L’anomala normalità

Della compassione come via

L’insegnamento di Gesù, nel vangelo di questa domenica, ruota attorno al tema della compassione. “Il padrone ebbe compassione del servo” e, al termine del racconto, chiede allo stesso servo: “non dovevi anche tu avere compassione del tuo compagno?”.

Questa domenica fa da spartiacque: iniziamo un periodo importantissimo e difficile. Domani riprendono le scuole, con le complicazioni enormi e i rischi inevitabili legati al perdurare dell’emergenza sanitaria. Tuttavia, i nostri ragazzi andranno finalmente a scuola, nel loro luogo più proprio. Era un assenza che durava dal 27 febbraio, una situazione davvero impressionante a pensarla in circostanze normali. Qualcuno ha vissuto i passaggi della fine dei cicli scolastici, che sono tra i più indimenticabili della vita, senza nemmeno potere fare una festa o salutare “in balotta” (come diciamo a Bologna) i propri amici.

Ci piacerebbe che tutti gli studenti e le studentesse sentissero una speciale vicinanza a quest’esperienza così difficile: una tenerezza per quello che è stato e come l’hanno affrontato, e quasi una commozione a vederli di nuovo varcare i cancelli dei loro istituti, in compagnia degli amici.

Anche il mondo universitario riprende con coraggio le lezioni in presenza. In generale, la fine delle vacanze estive segna inconfutabilmente un confronto con quella “normalità” che, dai mesi della quarantena nazionale, non era più stata piena: un’anomala normalità, nei mesi che ci attendono.

Ugualmente, anche la nostra parrocchia si cimenta con l’orario ordinario delle messe, che non era più stato tale dal 27 febbraio, con la ripresa del catechismo, la programmazione dei gruppi, il tentativo di fare ripartire il doposcuola, l’impegno della San Vincenzo e lo sforzo di non fermare gli aiuti della Caritas.

Vorrei che tutti avessimo uno sguardo di compassione su questi sforzi – nostri, del mondo ecclesiale, e quelli di fuori, dell’impegno della società civile – pensando che ognuno stia provando a fare il meglio che può, con la consapevolezza di sé, la maturità e l’equilibrio che è riuscito a raggiungere fino a quel punto della propria vita.

Questo atteggiamento esige che la compassione entri in circolo. Nelle istruzioni di Gesù, il rimprovero per quelli che arrestano questa circolazione della bontà è severo: “Non dovevi anche tu avere pietà del tuo compagno?”.

Non abbiamo bisogno di durezze, ma di un’umanità tenera.

Non abbiamo bisogno di convinzioni granitiche, ma di cuori aperti.

Non abbiamo bisogno di affermare noi stessi, ma di capire come possiamo fare i passi insieme.

Concretamente, credo che ci siano alcuni atteggiamenti molto pratici che possiamo tenere presenti.
1) Attenzione e delicatezza per chi si sente ancora poco sicuro rispetto alla pandemia e magari affaticato da qualche turbamento o ansia. Non bisogna sminuire affatto questi nostri fratelli e sorelle e non bisogna farli sentire in difficoltà. Occorre fare uno sforzo ulteriore di rispettare le norme sanitarie: l’utilizzo della mascherina, il rispetto della “giusta vicinanza”, il garbo e l’attenzione di mettere a proprio agio l’altro.

2) L’esercizio della comprensione. In parrocchia, a scuola, negli uffici e nei posti di lavoro… sicuramente c’è stato lo sforzo di provare ad affrontare le difficoltà. Anche dove l’organizzazione non fosse perfetta, magari c’era qualcuno che anelava al meglio. Non bisogna “farsi andare bene tutto”, ma provare ad essere radicalmente costruttivi.

3) Una sigla: ARP. Assoluta – responsabilità – personale. Cosa posso fare io? Questa domanda dovrebbe essere come una giaculatoria, o un mantra. Come posso dare una mano? Cosa posso fare io per migliorare la situazione o impedire altre difficoltà. Cosa devo fare io per tenermi centrato, in forma fisicamente e spiritualmente, per essere pronto a fare la mia parte in questa sfida che tutti stiamo vivendo?

Il padrone della parabola risponde a queste domande dicendo: “Io sono ricco e potente, una cosa posso esercitare: la compassione.” E lo fa.

Vale anche per noi.

La compassione è la nostra via.

Don Davide




Riprendere

Quattro parole per darci fiducia:
presenza – comunità – coraggio – ascolto

Cosa significa riprendere?

Che valore ha e che cosa mette in gioco riprendere la vita ordinaria, inevitabilmente caratterizzata dalla riapertura delle scuole e delle università; riprendere la vita lavorativa, dopo la pausa estiva; riprendere la pastorale, che praticamente si è arrestata a inizio marzo, con qualche eccezione che però non può surrogare l’incontro tra le persone?

