…quella felicità (per gli Under 20)

Voglio consegnare una piccola riflessione a voi ragazze e ragazzi, diciamo dalle medie ai vent’anni, amichevolmente. Non è detto che siano sempre poche righe, potrebbe essere un video o un post sui canali social della Parrocchia… Stay tuned!

Per questa settimana, mi colpisce che Pietro non voglia rinunciare a Gesù e gli dica: “Gesù, dove vuoi che andiamo? Tu dici qualcosa che ci rende felici!”. (Ok, ho tradotto per attualizzare, ma il senso è questo!). Noi, adulti e credenti, non siamo sempre stati capaci di mostrare questo legame tra Gesù e la felicità. Alcune volte, magari, abbiamo parlato più di impegno, di morale o, peggio, di divieti.

Per quanto mi riguarda, mi propongo di migliorare. Vorrei che ciascuna e ciascuno di voi possa scoprire che cosa c’entra Gesù con la felicità, quella che ti fa cantare le tue canzoni preferite al sole d’estate, o che vuoi immortalare con la storia più bella che tu riesca a creare. È quella felicità semplice che ho in mente, e anche quella dei traguardi più belli.

Mi basta sapervi su quella strada, ma – se avete voglia – fatemi sapere se ci siete o se c’è stato qualche impiccio.

Don Davide




Scegliere tutti i giorni

Ben ritrovate e ben ritrovati,

spero che la vostra estate sia stata in linea con le vostre aspettative e rigenerante. Dopo la pausa estiva riprendiamo questo appuntamento domenicale, che – per chi non lo sapesse – offre uno spunto di riflessione collegato alla liturgia domenicale o alla vita della nostra comunità parrocchiale.

In questa domenica incontriamo un luogo singolare, fondamentale nella storia dei patriarchi, collocato a metà strada tra la Samaria e la Galilea, circa al centro della Terra Promessa: Sichem.

Sichem (Gs 24,1) è il luogo della prima sosta di Abramo nella Terra: il posto dove Dio gli fa contemplare il dono futuro e promesso (Gn 12,6-7).

Sichem è il momento della conferma, dopo il cammino di redenzione di Giacobbe, dove tutta la sua storia viene ricapitolata e lui diviene finalmente il padre di un popolo, come era destinato ad essere (Gn 35,1-4). Per Giacobbe Sichem è il luogo della maturità, quando dopo una crisi lunga e faticosa, ma superata, seppellisce gli idoli per identificarsi completamente con la sua missione e il suo ruolo.

Spesso la Bibbia rimanda ai momenti decisivi e di passaggio, a quegli eventi che segnano radicalmente una svolta; tuttavia, si viene a sapere poi che questi momenti, invece, non risultano mai definitivi. Pur ancorandosi ad essi, le vicende dei personaggi incontrano ancora smarrimento, fatica e disorientamento, quasi fino alla fine della loro vita. Ma proprio nella considerazione di questo lungo cammino, emergono ancora più chiaramente quelle tappe significative che più di ogni altra hanno segnato una svolta e che, perciò, diventano punto di riferimento.

Così è anche l’invito che fa Giosuè a Sichem e oggi a ciascuno di noi: Sceglietevi oggi chi servire! (24,15).

Abbiamo l’occasione di verificare di nuovo che Dio, benedetto Egli sia, è l’unico Dio vivente e il cammino che lui ci ha fatto fare è un cammino di vita, mentre quelle degli idoli sono seduzioni ingannevoli.

Ora questo appuntamento decisivo con Dio, per noi ha i tratti dell’incontro con Gesù. “Noi abbiamo riconosciuto che tu sei il Figlio di Dio”, dice Pietro, dove il passaggio più importante è dato proprio dal riferimento a Gesù: “TU sei il Figlio di Dio”. In sostanza, Pietro riconosce che se di una felicità si può parlare, si tratta di cercarla con lui, con Gesù, e di non lasciarsi disorientare.

