La carità non avrà mai fine

Le storie belle nei giorni brutti

Una cosa evidente nei giorni della pandemia da Covid-19 è stata che lo Spirito Santo ha toccato i cuori di molte persone, rendendole protagoniste di una resilienza ai disagi provocati dall’emergenza sanitaria in modo tanto bello, quanto umile e nascosto.

Qualcuno si era chiesto, in effetti: perché Dio non fa qualcosa per rimediare a questa situazione? Ma Dio – spesso chiamato in causa a sproposito in queste occasioni – non agisce in modo clamoroso, aprendo i cieli e con miracoli eclatanti. Lo farà un giorno, ma quando accadrà sarà la fine della Storia. Normalmente Dio suscita la forza di vita che si sprigiona da Gesù Risorto, toccando la libertà di tanti uomini e donne con la presenza del suo Spirito.

Lo Spirito Santo interagisce con la sensibilità, l’apertura del cuore, la gentilezza, la premura, la compassione, la solidarietà e il realismo dei fedeli che lo invocano e desiderano essere con lui responsabili di altri fratelli e sorelle, consapevoli che viviamo insieme, ospiti comuni del mondo.

Così abbiamo registrato gesti di carità pura, incisivi e invisibili ai più. In questi giorni abbiamo ricevuto tante offerte sul conto corrente della Caritas, anche da persone lontane o esterne alla nostra comunità; il Cesto della Carità in chiesa non è mai rimasto vuoto, neanche nei giorni della chiusura più radicale, quando non girava nessuno, come se un angelo o più angeli portassero la spesa in volo dalle mani di tante persone gentili. I servizi di carità dei nostri volontari e delle nostre associazioni parrocchiali sono sempre stati attivi, e anche tanti giovani sono stati coinvolti, alcuni anche in servizi semplici come aiutare chi aveva bisogno per un po’ di pulizie in casa o qualche commissione. E questo discorso non vale solo in ambito ecclesiale: la beneficienza non ha confini o confessioni di appartenenza ed è stata tanto in tutti gli ambiti.

CaritasChi ha vissuto così, non ha certo la preoccupazione di essere “riconosciuto”, perché sa bene che queste cose hanno valore davanti a Dio e non c’è bisogno di altro, tuttavia Gesù dice che “non c’è nulla di nascosto che non sarà manifestato” (Mt 10,26). Gesù lo usa in un contesto negativo, ma vale anche per le cose positive.

A tutti costoro, A TUTTI VOI, la nostra comunità parrocchiale e la Chiesa desidera che arrivi un grazie sentito, sincero ed essenziale. GRAZIE.

La carità non avrà mai fine. Anche nei giorni brutti, c’è stato e ci sarà sempre qualcuno a spezzare il buio con atti di bontà pura: è il sistema immunitario del mondo.

Il desiderio è che il tanto di queste persone ispiri tutti, affinché con il poco di tutti possiamo fare, soccorrere, curare, confortare ancora di più.

Don Davide




Perché abbiano la vita

Papa Francesco all’inizio del suo pontificato ci chiese di uscire, di essere una chiesa missionaria. Contestualmente ha usato l’immagine diventata famosa dell’ospedale da campo.

Quest’anno ci siamo confrontati con un’epidemia. Ci siamo trasformati inevitabilmente in un ospedale da campo, ma purtroppo siamo stati costretti a restare in casa. Volenti o nolenti, abbiamo realizzato in questi mesi la seconda proposta del papa, ma non la prima.

staccionataIn questa domenica cominciamo a leggere il discorso di Gesù sul “buon pastore”, nel quale Gesù si ispira alla grande riflessione di Ezechiele: Dio come si prende cura di noi? Dio, ci dice il profeta Ezechiele, lo fa suscitando “pastori” che insegnino la cura reciproca. Ci mette in relazione, ci affida gli uni agli altri… perché nello stile del pastore impariamo a costruire un mondo di cura e di predilezione. Ma ogni tanto – anzi Ezechiele direbbe: ogni spesso – accade che i pastori non facciano i bravi, allora Dio fa in modo che nessuno rimanga senza cura o senza amore. Entra in gioco lui e fa il Pastore direttamente per ciascuno.

Gesù si richiama a questo aspetto: l’amore di Dio, che considera la sua creatura così preziosa, da mettersi in gioco lui stesso e personalmente. Dio Padre lo fa attraverso il suo Figlio. Gesù vuole fare sentire ai suoi discepoli e amici che lui fa esattamente lo stesso e invita tutti quelli che vogliono in qualche modo essere “pastori” a passare da questo modello.

