Aghi e cammelli

La prima lettura e il vangelo ci permettono di fare una riflessione schietta sull’utilizzo del denaro e su alcuni appuntamenti che riguardano la nostra parrocchia in questo mese di ottobre.

Oggi riprendiamo la raccolta della 2° domenica del mese, interamente destinata al finanziamento dei lavori di ristrutturazione della parrocchia. È inutile mascherarsi dietro a un dito: c’è bisogno di soldi e di un contributo ancora più generoso da parte di tutti, perché le spese di manutenzione delle strutture che abbiamo, anche per renderle funzionali e sicure per le attività, sono sempre altissime. Abbiamo avuto tanti lavori che sono quasi finiti: ora è il tempo di pagare le fatture, quindi il momento più delicato.

Allo stesso tempo, però, non vogliamo farci abbagliare dal miraggio delle ricchezze e dagli inganni del denaro. Perciò, in occasione della Giornata nazionale delle persone down, oggi accogliamo volentieri anche l’Associazione Futura onlus – alla quale siamo particolarmente legati per la presenza di alcuni membri della nostra comunità – per una presenza di sensibilizzazione e di autofinanziamento. L’Associazione Futura venderà delle violette fuori dalla chiesa per raccogliere fondi per sostenere le attività volte alla crescente indipendenza delle persone down.

Lo abbiamo segnalato domenica scorsa e lo ricordiamo di nuovo oggi stesso, in modo che ciascuno sia libero di gestirsi, di scegliere come destinare le proprie offerte, senza gravare eccessivamente sulle finanze personali e famigliari e con il massimo rispetto delle scelte di ciascuno.

Le esigenze sono sempre tante e si accumulano, ma questo ci porta a ricordare un’altra frase di Gesù sul buon uso del denaro: “Fatevi amici con la disonesta ricchezza… perché essi vi accolgano nelle dimore eterne” (Lc 16,9). Bisogna essere realisti: che siano i muri o esigenze di inclusione e uguaglianza, in ogni caso siamo purtroppo legati al bisogno di soldi. Però c’è un modo di uscire da questa morsa malsana, facendoci degli “amici” che – dice Gesù – “ci aprano le porte del Paradiso”. È ormai sotto gli occhi di tutti, infatti, che le ricchezze non mancano, solo che sono distribuite male. Se invece fossero condivise meglio e messe in circolo per cose più buone, forse – a dispetto di aghi e cammelli – persino il denaro potrebbe essere redento!

Per questo stesso motivo, sollecitati dall’amore per la sapienza nella prima lettura, abbiamo deciso di ripetere la raccolta per l’acquisto dei libri scolastici e per sostenere gli studi dei bambini che altrimenti avrebbero difficoltà. Sabato 27 sera e domenica 28 ottobre tutta la raccolta delle messe verrà devoluta alla Caritas e alla San Vincenzo per questo scopo.

Rinunciare a tutte le offerte di una domenica – normalmente utilizzate per far fronte alle spese ordinarie (bollette, attività e pagamenti) – è un sacrificio enorme per il bilancio di una parrocchia. Lo studio, però, è una cosa troppo importante e vogliamo porre un segno forte di questo “riscatto del mondo” che passa – come diceva la ragazzina pakistana di nome Malala – attraverso un libro, un quaderno e un’insegnante.

Che sia anche un segno del nostro pensiero per tutti quei bimbi del mondo che non hanno questa possibilità, perché sfruttati, maltrattati o in altre condizioni sfortunate. Che il nostro impegno possa raggiungere idealmente tutti e aiutarci a considerare la scuola, lo studio e l’educazione tra i beni più preziosi che possiamo custodire.

Anche in questo caso, abbiamo scelto di comunicarlo con largo anticipo, in modo che ciascuno possa “farsi i conti in tasca”, non sentirsi oberato, ma aiutato ad allargare il cuore, con saggezza e prudenza e serenamente, perché chi dona possa farlo con gioia.

Don Davide




I bimbi e i giovani

«Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò» (Mc 10,10). Questa breve citazione del Vangelo ci ricorda che al di là del politicamente corretto, accogliere i bambini non è facile. Tanto meno lo era al tempo di Gesù. La formula è fortissima: Gesù si indignò dell’atteggiamento dei discepoli. 

Questa settimana ricominciamo il catechismo: speriamo non solo che Gesù non si indigni, ma che anzi sia orgoglioso di noi. I bimbi sono allegri e adorabili per tanti aspetti, ma al catechismo sono anche tanti, chiassosi, a volte stanchi. Noi ci proponiamo di fare in modo che il tocco di Gesù raggiunga comunque tutti, che nessuno sia impedito di andare da lui. 