Così, come se la nostra ripresa fosse “essere a Sichem”, abbiamo l’occasione di scegliere e confermare Gesù anche oggi, con più amore, convinzione ed entusiasmo, nella continua accoglienza dell’incontro con lui. In fondo, si tratta di scegliere e confermare la nostra ricerca di felicità, le cose per cui la nostra vita ha un senso vero e con dei frutti belli.

Don Davide




La salvezza di Dio comprende tutto

Due figure femminili accomunate da un particolare
La pagina del Vangelo di questa settimana (Marco 5, 21-43) non lascia spazio a dubbi sull’Amore che Dio nutre per noi, perché qui esso è espresso da suo figlio Gesù di Nazaret, attraverso due guarigioni di due donne molto diverse, ma accomunate da qualcosa di interessante.

Il numero 12 (1+2= 3)
Nel racconto, entrambe hanno a che fare col numero 12: la donna è malata da tempo e questo dato ci viene fornito chiaramente: “una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici”;
La figlia di Giairo, il quale implora l’aiuto di Gesù perché lei sta morendo ha un’età precisa la fanciulla (…) aveva infatti dodici anni 

Il dodici indica la pienezza dell’anno, composto di dodici mesi, ma anche e soprattutto perché rappresenta il numero dell’elezione, quello del popolo di Dio. “

Dodici i figli d’Israele-Giacobbe; Dodici quindi le tribù d’Israele; Dodici gli apostoli: esso è un numero simbolico che rappresenta la totalità della vita, la ricomposizione di qualcosa che in origine era perfetto e armonico e finalmente, dopo aver superato mille difficoltà, ritorna Uno, Sano, Integro.

Il sangue e la tenacia
Una volta mi capitò di avere un’emorragia dal naso, improvvisa e violenta: ero nel chiostro della mia università ospitata da un ex convento, dove noi studenti ci fermavamo a chiacchierare, a mangiare un panino. C’era gente, ma nessuno si avvicinò per aiutarmi, mentre tiravo fuori fazzoletti dalla borsa tentando di bloccare il sangue.
Lo capii: erano gli anni dei primi sieropositivi all’HIV e il sangue faceva paura così come calpestare una delle innumerevoli siringhe lasciate a terra nei parchi dai tossicodipendenti.
Me la cavai, ma pensai che se fossi svenuta avrei avuto tutti attorno, mentre la sola vista del sangue, aveva scoraggiato anche i più solerti “samaritani”.

La donna di questo brano ha attraversato difficoltà infinitamente più gravi delle mie: ha subito molte sofferenze e delusioni e la sua vita si è completamente identificata con una condizione di malattia e rifiuto sociale: ma per guarire, è disposta a rischiare.
Questa donna si sente impura, ma si getta nella folla per raggiungere un contatto diretto con Gesù: non basterà vederlo, chiamarlo, ma dovrà toccarlo. Quando noi usiamo l’espressione “toccare con mano”, vogliamo dire che abbiamo fatto un’esperienza reale di quella condizione: ebbene questa donna ci riesce: “e sentì nel suo corpo che era guarita dal male”. E Gesù infatti “essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?”. Vuole guardare negli occhi chi è riuscito a ricevere per sé, parte di quel principio che ridona vita laddove sembra regnare solo morte e sofferenza. Non c’è salvezza senza incontro reale: solo quando può dirle, direttamente guardandola negli occhi: “Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”, la donna può davvero riprendere in mano la sua vita.
Gesù le dà atto di non essersi arresa, di aver avuto fiducia pur vivendo una condizione in cui l’istinto ti porterebbe a metterti in un angolo e bloccarti. Anche solo camminare perdendo continuamente sangue, ti dà la netta sensazione di essere in difetto: ti senti svenire, ti senti sporca, senti che tutti potrebbero accorgersi dei tuoi vestiti macchiati. E allora osare di voler guarire è un atto di fede che Gesù apprezza talmente tanto da dire alla donna che è salva: e mi viene da pensare che la salvi non solo dalla malattia del corpo, ma anche da tutte quelle dell’anima, in modo che finalmente possa dedicarsi a costruire il Regno di Dio su questa terra a volte polverosa ed arida, all’interno di una comunità ritrovata.