Torniamo ora alla situazione di “chiusura” in cui siamo stati costretti. Il pastore chiama individualmente le sue pecore, ciascuna per nome, poi le conduce fuori. Non è che le conduca proprio, in realtà le spinge.

C’è dunque bisogno di una chiamata personale per ritornare fuori, all’attività missionaria. Non si deve intendere come se Gesù legittimasse il “liberi tutti” alla fine della fase uno della quarantena. Mi sembra più interessante cogliere che è la parola di Gesù che a ciascuno suggerisce cosa dobbiamo fare e come dobbiamo comportarci, per avere quella “spinta” necessaria per fare la nostra parte per ri-uscire fuori… in maniera saggia.

Dopo che le ha spinte, si rimette davanti a loro. Questo pastore ci viene descritto come uno che sta alternativamente dietro e davanti al suo gregge, tutto intorno a lui, come custode. Dobbiamo sapere che lui ci custodisce, non come scusa per essere spregiudicati, ma per avere quella lucida tranquillità di affrontare la nostra “chiamata” nel migliore dei modi.

Se ascoltiamo la sua parola, lui ci guida ad ogni passo, senza bisogno di sapere tutto.

Si tratta di stare nel cammino di fede, in questo viaggio finché il Maestro non ci abbia condotto ad assaporare il gusto della vita.

Don Davide




Due luci

Il Rosario e la Parola di Dio

Nella nostra parrocchia veneriamo un’immagine di Maria con il titolo di Madonna della Salute. È una presenza tanto amata da tutti i fedeli, che il proposito di restauro è stato accolto da grandissimo favore e che, anche in questi mesi in cui l’icona era appunto in laboratorio, le persone non hanno mai smesso di accendere le candele nella cappellina a lei dedicata.

Al termine del mese di maggio, l’immagine tornerà in chiesa, in fase di restauro molto avanzato ma ancora non ultimato. Nonostante lo sconvolgimento dei programmi dell’anno pastorale, si è voluto infatti mantenere la preghiera del tradizionale Ottavario alla B.V. della Salute. In realtà sarà un “Cinquenario”, una devozione di cinque giorni, ma ci è sembrato quanto mai opportuno pregare per la salute, non solo nostra, ma in senso assoluto, in questo periodo di emergenza sanitaria.

Da lunedì 25 a venerdì 29 maggio, alle ore 18.30 pregheremo il Rosario seguito dal canto delle litanie. Poi celebreremo la messa secondo le intenzioni mariane e concluderemo con un breve momento di silenzio davanti a Gesù Eucaristia, per ricevere la sua benedizione.

Sarà l’occasione per ritrovarci di nuovo in famiglia, come nelle vecchie case di campagna, quando tutti i membri, dai nonni ai nipotini, si radunavano per recitare il Rosario. Era come uno scudo, semplice ma sicuro, contro tutte le difficoltà della vita. Vorremmo che fosse caratterizzata allo stesso modo: una preghiera semplice, vissuta nella gioia di stare insieme affidandoci alla Madonna, sentendoci di nuovo in famiglia.

Alla ricerca di una rinascita spirituale e in un atteggiamento di discernimento, nel mese di giugno vorremmo provare a vivere alcuni momenti di ascolto condiviso della Parola di Dio: un breve itinerario di lettura, per capire cosa abbiamo vissuto in questi tempi difficili.

Ci sarà un appuntamento serale, metteremo qualche tavolo nel campetto con una candela al centro e, a piccoli gruppi, distanziati e all’aperto, al riparo da fastidiosi contagi, leggeremo, pregheremo, mediteremo e condivideremo con la massima semplicità un testo della Bibbia e una riflessione a partire da esso. Al termine, con chi vuole, sempre nella modalità in sicurezza, potremo mangiare un gelato e bere qualcosa di fresco, mentre recuperiamo il gusto di fare due chiacchiere con gli amici.

Sono due piccole luci, per essere rigenerati dallo Spirito e mettere le basi per una vita nuova.

Don Davide




La strada di casa

Nella pagina dei discepoli di Emmaus è assolutamente centrale il camminare. “È successo di tutto in questi giorni – dicono – anche tante cose brutte…” cose che li spingono a negare l’evidenza della resurrezione; invece, l’importante è che loro, con questo peso nel cuore, continuino a camminare, affinché il Pellegrino Misterioso si metta al loro fianco e si manifesti come il Risorto, vincendo tutte le motivazioni contrarie.

