo dice non per un’imperdonabile trascuratezza riguardo a questa famiglia che avrebbe dovuto essere considerata enormemente per il suo gesto; né perché Giuseppe e Maria si siano scordati di chiedere i loro nomi, di ringraziarli e di tramandare questo gesto di ospitalità insperato; ma perché così, in questo non avere un volto, un cognome e un indirizzo, quella casa lascia una casella vuota che può essere occupata, in futuro e per tutte le generazioni dei secoli, dalla nostra famiglia e dalla nostra casa. 

Via Ugo Lenzi, Piazza della Resistenza, via dell’Abbadia come Betlemme. “Venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Potremmo parafrasare così: “Venne [in quel tempo a Betlemme] ad abitare in mezzo a noi [oggi, qui nelle nostre case]. 

Non vorrei pensare solo all’immagine di qualcuno di noi che dà un letto di fortuna a Gesù, perché tutti i bed ‘n breakfast e tutti gli hotel sono occupati. Si potrebbero fare molte associazioni, ma non voglio limitarmi a questo.  

Voglio che pensiamo agli infiniti modi in cui nelle nostre case diamo ospitalità a Gesù, spesso in maniera che ci appare insignificante o totalmente irrilevante rispetto al corso della storia, ma che possono essere un gesto decisivo e un momento di redenzione del mondo. 

La grazia del Natale non è tanto sapere quello che possiamo fare noi, o essere contenti per come siamo “capaci”, ma riconoscere che nel suo venire in mezzo a noi, in quel modo discreto e nascosto, misterioso e semplice allo stesso tempo, Gesù ci trasforma e ci fa il dono di essere quello spazio accogliente e così decisivo, ancorché pieno di limiti – perché uno spazio residuale, che si porta dietro sempre tutte le nostre fatiche – per la salvezza più grande che sia entrata nella storia.  

Potremmo osare di riscrivere il Vangelo di Luca così: Quando non c’erano più gli imperatori, ma molti potenti che dominavano le nazioni; al tempo in cui non c’erano i governatori delle regioni, ma pochi ricchi che si spartivano le risorse del pianeta; quando Francesco era papa e Matteo vescovo, Gesù continuava ad entrare in molti modi nelle nostre case e a renderci protagonisti, senza che alcuno se ne potesse accorgere, della salvezza del mondo. 

A ciascuno di noi il compito di continuare la storia. 

Tanti auguri di buon Natale, vissuto santamente e con gioia! 

Don Davide




Natale 2018

Natale 2018

L’attesa è finita: tempo di incontro 

È Natale, Gesù è nato, l’attesa è finita: “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore!” (Lc 2,11). 

Si è avverato l’annuncio dell’angelo Gabriele a Maria: una giovane donna che pur senza aver compreso tutto pienamente, si fida e accetta di fare della sua vita un dono e con il suo “sì” cambia il corso della storia. 

L’attesa è finita: il grande evento si è realizzato, oggi è Natale! 

Natale indica una rinnovata esperienza di Gesù in mezzo a noi: siamo autorizzati a sentirlo vicino nelle cose liete come nelle difficoltà; nei momenti in cui siamo “bravi” e in quelli in cui lo siamo meno. Gesù sceglie di entrare in contatto concretamente nelle nostre vite. 

Il Figlio di Dio si è fatto carne, Egli è l’Emmanuele, il Dio con noi. 

Il mistero del Natale è luce, gioia, amore, pace, interpella ognuno e lo chiama alla riflessione. È vero che adesso la vita procede, a volte, in modo ansioso, sfrenato, convulso, ma ci sono anche momenti di serenità, di fiducia, commozione, apertura alla speranza perché i buoni sentimenti non possono durare solo il giorno di Natale. 

Certamente i pensieri restano e a volte ci assillano, non siamo immuni dal dolore e dalle preoccupazioni, per questo Gesù ha detto “Venite a me voi tutti che siete affranti e oppressi e io vi darò ristoro” (Mt 11,28). 

San Francesco d’Assisi diceva che l’amore chiede di essere amato, così il Verbo della vita che è nato in una grotta di Betlemme vuole trovare la sua casa in ognuno di noi, per essere amato e protetto. 

Amare Gesù significa amare le persone che ci sono accanto, a cominciare dalla famiglia, agli amici, alle persone che incontriamo in modo particolare se bisognose perché povere o perché sole. 

