Papa Francesco a Bologna, 21/04/2018

Cari fratelli e sorelle,
vi saluto tutti con affetto. Grazie per la vostra presenza festosa! Con questa visita presso la tomba di Pietro voi ricambiate quella da me compiuta alle vostre Comunità diocesane il 1° ottobre dello scorso anno. Ve ne sono molto grato. […]
Conservo viva la memoria degli incontri che ho vissuto nelle vostre città. Non dimentico l’accoglienza che mi avete riservato e i momenti di fede e di preghiera che abbiamo condiviso, ai quali hanno preso parte fedeli provenienti da ogni parte delle vostre rispettive Diocesi. È stato un dono della Provvidenza per confermare e rafforzare il senso della fede e dell’appartenenza alla Chiesa, che chiede necessariamente di tradursi in atteggiamenti e gesti di carità, specialmente verso le persone più fragili. […]
L’occasione della visita a Bologna fu offerta, come voi ben sapete, dalla conclusione del Congresso Eucaristico Diocesano. Il fervore suscitato da quell’evento ecclesiale, che ha raccolto numerose persone intorno a Gesù eucaristico, possa prolungarsi nel tempo, non affievolirsi ma accrescersi e portare frutti, lasciando un’impronta indelebile nel cammino di fede della vostra Comunità cristiana. Come ho ricordato nella recente Esortazione apostolica Gaudete et exsultate, «condividere la Parola e celebrare insieme l’Eucaristia ci rende più fratelli e ci trasforma via via in comunità santa e missionaria» (n. 142). L’Eucaristia, infatti, fa la Chiesa, la aggrega e la unisce nel vincolo dell’amore e della speranza. Il Signore Gesù l’ha istituita perché rimaniamo in Lui e formiamo un solo corpo, da estranei e indifferenti gli uni agli altri diventiamo uniti e fratelli.
L’Eucaristia ci riconcilia e ci unisce, perché alimenta il rapporto comunitario e incoraggia atteggiamenti di generosità, di perdono, di fiducia nel prossimo, di gratitudine. L’Eucaristia, che significa “rendimento di grazie”, ci fa percepire l’esigenza del ringraziamento: ci fa capire che «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35), ci educa a dare il primato all’amore e a praticare la giustizia nella sua forma compiuta che è la misericordia; a saper ringraziare sempre, anche quando riceviamo ciò che ci è dovuto. Il culto eucaristico ci insegna anche la giusta scala dei valori: a non mettere al primo posto le realtà terrene, ma i beni celesti; ad avere fame non solamente del cibo materiale, ma anche di quello «che dura per la vita eterna» (Gv 6,27). Cari fratelli e sorelle, gli uomini e le donne del nostro tempo hanno bisogno di incontrare Gesù Cristo: è Lui la strada che conduce al Padre; è Lui il Vangelo della speranza e dell’amore che rende capaci di spingersi fino al dono di sé. Ecco la nostra missione, che è ad un tempo responsabilità e gioia, eredità di salvezza e dono da condividere. Essa richiede generosa disponibilità, rinuncia di sé e abbandono fiducioso alla volontà divina. Si tratta di compiere un itinerario di santità per rispondere con coraggio all’appello di Gesù, ciascuno secondo il proprio peculiare carisma. «Per un cristiano non è possibile pensare alla propria missione sulla terra senza concepirla come un cammino di santità, perché “questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione” (1Ts 4,3). Ogni santo è una missione; è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo» (Gaudete et exsultate, 19). Vi incoraggio a far risuonare nelle vostre comunità la chiamata alla santità che riguarda ogni battezzato e ogni condizione di vita. Nella santità consiste la piena realizzazione di ogni aspirazione del cuore umano. È un cammino che parte dal fonte battesimale e porta fino al Cielo, e si attua giorno per giorno accogliendo il Vangelo nella vita concreta. […]
Vi ringrazio ancora per questo incontro. Vi chiedo per favore di continuare a pregare per me, e di cuore vi imparto la Benedizione Apostolica, che estendo a tutti coloro che compongono le vostre Comunità diocesane.




Parola e speranza ai giovani

Passata la Domenica in Albis, in questa domenica di festa in cui 28 bimbi della nostra parrocchia fanno la Prima Comunione, desidero riproporre le due belle testimonianze di Maria Clara e Anna Giulia – in rappresentanza dei giovani – all’inizio della Veglia Pasquale.

Abbiamo dato parola ai giovani perché lo ha chiesto Papa Francesco, in quest’anno dedicato al Sinodo dei Vescovi sui giovani, che si celebrerà a ottobre.

In questo modo vogliamo anche fare una specie di augurio ai bimbi che vivono in questa domenica il loro primo incontro con Gesù nell’Eucaristia.