Non è un camminare generico: è il ritorno verso casa. Erano a Gerusalemme e si stanno dirigendo al loro paese: Emmaus. È il camminare come metafora del ritorno a casa. Tutti noi dobbiamo tornare verso casa, perché la nostra cittadinanza è nei cieli (Fil 3,20). Affinché questo non sia un essere strappati alla vita, ma un sapersi accolti in un luogo famigliare e pieno di affetto, il “ritorno a casa” deve compiersi anche lungo il cammino, non solo quando si arriva alla meta.

Torniamo a casa quando decidiamo di amare, quando accettiamo noi stessi scegliendo il bene, la giustizia, il coraggio e l’altruismo. Torniamo a casa quando perdoniamo e siamo perdonati; quando ci riconciliamo. Torniamo a casa quando accogliamo il nostro dovere e quando smettiamo di essere in competizione con gli altri. Torniamo a casa quando invece di lasciarci sopraffare dalle delusioni, facciamo spazio alla speranza.

In questi ultimi anni la Rai ha prodotto due serie su questa idea, una dal titolo esplicito: La strada di casa; l’altra, più recente: Doc. Entrambi protagonisti sono come un Ulisse contemporaneo, che si trova a dovere fare un lungo e difficile percorso, per riscoprire se stesso, gli affetti, la casa, il lavoro e il proprio ruolo. Il fatto che siano di alta qualità e che abbiano avuto un enorme successo, la dice lunga sulla nostalgia di questo “viaggio”.

Sembrerà assurdo che io parli del “ritorno a casa”, in un questo periodo in cui siamo stati costretti a casa da più di un mese. Diremmo piuttosto che abbiamo nostalgia dei parchi, di un viaggio all’estero, del cinema, di una cena con gli amici.

La strada di casa

Ma il cammino di ritorno dei discepoli è qualcosa di molto più profondo, che riguarda le coordinate fondamentali dell’esistenza: “Noi speravamo che fosse lui…”.

Speravamo.

Speravamo che ci fosse un senso definitivo alle cose. Invece ci troviamo qui, precari, con delle delusioni, in mezzo a mille difficoltà… solo col desiderio di ritornare a casa.

Finalmente arrivano a casa.

Questo particolare, ha fatto pensare a qualche interprete che fossero marito e moglie, una coppia. In questa logica, nel testo verrebbe ricordato solo il nome di Cleopa, in quanto permetteva di identificare anche sua moglie. Accettiamo questa suggestione. Arrivano a casa loro e pronunciano quell’invito memorabile: “Resta nella nostra casa, perché è il momento per tutti di tornare a casaanche per te, Gesù. Fa’ che questa sia la tua casa… e tu la nostra.”

In realtà tutte queste cose le dicono col cuore, quel cuore che esplodeva di sentimenti e di emozioni, mentre con le labbra dicono solo l’intuizione ancora non consapevole del tumulto interiore.

Così, Gesù che è stato tanto in casa nostra, in questo periodo, è invitato a sentirla come casa sua. E noi siamo invitati a sentirci a casa non solo con lui, ma in lui. E Gesù, a casa sua, celebra l’Eucaristia con la benedizione del pane e del vino.

Anche in questo caso, dicono gli interpreti che c’è un continuo rimando tra una cena usuale e la cena rituale eucaristica. Non è che Gesù celebri la messa… ma in quei gesti c’è un palleggio come a ping pong fra l’una e l’altra, tra la cena in casa nostra e la benedizione di Gesù sul pane e sul vino in casa sua.

Non c’è un primato.

Tutto parte dal continuare a camminare, dallo stare sempre in cammino con questo desiderio nel cuore di tornare a casa. È un tornare ad incontrare il Risorto e permettergli, in mezzo a tutte le tribolazioni, di farsi riconoscere e di farci divampare il cuore. Non sappiamo se venga prima l’abitare in lui per trovare la strada di casa; o se sia necessario tornare in noi stessi per dimorare in lui. In realtà, lui non bada a queste cose. È il Risorto, varca tutti gli ostacoli – lo abbiamo ricordato più volte – e si fa vicino al cammino di ciascuno di noi, lì dove siamo, così come siamo. E in questo ritorno – nostro e suo – c’è un rimando continuo, tra quello che abbiamo fatto in casa nostra, che è diventata casa sua, e quello che lui vuole fare in casa sua, che diventa casa nostra. Slittiamo impercettibilmente e anche noi senza confini e senza ostacoli da una casa all’altra, da una mensa all’altra, da un ospite amico al fatto di accogliere il Signore Risorto e viceversa, perché solo in questo sconfinamento di ritorno continuo noi possiamo trovare veramente la strada di casa.