La giovinezza e la fragilità
La seconda figura femminile è giovanissima e viene descritta come senza vita, esanime, esangue. Potrebbe rappresentare l’esplosione della vita (a dodici anni, spesso si diventa donne) che viene bloccata da un qualsiasi evento improvviso e grave: qualcosa sta rubando ad una ragazza che invece dovrebbe avere tutta la vita davanti, ogni possibile futuro.
Qui Gesù su comporta come un marziano: non si scompone, dice al padre «Non temere, soltanto abbi fede!» e quando arriva a casa di Giairo e gli dicono che la bambina è morta risponde: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». Ovviamente viene deriso, ma questa volta invece di agire nella folla, sceglie pochissime persone da portare con sé nella stanza della figlioletta di Giairo e la guarisce con una frase chiara e decisa: «Talità kum». E il linguaggio cambia: scopriamo che non è più una bambina, ma una fanciulla che, come dicevamo all’inizio, ha dodici anni. Anche qui c’è un passaggio avvenuto: la bambina potrebbe aver avuto paura di crescere, oppure potrebbe essersi arresa al primo pericolo che l’ha sorpresa e non ha lottato: si è abbandonata, molto presto all’altra sorella della vita, la morte. Gesù però fa sentire forte la sua voce, per risvegliare quelle parti di noi che hanno paura di crescere, di cambiare, di lanciarsi nell’imprevedibilità della vita e donare loro nuovo vigore. Quando accogliamo la voce di Dio, diventiamo più grandi, più completi proprio perché abbiamo superato uno snodo critico della nostra crescita.

È quando superiamo le prove (e la pandemia lo è sicuramente) che produciamo finalmente una trasformazione. Le prove difficili sono le uniche che portano ad una vera crescita. In molte culture i riti iniziatici si compiono all’età di 12 anni, dopo di che si entra in un’età adulta. Quindi quando le prove si presentano, non fuggiamo, non anestetizziamoci: superiamole per diventare grandi e completi. Ricordando che all’orizzonte, come leggiamo nell’Apocalisse c’è una Donna vestita di sole ha in capo una corona di dodici stelle, vale a dire un’umanità scelta da Dio per realizzare un mondo in cui pace ed armonia regnino per tutti e per sempre.

Anna Maria




Grandi e gentili

Nelle letture di oggi ammiriamo il Signore della Creazione, che mette un argine ai flutti del mare e che intima al vento di cessare e alla tempesta di calmarsi.

Queste prime due settimane di Estate Ragazzi – la prima solo con gli animatori, la seconda anche con i bambini – sono state esattamente come dice la liturgia di questa domenica. È stato proprio come vedere il Signore della Creazione che, attraverso i ragazzi, diceva all’epidemia: “Taci, calmati!” (Mc 4,39).

Non nel senso che siano passati tutti i pericoli o che non bisogna più tenere alta la guardia contro la possibilità di contagio… ma nel senso che è stato come vedere un forte argine alle forze negative dell’epidemia, mentre si riaffermava la vitalità dei bimbi e dei giovani animatori.

C’è stato, forse, nei mesi passati un momento in cui si pensava: “Maestro, non ti importa che siamo perduti?” (Mc 4,38), sia per la paura di ammalarsi, sia perché sembrava paralizzata la pastorale e appesantita ogni possibilità di incontro e di edificazione fiduciosa.

Invece, grazie alla tenacia iniziale di Alice e Francesca, che hanno scelto con caparbietà di radunare un gruppetto di coordinatori, unitamente alla disponibilità di tempo e all’esperienza di Michele e Suor Aurora e alla collaborazione di Laura e Silvia, sono stati attivati i responsabili degli animatori e tutti loro insieme hanno dato vita a un’esperienza che – nel vero senso della parola – è stata come una boccata di ossigeno dopo il soffocamento di questa epidemia.

Inoltre, è stata ancora più sorprendente di una normale Estate Ragazzi, perché le limitazioni imposte ci hanno permesso di ritrovare il vero senso pastorale di questa iniziativa.

