Dio non fa preferenze

La “rivelazione” di Pietro

Pietro è uno dei personaggi simbolo del Nuovo Testamento. Lo conosciamo in tutta la sua umanità e ci appare in diversi quadri, a volte con una caratteristica di immediatezza umana in cui ritrovarci, a volte in una dimensione simbolica che ci può rappresentare nelle diverse forme. Nasce come Simone (Dio ha ascoltato/Dio ascolta) e diventerà Cefa (che significa Pietro/a). Ora, sappiamo bene quanto sia significativo, in entrambi i testamenti della Bibbia, dare un nome. Appare contraddittoria la forma di una pietra solida, quasi eterna, che nasce da un cambiamento, come se il capo degli apostoli fosse indicato come una persona che alla fine si manifesterà, nonostante tutti i suoi limiti, come ‘solido nell’ascolto di Dio’ e nel miglioramento personale.

Lo vediamo, infatti, nel brano odierno degli Atti (10, 25-27.34-35.44-48), in uno splendido esempio cangiante, di conversione da una propria visione di Dio e degli uomini, all’ascolto di Dio e all’azione dello Spirito tra gli uomini. Egli afferma: «Sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga».

Una delle innovazioni straordinarie del messaggio di Gesù è proprio questo: non guardare la provenienza di nessuno: Dio è madre e padre di tutti. Noi siamo fratelli e sorelle, tutti.

Chiunque tu sia, Lui aspetta che tu lo riconosca

Ovviamente occorre riconoscerlo nella vita pratica, quotidiana (se non riconosciuto, Egli c’è lo stesso, ma anela al fatto che noi lo riconosciamo finalmente, in mezzo ad innumerevoli falsi maestri). Una vita in cui a ciascuno viene dato secondo il dovuto e il giusto.

Lo Spirito è per tutti, non c’è distinzione. Guarisce tutte le innaturalezze con misericordia e chiede a noi la stessa misericordia, riscoprendola in noi stessi, nella nostra natura e nel dono che Dio fa a ciascuno di noi.

Pietro è in cammino non solo da Gerusalemme verso il mondo, ma anche da un sé schematico e riduttivo, ad uno Spirito aperto, magnanime e misericordioso. È un esempio chiaro per tutti noi.

Seguendo Maria

Riconosciamo anche in Maria, la madre di Gesù, questo esempio e questo percorso. Per i bolognesi, in questi giorni, la sua immagine viene portata da San Luca in città.

In questo cammino dell’immagine mariana verso la città e dei fedeli verso Maria, facciamo tesoro del percorso che ha portato al suo “eccomi” come disponibilità all’azione dello Spirito in lei e per il mondo, ricordando quanto dichiarò il santo Papa Paolo VI: “ogni incontro con lei non può non risolversi nell’incontro con Cristo stesso” (Lettera Enciclica Mense Maio, del 29 aprile 1965).

Godiamo dei frutti della disponibilità di Maria e della forza del cambiamento di Pietro come esempio evidente dell’Amore, dello Spirito di Dio che non fa distinzioni e che è per tutti e per ciascuno di noi.

Anna Maria e Francesco




La linfa dell’amore

Una vite e un vignaiolo: cosa c’è di più semplice e familiare? Una pianta con i tralci carichi di grappoli; un contadino che la cura con le mani che conoscono la terra e la corteccia: mi incanta questo ritratto che Gesù fa di sé, di noi e del Padre. Dice Dio con le semplici parole della vita e del lavoro, parole profumate di sole e di sudore.

Non posso avere paura di un Dio così, che mi lavora con tutto il suo impegno, perché io mi gonfi di frutti succosi, frutti di festa e di gioia. Un Dio che mi sta addosso, mi tocca, mi conduce, mi pota. Un Dio che mi vuole lussureggiante. Non puoi avere paura di un Dio così, ma solo sorrisi.

Io sono la vite, quella vera. Cristo vite, io tralcio. Io e lui, la stessa cosa, stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa. Novità appassionata. Gesù afferma qualcosa di rivoluzionario: Io la vite, voi i tralci. Siamo prolungamento di quel ceppo, siamo composti della stessa materia, come scintille di un braciere, come gocce dell’oceano, come il respiro nell’aria. Gesù-vite spinge incessantemente la linfa verso l’ultimo mio tralcio, verso l’ultima gemma, che io dorma o vegli, e non dipende da me, dipende da lui. E io succhio da lui vita dolcissima e forte.

Dio che mi scorri dentro, che mi vuoi più vivo e più fecondo. Quale tralcio desidererebbe staccarsi dalla pianta? Perché mai vorrebbe desiderare la morte?