Don Davide




Rinascere dell’alto

“Ripartire” o “essere rigenerati”?

Si parla ovunque di “ripartenza” dopo i mesi di chiusura totale a causa della fase acuta della pandemia. All’inizio dell’emergenza sanitaria, nel silenzio surreale delle città e con ritmi improvvisamente lentissimi (eccetto che per il personale sanitario e tutti coloro che tenevano aperte le attività emergenziali), si vagheggiava un “ritorno” diverso, più umano, più rispettoso degli affetti, di uno stile di vita sano e della natura. Si facevano propositi e proclami e si esprimeva il desiderio che questa esperienza, nonostante il dramma e attraverso esso, ci cambiasse.

Ora, vicino al traguardo, prevale solo la frenesia della ripartenza. Comprensibilmente, per la grave situazione lavorativa ed economica che il fermo ha comportato. Nonostante siano apparsi lunghissimi, tre mesi sono troppo pochi per permettere un reale ripensamento e una riorganizzazione dei nostri stili di vita. Pare che il mondo “economico” difficilmente possa fare diverso.

Questo linguaggio della “ripartenza” circola anche a livello ecclesiale: si riparte con le messe e ci si organizza per ripartire come si può con qualche attività pastorale. Una tale assunzione acritica manifesta il rischio dell’appiattimento della Chiesa sulla dimensione secolarizzata dell’esistenza. Sembra che il nostro problema sia quello di un certo attivismo, la preoccupazione di fare, spesso ammantata dalle migliori intenzioni, ma come un soggetto tra gli altri nel palcoscenico del mondo.

Ma come è possibile immaginare di “ripartire” dopo tre mesi che non celebriamo la messa con il popolo, e che abbiamo saltato le celebrazioni di Pasqua, come se potessimo riprendere semplicemente dal punto in cui eravamo rimasti?

La liturgia del tempo di Pasqua insiste su un altro tipo di linguaggio: quello di “rinascere dall’alto” nel famoso dialogo di Nicodemo, autorevole membro del sinedrio, e Gesù (Gv 3,1-21). Il colloquio avviene “di notte” (Gv 3,2), che è un simbolo eloquente della pandemia. Durante questa notte, Gesù dice senza mezzi termini che bisogna “rinascere dall’alto” (Gv 3,3), essere rigenerati dalla riscoperta di un’esistenza cristiana autentica. Quest’esperienza spirituale è l’unica che può dare una chiave di lettura non secolarizzata, non appiattita sulle dinamiche mondane e non preoccupata di scimmiottare la frenesia del fare.

Gesù afferma che chi vive nella disponibilità a farsi rigenerare spiritualmente viene verso la luce, come se ritornasse in superficie dopo essere sprofondato nelle acque della notte, e in questo modo le sue opere saranno luminose, piene di senso ed efficaci.

Certo, dobbiamo ripartire, ma soprattutto con la docilità di farci rigenerare dallo Spirito. Perché l’esperienza che tutti abbiamo vissuto è stata troppo assurda e dolorosa per non capire che non basta la buona volontà umana, ma che abbiamo bisogno di rinascere dall’alto. Senza questo, la nostra ripartenza sarebbe troppo ferita e claudicante. Se invece accogliamo il dono di Dio, allora potremo vivere da risorti, trasfigurati come Gesù le cui ferite restano, ma non fanno più male.

Don Davide




Sorrisero a vedere il Signore

In questi giorni sono andato in farmacia con la mascherina, ovviamente. C’era una dottoressa che non conoscevo, è stata gentile. Poi qualcuno ha fatto una battuta, abbiamo riso tutti, lo si capiva dagli occhi.

Uscendo, però, ho pensato che la mascherina mi aveva impedito di distinguere il sorriso di quelle persone. Il sorriso di una persona che conosci lo ricordi e lo riesci ad immaginare. Il sorriso di uno sconosciuto è come fargli l’identikit: capisci subito se sorride ma è forzato, se ha qualche preoccupazione, se è stanco oppure se è un sorriso aperto e spontaneo. Senza sorriso, quel gesto che scolpisce il volto, non si può quasi dire di avere “visto” una persona.

sorriso

Il Vangelo di questa domenica dice che Gesù si fece trovare improvvisamente nel mezzo dell’assemblea dei suoi discepoli, superando i muri e le porte chiuse, e che i discepoli “gioirono al vedere il Signore” (Gv 20,20).