Il numero non tanto elevato di bambini, il momento del pranzo riservato agli animatori e le iniziative per loro nel pomeriggio e, soprattutto, la prima settimana di preparazione fatta con calma e serietà dopo la scuola per preparare al meglio le attività dei piccoli, ci hanno fatto capire meglio che il nostro obiettivo non deve essere di avere il numero più grande possibile, a costo di non riuscire a fare una proposta di valore, e col rischio di esaurire le energie dei ragazzi. L’obiettivo pastorale dell’Estate Ragazzi, invece, deve essere offrire un’esperienza di comunità piena di cura ai bimbi e del tempo di qualità per coltivare la relazione con gli adolescenti animatori.

Da questa impostazione non torneremo più indietro e spero che tutta la parrocchia diventi consapevole che queste sono le scelte che devono guidare l’edificazione della nostra comunità, non dei presunti atti di servizio al limite dell’eroismo, che però non favoriscono la qualità della proposta formativa e la cura (anche in termini di tempo dedicato) che dobbiamo ai più giovani, non solo ai bambini.

Siamo soltanto al giro di boa. Ci aspetta un’altra settimana, in cui speriamo che tutto continui a procedere al meglio, ma anche se dovesse esserci qualche inconveniente, non negherebbe la bellezza di quanto fatto finora e la fiducia che grazie ai ragazzi abbiamo ritrovato e che possiamo continuare ad avere.

Queste righe, cari coordinatori e coordinatrici, responsabili, animatori e animatrici sono esplicitamente un omaggio per voi. Probabilmente, il Grande Gigante Gentile ha soffiato nelle vostre vite un sogno che nemmeno osavate sperare. Tutta la comunità vi ringrazia per il vostro impegno e perché, anche senza pensarci e forse senza saperlo, siete stati grandi e gentili e avete messo un argine all’epidemia, molto più potente di qualunque vaccino.

Don Davide




Il nuovo regno degli uomini è il Regno di Dio

A cosa possiamo paragonare il Regno di Dio?

Gesù amava parlare in parabole per molti motivi. Sicuramente non ci sfugge il fatto che, noi per primi, per parlare delle cose divine, abbiamo la necessità di usare forme comparative che ci aiutino a comprendere qualcosa che è semplice, ma infinitamente “altro”. È altrettanto vero che, in queste similitudini, ‘i piccoli’ come noi, hanno più facile accesso e la voce di Gesù è come se si adattasse alle nostre orecchie.

Nella scorsa domenica (Mc 4,26-34) si è riproposto il tema di una nuova visione del Regno, quello di Dio. La domanda ci appare semplice ma possiamo immaginare che nasca dalla difficoltà di descrivere direttamente questo Regno che, ovviamente, si differenzia da quello degli uomini. Marco ha appena parlato della Parola di Dio come un seme (la parabola del seminatore) facendo seguire altri ‘come se’ sul Regno: è come il tempo della mietitura, della raccolta; è il tempo della gioia. Poi Gesù ci presenta un seme particolare per spiegarcene alcune caratteristiche.

“I miei pensieri non sono i vostri pensieri”: colmare la distanza

Gli uditori del tempo, come quelli di oggi, pensano al regno come qualcosa che rientra nelle idee degli uomini tranquillamente: non c’è bisogno di metafore. Il Re è qualcuno di cui ho esperienza, ha la corona il trono, ha dei poteri.

Ma per il Regno di Dio non è così; ci è chiara l’esperienza di ciò che intendiamo come regno degli uomini, ma non bastano le parole e le idee per parlare di quello che Gesù ha rivelato: Dio ha una visione precisa di quello che per Lui può e deve essere il nuovo regno degli uomini e ce lo rivela attraverso la concretezza di quello che il Cristo fa e dice.

Il seme della parola produce GIOIA.

La prima considerazione di fondo che facciamo è che questo regno è in stretta connessione con la Parola. La parola seminata e raccolta, nel Regno, porta gioia. Infatti, come ogni raccolto oggi e molto più ieri, riuniva le comunità contadine in momento di festa, vertice di tutto un anno di attese e fatiche, così anche la Parola che produce frutto, esprime (ex-premere = preme fuori) la gioia dell’umanità.