E cosa chiede a ciascuno di noi lo sforzo di riprendere dopo la terribile esperienza della pandemia e della “chiusura”, consapevoli tuttavia che l’emergenza sanitaria non è alle spalle?

Abbiamo bisogno di incontrarci, di dare ritmo quotidiano alle nostre esistenze e di avere cura dei bimbi, ragazzi e giovani, che sembrano i più colpiti da questa situazione, come se li avesse sfiduciati ancora di più; dobbiamo assolutamente permettere che le loro energie rifioriscano.

La sfida è più che mai impegnativa, perché richiede alcune attenzioni, che decliniamo in quattro parole.

    1. PRESENZA. Non bisogna perdere l’importanza di quella dimensione di meno frenesia di cui l’emergenza ci ha fatto rendere conto, e che ci ha resi più presenti a noi stessi, come quando ci si riprende dopo un risveglio.
    2. COMUNITÀ. Non dobbiamo rinunciare all’incontro con la nostra comunità, per quanto piccola e scalcagnata che sia, e non possiamo accontentarci. Vibra l’urgenza di rianimare la vita di una comunità cristiana in senso evangelico, sfrondando le tante cose inutili e cercando di radicarsi in ciò che fa davvero bene alla vita delle persone.
    3. CORAGGIO. La pandemia non ha avuto solo degli effetti negativi visibili e quantificabili. In molti ha lasciato un senso interiore di disagio, di paura e di ansietà. Non dobbiamo pensare che siano esagerati o che non conti questa dimensione psicologica non conti eccessivamente. È preziosissimo anzi, accorgerci di chi è in difficoltà e aiutarlo, incoraggiarlo, stargli vicino, infondere una nuova fiducia. Possiamo e dobbiamo aiutare tutti a rifare i propri passi sentendosi sicuri, quindi si tratta di garantire la serenità di incontrarsi e fare le cose anche a chi è stato più turbato in questi mesi.
    4. ASCOLTO. Nel silenzio della pandemia, spesso la Parola di Dio ha brillato come luce e risuonato come lettura del nostro vissuto. La comunità cristiana, che ambisce ad incontrarsi dopo una simile terribile esperienza, si deve confrontare all’altezza delle sfide, senza ripiegarsi sulle abitudini e la tradizione.

A tutte e a tutti coloro che si sentiranno motivati a “riprendere”, anche in mezzo a tutte le fatiche e paure, va il nostro autentico grazie.




Ti ho posto come sentinella

“Ti ho posto come sentinella.” (Ez 33,7)

Sento forte la suggestione di questa immagine. Il testo pensa al ruolo della sentinella nell’ambito della correzione fraterna, che è il vero tema delle letture di questa domenica.

Tuttavia, vorrei dilatare questo spunto in rapporto alle settimane e ai mesi che ci attendono. La sentinella, infatti, è colei che fa la guardia, cioè vigila che non ci sia un’effrazione e che non accada qualcosa di brutto, ma – in tutta la Scrittura – è anche colei che sta di vedetta, cioè attende l’alba.

Da domani (lunedì 7 settembre) riprenderà l’orario normale delle messe feriali e festive e della segreteria (mattina e pomeriggio) che è il segno del ritmo ordinario della vita della parrocchia e delle attività pastorali.

Significa “iniziare di nuovo” o meglio, come abbiamo scritto sul sito nei giorni subito dopo la quarantena collettiva, significa “rinascere dall’alto”, farsi rigenerare dallo Spirito. È comunque uno scatto in avanti, dopo mesi così particolari e per certi versi assurdi, che ci hanno messo alla prova, ma anche forgiato; che avremmo volentieri evitato, ma da cui abbiamo anche imparato.

Sappiamo che l’emergenza sanitaria non è finita, quindi rimettersi in gioco richiede un surplus di attenzione e di impegno, e anche una certa capacità di adattamento e di fare fronte a una preoccupazione latente che accompagna ogni progetto. Tuttavia non se ne può fare a meno, non tanto per questioni economiche – come tutti dicono – ma perché abbiamo bisogno di vita autentica e di comunione.

In quest’ottica l’immagine della sentinella diventa per ciascuno di noi una vocazione e un incoraggiamento.

“Io ti ho posto come sentinella” significa che ciascuno di noi è chiamato “a fare la guardia” perché non succeda qualcosa di brutto, e anche a “scrutare le prime luci del mattino” e preparare attivamente l’attesa dell’alba… quando potremo dire che l’emergenza sanitaria è finita, sperando di avere imparato tutto quello che c’era da imparare.