Chiedo, in questo, l’alleanza di tutta la comunità, la complicità delle famiglie, la stima, l’amicizia e la vicinanza per tutti i catechisti, la preghiera di tutti. Sappiate che c’è molto bisogno, perché da noi si verifica questo strano fenomeno: i bimbi aumentano e i catechisti diminuiscono! 

 Domenica scorsa è iniziato anche il cosiddetto Sinodo dei Giovani a Roma, in Vaticano. Anche il nostro vescovo Matteo è stato chiamato dal papa a partecipare. 

Le letture di oggi ci propongono un modello di uomo e di donna che, paradossalmente non è ancora stato raggiunto. Prima ancora di pensare alla dimensione coniugale, infatti, questi testi ci parlano di uomo e donna come costitutivi dell’essere umano. Pienamente uguali nello statuto esistenziale e nei diritti, diversi nella ricchezza della varietà, talvolta complementari. 

Vorrei augurare a tutte le giovani e i giovani, perciò, di diventare donne complete e uomini integri. Se penso a un sogno per ciascun giovane è che oggi si goda la sua giovinezza, in tutte le cose positive che esprime e con tutti i valori che rappresenta, ma che poi sappia essere pienamente donna o uomo adulto. 

E che abbia qualcuno che faccia strada senza sbarrarla, qualcuno che possa essere di esempio senza invidia o volontà di potenza. 

 

Signore Gesù, 

che hai voluto i piccoli con te, 

hai amato i giovani fissando su di loro il tuo sguardo 

e hai riconosciuto le donne; 

per questa preghiera, 

effondi lo Spirito Santo 

sui bimbi, sui giovani e le giovani, 

perché possano fare splendere il mondo 

del tuo amore, 

con la loro umanità. 

Concedi ad ogni adulto 

di stimare i giovani, 

di seguirli, accompagnarli, stare loro affianco 

senza ingombrare lo spazio, 

e di essere così testimoni trasparenti 

della libertà che Dio Padre 

ha voluto per loro. 

Amen. 

 

Don Davide




La Chiesa: “noi” di Ebrei e Gentili

Nella lettera di Benedetto XVI al Gran Rabbino di Vienna Arie Folger riguardo all’intervento dello stesso Benedetto XVI su Communio (4/2018) dal titolo «Grazia e vocazione senza pentimento», il papa emerito fa riferimento a una possibilità di interpretazione di teologia della storia che favorirebbe il dialogo ebraico-cristiano.

La nota è interessante, perché è proprio una certa teologia della storia che ha caratterizzato i rapporti tra ebrei e cristiani per quasi due millenni nello schema della teologia della sostituzione; ed è ancora una teologia della storia che permetterà forse di trovare un posizionamento adeguato della Chiesa e di Israele all’interno del dialogo, sviluppando una teologia coerente con il rifiuto di quella della sostituzione.

Il tempo, la Chiesa, Israele

Egli inquadra il tema all’interno del problema del «già e non ancora», che viene a descrivere come il «tempo della Chiesa». L’utilizzo di questa espressione è ambivalente: per Benedetto XVI sembra essere sia il tempo storico-cronologico seguito alla resurrezione di Gesù, sia l’esperienza soggettiva della Chiesa, si potrebbe forse dire: «il tempo che è la Chiesa». A questo si riferisce l’autore quando scrive: «Il tempo della Chiesa è per i cristiani ciò che per Israele furono i quarant’anni nel deserto. Il suo contenuto essenziale è pertanto l’esercizio di apprendimento della libertà dei figli di Dio, che non è meno difficile per i “popoli” di quanto lo sia stato per Israele».

Questa lettura è suggestiva dal punto di vista spirituale, ma debole nel fondamento teologico. Paolo parla piuttosto di una libertà in atto, una libertà costitutiva che non va appresa, se non nel senso che la libertà si apprende in quanto si esercita. Nel culmine della polemica di Galati scrive: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi, non lasciatevi dunque imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5,1). È molto interessante per il nostro successivo discorso che Paolo usi il pronome «noi-ci», mettendosi all’interno, come ebreo, di quell’esperienza dell’essere in Cristo che ha reso possibile il «noi» di ebrei e gentili che è la Chiesa.

Papa Benedetto XVI invece parla dei «popoli» e lo fa, del tutto consapevolmente, in riferimento alla Chiesa: «Se si accoglie questa nuova visione del tempo dei popoli, viene offerta una teologia della storia che gli ebrei possono non accettare in quanto tale, ma che forse può offrire un nuovo livello nella comune lotta per il nostro impegno comune».