Una poesia di Madre Teresa di Calcutta inizia dicendo: “È Natale ogni volta che sorridi a un fratello e gli tendi la mano”. 

L’augurio di Buon Natale che ci scambiamo sia allora l’augurio di vivere pienamente l’incontro con Dio che in Gesù è venuto in mezzo a noi e ci è vicino. 

Don Davide




Avvento

Candele dell'Avvento 2018Tra i tempi liturgici che celebriamo lungo l’anno, l’Avvento è quello che ha iniziato ad esistere per ultimo.

I cristiani, all’inizio, cominciarono a riunirsi alla domenica per celebrare e condividere la fede in Gesù morto e risorto attraverso l’Eucaristia. Poi, iniziarono a celebrare una volta all’anno l’anniversario della morte e risurrezione con la festa della Pasqua.

Organizzarono, successivamente, la Settimana Santa e un tempo per celebrare con maggior ampiezza, la vita nuova di Cristo risorto: il tempo pasquale e un tempo di preparazione: la Quaresima.

Nell’anno 354 appare indicata per la prima volta come festa il 25 dicembre, che coincideva con la festa romana del “giorno del Sole” (la festa dei giorni che iniziano ad allungarsi), una festa che commemorava la nascita di Gesù e da qui nacque l’Avvento per il desiderio di prepararne la celebrazione.

L’Avvento è quindi il tempo liturgico di preparazione al Natale, in cui si ricorda la prima venuta del Figlio di Dio fra gli uomini e contemporaneamente è il tempo in cui, attraverso tale ricordo, lo spirito viene guidato all’attesa della seconda venuta del Cristo alla fine dei tempi.

Il tempo di Avvento comprende quattro domeniche: nella prima si contempla la gloriosa manifestazione del Salvatore alla fine dei tempi; nella seconda la persona e la predicazione di Giovanni Battista; nella terza, chiamata anche “domenica della gioia”, l’attenzione è ancora sul ministero del Battista. La quarta domenica di Avvento, ripropone gli eventi che precedettero immediatamente la Nascita di Cristo: contempliamo Maria, la Madre di Dio che porta al mondo il figlio suo, come anche Giuseppe, suo sposo.

La comunità parrocchiale è invitata a scandire queste quattro settimane meditando una parola ispirata all’Enciclica Laudato si’ di papa Francesco, mentre i ragazzi del catechismo faranno un percorso su altrettante parole, analoghe, che evocano l’ambientazione giocosa della cucina e lo slogan di prenderci gusto, secondo questo schema:

  ADULTI CATECHISMO
1 sett. SOLIDARIETA’ EUFORIA
2 sett. URGENZA MANI IN PASTA
3 sett. UGUAGLIANZA ATTESA
4 sett. PROFUMO SOBRIETA’

L’euforia del clima natalizio riverbera o dovrebbe riverberare la solidarietà di cui parla papa Francesco come via di fraternità e di nuova amicizia, che dovrebbe essere vissuta più facilmente proprio nel tempo di Natale.

L’urgenza ci richiama al bisogno di mettere le mani in pasta, di fare la nostra parte, di impegnarci nella storia di questo mondo, di non tirarci fuori.

L’attesa, tipica dell’avvicinamento alla festa di Natale, si esprime soprattutto come desiderio di uguaglianza. Attendiamo che tutti gli uomini siano uguali, che ci sia giustizia, diritti e pace per tutti e che tutti possano avere le stesse condizioni di bene per vivere la festa con le persone amate.

Infine, la nuova sobrietà che auspica papa Francesco ha esattamente il profumo di ciò che è buono, ed esprime la vita del mondo e di ogni uomo, come dovrebbe essere: qualcosa che non puzza, ma anzi, che profuma di buono!

Luciano e Isabella Bocchi

I catechisti e don Davide




Avvento 2018

Avvento 2018

Tempo gioioso per l’attesa di un incontro

La parola “Avvento” significa “venuta”, “arrivo”, e nell’antichità, anche prima del cristianesimo, era utilizzata per indicare il grande evento costituito dall’arrivo in città di un sovrano o di una grande personalità, che richiedeva imponenti preparativi.

Aspettare è un’occasione per riflettere su di noi, su quello che stiamo facendo, su cosa è importante per compiere le scelte con calma, per apprendere dalle esperienze della vita, per trovare le giuste priorità.