Ci auguriamo di saper dare loro spazio all’interno della comunità cristiana; che trovino una chiesa giovane e viva, accogliente per la loro fede e la loro umanità, e che loro – i bimbi di oggi, uomini e donne di domani – possano concorrere a renderla sempre più bella.

Don Davide

 

(Prima testimonianza) Cosa ti auguri per la Chiesa in rapporto ai giovani?

In questa notte in cui Gesù, dopo averci svelato nella sua vita terrena la sua natura di uomo debole, fragile e mortale, e aver condotto il suo amore fino all’estremo sacrificio sulla croce, è risorto per guidarci nella vita…

In questo anno 2018, in cui Papa Francesco ha scelto di porre al centro della riflessione e della preghiera della Chiesa, i giovani, tutti i giovani, qualsiasi sia la loro vicinanza a questa istituzione, dicendo loro: “Ho voluto che foste al centro dell’attenzione perché vi porto nel cuore” …

Mi auguro che tutti gli uomini di chiesa, dai parroci ai vescovi, sappiano pienamente accogliere le indicazioni del Papa,

  • promuovendo iniziative volte a valorizzare la vitalità, l’entusiasmo e l’idealità dei giovani,
  • e incanalando le loro potenzialità per arricchire la grande comunità ecclesiale che, a sua volta, deve saperli guidare e sostenere.

Mi auguro che la Chiesa sappia mostrarsi come un porto sicuro in cui sempre poter ritornare, senza sentirsi in alcun modo giudicati.

Tutte le differenze individuali dovrebbero essere accettate e apprezzate, perché ogni giovane possa sentirsi veramente accolto e, in questo modo, sia più libero di dare un contributo sincero al camminare insieme e si senta rappresentato e ascoltato nella progettazione delle proprie speranze per il futuro.

Maria Clara Chionsini

 

(Seconda testimonianza) Cosa significa, per te, credere nella resurrezione?

Per me credere nella resurrezione significa credere nella resilienza. Credo che la resurrezione ci metta davanti alla possibilità di scegliere tra le cose giuste e quelle sbagliate, tra l’agire e l’essere passivi; ci chiede di scegliere da che parte stare.

Credere nella resurrezione significa, per me, sapere di avere sempre una speranza e una possibilità, se so essere abbastanza forte da accoglierla e sceglierla.

Credere nella resurrezione significa avere fiducia nell’essere sempre accompagnata da lui, da Gesù che è vivo e presente, che mi rassicura di potere superare le difficoltà che la vita mi ha posto, mi pone e mi porrà davanti.

Anna Giulia Ballardini




Lieti nella speranza grati per il dono della vita

Abbiamo tutti bisogno di scoprire che la nostra vita è preziosa e ha una destinazione bellissima

Alla fine del capitolo 15 della Prima lettera ai Corinzi, dopo una riflessione serrata sul mistero della resurrezione, Paolo scrive una frase di una bellezza struggente: “Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore” (1Cor 15,58).

Le cose non sono vane.

Dopo una meditazione così intensa, uno si sarebbe aspettato una conclusione solenne e aulica, invece l’apostolo ci consegna un incoraggiamento semplicissimo e vero. La fede nella resurrezione di Gesù non toglie gli ostacoli, non evita le difficoltà e non risolve tutto magicamente, eppure ci dà le motivazioni per essere saldi e irremovibili, tenendo il timone ben saldo e la rotta dritta, sapendo che nessuna fatica è vana, che tutto viene custodito da lui. Il Signore raccoglie con il suo amore ogni istante e ogni passo della nostra vita, rendendola preziosa e conferendole senso.

Non c’è consapevolezza più lieta e serena di questa. La Pasqua, in fondo, è la parola grazie detta sulla nostra esistenza.

In modo particolare, quest’anno, siamo grati per la vita giovane, per la vita dei giovani. La Chiesa ha voluto metterli al centro del proprio Sinodo, affinché possano essere ascoltati da tutti e protagonisti del rinnovamento ecclesiale. Nelle catacombe romane, spesso, il Signore risorto è rappresentato come un giovane: la resurrezione è giovane. Uno dei segni della Pasqua è la vitalità nello Spirito delle prime comunità cristiane: piccole “parrocchie” con energia, dinamismo, fantasia da vendere, entusiasmo e coraggio.

Vogliamo che la speranza divampi dalla nuova vivacità che i giovani sapranno infondere alla Chiesa, una vivacità che deve essere fatta a modo loro e non contenuta dalla tradizione. Vogliamo colmare le chiese di giovani e vedere nei loro volti quello del Risorto, ed essere grati ancora una volta per il dono della vita, che rinnova le proprie energie attraverso di loro.