Dobbiamo vigilare e vegliare sui nostri fratelli e sorelle, non solo perché non si ammalino di Covid-19, ma anche perché non si ammalino d’ansia, di demotivazione, di solitudine. Allo stesso tempo dobbiamo rimboccarci le maniche, per preparare una vita più sana, non solo dalle malattie del corpo, ma anche da quelle dello spirito, che avvelenano le relazioni e la nostra fede.

Prudenza e intraprendenza sono due parole che potrebbero guidarci.

Vedo un particolare tipo di “carità fraterna” proprio in questa capacità di aiutarci gli uni gli altri e sostenerci, affinché possiamo vincere le ansie da contagio, sostenerci nel riprendere i progetti belli e le attività positive, con le attenzioni necessarie a gestire le difficoltà, ma senza paure.

Dobbiamo aiutarci, perché qualcuno ha bisogno di essere rassicurato, qualcuno ha bisogno di essere più coraggioso e qualcuno più prudente. Tutti dobbiamo avere in mente di edificare la nostra comunità, consapevoli dei limiti imposti dalla situazione, delle nostre debolezze, ma anche della chiamata all’amore che non viene mai meno.

Infatti, come scrive san Paolo nella seconda lettura: «Qualsiasi comandamento si ricapitola in questa parola: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. La carità non fa nessun male al prossimo…” (Rm 13,9-10).

Don Davide




“Mi hai sedotto”

Avete presente quando due persone molto innamorate si scambiano un gesto di affetto, o quando uno non ha paura di dire all’altra (o viceversa) che è stato conquistato? Avete mai sentito due fidanzati che raccontano la loro storia e uno dei due dice: “E pensare che io all’inizio non ne volevo sapere! Mi ha dovuto conquistare!”.

Di questa esperienza parla il profeta Geremia: “mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre…”

Così è l’esperienza spirituale. Qualcuno sente il richiamo del divino e lo segue e non ha paura di riconoscere che è diventato così prezioso che non vorrebbe mai perderlo nella vita. Altri riscoprono come un tesoro preziosissimo qualcosa che non avevano mai considerato prima, o che addirittura rifiutavano.

Succede anche quando la vita di una persona cresce fino a rivelarne il senso pienamente, o una persona si appassiona a un lavoro che pensava di detestare, o quando un servizio che si assume si rivela una benedizione (come chi fa volontariato o accetta qualche incarico per gli altri).

Ma chi di noi può dire a Dio, o più personalmente a Gesù: “Mi hai sedotto, Signore, e mi sono lasciato sedurre?”.

Vorrei suggerire qualche piccolo esercizio spirituale.

Il primo. Per un momento, senza considerare le contrarietà o le fatiche, oppure pensando: “Proprio in mezzo a queste contrarietà e fatiche…” per quali motivi sento di potere benedire il Signore? Nonostante tutto, qual è un motivo di beatitudine, come un innamorato che stia in compagnia di una persona amata, in questo preciso momento della mia vita?

Il secondo. Quando mi ha sedotto Gesù? Quand’è stato il preciso momento, in cui Gesù mi ha coinvolto? Magari allora non me ne rendevo conto, ma ora lo riconosco con precisione.

A partire da questi piccoli esercizi di meditazione, sono sicuro che potremo anche noi riconoscere, come Geremia, che dentro di noi c’è un fuoco che non può essere sopito, che quella scintilla della fede non possiamo perderla e che abbiamo sperimentato l’amore di Gesù come qualcosa di imprescindibile.

Don Davide




La saldezza e le sorgenti

La profezia della prima lettura conclude con il famoso oracolo: “La mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli.” (Is 56,7). Pensiamo subito alla scena in cui Gesù scaccia i mercanti dal Tempio, citando proprio questo versetto di Isaia. La casa a cui fa riferimento la profezia è il Tempio e per capire quanto fosse estrema questa visione, dobbiamo ricordare che il culto nel Tempo era riservato agli ebrei. All’epoca di Gesù, il Tempio aveva un cortile in cui potevano accedere anche gli altri popoli, ma non era concesso loro di procedere oltre.

Tuttavia, questo raduno degli stranieri “che hanno aderito al Signore per servirlo e per amarlo” e degli ebrei “che si guardano dal profanare il Sabato e restano fermi nell’alleanza” (Is 56,6), secondo il Nuovo Testamento avviene non solo nella casa fisica del Tempio, ma anche nella casa spirituale che è la Chiesa. (Non le chiese di mattoni, che sono venute molto più tardi, ma la Chiesa fatta dei battezzati!)

Da qui vorrei trarre lo spunto di oggi, che possiamo parafrasare così: “La mia casa (cioè la Chiesa) sarà chiamata casa-di-preghiera per tutti i popoli.”.