Teologia della storia

Anche se la Chiesa all’atto pratico e per molti secoli è risultata essere costituita quasi interamente dai popoli, cioè dai «Gentili», è indispensabile non dimenticarsi della sua originaria costituzione da Ebrei e Gentili, poiché questo è il modo in cui il Nuovo Testamento fonda una teologia della storia che riguardi la Chiesa ed è anche l’unico ingresso al problema se non si vuole incorrere in pericolosi vicoli ciechi.

Il tema della teologia della storia, in rapporto a Israele e la Chiesa, è trattato in maniera compiuta in Efesini attraverso la categoria di mysterion – tipico, nel suo uso teologico forte, di questa lettera e di Colossesi – che indica non solo lo svelamento della partecipazione dei Gentili all’adorazione del Dio di Israele, e neppure solo la chiarificazione di come ciò avvenga in Cristo, generando una comunione affatto nuova che costituisce la Chiesa.

La distinzione di Ebrei e Gentili è una realtà teologica, rivelata dall’elezione di Israele, ed è l’asse onnicomprensivo su cui si muove la storia della salvezza e le conseguenti forme dell’attesa messianica. Il fatto dunque che venga meno questa divisione, mantenendo in una realtà nuova le precedenti identità, non significa solo che è superata una distinzione tra le tante, come se i tifosi di Real Madrid e Barcellona decidessero di tifare insieme per una terza squadra; ma che è in atto la fine di tutte le divisioni. Ossia, che la comunione in cui Dio ha da sempre voluto coinvolgere tutto il genere umano attraverso la storia dell’Alleanza e dell’Elezione – e che sembrava impossibile! – è finalmente incominciata, che la riconciliazione del mondo è entrata nella storia e che la Pace, esito di tutte le attese messianiche, è vera.

La comunità messianica

Il mysterion annunciato è tale, quindi, in quanto svelato ora, nel tempo della Chiesa (Ef 3,5). La sua condizione essenziale è di esprimere che la realtà escatologica ha fatto irruzione nella storia. La valenza apocalittica con cui il mysterion costituisce la Chiesa è di marcare questa differenza: essa o è nel presente e nella storia degli uomini in assoluto la comunità messianica, o non è.

L’unità nelle differenze che la Chiesa racconta, non è – e non potrebbe essere – solo la comunione dei Gentili che imparano la libertà come già Israele ha fatto; quell’unità è espressa solo se si tiene conto della sua costituzione originaria da Ebrei e Gentili, che fa appunto cadere ogni altra divisione.

Il mysterion svelato da Dio e interpretato da Paolo è un sinonimo della Chiesa. Intuizione che già il Concilio Vaticano II aveva avuto nelle due famose espressioni della LG: segno e strumento dell’unità di tutto il genere umano (LG 1) e sacramento dell’unità di tutto il genere umano (LG 9).

La Chiesa quindi è nel tempo l’anticipazione di una comunione definitiva di tutti gli esseri umani. Il ruolo della Chiesa è questo: non è che apprenda la libertà, come se fosse una cosa che potrebbe non acquisire. Molto di più, ha il dovere di testimoniare questa libertà: ad esempio la libertà di non avere nemici; la libertà di non avere confini; la libertà di non avere una caratterizzazione identitaria, tantomeno nazionale o peggio nazionalista; da ultimo, la libertà di riconoscere il posto di tutti quegli Ebrei e Gentili che non sono in Cristo, poiché la storia palesemente non è finita e compito esclusivo della Chiesa è di essere quel segno reale della fine della storia, in mezzo a tutti coloro che mandano ancora avanti la storia.

Coloro che non sono in Cristo

La presenza di Israele e dei Gentili che non sono in Cristo è infatti caratterizzata da identità, da confini, da conflitti, da diverse credenze religiose e diversissime culture, finché non ci sia lo svelamento pieno, alla fine dei tempi, della comunione operata nel Messia, attraverso di lui.

Come scrive in modo emblematico e suggestivo Jacob Neusner: «Il racconto che Gesù faceva del regno di Dio attirava i miei occhi verso l’alto, verso il cielo. Ma io vivevo, e vivo tuttora, in questo luogo e in questo momento, dove i buoi danno cornate e le famiglie litigano. Il regno dei cieli potrebbe venire, forse non troppo presto, ma finché è sopra di me, la Torah mi insegna che cosa significa vivere qui e ora nel regno di Dio» (Un rabbino parla con Gesù, San Paolo 2007, 187-188).

La Chiesa, invece, ha il compito di essere una cosa completamente diversa. Se rinnega questo compito, tradisce se stessa e disconferma la sua testimonianza e persino la sua esistenza. Quella parte della Chiesa che proviene da Israele, è una porzione all’interno di Israele che non ambisce alla totalità, ma che sente nella voce del maestro Gesù una chiamata ad essere segno e strumento di quest’anticipazione del Regno, pienamente coerente con le aspettative di Israele: «Gesù non si rivolge all’Eterno Israele, ma ad un gruppo di discepoli» (Ivi, 58).