E’ un Regno in cui ci si sente a CASA

La seconda, parte dall’immagine del Regno di Dio come un seme della senape. Fra tutti gli ortaggi è il seme più piccolo, minuscolo; ma è anche quello che cresciuto, nell’orto, giganteggia fra gli altri, tanto da ospitare alla sua ombra gli uccelli del cielo. Si badi bene però, anche gli uccelli sono quelli piccoli, di nessun conto o valore per uno che voglia cacciare trofei alati.
Allora e oggi (anche se un po’ meno) l’orto è un fatto domestico, un fatto in casa… il Regno di Dio è familiare, fa famiglia, si realizza nel piccolo e produce cose grandi; tanto grandi da ospitare chi è più in difficoltà, nella semplice condivisione di ciò che si ha. Diventa così il giardino per tutta per la famiglia umana.

Il Gusto vero della vita

Il seme della senape è antico ed è particolare. Il suo sapore si fa sentire davvero nelle pietanze in cui viene usato. Il Regno di Dio dà sapore alle nostre giornate, non è addivenire, è qui (v. Mc 1,25). La Parola accolta ti rende accogliente e realizza il Regno, proprio come fa il seme della senape, il più piccolo e apparentemente il più insignificante seme dell’orto, diventa casa, ombra rinfrancante per tanti piccoli, come ciascuno di noi davanti a Dio.

Nel Regno di Dio c’è posto per tutti, trasforma e vivifica tutti i regni degli uomini che accolgono la Parola, la Buona novella, da quelli più personali fino a quelli più potenti.

E quindi ora possiamo rispondere alla domanda che ci siamo posti all’inizio: “A cosa possiamo paragonare il Regno di Dio? “

Alla gioia dei fratelli e delle sorelle di tutta la terra che ascoltano la Buona novella, la mettono in pratica e creano una nuova umanità.

Anna Maria e Francesco




Cose grandi e umili

Nella liturgia di oggi c’è un tema di leadership cristiana.

Il profeta Ezechiele propone una parabola al termine di una riflessione che offre un confronto serrato fra Dio e tutti gli altri re e imperatori che hanno preteso di rivaleggiare con il suo potere.

Essi, dice il profeta, sono come alti cedri, maestosi e imponenti, ma il Signore eleva tra questi cedri un ramoscello, una cosa piccola, ancora nascente, la pone sulla cima del monte… perché “sappiano tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore: che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso…” (Ez 17,24).

Gesù ci propone, innanzitutto, la parabola del seme che cresce da solo, per affermare che il Signore mette in gioco una forza inarrestabile che permette al seme di crescere, anche indipendentemente dall’attività del contadino. In seguito, Gesù introduce una differenza significativa con il riferimento corrispettivo del profeta Ezechiele: il granello di senape non è come il ramoscello del cedro. Il granello di senape cresce e diventa il più grande di tutte le piante dell’orto e gli uccellini possono fare il nido alla sua ombra, nel senso che senz’altro possono trovare un piccolo ristoro, ma certamente non svolazzare e rifugiarsi sotto di esso come sotto il cedro.

Siamo dunque invitati non tanto alle piccole cose, ma a quelle grandi vissute con un atteggiamento umile e prudente: non tante cose, ma una che possa crescere; non la pretesa di essere uno spazio immenso o la presunzione di coinvolgere tutti, ma la disponibilità di fare ombra a chi vuole.

Ci si potrebbe chiedere dove vada a finire lo slancio missionario, la conversione pastorale che papa Francesco ci chiede. Mi sembra che il punto sia la decisione ferma di vivere questo impegno in maniera non autoreferenziale, che vuole dire non nella cornice della nostra visione e del nostro punto di vista, ma col tentativo di cogliere la realtà, le sfumature e le connessioni.

In questo senso, la grandezza della pianta di senape non è di essere immensa, ma di esserci per le altre piante dell’orto: di portare ombra in modo che tutto possa svilupparsi in maniera salutare e giusta, e così di favorire e collaborare con l’energia che Dio mette in ogni cosa che deve crescere.