Uscendo dalla farmacia mi è tornata in mente proprio questa frase: “i discepoli gioirono al vedere il Signore”.

I pochi che c’erano sotto la Croce, per lo più discepole, insieme a Giovanni e Giuseppe d’Arimatea, l’ultima volta lo avevano salutato con un sudario sul volto, qualcosa che ostacolava lo sguardo.

Ora lo vedono e gioiscono. E immagino un sorriso aperto di tutti, un sorriso ben visibile e festoso. E baci, abbracci, incoraggiamenti. Forse, di questi tempi, si potrebbe addirittura parafrasare: “E i discepoli sorrisero al vedere il Signore, senza quel sudario che assomigliava tanto a una mascherina…”

Attenzione, non ho nulla contro le mascherine, che sono un presidio sanitario fondamentale e che ci permetteranno di vivere una quasi normalità nei mesi che verranno.

Vorrei esprimere solo il desiderio di volti recuperati e abbracci restituiti. In questa speranza, che ha gli echi di una melodia struggente e a tratti lancinante, creiamo uno spazio per tutte le persone che stanno facendo più fatica: sappiate che, come ha detto papa Francesco, siamo tutti sulla stessa barca. Pochi sono gli eroi e i forti non sono nemmeno loro sempre forti. La pesantezza la sentiamo in tanti. E questo punto di partenza condiviso ci fa sentire almeno un po’ consolati, e sicuramente anche propositivi.

Abbiamo celebrato Pasqua e ora ripartiamo da qui.

Il Signore risorto riavvia il nostro cammino: guardiamo al futuro, un futuro prossimo, progressivo e lontano, senza stare con le mani in mano, ma sapendo che è parte essenziale della testimonianza della resurrezione anche la possibilità di tornare a vedere e sfiorarsi, e che noi ci impegniamo per questo attraversando ogni cosa.

Don Davide




Il ridicolo sasso e la tenda leggera

Abbiamo talmente impressa nella mente l’immagine del sepolcro aperto, che ci immaginiamo sempre le donne sorprese di fronte a questo segno, all’alba del mattino di Pasqua.

La nostra logica, quindi, funziona spontaneamente pensando a questa sequenza: Gesù risorge e apre il sepolcro per uscire.

Ma non è così.

Matteo, a differenza degli altri tre evangelisti, racconta che quando le donne arrivarono, il sepolcro era ancora chiuso. Solo quando loro si trovano lì davanti un angelo disceso dal cielo rotola via la pietra e vi siede sopra, in segno di trionfo su quel misero ostacolo e quasi di scherno.

FiestraGesù, evidentemente, è già risorto e non poteva essere certo un ridicolo sasso a trattenerlo nel sepolcro, lui che aveva già superato il limite più grande di tutti. La morte, per lui, è poco più di una tenda leggera, che si scosta con un lieve movimento del braccio, e non c’è parete di roccia o altro muro o rifiuto che possa contenere la sua resurrezione, la possibilità che lui ci incontri, dove vuole e quando vuole.

L’unica certezza è che Gesù non è nella morte, tantomeno – figuriamoci – nel sepolcro! Così dice l’angelo: c’è da incontrarlo; noi lo desideriamo e lui salta gli ostacoli e colma le distanze (Mt 28,6-7). Il suo potere non è incatenato.

Davvero, come abbiamo testimoniato più volte, in questi giorni, nulla resiste / a questo vincitore: / egli passa / a porte chiuse / dall’altra parte del muro.

Così, anche se il nostro cuore fosse di pietra, egli salta la dura crosta per toccare la parte morbida: è l’unico capace di farlo. Anche se ci sentiamo peccatori, e abbiamo imparato fin da piccoli che il nostro peccato è un freno all’appuntamento con Dio, scopriamo oggi che questo è vero per noi, ma non per lui. Il giorno di Pasqua ci fa una sorpresa e, con i suoi angeli, ride delle separazioni che dovrebbero impedirgli di farci sentire il suo amore.

Anche se siamo dispiaciuti per tutto quello che ci è mancato in questi giorni, o pieni di paure, Gesù ci viene incontro e ci dice: “Ciao!” (Mt 28,9) come nulla fosse.

Non svilisce le nostre fatiche, ma le rassicura con un saluto.

Dev’essere stata questa l’esperienza di Pietro sulle sponde del Lago di Tiberiade o di Saulo sulla via di Damasco, quando il Risorto li ha incontrati, perdonati e chiamati. Il tradimento, il rifiuto, la distanza… ostacoli che apparivano invalicabili si sono polverizzati di fronte alla forza della sua presenza, sciolti come neve al sole del suo interesse per i discepoli.