In questo senso la nota di Benedetto XVI è felice perché intuisce che il rapporto tra ebraismo e cristianesimo è legato alla teologia della storia, ma non coglie forse il punto cruciale che è il passaggio storico salvifico dell’inserimento in Cristo della distinzione originaria e permanente nella Chiesa di Ebrei e Gentili che possono vivere ora in comunione: non più, cioè, e in realtà mai solo una Chiesa «dei popoli».

 

Testo scritto per SettimanaNews del 6 ottobre 2018




Lettera agli studenti

La vostra scuola per diventare gli uomini e le donne che sarete

Settembre 2018 

Cari bambine e bambini, ragazze e ragazzi, 

inizia un nuovo anno scolastico, una nuova tappa fondamentale della vostra vita e degli uomini e donne che sarete. 

Sì, perché a questo serve la scuola: attraverso lo studio e la conoscenza diventerete buoni cittadini e anno dopo anno scoprirete con l’aiuto dei vostri insegnanti quale sia la strada per la vostra vita, ciò che vi appassiona ed esalta i talenti che il Signore vi ha donato. 

Ritroverete i vostri amici o ne conoscerete di nuovi, il cui ricordo vi accompagnerà per sempre.  

Scoprirete che il progresso è fatto di tanti piccoli passi che altri uomini e donne, prima di voi, hanno conquistato attraverso applicazione, sacrifici e impegno. 

Con lo studio della Storia, conoscerete le conquiste dell’umanità, ma anche gli orrori commessi nel passato, per tenere sempre gli occhi bene aperti sul presente. 

Ho sempre ammirato le maestre e i maestri della scuola primaria. Il primo anno accolgono bambini completamente diversi: c’è chi sa già leggere e scrivere, chi sa solo disegnare e chi non parla neppure l’Italiano. Ma arrivati a Natale, quelle bambine e bambini così diversi sono diventati una classe e tutti sanno leggere e scrivere! Dunque amateli i vostri insegnanti, anche se ogni tanto vi fanno penare… sono lì per tirare fuori il meglio che c’è in ciascuno di voi! 

Nelle gioie e nelle fatiche sappiate che questa Comunità parrocchiale è al vostro fianco con il sostegno prezioso di Don Davide, dei catechisti e degli educatori, e che siete nelle preghiere di tutti noi. 

Buon anno scolastico a tutte e tutti! 

 Francesca Puglisi 

a nome di tutta la Comunità parrocchiale 

Inizio anno scolastico




Chi vuole seguirmi…

Carissimi amici e amiche,

molti di voi hanno già ripreso a pieno regime il ritmo del lavoro, ma l’inizio della scuola scandisce un vero e proprio ricominciamento, così come la tradizionale Tre Giorni del Clero bolognese stabilisce ufficialmente l’avvio di un nuovo anno pastorale.

Tutto ricomincia: le famiglie sono alleggerite nel vedere tornare a scuola i figli, allo stesso tempo riprende la frenesia degli sport e delle altre incombenze. La città si riempie, diventa impossibile trovare parcheggio, ci si dà appuntamento nei tradizionali luoghi di ritrovo, sapendo che non mancherà (quasi) nessuno; che sia lo stadio o la messa domenicale o il proprio locale preferito, si sa di avere di nuovo dei luoghi di “comunità”.

C’è qualcosa di rassicurante e bello nel riprendere i ritmi conosciuti e la scansione degli impegni e dei propri riti. Allo stesso tempo c’è anche un’inquietudine di fondo, per quell’ombra che si alza nel nostro spirito al ricordo dei momenti frenetici, delle fatiche e delle angustie provocate dalla vita quotidiana.

Guardiamo al tempo che ci sta davanti con i migliori propositi, ma anche con trepidazione.

In questa domenica, la liturgia ci offre un prezioso consiglio nell’invitarci ad aprire l’orecchio senza opporre resistenza e a stare dietro a Gesù, a metterci nella posizione della sequela con il desiderio di sentirci rassicurati dalla sua guida.

Abbiamo questa grande opportunità che nessuno ci può togliere: invece di lasciarci angustiare o intimorire, cogliamo l’occasione per discernere ciò che Gesù ci vuole comunicare in ogni circostanza. Lui ci vuole bene, vuole farci sentire custoditi e vuole che la nostra vita sia positiva e piena di senso. Proviamo a credere che in quello che ci capita c’è comunque Gesù che ci sta davanti e ci rassicura dicendo: “Anche se il sentiero è difficile, segui i miei passi e andrà tutto bene!” come farebbe un’abile guida alpina su un sentiero di alta montagna.