Don Davide




Corpus Domini: il Corpo del Signore

Il Mistero

Cogliamo l’occasione di questa festa per fare amicizia con un aspetto della nostra fede che, per molti versi, rimane un mistero. Possiamo fare delle considerazioni in maniera umile riguardo alla complessa presenza di Dio nel mondo: fra l’essere umano e la divinità si conserva uno spazio impenetrabile. Proviamo così a leggere il mistero del ‘Corpo del Signore’ analogamente al fenomeno fisico della diffrazione della luce, sapendo che rimane una differenza davanti alla quale non c’è che da rimanere in silenzio.

La relazione con Lui

Il principio della relazione con Lui è un incontro, così come continuamente indicato nei vangeli, dove viene manifestato che la relazione con il Risorto è personalevera, nel senso che non è solo frutto di una percezione del soggetto, ma ha una componente oggettiva nel fatto che Gesù si mostra ai suoi discepoli. L’incontro con Lui si verifica per ciascuno di noi nel tempo presente, in questo nostro corpo e, mediante lo Spirito (infatti ‘il nostro corpo è tempio dello Spirito Santo, 1Cor 6, 19), veniamo condotti e invitati a pienezza fino a dire con Paolo ‘non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me’ (Gal 2,20).

La Comunità come corpo

Tutti i battezzati sono poi uniti nel corpo ecclesiale, come dice Gesù: ‘dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro’ (Mt 18,20).
La presenza di Cristo diviene così reale nella comunità, mediante i segni del pane e del vino, il ‘corpo del Signore’ che ci permette di alimentarci del suo Amore. Noi lo crediamo vivo e vero nelle specie più povere e anche più alla nostra portata (come appunto il pane e il vino) per divenire noi stessi pane d’amore per il mondo, allo stesso modo di Cristo.

Nel corpo dei fratelli, dissetandoli, accogliendoli, trovate me

Vi è poi infatti, un ‘corpo del Signore’ più diffuso: ‘tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me’. È sempre Gesù che parla in prima persona nel vangelo di Matteo (25,40) invitandoci ad avere cura dei più piccoli della terra, come se fossero lui stesso.

Per lui apriamo il nostro cuore e le nostre vite a chi è in difficoltà e lì ritroviamo anche noi stessi nel meraviglioso mistero del Corpo di Cristo. Siamo esseri personali e comunitari e, nel Risorto, lo saremo in pienezza.

La prospettiva che ci attende è quella di riconoscere ‘Dio tutto in tutti’ (1Cor 15,28). Non tutto si può comprendere, ma si può già pienamente gioire.
Godiamoci, dunque, ciò che ci è stato rivelato: impariamo ad amare noi stessi, a vivere come fratelli nelle nostre comunità, a nutrirci dei sacramenti facendo ‘eucarestia’ e servendo i più piccoli.
Questo significa celebrare  il Corpus Domini.

Anna Maria e Francesco




Tre saluti

Il saluto

Le preghiere a Maria iniziano con un “saluto”: in latino ave, salve, gaude, laetare… Questi giorni di preghiera alla B.V. della Salute mi fanno pensare al desiderio e al bisogno di salutarsi, non solo come gesto di buona educazione, ma soprattutto come segno di incontro. Da una parte c’è voglia di incontrarsi, dall’altra sperimentiamo tutti la fatica di riattivare dinamiche che in questi mesi avevamo dovuto necessariamente abbandonare, come quelle di venire agli appuntamenti e partecipare ai momenti di riflessione e di formazione insieme. La fatica è data dal fatto di osservare che le cose possono iniziare, ma non ancora liberamente, che l’ombra della pandemia si è allungata sulla nostra vita e sembra non togliere quel fastidio e quella percezione di minaccia che ci hanno afflitto in questi mesi.

A Maria, così graziosamente esperta di saluti, affidiamo questi momenti di incontro, soprattutto il primo attimo, quello in cui ci si rivede, ci si avvicina, ci si sorride in modo che il sorriso possa essere percepito dagli occhi, perché la ricca espressione del volto è nascosta dalla mascherina, e così ci si accoglie. È un piccolo ricominciamento quanto mai prezioso, che ci deve fare percepire l’opportunità del momento, la grazia offerta in ogni incontro.