“Casa – di – preghiera”: mi chiedo se non sia proprio quello che abbiamo perso e che, quindi, dobbiamo recuperare. Spontaneamente, infatti, pensiamo alla chiesa edificio di mattoni, come il luogo dove si va a pregare e di conseguenza alla Chiesa di persone come quelli che pregano, che fanno cose spirituali… è tipico dei ragazzi più giovani, ad esempio, pensare la chiesa (con l’iniziale minuscola o maiuscola è indifferente) come il luogo dove si prega, perciò noioso. Quante volte ho sentito studenti intorno alle scuole chiedere ai propri amici che avevano fatto i campi estivi: “Ma cosa fate durante i campi, pregate sempre?!”.

Già il fatto che questo tema della preghiera sia interpretato quasi sempre in senso negativo o riduttivo, come una cosa per pochi nostalgici, la dice lunga sulla situazione.

Ma vorrei provare a dire di più. Pensando alla preghiera come moto dello spirito, come elevazione della persona nel dialogo con il Divino, si potrebbe parafrasare la profezia di Isaia anche così: “La mia casa (cioè la Chiesa) sarà chiamata luogo di esperienza spirituale per tutti i popoli.”

Nonostante quello che si pensi, c’è molto bisogno di insegnamenti spirituali, regole o consigli per vivere meglio. Qualcuno sente il bisogno e lo cerca, qualche altro non lo cerca affatto ma non si rende conto che ne ha bisogno lo stesso.

Con rammarico, registro che questa “ricerca” è ormai affidata agli psicologi, alle religioni orientali o alle discipline olistiche, ai mental coach, ai motivatori, ai guru…

Non è una questione di competizione e lo dico con il massimo rispetto e amorevolezza: ma sembra che la Chiesa si sia ritirata da questo campo, sembra che al di là di qualche ripetizione di concetti stantii e moraleggianti, non siamo più capaci di appassionare all’esperienza spirituale come a un’arte, un tesoro prezioso e pieno di benefici che va ricercato, una scienza che va anche imparata.

I giovani meno che mai sembrano chiederla, così nella pastorale ci siamo settati su altre cose.

Mentre pensavo a queste riflessioni mi risuonava in mente lo splendido versetto di un salmo, che a proposito del ritrovarsi di Israele insieme agli stranieri nella luce del Messia a Gerusalemme, nella “Casa – di – preghiera”, dice:

sorgentiSi dirà di Sion: “L’uno e l’altro è nato in essa e l’Altissimo la tiene salda.”.
E danzando canteranno: “Sono in te tutte le mie sorgenti.” (Sal 87,5.7)

Mi piace pensare alla “saldezza” nelle nostre vite complicate, come qualcosa che ci viene dall’Altissimo. Se dovessi dare indicazioni cristiane per la vita concreta direi proprio questo: se cerchi di rimanere saldo nella vita, ascolta le indicazioni dell’Altissimo. Lì troverai tutte le “sorgenti” per la tua esistenza.

Don Davide




La brezza e la tempesta

Uno dei tratti belli dei racconti biblici è il fatto che non fissano la realtà in formule semplici, ma ne colgono la complessità e varietà. 

L’esperienza di Dio può avvenire in una brezza leggera, come per il profeta Elia nella prima lettura, o nella situazione di un vento forte, tanto da intimorire pescatori esperti, come nell’episodio evangelico. 

Elia, dopo una vita spesa come profeta autentico ed estremamente autorevole, e dopo prodigi clamorosi che lo avrebbero dovuto qualificare come uomo di Dio senza alcun dubbio, vive l’appuntamento decisivo dell’ascolto della voce del Signore in un momento di raccoglimento e in un’esperienza silenziosa, quasi impercettibile. 

Egli aveva già vissuto l’incontro con Dio, quando ne aveva udito la chiamata profetica e aveva risposto, ed era stato il suo testimone più volte nei confronti del re. Ma ecco, verso la fine della sua vita si realizza lesperienza più importante di tutte. 

È come un sigillo sulla sua carriera, la conferma che nonostante le difficoltà aumentino invece che diminuire (in questo momento è in fuga dalla regina Gezabele)ha seguito la strada giusta. Questa voce che arriva dopo una vita di imprese ed eventi grandiosi, paragonabili a un grande trambusto che non lo ha mai lasciato in pace, ora si fa percepire così leggera e delicata, ed è simbolo di un’esperienza intima, di quelle che toccano le sorgenti della nostra esistenza, in grado di cambiare il cuore. Come quando ti accorgi di essere autenticamente innamorato, o ti persuadi nel profondo che una particolare strada è quella giusta da seguire. 