E il mio padre è il vignaiolo: un Dio contadino, che si dà da fare attorno a me, non impugna lo scettro ma la zappa, non siede sul trono ma sul muretto della mia vigna. A contemplarmi. Con occhi belli di speranza.

Ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto. Potare la vite non significa amputare, bensì togliere il superfluo e dare forza; ha lo scopo di eliminare il vecchio e far nascere il nuovo. Qualsiasi contadino lo sa: la potatura è un dono per la pianta. Così il mio Dio contadino mi lavora, con un solo obiettivo: la fioritura di tutto ciò che di più bello e promettente pulsa in me.

Tra il ceppo e i tralci della vite, la comunione è data dalla linfa’ che sale e si diffonde fino all’ultima punta dell’ultima foglia. C’è un amore che sale nel mondo, che circola lungo i ceppi di tutte le vigne, nei filari di tutte le esistenze, un amore che si arrampica e irrora ogni fibra. E l’ho percepito tante volte nelle stagioni del mio inverno, nei giorni del mio scontento; l’ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire. «Siamo immersi in un oceano d’amore e non ce ne rendiamo conto» (G. Vannucci). In una sorgente inesauribile, a cui puoi sempre attingere, e che non verrà mai meno.

Padre Ermes Ronchi




L’esempio di Gesù

Nella Chiesa siamo tutti pecorelle del gregge di Dio, dove il Pastore supremo è Gesù, pieno di cura affettuosa per ciascuno di noi. In questo averlo come punto di riferimento e guida sicura, inoltre, anche noi riceviamo l’incarico di essere pastori, come accade per un atleta che si metta ad allenare i più piccoli, o viceversa come ogni fanciullo di Estate Ragazzi che sogna di imitare il suo animatore o la sua animatrice preferita.

È l’esempio di Gesù, da mettere in pratica in molte forme, gli uni per gli altri.

Questo pastore ho quattro tratti, che lo descrivono, ci affascinano e ci incoraggiano ad imitare il suo esempio:

1)ha cura delle sue pecore, non è un mercenario, non fugge di fronte al pericolo, se serve dà la vita per loro;

2)conosce ed è conosciuto, ha stabilito una relazione consueta, potremmo dire che “ha una casa, ha un ovile”;

3)ha il cuore aperto, non coltiva i suoi in modo chiuso, soffocante, ma sente un istinto di bene magnanimo e verso tutti;

4)fa della sua vita un dono, non solamente “da morirne”, ma vive la sua esistenza con animo generoso. Non è un oppresso, ma è libero di dare.

Questa bellissima sequenza del buon Pastore, dunque, ci permette di fare un intenso esame di coscienza.

Tutti siamo suoi agnellini, ma tutti siamo anche pastori di altre pecorelle: possono essere la nostra famiglia, i nostri studenti, i ragazzi e le ragazze del gruppo di cui siamo educatori, i giovani, i dipendenti del mondo del lavoro; i pazienti, gli anziani, coloro che aiutiamo.

Senza volere affrontare ciascuno di questi tratti, desidero coglierli complessivamente e chiedere a me stesso che cosa ne è stato, sperando che altri abbiano voglia di mettersi in trasparenza di fronte a questa parola.

Sento in me la domanda: quando è venuto il lupo di questa pandemia, mi ha trovato mercenario o pastore? Riconosco le mille tentazioni di fuggire di fronte al pericolo, all’eccesso di impegno e di responsabilità. Ho cercato di mantenere le attenzioni, di fare una telefonata a chi non sentivo da tempo, di informarmi sulla salute degli ammalati e di accogliere chi desiderava parlare, ma… quanto si poteva fare di più, e con il cuore più sensibile e lieto?

E poi so che c’era bisogno di parole molto più illuminate dalla fede. Quante volte mi sono fatto chiudere in discorsi solo umani, in ragionamenti di buon senso o poveri di approfondimento, mentre sarebbe stato utile accogliere una luce profetica, penetrante, che squarciasse il buio e indicasse sentieri?

E infine, rimane la vocazione delle vocazioni: non c’è un tempo migliore di un altro per vivere il Vangelo, per fare della propria vita un dono. Ripenso a tutte le volte, in quest’anno e mezzo, in cui ho pensato: “Che sfortuna vivere un periodo così!” e, con le parole del Pastore nelle orecchie, capisco: “Ci sarebbe stato un tempo migliore, per fare della propria vita un dono? Ha più valore quando è facile o quando è difficile?”.

Sento rivolte l’appello ispirato di Pietro, nella prima lettura, quando interpella riguardo a Gesù chi dovrebbe essere pastore e saggio. Ecco: la sequenza del buon Pastore mi mette in rapporto a Gesù. Forse, più nitidamente che in altri tempi, riconosco che un lupo è passato e che ancora si sentono gli ululati del branco.