Don Davide




Suoni di guerra e fondamenta preziose

Ripetutamente, in quest’anno dedicato al Sinodo dei Vescovi sui giovani, il Papa ha chiesto alle chiese di dare parola ai giovani e che tutti si mettano in ascolto. Lo ha fatto anche di recente, nella fase preliminare del Sinodo, chiedendo ai giovani di parlare con coraggio e di dire quello che pensano davvero.

Seguendo l’itinerario della Veglia Pasquale (attraverso le tre letture su sette che sono state scelte) abbiamo un paradigma, anche per chi celebra ad altri orari, del nostro itinerario spirituale in queste feste.

La celebrazione di questa Pasqua inizia per la nostra comunità cedendo la parola ai giovani. All’inizio della Veglia, il primo annuncio della Resurrezione e anche l’accensione del Cero Pasquale sono affidati alla testimonianza di due giovani donne, unendo così entrambi i dati del Vangelo di Marco: la presenza di un giovane ri-vestito di bianco (ricordarsi il giovane che è fuggito via nudo all’arresto di Gesù!) e delle donne.

Il lungo ascolto della Parola di Dio incomincia poi da una domanda rivolta da Dio a ciascuno di noi (3° lettura): “Perché gridi? Smettila di gridare – sembra dire – e attraversa i flutti. La fede non è forse affrontare cammini apparentemente impossibili, chiamati dalla Parola?”. Seguiamo così il racconto del passaggio del Mar Rosso, dallo stile militare e dai toni epici, imprescindibile per la sua forza di prefigurare un’altra vittoria, in un’altra guerra ben più radicale: quella contro la morte. Dobbiamo ascoltare questo racconto non ponendoci i problemi morali di oggi, ma lasciandoci trascinare nella narrazione e nel suo ritmo incalzante, sentendo lo sgomento di Israele e il terrore dei nemici. Solo così potremo intuire la verità delle parole di San Paolo: “O morte, dov’è la tua vittoria?”.

Si prosegue con una delle letture più belle di tutta la Bibbia (4°) che descrive l’inarrestabile forza d’amore di Dio per il suo popolo, personificato nella figura della Gerusalemme sposa. “Afflitta, percossa dal turbine, sconsolata, ecco io pongo sullo stibio le tue pietre e sugli zaffiri le tue fondamenta…” (Is 54,11). Basterebbe la lancinante bellezza di questo versetto per innamorarsi di tutta la Sacra Scrittura.

La terza e ultima tappa nel percorso dentro l’Antico Testamento è la lettura del profeta Baruc (6°). Essa contempla la Sapienza di Dio. È l’esito che possiamo augurarci, quando usciremo dalla celebrazione della Pasqua: di essere innamorati della Sapienza, di desiderare, di cercarla, di iniziare a meditare la Parola di Dio ogni giorno, di sapere che abbiamo un tesoro imparagonabile che aspetta solo di essere trovato.

Il passaggio al canto dell’Alleluia, trattenuto fino a questo punto della celebrazione, viene accompagnato da San Paolo, che ci ricorda che l’uomo vecchio è morto e vive il nuovo. Siamo uomini nuovi quando siamo orgogliosi del nostro Battesimo, non timorosi quasi che fossimo i pochi ad avere mantenuto un retaggio religioso/spirituale. Noi siamo orgogliosi di essere cristiani, perché con Gesù partecipiamo di una responsabilità mozzafiato per la vita del mondo. Lo facciamo con gli orizzonti più ampi possibili, ma sapendo di dovere partire dai noi stessi. I suoni di guerra contro la morte e le fondamenta preziose dell’amore di Dio, per noi e per tutti, sono l’essenza di questo cammino.

Lo facciamo lasciandoci rinnovare il cuore e cercando di aprirlo, di spalancarlo il più possibile. Siamo uomini nuovi.

Don Davide




La Maddalena nel film di G. Davis

Intuisce lo scoramento di Gesù, vede le cose prima degli altri, le sente più profondamente, è l’unica a discernere l’originalità amorevole del Maestro e ad accogliere la verità delle sue parole. È la Maria Maddalena del film di Garth Davis, girato per la maggior parte in Italia (piccola nota d’orgoglio), ed è difficile pensare, nonostante le poche, pochissime testimonianze del Vangelo, che non fosse così.

Lo si deduce dalla conferma univoca in tutti i quattro vangeli di lei come prima testimone della rIsurrezione; e come potrebbe essere altrimenti – che una donna sia scelta, in una società patriarcale, quale prima testimone dell’unico vero Evento della Storia – se non per quel “sentire col cuore”, eccelsa qualità femminile; se non per quell’intuizione che ha la capacità di andare sempre al di là dell’immediato, del dato oggettivo, di ciò che accade e della parola detta per coglierne l’essenza più profonda e misteriosa? Chi altri potrebbe dire: «Ho visto il Signore!» (Gv 20,18) se non una donna così?