Agli studenti vorrei dire: il mondo del futuro si prepara a sfide che non possiamo neanche immaginare. Gli scenari mutano e si trasforma il modo della nostra conoscenza. Cambieranno le competenze richieste per abitare la complessità del mondo. In questo piccolo cosmo, sarà necessario essere lucidi e non perdere la tenerezza. Perciò, cari studenti, vi invito a cogliere il tempo della scuola come un tesoro per voi: pensate soprattutto a quello che potete imparare! Nulla è superfluo, arricchite il vostro tesoro interiore, imparate le associazioni e le connessioni, apprendete alla perfezione la parola scritta e orale, testimoniate la correttezza e il rispetto tra voi e coi professori. Gli uomini e le donne che guideranno il mondo con più giustizia e più compassione di quanta ce ne sia al presente, siete già voi oggi.

Alla nostra comunità parrocchiale dico che ci attendono molti grandi cambiamenti. Dovremo aprire il cuore all’amicizia e alla comunione tra le parrocchie. Dovremo avere stima di chi porta avanti un lavoro comune e incoraggiarlo, anche con il nostro appoggio. Dovremo liberarci dalle abitudini pastorali, dalle comodità, dai sentieri già conosciuti, e tracciarne di nuovi obbedendo alla parola di Gesù che ci dice: “Stai dietro a me”.

È molto consolante potere essere certi che sia il Signore a fare strada. A noi aprire l’orecchio, ascoltare e seguirlo.

Don Davide




Omelia 16 settembre 2018 di Padre Maurizio

Vorrei con voi, oggi, e con le amiche e gli amici che sono venuti a rallegrare la nostra liturgia con il dono del canto, spendere due parole e dare voce a quella gioia che ci muove dentro. E che ci fa percepire, con una evidenza indiscutibile, il legame tra musica e liturgia, tra canto e sacramento.
Ciò che percepiamo, con questo misterioso legame, è qualcosa che ha a che fare con l’energia creatrice, quell’energia dello spirito che crea mondo. Il motore del mondo. Non è solo un abbellimento, il coro che canta in chiesa. Quando celebriamo il sacramento senza cantare, sentiamo che ci manca qualcosa, ma è come se non disponessimo delle parole adeguate per dire questa mancanza. E allora diciamo: <<Certo, col coro è più bello…>>. Ma non è solo più bello, è, soprattutto, più vivo. Ecco, vorrei trovare con voi le parole per dire questo, per dire questa vita del canto nel sacramento, questa vita del sacramento nel canto.
Il nostro punto di partenza è la nostra cultura, centrata sull’efficienza, sul calcolo quantitativo; una cultura totalmente anaffettiva perché ci consegna a una solitudine molto vicina alla solitudine dei numeri primi… Anzi, siamo più soli dei numeri primi, perché poi nella musica i numeri si esaltano tutti in questa loro parentela privilegiata con le note e con il ritmo. I numeri si esaltano quando sono assunti dallo spirito della musica. Noi ci esaltiamo un po’ meno, perché abbiamo affinato il linguaggio di una ragione priva, però, delle parole degli affetti. Ecco, il primo punto è questo: la musica, il canto, nella sua gratuità, è il luogo di una vitale mediazione tra le parole della ragione e le parole degli affetti e dei legami, che sono la sostanza del nostro vivere. Una mediazione non di quantità, ma di qualità: il coro non aggiunge nulla al sacramento, ma lo fa risuonare e vibrare all’interno dei nostri corpi, che sono corpi vibranti, sempre, anche sotto anestesia.
Poi noi cristiani occidentali, ogni volta che cantiamo in chiesa, portiamo qui quasi duemila anni di storia e di civiltà. Perché dalla grande tradizione monastica cristiana – che ha molti secoli di storia e di memoria – perché da lì, dall’esigenza di cantare Dio, è nata la grande musica occidentale. Non si è trattato solo di cercare le risonanze più pure ed eleganti dello Spirito creatore: il genio cristiano ha stabilito un legame indissolubile tra civiltà musicale e vita secondo lo Spirito. Quindi, ogni volta che portiamo la musica dentro la liturgia, portiamo con noi quindici secoli di storia. Non solo: portiamo nel sacramento un’intera civiltà musicale, senza la quale la nostra stessa civiltà va in depressione. Perché il canto e la musica liturgica occidentale sono un albero vivo, le cui radici penetrano profondamente nella tradizione classica e nella tradizione biblica. Da una parte la sensibilità tutta greca e latina per la parola poetica, ritmata e cantata, quale espressione viva dell’umano. Dall’altra la forza del sentire biblico, che nella preghiera fatta canto (pensiamo alla meravigliosa ricchezza del Libro dei Salmi) celebra la quotidiana attesa, il quotidiano incontro con Dio.
Se c’è qualcosa in grado di dirci che il mondo, le cose, i corpi, hanno un’anima, questo è la musica. Perché la musica fa suonare il legno, il metallo, la pelle del tamburo. Ci innalza verso l’incanto dell’essere-al-mondo, alleggerendo ogni ingombro di massa inerte; ma allo stesso tempo restituisce alla materia un’anima di vita. L’universo intero, stelle comprese, vibra. La voce del canto porta, nello spazio limitato di una stanza o di una chiesa, la vibrazione dell’universo. E il sacramento dice alla musica: <<Sorella, non ti spaventare per questa immensa responsabilità, perché tu stai dando respiro a una parola che ti precede, una parola buona, carica di promessa, una parola che vuole bene, la parola del Verbo che si è fatta carne, per ciascuno di noi, per la nostra felicità e per la nostra salvezza. Non avere paura, canta!>>. E la musica, il canto, accoglie l’invito. Il canto entra nel sacramento, e sente che lì è casa sua. Lì, nel sacramento, il canto incontra e trova se stesso come voce che può dar voce e corpo all’Indicibile che lo precede, incontra e trova se stesso come voce dell’inesprimibile che è dentro ciascuno di noi.
Non avere paura, canta! Perché senza il prodigio del canto il mondo non solo è più triste, ma si decompone.