Nell’epoca del tutto e subito la possibilità di predisporci all’incontro col Dio che viene, col Dio che viene a salvarci, può apparire non più significativa. L’Avvento rischia di non essere più compreso.

Nell’Avvento prepariamo la celebrazione della venuta in mezzo a noi di Gesù, il Messia di Dio. Non come se non lo conoscessimo, come se fingessimo che ancora non è nato: sappiamo che è nato duemila anni fa, che ha vissuto la nostra stessa vita, che ci ha amato fino alla morte di croce, che è risorto. Preparare la festa della sua nascita diventa un’occasione per rivivere un atteggiamento di fede e di attesa della salvezza che lui viene a portarci.

È un’occasione per preparare la nostra vita così che Lui possa continuare a venire in noi: attraverso l’Eucaristia, la sua Parola, i sacramenti. Attraverso i nostri cari, i conoscenti, gli emarginati, i malati, i poveri, gli avvenimenti della nostra vita.

Arrivati al 25 dicembre potremo dire “adesso è Natale”, non perché mangiamo un panettone come diceva una pubblicità di qualche tempo fa, ma perché abbiamo incontrato il Signore della vita, colui che solo può dare sapore e significato alla nostra vita.

Don Davide




Nella casa di Betania

Nella casa di BetaniaIo e don Valeriano siamo certamente Marta e Maria (Lc 10,38-42), con l’unica eccezione che io non rimprovero don Valeriano affinché mi aiuti (in verità lui fa tantissimo, per tutti noi) e lui non se ne sta solo a contemplare il Signore (privilegia la preghiera, ma non solo).

Io sono lieto e rassicurato che lui si goda “la parte migliore” e che nessuno si sogni di togliergliela. Ne sono lieto, perché dopo le fatiche del ministero, dovrebbe essere lo sbocco per tutti i preti di potere rimanere nella propria “famiglia”, regalando quel tocco di sapienza che la vita ha insegnato; ne sono rassicurato, perché anche se io talvolta mi trovo a trascurare “l’unica cosa necessaria”, so che la preghiera di don Valeriano non manca mai e sostiene la crescita nella fede e nel servizio di tutta la nostra comunità.

Così, nel quarto anniversario dell’inizio del mio servizio, mi gongolo di questa somiglianza della nostra parrocchia con la casa di Betania. Un luogo dove in modi diversi si cerca di essere attenti all’accoglienza di Gesù, accettando da lui anche le correzioni su come ciò possa essere fatto meglio.

In effetti sento il bisogno di un rapporto più intimo con lui, più raccolto nella preghiera, nell’ascolto della sua parola e nella contemplazione. Mi chiedo se in mezzo a piani pastorali, sinodi e prospettive missionarie, la parte migliore e l’unica necessaria non sia ritrovare un’amicizia affettuosa e personale con Gesù, che tutti ci mettiamo con gli strumenti della nostra personalità e creatività a costruire questo legame a tu per tu.

E poi, nella casa di Betania c’è un fratello – Lazzaro – che non compare nella famosa scena del Vangelo di Luca, ma che conosciamo bene dall’episodio del suo risuscitamento da parte di Gesù (Gv cap. 11).

Lì veniamo istruiti su un affetto fortissimo che lega i tre fratelli e su un’amicizia tra loro e Gesù unica in tutto il Vangelo (come abbiamo scritto nel bigliettino di Natale). Mi piace pensare, allora, che in questa casa di Betania c’è anche un “fratello” impegnato là fuori, nella vita di ogni giorno: un fratello che è simbolo di ciascuno di voi, un fratello per il quale si prova un affetto smodato e con il quale si condivide un amore unico per Gesù.

Nella casa di Betania e nei suoi dintorni, Gesù ripetutamente ha voluto che i suoi più cari amici aprissero gli occhi sul mistero di un amore e di una vita più forti della morte e noi, insieme, non potremmo desiderare nulla che corrisponda di più e meglio alla sua volontà.