Altre due “saluti”

Giocando con le parole (consapevole di forzare la lingua italiana) ci sono almeno altre due “saluti” che vorrei considerare, in questa festa della B.V. della Salute.

 

La salute spirituale

Abbiamo pregato tantissimo, in questa pandemia, per la salute del corpo, ed è stato quanto mai necessario. Vorremmo affidare a Maria anche la salute dell’anima: ossia la possibilità di avere cura non solo del corpo biologico, ma anche del nostro corpo spirituale, del nostro essere persona.

Consegno due piccole regole, per coltivare quest’altra “salute”:

1)Praticare la gratitudine consapevolmente. Prendersi qualche momento, nella settimana, per ringraziare: concretamente, suggerisco di (I) venire a fare una preghiera in chiesa, (II) di ringraziare una persona che se lo è meritato, (III) di scrivere su un quaderno quattro o cinque motivi molto concreti per cui io posso essere grato, in questo periodo. Queste tre cose, una volta alla settimana, richiedono meno di cinque minuti e operano benefici per una vita intera.

2)Avere una piccola lettura spirituale. Può essere l’appuntamento con questa rubrica settimanale, oppure il commento alle letture del giorno con uno dei tanti sussidi che esistono, oppure un bel libretto… che potrebbe farvi compagnia in estate, accanto al vostro romanzo preferito!

 

Lo stato di salute della Chiesa

C’è, infine, una cosa ben più preoccupante, una pandemia molto più difficile da sconfiggere. È il virus che colpisce la fede, rende difficile credere, fa sentire la vita ecclesiale come asfittica e, soprattutto, le nuove generazioni dalla vita cristiana, quasi come se fosse inconciliabile con la loro giovane e bella età. Ma non dobbiamo crederci! È la distorsione del virus che provoca queste cose! Come i polmoni sono fatti per respirare, così la vita cristiana è fatta per i giovani… perché la fede rinnova il mondo e lo Spirito lo ringiovanisce, quindi se non si trova questa corrispondenza è perché noi non siamo abbastanza coerenti. Ricordiamo che il Risorto, nelle catacombe dei primi cristiani, è rappresentato come un giovane!

Chiediamo a Maria, quindi, anche la salute della Chiesa e della pastorale. Invito tutti voi, in modo particolare i responsabili, a pensare con coraggio, quest’estate, a come vivere la pastorale in modo ancora più evangelico e bello, perché la nostra comunità cresca, sia piena di giovani e sia un luogo dove si condivide la fede volentieri.

Don Davide




Connessioni

“Apparvero lingue come di fuoco, che si dividevano e si posavano su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo” (At 2,3-4).

Perdonate la precisazione, che sembra sottile, ma il testo non ci riferisce di un fuoco (unico) che si divideva in lingue, ma di lingue (molte) che a loro volta si dividevano e si posavano su ciascuno di loro.

Se rappresentiamo visivamente questa immagine, ne viene come una mappa neuronale e questo mi fa pensare che il dono dello Spirito Santo sia come la rete di connessioni del nostro cervello, un prodigio ineguagliabile di perfezione e complessità divina.

Dunque, che cosa significa essere colmati di Spirito Santo?

Non significa essere ripieni come i tortelloni, o con la pancia gonfia perché facciamo una gran mangiata come a Pasqua e a Natale, le altre due solennità più importanti del Cristianesimo.

Significa che siamo connessi con Dio, con gli altri, con la Sorgente dell’Esistenza e il Mistero della Vita che si svela. Siamo connessi come se tutto fosse un grande organismo che respira, prova emozioni, si accende, pensa, compie cose semplici e complessissime all’unisono e con la stessa rapidità con cui noi muoviamo un braccio prima di pensare di farlo.

Il dono dello Spirito Santo è la pienezza delle facoltà di ogni persona nella ricchezza dell’esistenza, per questo chi vive nello Spirito ama, è intimamente felice, è in armonia con il Creato e lo custodisce, e vive legami significativi con le persone.