p. Maurizio




Il raccolto e la semina

Un ciclo di gioia, per portare molto frutto

La ripresa delle attività in parrocchia è sempre fonte di trepidazione e di gioia. Le preoccupazioni per gli impegni e i dubbi se si riuscirà a fare bene, si mischiano con l’entusiasmo dell’incontro con le persone e lo scoprire ancora una volta una realtà viva e vivace.

Viene in mente il passo di Isaia 9,2: “Gioiscono come si gioisce quando si miete”, perché la consapevolezza di un ciclo che porta frutto è incoraggiante.

In realtà, come nell’agricoltura anche nella pastorale la stagione dell’autunno è piuttosto il tempo della semina, del lavoro instancabile e della preparazione. Tuttavia, questo lavoro si fa guardando sempre alla gioia della mietitura appena passata: la fede è stata ancora trasmessa, i giovani sono cresciuti, nuove famiglie sono nate, traguardi sono stati raggiunti e altri obiettivi, così, si possono coltivare.

La nostra comunità parrocchiale di S. Maria della Carità e di S. Valentino della Grada, si trova quest’anno di fronte a tre sfide che la metteranno in gioco.

La prima è l’avvio dell’esperienza delle zone pastorali, con l’assemblea di zona che ci attende e il tentativo di avviare almeno la collaborazione per i gruppi giovanili.

La seconda è il desiderio di allargare notevolmente il coinvolgimento e la sensibilità della Caritas a tutta la parrocchia e ai parrocchiani, in modo che la Caritas non rimanga faccenda di pochi cuori generosi, ma tutti si sentano chiamati in causa. Un segno concreto per corrispondere a questa sfida sarà il tentativo di celebrare una giornata di amicizia con le persone più bisognose, alla cui organizzazione la Caritas e tutti i parrocchiani disponibili, lavoreranno nei prossimi mesi.

La terza sfida è una riforma radicale dell’esperienza delle cosiddette benedizioni pasquali, che verranno sostituite in fase sperimentale da una visita del parroco alle famiglie, non più circoscritta alla Quaresima, ma che potrà avvenire in ogni momento dell’anno.

Oltre a queste novità, continua la proposta formativa della Scuola di Formazione Teologica nella nostra parrocchia: appuntamento da non perdere per tutti quelli che desiderano curare più seriamente la propria formazione pastorale e catechetica.

Naturalmente, continueremo ad accompagnare la formazione dei bimbi e dei ragazzi, lasciandoci coinvolgere dal loro entusiasmo e seguendo tutti quanti il motto dell’Azione Cattolica che anima il loro cammino di quest’anno: “Ci prendo gusto!”. È il grido di una partecipazione attiva, contenta: il corrispettivo aggiornato dell’ I CARE di don Lorenzo Milani. Da alcuni anni, nella formazione dei bimbi e dei ragazzi, lo spirito che ci anima è “Chi viene ci guadagna!”, senza obblighi o costrizioni, ma solo con la gioia di sentirsi a casa in parrocchia, di scoprire tanti amici e di avere gli adulti come alleati per il bene. Ci auguriamo perciò che tutti i bimbi e i ragazzi dell’ACR possano davvero giungere a dire: “Ci prendo gusto!” e con loro anche tutta la comunità educante, tutti coloro cioè maggiormente impegnati nell’educazione e nella formazione.