Don Davide




Dedizione

A ridosso della conclusione dell’anno liturgico, quando le cose si ricapitolano e si fanno dei bilanci “spirituali” le letture della messa ci propongono la scena dell’obolo della vedova. È un momento in cui anche Gesù fa una sorta di “bilancio”: sa che sta per andare incontro alla sua passione, vede una scena commovente che ai suoi occhi si carica di un significato gigante e dice: “Ecco! Questa immagine ricapitola tutto il Vangelo! È una sintesi perfetta di tutto ciò che volevo dire e insegnare!”.
Sono, dunque, parole importanti quelle di Gesù. Sono parole pesanti che appaiono rassicuranti, ma non lo sono affatto: sono piuttosto taglienti e severe. Hanno il tenore di un monito. Sono molto vicine a una requisitoria.
Esse sono strutturate su due termini: “Guardatevi!” e “superfluo”.

Il monito a guardarsi dagli scribi e da quello fanno, cioè a stare ben lontani dal loro modo di fare (rileggersi come e cosa fanno gli scribi e meditarlo!) è un atto d’accusa senza sfumature. La vedova al tempo di Gesù non è solo una figura che suscita commozione; è il gradino più basso della scala sociale, insieme agli esclusi come i lebbrosi. Sia nei profeti dell’Antico Testamento che negli Atti degli Apostoli il rispetto e la cura delle vedove è il punto su cui sta o cade la qualità religiosa della vita di un credente e della sua comunità.
Degli scribi, Gesù dice che divorano le case delle vedove, e pregano davanti a tutti per farsi ammirare! Divorano i poveri e pregano per ostentare! Divorano e pregano: non si potrebbe immaginare un connubio più abietto!
Gli scribi siamo tutti noi quando ci interessa farci vedere, ma non siamo realmente interessati al bene delle persone. Gli scribi sono tutti quelli che fanno così.

E poi ci sono i “superflui”. Sì, avete capito bene. “Superfluo” è una parola durissima di Gesù: mettono quello che non serve a niente. Potrebbero averlo sprecato al gioco, messo in un investimento perso, oppure persino bruciato: a loro non cambierebbe niente. Non cambierebbe il loro tenore di vita, le loro preoccupazioni, perciò non cambia niente nemmeno a riguardo della loro solidarietà, del loro impegno. Mettono quello che è superfluo, quello che non serve a niente. Pensano che almeno, nel tesoro del tempio, servirà a qualcosa, ma Gesù dice di no. A nessuno servirà se per una volta qualche vedova mangerà un panino con quei loro soldi: non cambierà la storia del mondo, né la condizione di quella vedova. A Dio serve solo che cambi il loro cuore… e il mio, il nostro. La cosa terribile è che questo atteggiamento di non cambiare il proprio cuore, e quindi di non cambiare il mondo, rende superflui noi stessi. Se non ci convertiamo… siamo superflui. Non serviamo all’unica cosa che Dio vuole per la sua creazione: che ci vogliamo bene, che allarghiamo gli spazi della giustizia e della pace.

Il Vangelo, dice Gesù, è tutto ciò che si distanzia da questi due modi di vivere l’esperienza religiosa, e tutto ciò che invece, raccoglie la propria vita in un clamoroso, ancorché piccolissimo, gesto di dedizione.

Don Davide




Nella fede del Signore risorto

La Commemorazione dei fedeli defunti,
per riscoprire il significato della migliore tradizione cristiana.

La Festa di tutti i Santi e la Commemorazione dei fedeli defunti ci offre l’opportunità di una riflessione sulla morte, non ottenebrata dalla paura. Ci sono due considerazioni da fare, sul modo in cui si affronta la morte oggi, al fine di rendere il congedo dai defunti sempre dignitoso.