In questo senso il ritratto che ne fa il regista, pur non avendo la preoccupazione di una ricostruzione storico-critica e, anzi, facendo il lodevole sforzo di rileggere e rielaborare il dettato evangelico, è un’interpretazione ben più che coerente ed efficace di Maria Maddalena.

Dal punto di vista esegetico e della ricerca storica, infatti, l’identificazione di Maria Maddalena non è facile come sembra. I passi che parlano di lei in maniera inequivocabile sono esigui, ma la figura di Maria Maddalena ha come assimilato i racconti di altre donne presenti nel Vangelo, alcune volte in base al nome Maria, in altri casi per la forza della scena, tale da indurre molti commentatori a credere che la protagonista dovesse essere lei.

È il caso di una delle sequenze più belle del film, quella della rIsurrezione di Lazzaro. Nulla ci permette, in base ai testi evangelici, di identificare con certezza Maria di Betania, sorella di Lazzaro, con Maria Maddalena e quindi di affermare senza ombra di dubbio che Maria Maddalena fosse presente a quel miracolo. Invece, nel film, è proprio lo sguardo di Maria Maddalena a mostrare il prodigio allo spettatore.

Ne deriva una scena magistrale e sontuosa, dove il regista, fedele al suo compito e alla sua arte, si svincola dalla rigidità performativa del testo evangelico, che è di per sé talmente forte da schiacciare o rendere ridicolo qualunque tentativo di rappresentazione fedele.

Qui la sequenza è composta di occhi che si aprono vacui, sguardi che vengono attratti – come richiamati – e diventano pieni tornando ad incrociarsi, narici che si dilatano, fiato nei polmoni che viene restituito come con un bacio per permeare la vita dell’altro, vita – infatti – che viene condivisa per essere data e quindi anche morte che raggiunge chi ha dato la vita.

Mi sembra un’interpretazione suggestiva e penetrante dell’esito del racconto di Lazzaro che, nella trama evangelica, conclude con la decisione irrevocabile di uccidere Gesù (Gv 11,53).

Maria Maddalena, nel film, pare essere l’unica a rendersi conto che quel donare la vita costa il morire a Gesù. Ne nasce un dialogo struggente dove Maria pone la caparra per essere profetessa della risurrezione.

Da quel momento, il regista costruisce una sorta di corrispondenza tra Gesù e Maria: prima tra lo sguardo supplice di Gesù con il patibolo sulle spalle e lo sgomento di Maria tra la folla; poi indugiando sul respiro di Gesù crocifisso, mentre Maria desidera spegnersi; infine, seguendo il ritorno di Maria, riflessa nell’ombra sotto la croce, per permettere all’amico e Maestro di morire in pace e non triste.

Ho ascoltato migliaia di volte il racconto della Passione ricordare la presenza delle donne sotto la croce e non avevo mai inteso, per un uomo che muore, quale conforto sia la presenza della madre e di un’amica.

A questo punto non seguiamo Maria approssimarsi al sepolcro al mattino del terzo giorno, secondo la narrazione dei vangeli: la vediamo non allontanarsene mai, come in preda a un appuntamento. Il regista ci risparmia vesti luminescenti e scene strappalacrime, e proprio l’incontro con il Risorto, il tratto più identificante dell’esistenza di questa donna, è appena accennato perché già descritto compiutamente in tutto ciò che ne è la premessa.

L’ultimo regalo di questa lettura non convenzionale di Maria Maddalena ci viene offerto nel dialogo tra Maria e Pietro che chiude la storia. Con una sceneggiatura implacabile, che meriterebbe un’analisi approfondita, si evoca in pochi scambi la difficoltà della Chiesa di fare i conti con questo dato: il Risorto ha voluto mostrarsi per primo a Maria. L’unica assoluta novità che raggiunge la storia è consegnata per prima a una donna.[1]

La posizione del regista appare netta e severa, indicando nell’esclusione dal ruolo apostolico di Maria Maddalena una riduzione della qualità della Chiesa nascente nella sua funzione di comunità inedita e alternativa.