È una sensazione che non tutti hanno la fortuna di potere descrivere: senti che una pace molto profonda rilassa i muscoli del corpo, sparisce ogni paura e, al contrario, guardi al futuro con determinazione e coraggio. 

Qualcosa di simile, ma molto più ricco e variegato, deve avere vissuto il profeta Elia. 

Per i discepoli, invece, è tutto il contrario. Essi sono spaventati dal vento forte e contrario, loro che sono pescatori esperti! Temono di vedere un fantasma, perché assistono a qualcosa di inaudito: un uomo che cammina su acque in tempesta, acque – quelle del Lago di Tiberiade – profondissime. 

I discepoli sono persone che devono ancora imparare tutto al seguito del Maestro. Hanno bisogno che la loro fede nasca e venga confermata. La loro esperienza è forte e sconvolgente, tanto da plasmare i loro punti di riferimento e ridefinirli. 

Quando torneranno a riva non saranno più gli stessi e non potranno più negare di avere intuito chi fosse veramente Gesù. Infatti, non c’è bisogno di capire tutto: spesso è sufficiente intuire semplicemente chi sia veramente Gesù. È già abbastanza dirompente, per mettersi in cammino a cercarlo ancora e più autenticamente.  

Sono entrambe esperienze di Dio. 

Alcune volte Dio ci si fa incontro in maniera potente, come quando interviene per farsi conoscere nella vita degli adolescenti ai campi o durante un’esperienza di volontariato. Altre volte, nel silenzio di una preghiera feriale, conferma il cammino di chi già lo ha conosciuto. 

Molte volte, un’esperienza forte e potente, è l’inizio che conduce a quella più intima, ma non meno incisiva. Si vorrebbe che il Signore si facesse conoscere ancora in maniera clamorosa, che risolvesse di un colpo le nostre fatiche, i nostri indugi, e la smemoratezza di quel primo momento di folgorazione. Invece lui semina più intimamente, finché il semino non pianti radici meno spettacolari, ma non meno efficaci e importanti. 

La voce di Dio può essere delicata o potente, può irrompere senza chiedere il permesso o agire solo toccando la nostra libertà. L’importante è essere in ascolto di questa voce, sapere che si può nascondere ovunque e può essere portata da ogni cosa, perché Dio ci vuole sempre raggiungere, nel posto dove siamo, per aiutarci a fare proprio il passo di cui abbiamo bisogno. 

Don Davide 




Questione di sguardi

Possiamo solo provare a immaginare cosa abbia significato per Gesù venire a sapere dell’uccisione di Giovanni Battista ad opera del re di Israele, sebbene un re fantoccio.

Il re che disprezza e uccide i profeti, nella storia di Israele, era memoria di devastazione e rovina: era la causa dell’esilio.

In più, Gesù era legato a Giovanni non solo da affetto famigliare (erano cugini), ma anche da una singolare comprensione della propria vocazione: erano due personalità uniche, che sentivano la responsabilità di dichiarare la venuta del Regno di Dio. Avevano il carisma per farlo e la fede che li sosteneva, eppure si trovavano in mezzo a mille contraddizioni.

Ora Gesù viene a sapere che suo cugino, il suo amico, il suo mentore, il suo apripista era stato ucciso. Come dev’essere stato profondo il suo senso di solitudine e il suo sgomento?

Gesù, come diciamo noi, a questo punto avrebbe bisogno di “staccare”. Si ritira, salendo su una barca e cercando una sponda isolata, dove non ci sia molo né attracco, in modo da non potere essere raggiunto. Lo immaginiamo contemplare le sponde del lago, i monti di Galilea, col pensiero che quei luoghi saranno la culla del messaggio che ormai, inesorabilmente, sta dilagando. È partito da Nazareth, è arrivato fino a Cafarnao e ha fatto il giro delle sponde del lago, poi ha rimbombato di nuovo in Galilea, Samaria… fino in Giudea, a Gerusalemme. Gesù, sulla barca nel lago, in quel breve ritiro, contempla il seme divino che sta per nascere nel mondo.

Ma ecco: viene subito raggiunto da una grande folla e non pensa che voleva riposarsi; pensa a quanto è grande l’umanità, a quanta distonia c’è ancora con il regno di Dio annunciato: ci sono poveri, gente ammalata, oppressi e oppressori… Gesù sente la compassione proprio per questa immensa moltitudine che ancora non gode della presenza del regno di Dio, del suo amore in noi che ci converte e pian piano, quando è accolto e dato, risana tutto. Come potranno credere, costoro, all’amore di Dio se nessuno li cura? Come potranno vedere il suo regno se nessuno li ama? Ecco: “sentì compassione per loro e guarì i loro malati”.