Ultimamente si sta registrando una tendenza a evitare la celebrazione del funerale e a velocizzare la sepoltura, quasi come se la morte fosse una pratica fastidiosa (e scandalosa) da rimuovere nel più breve tempo possibile. Molti (anche con la complicità di alcune onoranze funebri poco professionali) scelgono di fare una veloce benedizione nella cappella dell’ospedale e poi portare i defunti al cimitero o per la cremazione. In tali circostanze pochissimi, anche nel caso che la persona defunta sia stata un’assidua parrocchiana, avvisano il parroco del decesso.
Invece non bisognerebbe mai trascurare di celebrare l’ultimo saluto come si deve. È, appunto, un saluto. Chi mai andrebbe via senza salutare un amico? E chi partirebbe per un lungo e importante viaggio senza un momento di congedo? Celebrare il funerale come si deve significa congedarsi in maniera dignitosa da una persona cara: è una forma indispensabile di attenzione per il defunto, ma serve soprattutto a chi rimane, per cominciare a risolvere un’assenza. Una dipartita non elaborata e risolta lascia strascichi emozionali devastanti, che troppi sottovalutano e di cui pochissimi sono avveduti.
Spesso c’è in gioco anche il rispetto della volontà dei defunti, che dovrebbe essere considerata una cosa sacra e inviolabile. È capitato di persone religiosissime in vita, a cui i familiari hanno negato una celebrazione consona e degna. Invece, per chi ha vissuto una vita di fede, il funerale religioso è il momento in cui si affida il defunto al Signore Risorto, è il compimento del lungo itinerario iniziato con il Battesimo, in cui siamo stati legati indissolubilmente alla potenza di vita della resurrezione di Gesù. Privare i defunti di questo passaggio è come creare un inciampo al termine di un percorso, è nel vero senso della parola uno “scandalo” (secondo il significato etimologico di: inciampo, sgambetto). Significa impedire una meta, un traguardo. Significa disonorare coloro che, in quel momento, dovremmo amare e rispettare di più.

Commemorazione dei fedeli defuntiLa seconda tendenza che si sta verificando è l’abitudine di disperdere le ceneri dopo la cremazione o di conservarle in casa. La cremazione è ammessa dalla Chiesa come la sepoltura tradizionale, perché nell’uno e nell’altro caso il Signore Risorto darà vita ai nostri corpi dalla polvere. La Chiesa, però, non riconosce come cristiana la pratica di disperdere le ceneri, e il fatto di tenere l’urna cineraria in casa è proibito dalla Legge italiana.
Al di là delle regole, comunque, il punto decisivo è di avere un luogo per la memoria del corpo. La tradizione ebraico-cristiana, ininterrottamente da Abramo fino ad oggi e senza soluzione di continuità, riconosce il valore di avere il luogo della sepoltura. Abramo comincia a entrare in possesso della Terra Promessa acquistando il sepolcro per la moglie Sara.
Non è bene trascurare le esigenze della nostra umanità: noi abbiamo bisogno di luoghi, di gesti e di segni concreti per dare significato all’esistenza. Chi di noi non conserva la foto di una persona amata defunta? Come si potrebbe vivere senza avere un posto dove portare un fiore, o senza potere baciare un memoriale? Certo, non è tutto: molti ricordano i defunti con la celebrazione della messa o dando rilievo ai giorni importanti della loro vita passata, ma potere avere un luogo fisico, simbolo di un appuntamento dove “incontrare” quelle persone, ha sempre fatto parte della fede cristiana.

Di fronte alla morte la fede cristiana esprime la sua qualità più vera. Che la memoria dei defunti sia allora un’occasione per riscoprire questi gesti, traduzione concreta della fede nella resurrezione. Come diciamo tutte le domeniche nel Credo, noi crediamo la resurrezione dei morti e lo esprimiamo attraverso segni coerenti.




La speranza della vita

La Commemorazione dei fedeli defunti è un giorno pieno di affetto e di nostalgia. Il ricordo delle persone care in alcuni casi è un pensiero sereno e grato, per una vita lunga e compiuta che ci ha lasciato tanto bene; in altri casi può essere una ferita aperta, un sentimento molto doloroso, per un addio precoce, per una sofferenza che ci ha scavato e per un lutto che non si riesce a superare.

La Chiesa celebra questa giornata subito dopo la Festa di tutti i Santi, proprio per inondare di speranza questo periodo commosso e mesto nella luce della resurrezione. Non celebriamo i morti, ma coloro che abbiamo amato con la fiducia che siano vivi insieme a Gesù e al Padre di tutti.

Qualcuno storce il naso sentendo parlare di commemorazione dei fedeli defunti: come – sembra dire – solo i fedeli, i credenti? Non ricordiamo tutti i defunti? E quelle povere persone che piangono la morte di qualcuno non credente? Per loro non ci sarebbe consolazione?! Ovviamente non è così. La dicitura “fedeli defunti” sta a indicare, come già accennato, che questo ricordo è nel contesto di una speranza e che la Chiesa vorrebbe sostenere tutti, amichevolmente e senza alcun atteggiamento di sfida, di giudizio o di rivalsa. La Chiesa universalizza il suo messaggio, condivide questo sguardo verso la vita eterna come un patrimonio comune, in modo che tutti possano celebrare una memoria consolata e che non faccia più male.