Forse è stato pensando a questa esperienza del Risorto, che Paolo – divenuto apostolo – ha potuto scrivere quelle parole magnifiche della lettera ai Romani: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” (Rm 8,35). Vi consiglio di andare a leggere come prosegue…

Così, siamo rincuorati e consolati. Sappiamo che non sarà nemmeno una pandemia a impedire la nostra esperienza di fede e l’incontro con il Risorto. Lui ci è accanto, in tutti i nostri sforzi a favore della vita.

Sappiamo che si varcherà anche questo ostacolo. E che, nonostante le ferite e attraverso i lutti, torneremo a impegnarci nella nostra responsabilità verso la storia, peccatori perdonati, cuori inteneriti, paurosi divenuti intrepidi, sconsolati entusiasti e discepoli mesti resi felici.

Don Davide




Noi e Gesù

Il nostro vescovo Matteo ha spiegato che le palme e i rami d’ulivo erano le cose più a portata di mano che le folle avevano da sventolare per fare festa e dare onore a Gesù. Non avevano un significato religioso di per sé, anche se poi è rimasta fino ad oggi l’efficacia e la potenza di quei simboli.

Quest’anno non possiamo ripetere la gioiosa processione delle Palme e, per ragioni connesse alle limitazioni di tutte le attività, non abbiamo nemmeno i rami d’ulivo da distribuire.

Pensando che Gesù entra nelle nostre case, come entra a Gerusalemme nell’imminenza delle celebrazioni pasquali, per invitarci a fare Pasqua con lui, voglio figurarmi come lo accoglieremmo noi, oggi, non potendo preparare niente di meglio che quello che abbiamo immediatamente a disposizione.

Immagino che Gesù passi attraversando le nostre case, come se percorresse ad esempio una delle nostre strade, e noi tutti alla finestra per fargli festa. Penso che i bimbi terrebbero in mano un loro pupazzo, e le bimbe una bambola di pezza, quella inseparabile. I più grandini forse si presenterebbero con il pallone da basket in mano o con il nastro della ginnastica ritmica che viene fatto volteggiare, o con la maglietta della propria squadra di calcio preferita. Qualcuno suonerebbe con la chitarra sul balcone della finestra, qualcun altro scatterebbe foto, mi figuro qualche anziana signora che getterebbe fiori al passaggio.

Sono gli oggetti della nostra vita. Su consiglio del Vescovo, usiamo quelli per accogliere una benedizione nella nostra casa e per ricordarci che dobbiamo a tutti i costi celebrare la speranza pasquale.

In questa domenica, nella liturgia, si pone l’accento sulla morte di Gesù e si legge il racconto della sua Passione. In questa narrazione l’evangelista Matteo sembra dirci che si sprofonda in un’esperienza terribile, senza alcuna attenuazione.

Dal momento in cui Gesù è consapevole che un traditore siede alla sua mensa, ne svela la presenza e pare che tutti siano incapaci di reagire, ogni passaggio è segnato da una durezza sempre maggiore. I migliori amici si addormentano nel momento più drammatico di Gesù. Il traditore, lasciato libero di agire, lo consegna con un bacio. Tutti i discepoli scappano, lasciando Gesù solo. I sacerdoti e gli anziani del popolo mentono, sapendo di mentire, e in un crescendo terribile, prima loro, poi Pilato, infine i soldati sfogano su di lui una violenza gratuita.

C’è un passaggio micidiale, in cui persino gli astanti, pii Israeliti, citano un salmo che hanno sicuramente pregato migliaia di volte, sovvertendone completamente il significato. Il salmo è il 22; nella preghiera, il pio israelita ricorda che nel momento del bisogno i malvagi – i nemici – si fanno beffe di lui dicendo: “Si è affidato al Signore, lo liberi se gli vuole bene!”. Quanti abitanti di Gerusalemme avranno trovato conforto, nelle fatiche e nelle delusioni dei loro giorni, in quel salmo! Eppure, vedendo Gesù lo citano come uno sfottò. “E’ proprio come dice il salmo: Si è affidato a Dio, lo liberi lui se gli vuole bene!”. Così, quelli che avevano usato quella preghiera per consolarsi e per affermare la vicinanza del Dio di Israele, lo citano come se legittimasse l’oppressione dell’umile, la presa in giro, e negando l’esistenza del loro Dio! E senza rendersene conto!