Ma viene la sera. In quei momenti il tempo fugge ed è ora di tornare alle cose concrete. Bisogna mangiare e si sa: il cibo è lavoro, il lavoro è fatica e spesso non ce n’è per tutti.

A questo punto, fra il Maestro e i discepoli si marca una differenza. Questi sono sulla terra, Gesù sembra rapito in cielo: “Non c’è bisogno di congedarli” dice, come se vedesse l’invisibile. I suoi occhi sono fissi sul regno di Dio, che sta facendo irruzione. Nessuno lo vede, lui sì. Da quando ha visto la colomba scendere su di lui, il giorno del battesimo al Giordano, sembra avere sempre questo sguardo fisso sulle cose e sulle persone, specialmente nei momenti più delicati.

“Abbiamo una miseria!” protestano i suoi.

Gesù guarda questi cinque pani e due pesci. Li capisce i suoi discepoli, poveri. Non sono negligenti, sono solo nella medesima difficoltà in cui saranno tutti i discepoli per i secoli a venire, sempre: quelli che soffriranno perché non ci saranno cibo e acqua per tutti, cure per tutti, assistenza spirituale per tutti, abbastanza benessere per tutti; quelli che si sgomenteranno e si sentiranno in difetto perché non fanno abbastanza… Questi discepoli di ogni tempo, che siamo anche ciascuno di noi, non sanno come fare e non rimane che chiedere a ciascuno che si arrangi a fare la propria parte.

Ma Gesù… Lui vede cinque pani e due pesci… e là dove tutti noi percepiamo la mancanza, lui vive la fede nel Padre, che non fa mancare niente ai suoi figli. I re uccidono i buoni; le folle hanno bisogno; le forze sembrano non bastare per tutti, ma Gesù posa il suo sguardo sul regno di Dio che fa irruzione. Questa è la differenza fra lui e noi. E così, pronuncia la benedizione sul pasto, non per chiederne ancora, ma come se bastasse, come se ci fosse un buffet calcolato per tutti gli ospiti: “Benedetto sei tu, Signore, che provvedi il cibo alle tue creature. Tu apri la tua mano e sazi la fame di ogni vivente. Ti ringraziamo per questo cibo che ci doni, fa che possiamo mangiarlo in condivisione e donarlo anche a chi non ce l’ha. Benedetto sei tu, Signore. Noi vogliamo sempre cantare la tua lode!”.

Capite qual è la magia che si sta compiendo? Mentre tutti vedono pochissimo, quasi nulla, Gesù vede la provvidenza del Padre per tutti. Vede il segno di chi si prende cura, Dio prima di tutto, per ciascuno di noi e benedice e ringrazia. E la magia si compie. Non la magia del prestigiatore o dell’alchimista, non il miracolo dell’uomo di Dio, ma la magia della vita, la magia delle fede che dà uno sguardo nuovo sul mondo.

Questione di sguardi. Nella maniera più assoluta.

Cerchiamo di immaginarci lo sguardo di Gesù con quei cinque pani e due pesci in mano e durante la sua preghiera. Fissiamo il nostro sguardo nel suo e cerchiamo di ripeterlo.

Don Davide




Un tesoro

Il regno dei cieli è simile a un tesoro.

tesoro

Ci sono due condizioni per apprezzare un tesoro: la prima è che sia una cosa oggettivamente di valore. La seconda che sia qualcosa di prezioso per chi lo incontra.

Alla prima condizione noi associamo, ad esempio, l’immagine di un forziere pieno di cose preziose, ritrovato in un’isola misteriosa. In questo caso, può darsi che i trovatori aprano lo scrigno e vedano brillare tante monete d’oro e che ne facciano bottino; oppure potrebbe accadere che in mezzo a una cassa piena di fango sia nascosto un diamante di inestimabile valore, e che si rischi di perderlo, ingannati dall’apparenza.

Con questo inizio del suo insegnamento, Gesù sembra rivolgerci quindi molto direttamente alcune domande:

◆Il “regno dei cieli”, ossia il desiderio di Dio è qualcosa che noi consideriamo prezioso?

◆Abbiamo cura di fare esperienza della dimensione spirituale e di approfondirla, come – ad esempio – abbiamo cura di stare in salute o di fare le cose che ci piacciono?

◆Abbiamo la saggezza di riconoscere che la spiritualità è una parte preziosa e indispensabile della nostra vita?

◆Se non abbiamo ancora fatto esperienza che l’incontro con Gesù è un tesoro per la nostra vita, abbiamo la pazienza di scavare un po’ e la disponibilità di accordare la fiducia a qualcuno che ci possa guidare?