Il punto di partenza è certamente un regalo, che peraltro non è lasciato all’arbitrio divino, ma ci viene garantito dalla bontà amorevole di Dio: questo dono è precisamente ciò che celebriamo nel giorno di Pentecoste.

Dopo è nostro compito allenarlo, come si allena anche il nostro cervello, imparando l’intelligenza della fede, attivando continuamente gli impulsi dell’amore e costruendo le migliori abitudini per la nostra vita.

Con la celebrazione della Pentecoste nessuna energia spirituale necessaria più ci manca: ora sta a noi procedere speditamente nel nostro cammino.

Don Davide




Rebecca e l’Ascensione

In settimana sono passato davanti a un bar alle 18 dove un gruppo di giovani stava facendo aperitivo. Sembravano minorenni, ma questo non coincideva con lo spritz che ciascuno aveva davanti a sé, e parevano sereni e senza tipizzazioni eccessive. Nell’istante di passargli accanto ho intercettato l’unica ragazza presente che diceva: “Cioè, il giorno del tuo compleanno devi bere fino a ubriacarti, questo è fisso. Poi se sei da sola o in compagnia non fa differenza…”

Chiameremo questa ragazza Rebecca.

Io stavo pensando a cosa avrei potuto scrivere per questa Domenica dell’Ascensione e mi sono chiesto: perché Rebecca pensa che ci sia gusto a ubriacarsi, magari anche da sola? Oppure: che cosa cerca, o viceversa, che cosa vuole nascondere?

Non voglio fare il paternalista, ma non posso fare a mano di ritenere che sia un pensiero non elevato. Non voglio giudicare, sto solo raccontando quello che ho ascoltato e la mia reazione emotiva e mi chiedo: come possiamo fare ad “elevare” la nostra vita?

Gesù che “sale” al cielo è una specie di metafora: il messaggio è che Gesù trascende questo mondo, attratto dall’amore del Padre e trasformato dallo Spirito Santo.

Con tutta la sua umanità, Gesù porta la nostra umanità nel regno di Dio. Questo avvenimento è certamente una grazia e un dono di Dio, ma non per questo deve farci stare con le mani in mano o imbambolati a “guardare il cielo” (cf. At 1,11)… Tutto ciò che Gesù ha compiuto, con la sua umanità, è per darci il potere di realizzarlo nella nostra.

Infatti, il mandato Signore ai discepoli è di compiere le sue opere prodigiose attraverso la fede e di farne “di più grandi” (Gv 14,12).

Sta a noi, dunque, accogliere questo dono ed elevarci.

Henry David Thoreau scrisse: “Non conosco nessun fatto più incoraggiante che l’indubbia abilità degli esseri umani ad elevare la propria vita attraverso un impegno consapevole”.

Scrivevo, prima, che Gesù si è elevato nel mondo di Dio, nel reame del divino, per elevarci verso di lui. Elevarsi, per elevare: questo è anche il nostro compito.

Ci sono quattro regni interiori che possiamo elevare: il regno spirituale, il regno dell’anima, il regno corporeo e il regno della nostra mente.

Siamo chiamati ad elevare questi regni interiori con un impegno consapevole. L’amore del Padre ci chiama e ci sospinge, lo Spirito non ci abbandonerà in questo proposito.

Allora, cara Rebecca,

senza biasimo né giudizio, ti auguro di potere fuggire dalla tentazione di trangugiare il vino per stordirti, ma di imparare a gustare la bellezza di riconoscerne i profumi, di rimanere incantata dai riflessi del suo colore rubino, ambrato, rosa o giallo paglierino e di sapere distinguere al primo sorso un Franciacorta da un Valdobbiadene.

Sarei felice se potrai brindare in compagnia, mentre festeggi la tua Maturità o la tua Laurea, o sorseggiarlo nel tuo posto preferito in compagnia della persona che deciderai di amare; e – se ti troverai a bere un calice da sola – spero che tu voglia farlo con un bel libro, ascoltando la tua musica preferita, o semplicemente apprezzando il silenzio e ammirando il panorama che prediligi.

Tutto ciò che vuoi, cara Rebecca, purché ti elevi e non ti abbassi.

Don Davide