Infine, Gesù crocifisso rifiuta la bevanda drogante, per non essere stordito e affrontare tutto il dolore lucidamente. Nel racconto di Matteo (come in quello di Marco) non c’è nessun ladro convertito ad addolcire la scena. Il secondo grido di Gesù, quello che per pudore l’evangelista non ci fa risentire, esprime il dramma dell’abbandono.

Eppure, in tutta questa durezza, leggendo, non si ha l’impressione che il cuore si irrigidisca, ma che si apra. Paradossalmente, sentiamo crescere la tenerezza. Alle domande che sorgono: “Chi è costui che spezza il pane con chi lo tradisce?”; “Chi è costui che accetta che nessuno slancio resista?”; “Chi è costui che è solo, offeso e picchiato e rimane pieno di dignità?” le risposte sfuggono, ma il nostro sguardo si focalizza sul protagonista, su Gesù.

Sentiamo che è lo Spirito che ci parla dell’amore di Dio per lui; è qualcosa di molto più misterioso e vero di quello che noi possiamo semplicemente percepire o afferrare. Veniamo persuasi, senza sapere come, che il salmo si avvererà, che Dio lo libererà, perché gli vuole bene e che libererà anche noi, da tutte le nostre schiavitù, meschinità e durezze, se gli vogliamo bene.

Don Davide




Egli passa

La Pasqua di Gesù e la nostra

Niente resiste a questo vincitore.
Egli passa
a porte chiuse dall’altra parte del muro.

(Paul Claudel, La notte di Pasqua)

Questo verso folgorante di Paul Claudel fa esplicito riferimento alla scena di Gesù che, la sera della resurrezione e otto giorni dopo, visita i suoi discepoli entrando nella stanza a porte chiuse – il testo evangelico lo dice per due volte (Gv 20,19.26) – e si colloca proprio “nel mezzo”.

Gesù risorto non è ostacolato dal fatto che siano chiuse le nostre case, che siano chiuse le nostre attività, che siano chiuse le nostre chiese. Lui passa attraverso i muri e si fa trovare proprio al centro, dove conta e dove possiamo incontrarlo: in mezzo alle nostre famiglie, in mezzo alle nostre vite, perché possiamo celebrare la Pasqua.

Anche se le regole devono sigillare le porte, la pietra del sepolcro rotolerà. La morte sarà sconfitta.

È molto importante ricordare che Pasqua in ebraico significa passaggio e quindi questi versi del poeta possono essere interpretati anche con questo significato: “Egli fa Pasqua a porte chiuse…”

Nonostante il dispiacere di non potere celebrare insieme, dobbiamo riconoscere che non siamo noi a dovere garantire che si avveri la resurrezione. Non dobbiamo preoccuparci troppo di questo. È lui che passa. È lui che fa la Pasqua insieme con noi.

E il primo saluto che ci porta, ancora seguendo il vangelo di Giovanni è: “Pace a voi!” (Gv 20,19), affinché almeno attraversando questa notte, almeno in questo giorno, i nostri cuori non siano turbati.

E la seconda cosa che ci consegna è il mandato di riconciliare e di perdonare, di fare sentire a tutti la tenerezza di Dio.

E il terzo effetto che vuole operare in noi è l’esperienza di questa resurrezione, anche se rimpiangiamo di non essere stati lì a vederlo e toccarlo, ma con Tommaso possiamo dire: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28).

Si tratta, dunque, di accettare di incontrarlo o nelle nostre case, o personalmente. Possiamo richiamare la dimensione domestica delle prime celebrazioni della Pasqua, sia della Pasqua ebraica, che si ritualizzava con la propria famiglia, sia della Pasqua cristiana, che si viveva nelle case dei primi cristiani.

 




Vedere la gloria di Dio

Ci sei o non ci sei? 

La grande domanda che guida il racconto della resurrezione di Lazzaro – il Vangelo di questa V Domenica di Quaresima – la domanda identica che esprimono sia Marta che Maria è legata all’assenza di Gesù, che ci fa sentire soli, o alla sua presenza, che ci custodisce: Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto”. 

Ci sei, Gesù, nella mia vita di credente? 

Ci sei, quando mi sento solo e affaticato? 

Ci sei in mezzo a questa epidemia, per curare le persone che muoiono o non ci sei? 

A differenza del famoso racconto di Gesù nella casa di Marta e Maria, qui scopriamo che è Marta ad avere una fede più grande, è radicata nel rapporto con Gesù, dialoga con lui e raggiunge una delle più grandi professioni di fede che si possano immaginare, forse la più grande di tutto il vangelo: “Io credo che tu sei il Messia, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo!”. Dire di più di così, non si può. 