Nello scambio di battute con Pietro, dopo la risurrezione, si concentrano i nodi irrisolti dell’interpretazione della vicenda di Maria Maddalena nell’oggi: donna che riconosce il ruolo degli apostoli con lei e, perciò, non può e non vuole cedere di un passo al ruolo di apostola che le ha affidato il Risorto. Donna che indica come questa situazione non sarebbe un problema, se non lo creassero i maschi, in nome della presunta fedeltà al Maestro. Donna che, con la sua sola esistenza, mostra l’ovvietà di questo fatto nella testimonianza uniforme della Rivelazione scritta. Donna, infine, che proprio in virtù di tale permanenza nella Parola della Rivelazione, assumerà finalmente la posizione che le spetta fin del primo giorno della nuova storia del mondo (e della Chiesa).

E così la vediamo – mentre all’inizio del film era una donna orientata e determinata dagli uomini – camminare nella sequenza finale a testa alta, con la sua magnifica soggettività finalmente acquisita, come testimone – grazie anche all’interpretazione di Rooney Mara – eccelsa.

Davide Baraldi

 


[1] A ben guardare, anche l’altra novità che ha raggiunto la storia era stata consegnata a una donna. Donna Madre per partenogenesi e donna amica Testimone della vita risorta: ce ne sarebbe abbastanza per fare impallidire tutta la teologia al femminile (e tutta la teologia in toto) prodotta fin qui.

 

Testo scritto per Settimana News il 27 marzo 2018




Un ragazzo con un lenzuolo

Nella scena dell’arresto di Gesù nel Getsemani, l’evangelista Marco inserisce un particolare enigmatico: un ragazzo, vestito solo di un lenzuolo, che prova a seguire Gesù anche dopo il suo arresto. Le guardie sono indisposte da questa presenza, lo afferrano ed egli, lasciando il lenzuolo, fugge via nudo.

È una figura che non ha alcun collegamento con la narrazione, almeno apparentemente, tanto da destare le più svariate interpretazioni, fino a fare immaginare che sia la firma dell’autore del vangelo stesso, con un’ammissione di umiltà: quel ragazzo sarebbe Marco, che prova a seguire Gesù anche nella Passione, ma anche lui scappa nella sua nudità.

C’è un tentativo estremo di seguire Gesù, anche nel momento della Croce, di non lasciarlo solo e di non fare come tutti gli altri discepoli, ma anche questo tentativo fallisce.

È un’immagine potentissima del nostro bisogno di vita, dell’urgenza di celebrare la Pasqua non solo liturgicamente, ma togliendo via il vecchio dalle nostre vite e accogliendo il nuovo che lo Spirito del Risorto si accinge a portarci.

Nella figura di «un ragazzo», però, scorgiamo anche un altro significato. Vediamo l’estremo tentativo di qualche giovane di seguire Gesù, in una ricerca di radicalità, prima di venire definitivamente confuso.

I giovani se ne vanno, non solo dalle nostre chiese, ma dalla fede, dal rapporto con Gesù, dalla dimensione religiosa della vita. E anche quelli che provano resistere tenacemente in un tentativo di radicalità di vita, vengono poi «afferrati», invece che accompagnati; «spogliati», invece che riempiti; spaventati e confusi, invece che incoraggiati a confermare la direzione.

Non vedo simbolo più eloquente della “passione” che si consuma – insieme a quella di Gesù – della Chiesa e del mondo.

La chiesa senza giovani morirà, e non bisogna risolvere la cosa troppo superficialmente rifugiandosi nella provvidenza dello Spirito Santo, il quale si fa sentire… se i cristiani ascoltano. Bisogna piuttosto pensare a quanto è accaduto alle chiese del Nord-Africa o dell’Asia Minore dopo i primi secoli del cristianesimo.

In questo gesto di ultima spoliazione, si manifesta l’esito di tutte le trivialità e le superficialità dentro e fuori la Chiesa: la miopia di chi si lamenta perché la vita della Chiesa cambia; le proteste di chi non ha la messa all’ora e al minuto che vuole lui e nella chiesa che piace a lui; la mancanza di comprensione di chi si lamenta perché deve fare 100 mt in più per raggiungere una funzione… L’ottusità di chi pensa che tutti i problemi del mondo derivino dalla Chiesa; la disonestà intellettuale e spirituale; la severità con cui vengono giudicati i preti e i ministri della chiesa quando non sono brillanti, attivi e capaci; la banalizzazione di tutte le cose.

Nel giovane resistente, spogliato persino dell’ultimo lenzuolo e fuggitivo, ci specchiamo in un salutare bagno di purificazione, con la speranza che a Pasqua lui, la Chiesa e ciascuno di noi possiamo essere di nuovo vestiti.

 Don Davide




La parola di Dio e la II tappa del cammino diocesano

Siamo invitati a vivere la seconda tappa del cammino diocesano annuale, proposto dal vescovo a tutti i credenti. Si tratta di interrogarsi sul proprio rapporto con la Parola di Dio, inteso come Parola di Dio scritta, quella raccolta nelle Sacre Scritture, letta e pregata personalmente o proclamata e ascoltata in modo comunitario nella liturgia.