In quel giorno tutti commemorano i propri cari, tutti vanno al cimitero a portare un fiore, o dicono una preghiera o fanno un ricordo affettuoso, sia chi crede che chi non crede. In questa processione di tutti gli esseri umani sensibili, la Chiesa tiene accesa una luce, anche per chi fa più fatica a vederla.

Don Davide




Poltrone e mandato

Ricchezza e potere: un binomio micidiale per il Vangelo. Domenica scorsa Gesù aveva parlato della ricchezza, in questa tratta del potere: in entrambi i casi per esprimere un giudizio molto severo.

C’è un’esperienza “mondana” che Gesù addita senza mezze misure: chi è chiamato al governo e i capi finiscono nelle spire del potere, diventano dominatori e oppressori. Se si pensa alla situazione di alcuni paesi del mondo e alla tentazione costante di qualunque ruolo “di potere” si riconosce quanto queste parole di Gesù siano attuali e senza sfumature.

Ma questo pericolo può avvelenare anche la Chiesa, che rischia di diventare “mondana” ogni volta che il potere si afferma di più della disponibilità a dare se stessi «in sacrificio di riparazione» (Is 53,10).

Mi viene in mente questa scena, per spiegarmi. Un gruppo di ragazzini in cortile organizza le squadre per giocare a calcetto. Il più bravo dice a quello più brocco: “Tu vai in porta!”, ma si sa che nessuno vuole mai stare in porta. Così il brocco rifiuta e cominciano a litigare. “Vacci tu, chi ti credi di essere?!” dice il brocco dopo alcuni scambi poco garbati. A questo punto, quello della squadra che è bravo, ma non il più bravo, dice: “Vabbé dai, ci vado io…”. Sa di rinunciare a divertirsi e a fare goal… ma ci vuole qualcuno che sistemi la situazione. Questo significa “sacrificio di riparazione”.

Fin da piccoli, quindi, ci accorgiamo quanto ci costi rinunciare al potere. Invece, tutta la vita spirituale cristiana potrebbe essere descritta come un itinerario di liberazione da ogni volontà di potenza. Che non c’entra niente con l’ambizione o il sognare in grande. Il potere è qualcosa che, nei posti che occupiamo, anche i più piccoli, usurpa qualcosa agli altri. “Io voglio essere alla destra di Gesù – pensano Giacomo e Giovanni – e peggio per gli altri!”.

Se io vinco una partita, quello non è potere, perché l’ho conquistata, me la sono meritata; ma se rubo, inganno o non sono corretto, questo è potere. Se io vinco un concorso per avere un posto di lavoro importante, quello non è potere; ma se io cerco una raccomandazione o una via preferenziale, questo è potere. Se in chiesa io curo i fiori dell’altare, pensando di farlo con grande spirito di servizio, ma una volta che qualcuno mi vuole dare una mano o un suggerimento lo mando via in malo modo, questo è potere.

Da questo ci dobbiamo spogliare.

Oggi la nostra comunità parrocchiale conferisce il “Mandato” a tutti i catechisti, gli educatori e i responsabili delle attività. È un riconoscimento ufficiale del servizio che, come parrocchia, chiediamo loro a nome di tutti, e che orienta la vocazione di ciascuno alla santità.

Questa chiamata al servizio scaturisce direttamente dal Battesimo: è un potere che non ci deve conferire nessuno, se non Gesù stesso che ci chiama ad essere attivi costruttori della sua casa. La comunità – la Chiesa – opera un discernimento di questa disponibilità e la riconosce, con gratitudine.

Proprio per questo motivo, ogni incarico assunto nella Chiesa dev’essere completamente libero da ogni gusto del potere. Gesù lo dice con una semplicità così disarmante che siamo sempre portati a travisarla: «Chi vuole essere il primo, serva, non per modo di dire, ma come gli schiavi» (Mc 10,44).

A chi riceve il “Mandato”, quindi, facciamo gli auguri con le parole della seconda lettura: che sappiate prendere parte alle debolezze soprattutto dei più fragili, dei meno coinvolti e dei meno simpatici, e che possiate avere il cuore benevolo come Dio Padre, ed essere graziosi e gentili verso tutti (cf. Eb 4,15.16). E così dicendo, vi ringraziamo anche del vostro servizio.

Don Davide