Tante persone sono degli ottimi professionisti, lavorano tanto, si impegniamo nei loro doveri, ma il loro spirito è atrofizzato… non sono in sintonia con l’esistenza e con gli altri… sono svuotati di energie di amore e di bene.

Si chiedono come mai, nonostante tanto impegno, le cose non funzionino come dovrebbero. Rimpiangono di non avere tempo per apprezzare la vita, qualche spazio di riflessione e consapevolezza, più momenti da dedicare alle persone care.

In questi casi, i sensi di colpa cominciano ad affastellarsi uno sull’altro, e così il dispiacere, che facilmente si trasforma in risentimento spesso senza neanche capire il perché.

Il tema è sempre lo stesso: non c’è solo la sorgente biologica della nostra vita, ma anche altre… lo spirito è quella che le lega tutte. Se il nostro spirito si spegne… tutte le altre sono come una rete che pian piano perde le sue fibre, fino a spezzarsi.

Per questo Gesù insiste, nelle prime due parabole, sul fatto che quando si è trovato questo tesoro o questa perla, quando si è capito che è un tesoro, si deve fare di tutto per “possederlo”. Non si tratta di carpirlo, ma di non privarsi di questa risorsa.

Poi, nell’ultima parabola, Gesù ci incoraggia, ricordandoci che questa ricerca non avviene in condizioni ottimali, in una camera sterile dal male… Il regno dei cieli, ci dice, è come una rete in cui ci sono tanti pesci, buoni e cattivi. Viviamo la nostra tensione a Dio in un continuo destreggiarci tra altre tensioni meno buone, in un continuo esercizio di discernimento, in una continua preghiera di lasciarci scegliere da lui.

Ad un certo punto, mentre cerchiamo il tesoro di Dio, scopriamo di essere noi un tesoro per lui e che lui ha dato tutto – compreso il suo figlio – e continua a fare tutto, per averci con sé.

Don Davide




Come la pioggia e la neve

Siamo in piena estate e la liturgia della Parola, in questa domenica, inizia evocando la pioggia e la neve. Sembrano immagini lontane, ma proprio nei mesi più caldi e secchi dell’anno siamo aiutati a considerare la preziosità dell’acqua che disseta la terra e del ciclo delle stagioni.

La pioggia e la neve – dice il profeta Isaia – scendono dal cielo e irrigano e fecondano la terra, perché germogli, dia il seme e poi il raccolto. È una metafora stupenda e celebre, usata sempre per indicare l’efficacia della Parola di Dio, che non torna al cielo senza avere irrigato la vita di chi raggiunge.

Oggi, però, pensando all’estate, in questo paragone vorrei cogliere la dilazione del tempo. Tra l’autunno e l’inverno che preparano la terra irrigandola e la gioia del raccolto, passa un tempo lungo, di attesa, in cui l’agricoltore può curare un po’ il campo, ma non può operare più di tanto.

Mi sembra che nella pastorale delle nostre comunità, dovremmo riscoprire e coltivare il tempo lungo. La semina della parola – come ben manifesta la parabola evangelica, che pare esprimere un aspetto complementare a quello della prima lettura – è difficile. Nonostante l’abbondanza e la generosità del seminatore, che non è uno sprovveduto, c’è una difficoltà intrinseca in questa seminagione.

Lo dico in modo provocatorio, ma ho l’impressione che nel tempo che viviamo, invece, per evitare il rischio della dispersione dei semi e del periodo lungo per vedere il frutto, preferiamo fare come l’esperimento scientifico per eccellenza di tutti i bimbi, cioé mettere il semino in un bicchiere con un po’ di cotone, per vedere il germoglio e la piantina e dire: “Wow!”. I bimbi, giustamente, ne rimangono meravigliati, ma gli adulti sanno che non si raccoglierà nulla da quella piantina… ma è come se ci rassicurasse vedere qualcosa.

Lo si fa con il catechismo, in cui ci rassicura vedere i bimbi nei quattro anni del catechismo, ma sapendo che poi – sia per loro che per le loro famiglie – rimane ben poco di quella esperienza.

Lo si fa con i ragazzi e i giovani, con i quali usiamo quasi sempre il criterio del “così vengono”, ma alla fine non insegniamo loro a pregare, la vita spirituale, il valore dei sacramenti, di avere una guida. Fare queste cose “spirituali” è difficile: è impopolare, non interessano, ci vuole tempo… mi chiedo, però, se non siano proprio questi percorsi difficili a manifestare l’efficacia di cui parla il profeta Isaia. Quando questi ragazzi saranno diventati uomini e donne, che cosa li aiuterà?