Per vivere questa tappa, siamo aiutati in modo creativo e originale da un’idea innovativa del Consiglio Pastorale Parrocchiale, il quale (grazie al prezioso contributo di due giovanissimi) ha prodotto un grazioso sussidietto per aiutarci a porre le domande essenziali.

  • Come è il tuo rapporto con la Parola di Dio?
  • Leggi la Parola di Dio?
  • Perché la leggi?
  • Quando la leggi, cosa accade?
  • La Parola di Dio ti aiuta nel cammino della tua vita?

Seguendo questo piccolo strumento, poi, viene proposto un momento di lettura-preghiera personale accessibile a tutti. Pochi minuti e semplici, perché tutti si sentano coinvolti e tutti possano provare a viverlo.

L’esito è un’esperienza aperta. Non si vuole concludere in qualche modo, ma lasciare il sapore di una cosa bella che potrebbe continuare. Come si dice nel proverbio, che ci si deve alzare da tavola con un po’ di appetito…

Quando la Chiesa ha celebrato il grande Concilio Vaticano II, con tutti i vescovi del mondo, dal 1962 al 1965, uno degli intenti principali di quell’assemblea è stato di rimettere al centro la Parola di Dio. Lo hanno fatto con un celebre documento: la costituzione dogmatica Dei Verbum; lo hanno fatto rimettendo una lettura pressoché completa della Bibbia nel ciclo dell’anno liturgico e lo hanno fatto, infine, proponendo a tutti i cristiani di leggere personalmente e a lungo la Sacra Scrittura, con un fiorire di corsi e di sussidi per sostenere questo proposito.

In quegli anni c’è stato un grande fermento: come per chi riscopre un tesoro, che era stato a lungo nascosto. Il Concilio fece quella scelta con la profonda convinzione che il rapporto intenso con la Parola di Dio potesse cambiare la vita della Chiesa e di ogni cristiano, ma oggi, purtroppo, pare che non sia più così. Sembra quasi che ci si sia abituati a richiamarsi alla Parola di Dio, al punto che nessuno più la legge veramente, perché si dà quasi per scontata, senza percepirne l’incredibile ricchezza.

I giovani non leggono più la Bibbia da soli. Gli adulti la Bibbia ce l’hanno più che altro come abbellimento del comodino da letto.  Prima della messa pochissimi si prendono la briga di arrivare in anticipo, per leggere le letture e prepararsi alla celebrazione.

L’obiettivo di questo piccolo esercizio comunitario, che avrà una coda nelle possibilità offerte durante la Settimana Santa (Lectio divina, celebrazione penitenziale e vespri in famiglia) è proprio quello di riscoprire che la Parola di Dio davvero può trasformare la tua vita e di ringraziarti, perché questa trasformazione fa bene alla Chiesa e al mondo.

Sogno che i giovani inizino a dedicare dieci minuti a questi testi dalla sapienza meravigliosa e insondabile; che gli adulti tengano la Bibbia e i Salmi nelle loro borse di lavoro e prima della pausa pranzo, dedichino dieci minuti a meditarne qualche passaggio. Sogno che gli anziani si consumino gli occhi e il cuore e rileggere le pagine della Scrittura, dove raccogliere il senso della vita e attingere alla sapienza di Dio, che ce l’ha donata.

Don Davide




La preghiera

Avvicinandoci ormai alla Pasqua, prendiamo in considerazione l’ultima delle opere della Quaresima, che mirano a creare in noi le condizioni di una vera conversione.

La prossimità della Pasqua è tanto più significativa, in questo caso, in quanto la preghiera ci mette in relazione diretta con il Dio della vita: il Signore presente e vivo nella nostra vita e il Padre suo, che ogni vita raccoglie nelle sue mani, donando a ciascuna il suo amore.

La preghiera, quindi, specialmente in Quaresima, si intende senza dubbio come fedeltà pratica: l’impegno a partecipare a un’eucaristia settimanale, o il proposito di leggere le letture della messa quotidianamente, o la scelta di qualche momento di raccoglimento in chiesa.

Questa atteggiamento programmatico e concreto è indispensabile nel cammino della Quaresima e riflette anche un bel grado di umiltà: piegarsi a una fedeltà piccola, quotidiana, con la fiducia che il Signore ne farà un’occasione per la sua grazia.