Questa sua professione di fede, però, non chiude il discorso. Al contrario, coinvolge il cammino di tutti, il cammino dei singoli, il cammino dell’esperienza di un popolo, e il cammino di una comunità. 

Marta va a chiamare sua sorella, la interpella, le lascia spazio, accetta che anche lei compia un cammino e faccia i suoi passi, favorisce il suo incontro. 

“Il Maestro è qui, e ti chiama!” 

Il Maestro è qui, c’è eccome. Entra in tutte le situazioni, non fa venire meno la sua presenza. Sa che Lazzaro è morto. Si è accorto che c’è tanta sofferenza e difficoltà. E chiama te!  

Questo è il momento di incontrarlo. 

Questo è il momento di una vocazione. 

È stupendo che Gesù non consumi l’incontro come un fuoco con la stoppia. Lui aspetta la sua amica fuori dal villaggio. Le concede il tempo di un piccolo cammino, di uscire da se stessa, di pensare quello che lei vuole dirgli. 

Maria è più in difficoltà di Marta. Forse è arrabbiata con Gesù, si ferma all’obiezione, non ha altre parole. Dice solo: “Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto.” Non aggiunge nessuna professione di fede, anche se già questo lamento agli occhi di Dio è una supplica piena di amore e di fiducia. 

E piange. 

Maria è in crisi, ha bisogno di attraversare  il dolore e la commozione insieme a Gesù. E Gesù piange con lei. E di fronte a questa scena di dolore così intensa, tutti piangono. Gli abitanti di Betania sono scettici: “Costui che ha ridato la vista al cieco, non poteva fare sì che il suo amico Lazzaro non morisse?”. 

Anche Marta, che pure aveva fatto quella professione di fede grandiosa, vacilla, ed è sopraffatta dal dolore. Pensa che in fondo, nemmeno Gesù lo possa affrontare davvero. “Signore è già tardi… in realtà le nostre speranze sono svanite. Rimane solo l’amicizia, l’affetto, il conforto umano.” 

Qui Gesù tiene il punto: “Non ti ho detto che se crederai, vedrai la gloria di Dio?” 

La gloria di Dio, per gli ebrei, non è qualcosa di spirituale, di astratto. Al contrario è un’esperienza molto concretauna presenza ingombrante. Il segno tipico della gloria di Dio era il fumo denso che riempiva la tenda del santuario di Dio, al punto che nessuno, quando la Gloria era sulla tenda, poteva entrare o uscire.   

Qual è dunque, quest’esperienza così concreta e decisiva? È la fede di un singolo e di una comunità che viene suscitata nei nostri giorni fragili, e il fatto di condividere la lotta contro la morte di un intero popolo. 

Attenzione perché qui si rischia il più grande fraintendimento alla storia di Lazzaro. Il messaggio non è la sua rivitalizzazione, perché di fronte a quella, noi pensiamo subito all’illusione di non morire mai, e diciamo: “Eh, ma i nostri morti non li fai rivivere!”. Il punto decisivo, per noi, è che possiamo credere in Gesù, come singoli e come popolo, e avere una nuova esperienza di vita solo affrontando e attraversando la questione della morte. 

Soltanto in questa luce trova senso la decisione apparentemente assurda e macabra di Gesù di tardare la visita a Betania, per poi andare dopo a resuscitare Lazzaro. Gesù vuole che non esorcizziamo la morte, ma che la consideriamo nella nostra vita, compiendo il cammino della fede e tenendo ferma la speranza.  

Ve lo immaginate Lazzaro, fuori dal sepolcro? Gesù gli dice, vieni fuori, ma doveva essere ben difficile camminare mummificato! 

Allo stesso modo, guidati dalla fede e chiamati dalla speranza, anche noi compiamo piccoli passi, legati, incerti, in equilibrio precario, e veniamo sciolti dalle bende della morte che ci avvolge e vorrebbe impedirci di andare. 

Ieri un amico mi ha scritto: “Io posso anche morire domani, se ho imparato ad amare.” 

Cos’è che rende piena improvvisamente la mia vita con un atto d’amore? 

Questo è il punto cruciale del racconto della resurrezione di Lazzaro: ed è bellissimo vedere come inizia da una professione di fede, incontra una fede in difficoltà, attraversa il dolore e la compassione, suscita la fede di una comunità intera. 

Forse, una testimonianza resa così, sarà la vera nuova evangelizzazione della Chiesa. 

Don Davide

Nebbia