Anche la carità corre lo stesso pericolo. Sembra che sia l’unica cosa che conti nella Chiesa, agli occhi del mondo: della fede cristiana non interessa più niente, anzi, non di rado si manifesta un certo fastidio, però la Chiesa che fa tanta carità piace a tutti: “Così dovrebbe essere!” si dice. Ma cosa sostiene la carità? Tutte le persone che animano in maniera non improvvisata, costante e con sapiente dedizione la carità, sono persone che sanno precisamente il motivo per cui lo fanno: per Gesù. Gli altri ci girano attorno, ma se non ci fossero i primi, l’immenso impianto della carità nella Chiesa semplicemente crollerebbe.

seminaAllora, cosa dobbiamo fare? La semina della Parola di Dio è difficile e, diciamolo senza mezzi termini, è fuori moda. Ma pare che Gesù non abbia escluso questa eventualità, citando il profeta Isaia.

“A chi ha sarà dato, e sarà nell’abbondanza, ma a colui che non ha sarà tolto anche quello che ha.” È una delle frasi più scandalose e irritanti del Vangelo, a fronte di un certo modo di pensare in termini di aurea mediocritas. Ma quello che vuole dire Gesù, parlando della Parola di Dio, è che la Parola è legata a un desiderio e la ricchezza cristiana a un’adesione. Chi rifiuta questo tesoro, si troverà sprovvisto e non ne rimarrà nulla. Chi invece lo cerca e vi si apre, a prezzo di fatica e pazientando nel tempo lungo, non avrà nemmeno bisogno di scoprirlo, ma sarà ricolmato di ricchezza.

Don Davide




Ogni cosa è illuminata

“Hai tenuto nascoste” afferma laconicamente Gesù, indicando un tratto misterioso di Dio Padre.

Queste cose nascoste sono impedite ai dotti e ai sapienti, ma sono rivelate ai piccoli. Non è una requisitoria contro lo studio o contro il desiderio di saggezza; né tantomeno la volontà di denigrare chi si impegna nella formazione: qui l’elemento chiave è il tema della piccolezza, dell’umiltà e della semplicità.

In questo ambito di un’adesione alla realtà senza sovrastrutture, con umile accoglienza e immediatezza, si rivelano le cose che altrimenti Dio tiene nascoste.

Domenica scorsa Gesù ci consegnava l’insegnamento di un bicchiere d’acqua offerto, che può cambiare le sorti di una vita e fare sperimentare la salvezza a chi offre e a chi riceve: una cosa piccolissima, che forse senza l’adesione alla realtà, sfuggirebbe alla nostra attenzione. Invece Dio rivela ai semplici la potenza di questo gesto.

In questo sguardo della semplicità posata sull’esistenza, ogni cosa è illuminata: la gratitudine, un sorriso, il gesto paziente e quotidiano che fra molti anni produrrà un grande risultato, come studiare qualche pagina di un libro difficile, che un giorno si trasformerà in una laurea e, molto di più, in una competenza; o il solfeggio degli studenti di musica, pratica noiosa che prelude alla composizione di una sinfonia.

Ogni cosa è illuminata, come un genitore che cambia il pannolino a un bimbo piccolo e – alla fine – avrà donato la vita a una persona; o l’impegno di un* giovan* a modificare in meglio il proprio temperamento, che un giorno produrrà una cultura di pace.

In una foto artistica, quando la luce è quella giusta, anche le cose che rimangono nell’ombra appaiono rilevanti. Parlandoci di Dio Padre come fa nel vangelo, Gesù sembra tratteggiarlo come un maestro fotografo, che usa l’esposizione perfetta, perché ogni cosa sia illuminata, e anche quelle nascoste siano nella giusta luce.

Così facendo, innanzitutto, Dio ci fa apprezzare la profondità del reale, come appunto in una splendida fotografia, e ci fa ammirare le sfumature senza stancarci.

Ma soprattutto, stimola la nostra curiosità, perché rimaniamo con le domande che ci fanno cercare e vivere:

-Che cosa è essenziale?

-Qual è il segreto nascosto che posso scoprire?

-Come posso guardare la mia vita, per vedere che ogni cosa è illuminata?

Nella prima lettura, il profeta preannuncia come l’incontro con il Messia sarà anche frutto di questo sguardo.

Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo ci spiega che così la vita spirituale assume una forma concreta e viene sottratta a quell’interpretazione “spiritualistica” che spesso la squalifica.

Può accadere, quindi, che educarci continuamente ad aderire alla realtà con cuore semplice e umile ci aiuti a fare esperienza di Gesù e a seguire un sentiero spirituale che si dipana man mano che si rivela.

In una giornata di pieno sole in estate, saremo sicuramente aiutati a vedere che ogni cosa è illuminata.

Don Davide