Ma la preghiera, soprattutto, è una questione di fiducia. La preghiera nella luce della Pasqua ci interpella su questo punto: abbiamo fiducia che la nostra supplica non sia vana? (cf. 1Cor 15, 58). Riusciamo a vincere quella resistenza tremenda che ci fa dire che in fondo non conta niente, che noi preghiamo ma tanto il Signore non ci esaudisce, che le cose non cambiano, pensando che un atto di fiducia nel Dio della Vita non può che essere assoluto? Viene in mente la stupenda preghiera dei tre condannati nel libro di Daniele, forse uno dei passaggi più belli sulla preghiera dell’intera Bibbia.

Tre giudei alla corte di Nabucodonosor si rifiutano di adorare la statua d’oro che il re ha fatto erigere. Con la tracotanza che caratterizza i sovrani, Nabucodonosor li minaccia, arrivando a chiedere loro: “Quale dio vi potrà liberare dalla mia mano?” (Dn 3,15). I ragazzi danno una risposta che in un paio di versetti è il miglior trattato sulla preghiera che possiamo immaginare: “Noi non abbiamo bisogno di darti alcuna risposta in proposito; sappi però che il nostro Dio, che serviamo, può liberarci dalla fornace di fuoco ardente e dalla tua mano, o re. Ma anche se non ci liberasse, sappi o re che noi non adoreremo mai i tuoi dei e la statua d’oro che hai fatto erigere.” (Dn 3,16-18).

I punti cruciali sono due.

Il primo: “non abbiamo bisogno di darti alcuna risposta in proposito”. La fiducia in Dio è assoluta: non richiede prove, non esige conferme. Accetta lo scherno e la tracotanza di chi pensa di sottolineare l’evidenza, mostrando che Dio non c’è.

Il secondo: “anche se non ci liberasse”. La fiducia e la forza della preghiera non è per nulla condizionata dal suo esaudimento inteso come lo vorremmo noi. Potremmo rileggere la frase così: “Anche se non ci liberasse come vogliamo noi, noi sappiamo che lui effettivamente ci libererà…”.

Viene in mente l’atroce preghiera di Gesù nel Getsemani, la sua morte senza risposte, il misterioso esaudimento nella resurrezione.

La preghiera è così: un atto puro di dialogo d’amore con il Dio della vita che si svolge in un credito di fiducia totale, per nulla condizionato a un tornaconto. Il gustare l’amicizia con Dio e l’affidarsi a lui, con la fiducia piena, assoluta, mai incrinata, che la sua bontà e sapienza sorpassano ogni cosa.

Don Davide




Digiuno

La seconda opera di conversione della Quaresima è il digiuno.

Non siamo più abituati a digiunare, forse anche perché troppo assuefatti ad avere tutto.

L’astinenza dalla carne, il venerdì, è diventata una pratica più formale che altro, se poi la sostituiamo con dei buoni manicaretti di pesce. Il digiuno di un pasto è quasi insignificante, quando nei ritmi di lavori quotidiani, già accade che si mangia veloce, magari un panino, o in piedi o un piatto di insalata per riprendere il lavoro.

Eppure, il digiuno alimentare conserva la sua efficacia, se ci aiuta a fare un gesto realmente penitenziale e a sentire la fame, la fatica, per condividere questa triste esperienza con chi è costretto a vivere in simili condizioni.

Il digiuno, per essere significativo, dev’essere scelto liberamente. Chi sceglie di fare il digiuno alimentare, in qualche forma umile e realista, deve trovare il modo di viverlo autenticamente, altrimenti è meglio lasciare perdere. Se si deve fare per pura formalità, non vale. Chi lo fa, sperimenta che effettivamente la pratica del digiuno scava nella nostra vita: ci rende più attenti alla preghiera, più sobri e più presenti a noi stessi.

Spesso, il digiuno alimentare, viene accompagnato dalla carità, quando si dà in beneficienza il corrispettivo di quello che si sarebbe speso per mangiare. È una pratica molto buona per dare significato al digiuno.

Oltre a questo, soprattutto nei testi dei profeti, vengono indicati tanti altri modi per praticare il digiuno affinché sia vero strumento e segno di conversione.

Il primo è astenersi dalle parole malvagie, dalle parole violente. Pensiamo a come è il nostro parlare: spesso è animato da rabbia, da verbosità, da grinta, cattiveria e giudizio. Sforzarsi di essere sobri di parole e convertire le parole cattive in parole buone, evitare i giudizi e i risentimenti è una via per praticare il digiuno efficacie, anche se difficile.

Il secondo modo è di limitare tutto ciò che ci fa sottrarre tempo agli affetti che contano. Passare un po’ più di tempo con la persona amata invece che su Facebook o davanti alla tv, giocare di più con i figli, sedersi e farsi raccontare la propria giornata dai ragazzi, scambiare una parola gentile con un collega di lavoro o con i propri dipendenti sono tutte pratiche di vero digiuno, inteso nel significato a cui ci richiama la Bibbia.