Che il Signore, in questo tempo di semina con davanti agli occhi la gioia del raccolto, ci doni di dissodare prima di tutto il nostro cuore, perché il seme buono della disponibilità e della fiducia vi trovi casa, per produrre molto frutto.

Il raccolto e la semina




Tempo ordinario

Per elevare lo spirito

“Ordinario” sembra essere un termine dispregiativo nel linguaggio comune: è ordinario ciò che non ha particolari qualità. Ma non è così nel tempo liturgico della Chiesa: il Tempo Ordinario è il periodo che non è caratterizzato dalle grandi solennità e, proprio per questo motivo, ha tanto più valore perché celebra il fatto che la resurrezione agisce la sua potenza non solo nelle grandi occasioni, ma anche nella ferialità delle nostre vite.

C’è un’energia straordinaria che opera nella vita ordinaria.

L’amore di Gesù ci accompagna in ogni passo e, come credenti, noi sappiamo che le nostre case, le nostre scuole, i nostri uffici, le strade che percorriamo in mezzo al traffico, i rumori della città sono per noi il luogo della nostra santità. Come scriveva Madeleine Delbrél in un’intuizione folgorante: “Noi crediamo che per la nostra santità nessuna cosa ci manchi, perché se ci mancasse Dio ce l’avrebbe già data.”

Così questo tempo che ci è dato di vivere con la Chiesa e nella Chiesa è come l’alzarsi in volo delle mongolfiere. Non un’accelerazione fantasmagorica come quella degli aerei o dei razzi, né un frastuono assordante come quello degli elicotteri, ma un lento elevarsi verso il cielo, scaldati e riempiti dal fuoco dello Spirito. Non tutto quello che c’è è necessario e utile, perciò per vivere la santità nel quotidiano sarà indispensabile liberarsi di qualche zavorra, essere più leggeri per lasciarci condurre senza resistenze dal vento dello Spirito Santo. Questo processo, però, avviene con gradualità.

La liturgia domenicale e la nostra preghiera quotidiana agiscono così: ci fanno piano piano cambiare l’orizzonte, ci aiutano a guardare le cose dall’alto e a cogliere il mistero di Dio che attira ed eleva i nostri cuori, e che agisce non solo nei nostri, ma anche in quelli di amici e conoscenti, come quando si vedono tante mongolfiere nel cielo.

E là, più in alto, il sole di Dio. Guardiamo a lui con una nostalgia non meglio definita nel cuore, lo desideriamo come meta della nostra pace. Mentre ci pare di avvicinarci, chiediamo che sia lui stesso a colmare la distanza e ad entrare nel nostro luogo sacro interiore, affinché nel desiderio di elevarci, non dimentichiamo la base di tutte le nostre partenze.

Tempo ordinario




La Preghiera, per dare voce allo Spirito

Tutti affannati ad esistere, ma c’è qualcosa che ci fa vivere davvero?

La presenza delle chiese di S. Maria della Carità e di S. Valentino della Grada, affacciate sulle strade che tutti i giorni percorriamo, sembra porre continuamente questo interrogativo.

Siamo presi dalle nostre incombenze, lo facciamo cercando di essere fedeli alle nostre responsabilità – e questo ci fa onore – ma c’è qualcosa che unifica tutto questo, conferendogli senso? C’è uno Spirito che anima il nostro vivere, facendo diventare ogni nostra relazione, ogni nostro impegno e il tempo che scorre inesorabile, sorgente di vita?

Una chiesa se ne sta lì – come nel caso delle nostre, da secoli – aperta la maggior parte delle ore del giorno, umile, silenziosa, accogliente. Non strepita, non dice: “Ehi, venite qui a trovare ristoro!” ma c’è.

La preghiera, per dare voce allo spirito

Qualcuno attende le sette di mattina per entrare puntuale, ad accendere una candela. Qualcuno, nelle mattine d’estate, non vede l’ora di ammirare il portone principale spalancato. Qualcuno, passando davanti, si fa il segno della Croce… Qualcuno non ci fa nemmeno caso che ci sia una chiesa. Si gode la protezione del portico che si confonde con gli altri di Bologna, ed è bello anche così: che ci sia una chiesa che vuole essere pienamente “dentro” la sua città.

La comunità cristiana gode della presenza di questi luoghi, dove dare voce allo Spirito, per sentirsi amati e imparare ad amare.

Vorrei che pensassimo ai molti gesti umili di preghiera che si compiono, quotidianamente, nelle nostre chiese. Certo, non si esauriscono in esse: si prega anche a casa, a scuola, nel luogo di lavoro, mentre viaggia… ma quello che avviene nelle chiese è simbolico e rappresentativo di tutto il resto.