Il terzo atteggiamento è di ricordarci dei poveri, di avere presente i loro volti, di pensare che anche se non possiamo aiutarli adesso, non ci dimenticheremo comunque di loro, affinché, come abbiamo pregato domenica scorsa, non diventino trasparenti per noi, e noi per loro.

Gesù, nel vangelo, in un celebre passaggio afferma che certi demoni non si possono affrontare se non col digiuno. Chiediamo la grazia, attraverso il digiuno, serio e scelto, di poter affrontare i nostri propri dèmoni, e di sconfiggerli alla luce della Pasqua di Gesù.

Don Davide




Quaresima, tempo di elemosina e carità

Elemosina

La Quaresima è caratterizzata, nella grande tradizione della Chiesa, da tre opere, che sono opere di conversione, per lasciare spazio alla grazia di Dio nella nostra vita: l’elemosina (o carità), la preghiera, il digiuno.

In questa e nelle prossime due domeniche, vorrei dare alcuni suggerimenti per vivere ciascuna di queste opere, per chi senta il bisogno di farlo e voglia provare a vivere la Quaresima con intensità.

Iniziamo, in questa domenica, con l’elemosina, che vorremmo tradurre come aiuto concreto nella dimensione caritativa.

 

La carità in parrocchia

Ci sono due modi di aiutare la carità fattiva e la Caritas parrocchiale: uno è molto pratico, l’altro riguarda il proprio tempo.

Come molti sanno, tutti i martedì la parrocchia fornisce un po’ di spesa (la “sportina”) a circa 70/80 nuclei famigliari. In più, grazie alla S. Vincenzo, vengono aiutate altre 25/30 famiglie. Quando si tratta di alimenti, questi aiuti vengono dati:

  1. Con l’approvvigionamento mensile al Banco Alimentare
  2. Con il contributo della raccolta al Conad
  3. Acquistando i generi che mancano

La parrocchia vorrebbe “arricchire” la sportina che diamo alle famiglie. Il modo concreto di vivere l’elemosina nel tempo di Quaresima, dunque, potrebbe essere quello di collaborare, mettendo nel cesto della Carità i generi più essenziali. A questo scopo, chiediamo solo:

  • PASTA
  • TONNO
  • LATTE
  • PASSATA O SUGO DI POMODORO

 

Ci può essere, poi, un modo legato alla disponibilità del proprio tempo. Oggi siamo tutti molto impegnati, quindi molte persone pensano di non potere aiutare, anche se magari lo desiderano, a causa della mancanza di tempo. Ma non è necessario avere sempre tanto tempo e costante a disposizione. Per alcune cose, si può fare tantissimo, con il pochissimo tempo di tanti. È un principio molto contemporaneo: con moltissime persone che danno pochissimo, si può accumulare un enorme capitale. In questo caso non parliamo di capitale monetario, ma del capitale del tempo!

Ecco perciò, alcuni spunti per aiutare la Caritas, facendo l’elemosina – letteralmente con pochi spiccioli – del proprio tempo. Qui vi scrivo che cosa accade e di cosa si tratta; rispetto a questo, ciascuno potrebbe dire anche: io do la mia disponibilità in questa cosa, anche solo una volta al mese, oppure una volta ogni due mesi… ecc. ecc. È come un mosaico: con tante minuscole tesserine, si può fare un disegno bellissimo!

  1. Lunedì pomeriggio, 1 volta alla settimana, 1 ora: è necessario trasferire le cose che verranno distribuite il martedì mattina, dal magazzino della Caritas alla sala dove vengono servite le persone.
  2. Giovedì mattina, 1 volta al mese, di mattina: per collaborare, a seconda della disponibilità, all’approvvigionamento al Banco Alimentare (guidare il pullmino con patente B2; aiutare nello scarico delle merci; accompagnare nel viaggio alla sede del Banco a Imola)
  3. 1 volta al mese, dopo il Banco Alimentare: per aiutare a preparare le sportine per le famiglie assistite dalla S. Vincenzo
  4. Sabato mattina, 1 volta al mese, 2 ore: per aiutare nella raccolta al supermercato Conad.
  5. 1 volta alla settimana, 1 ora: per aggiornare i registri degli alimenti distribuiti (AGEA)

 

Tanto con poco

Come vedete, dietro alla apparentemente semplice attività caritativa della parrocchia, anche considerando soltanto gli aiuti alimentari (ricordo che le persone della parrocchia fanno tanto altro…) c’è un’organizzazione considerevole, ma anche con un piccolo contributo di tempo di un grande numero di persone, possiamo fare tanto.