Chi entra nelle nostre chiese ha la percezione di essere in un’altra dimensione: a S. Maria viene accolto dall’abbraccio della penombra e da un’aula maestosa, che ci fanno sentire allo stesso tempo umili e custoditi dalla maestà del Signore. Siamo come quei poveri che vengono accolti sotto il mantello di Maria, nell’antica immagine della Madonna della Carità. A S. Valentino, invece, si viene accolti da un abbraccio affettuoso e intimo, protetti in una piccola aula, dove sentiamo di potere dire ogni confidenza a Gesù.

Poi, si consumano tanti riti e pensieri. Le candele accese, le preghiere in ginocchio, il ricordo per una persona cara, le preoccupazioni per i figli, l’affidamento della propria salute, la tenerezza per la persona amata, le speranze per il lavoro o gli esami dell’università, le preoccupazioni della vita.

Tutto questo viene raccolto nella liturgia, che è la preghiera della chiesa, perché la raccoglie tutta, ogni parola detta, ogni pensiero elevato a Dio, in ogni parte del mondo. Nulla viene lasciato fuori.

Così il nostro spirito si dilata. C’è come un grande alito di vita che attraversa la nostra esistenza, la unifica, la rende coerente nei mille gesti quotidiani con cui cerchiamo di dare la vita per le persone che amiamo.

Ogni cristiano è testimone di questo: pregare è il primo atto dell’esistenza cristiana e, ancorché trascurato, è il più importante.




“Entrerà e uscirà e troverà pascolo” (GV 10,9)

La benedizione del Signore sia su di te quando entri, la benedizione del Signore sia su di te quando esci

Benedire è uno degli atti più antichi dell’umanità, un gesto che sfida la nostra inclinazione al male, mentre va ad attingere alle forze più importanti che ci legano e ci avvicinano agli altri: la benevolenza, la stima, la disponibilità all’amicizia, la fiducia.

Ad Abramo, il Signore, proprio mentre lo benedice, augura: “Possa tu essere una benedizione!”. Sii benedetto tu e possa tu essere considerato una benedizione per gli altri! Possa tu essere quell’uomo dalla cui radice viene l’amicizia tra tutti gli uomini! Possa tu farlo non mettendo alla prova, ma dando fiducia.

In questo – così afferma la riflessione cristiana su Abramo – c’è qualcosa di profondamente giusto.

I cristiani di una comunità parrocchiale ambiscono a generare questo clima di benevolenza reciproca. Vorrebbero essere, nei loro desideri migliori, una benedizione; ma vogliono anche accogliere l’estraneo, colui che non appartiene alla comunità e ogni nuovo incontro come una benedizione.

Chi viene in parrocchia e chi ne esce possa ricevere una parola buona ed edificante e portarla fuori.

In tale clima di benedizione, desideriamo vivere la nostra presenza nel mondo senza paura. Non vogliamo essere preoccupati di questo tempo, come se fosse molto peggiore dei precedenti, ma lo cogliamo come un momento opportuno per vivere il Vangelo. Non siamo spaventati dalla cultura e dall’abbandono della fede, perché percepiamo l’opportunità di condividere nuovamente la grazia di Cristo. Non ci arrocchiamo in parrocchia o, peggio, nelle sagrestie, ma offriamo la bellezza della preghiera e il tesoro dell’esperienza spirituale cristiana a tutti coloro che abbiano voglia di scoprirlo.

Entrerà e uscirà e troverà pascolo

Entrando e uscendo attraverso Gesù, la porta delle pecore (cf. Gv 10), sappiamo di potere trovare pascolo dentro e fuori. Ci muoviamo tra chiesa e mondo contaminandone i confini: mentre proviamo a testimoniare il regno di Dio, viviamo con umiltà nella Chiesa e ci ricordiamo a vicenda che il Signore si è incarnato ed è entrato in questa nostra esistenza per parlare dell’amore di Dio, non ne è uscito per trovare una dimensione rassicurante. Sappiamo che la chiesa è sempre anche mondo, e che nel mondo si possono trovare chiese più autentiche che al nostro interno. Cerchiamo la via della santità imparando a sedere a tavola con chi è chiamato peccatore, apprendendo che i pubblicani e le prostitute passeranno davanti nell’essere accolti dall’amore di Dio. Non abbiamo paura dello scambio delle ricchezze: siamo consapevoli di avere dei tesori da dare e accettiamo volentieri chi vorrà condividerli con noi.

In questo movimento di entrata e uscita, in noi stessi, nella chiesa e nel mondo, vogliamo trovare alimento spirituale per l’esistenza cristiana e per il cammino di santità, perché sappiamo che il sacro e il profano ora sono definiti da ciò che plasmato o meno dalla carità di Cristo e consideriamo tutto questo una benedizione.