Fisso il buon Pastore, risorto, e ascolto la sua voce ripetere quello che ha detto a ciascuno solo pochi giorni fa: “Vi ho dato un esempio, perché come ho fatto io facciate anche voi, gli uni per gli altri” (cf. Gv 13,15).

Don Davide




Credere in Gesù risorto

Leggendo le letture di questa domenica, ci facciamo condurre da tre spunti che ci portano ad un incontro con Dio molto poco virtuale: sarà anzi molto vero e concreto.

L’ignoranza ci fa vedere il Risorto come un bravo legislatore e fondatore di una religione, un abile mago o come un grande liturgista e così via. Egli è invece l’autore della vita, il Giusto, il Santo, il Servo di Dio (cf At 3,13-15). L’ignoranza, travestita da capi di potere, da abitudini senza significato, comodità e convinzioni limitanti varie, è l’oblio della fede, è il regno della creduloneria e spegne la vita. Ma Dio attraversa sempre anche ciò che l’uomo spegne, lasciando tracce di guarigione luminosa per tutti coloro che si riconoscono infermi (come lo storpio dell’episodio che precede il brano che leggiamo oggi, At 3,1-10). L’infermità riconosciuta è conforme alle mani e al costato ferito. Pietro chiede di avere fede nelle opere di Dio e non in quelle degli uomini. Come possiamo dimostrare la fede nelle opere del Padre?

La pratica della fede è l’amore

Riconoscere la propria fragilità ci permette di avere in Gesù il Consolatore come dono del Padre. Chi supera l’ignoranza dimostra di conoscere davvero il Padre, osservando il precetto dell’amore di cui Giovanni parla nel suo vangelo e nel brano della lettera odierna (v. 1Gv 2,3-5). Compiere atti d’amore verso se stessi e gli altri non ci affranca dalla nostra fragilità, ma ci rende più veri davanti a Dio.

L’esecuzione di compiti senza un coinvolgimento affettivo è anche più semplice, ma ci allontana dall’amore di Dio, che è perfetto (1Gv 2,5) ed è quello a cui siamo chiamati.

L’esempio è proprio quello di Gesù, che si è dato fino in fondo per illuminare ogni uomo (Gv 1,9).

Per non credere in un fantasma

Per non credere in un fantasma sediamo a mensa con Lui (Lc 24,35-48), con il Risorto, e con i portatori di piaghe. Sì, noi fragili per primi abbiamo bisogno di sfatare quel mito che ci fa apparire sazi, magari credenti per sentito dire (v. 35) e non per esperienza personale. Non un fantasma (v. 37), ma nella carne e nelle ossa dei poveri “che abbiamo sempre con noi” (v. Gv 12,1-11). Quello che viene indicato lo “stesso giorno” è il tempo migliore: quello del grande incontro e della nuova creazione, quello dell’amore misericordioso, quello della pace, quello della nuova relazione con Dio e fra gli uomini.

Facciamoci aprire la mente alle intelligenze delle Scritture, apriamo il cuore a ciò che il Cristo ci dona e diamone testimonianza secondo il carisma personale di ciascuno. Superiamo l’ignoranza con l’esperienza personale dell’amore ricevuto e dato e non ci troveremo più difronte nessun fantasma di Dio, ma un Compagno fedele e concreto che conosce tutte le condizioni della nostra vita e le risolve.

Anna Maria e Francesco




Pace, dono dell’amore

Il primo giorno dopo il sabato, quello della resurrezione, quello della nuova creazione, quello della vita nuova, oltre le porte chiuse, Gesù stette con loro. Rimase con i discepoli impauriti ancora dai Giudei e, nonostante l’annuncio della resurrezione, si sentivano ancora sopraffatti dal mondo intorno a loro.

Pace a voi, disse Gesù.

Fino a quando c’è bisogno delle ferite per risvegliarci?

E’ necessario far vedere loro le ferite (e a Tommaso chiede anche di toccarle) perché loro possano gioire. Hanno ancora bisogno in qualche modo di un corpo per poter credere in lui. E’ un’infinita incarnazione per tutti i credenti perché non possiamo pensare la vita, le parole e le opere di Gesù, come una mera ideologia. Il suo essere nella carne, lo collega a quella dei poveri del mondo: ecco perché ci sono ancora le ferite in un corpo (che noi chiamiamo glorioso) che riesce a passare per porte e pareti.

Ora, finalmente, i discepoli gioiscono nel vedere il Signore che ripete: Pace a voi.

Un nuovo sguardo e un nuovo stato del cuore

Ansie e paure non gli avevano permesso di ricevere la ‘prima’ pace. Hanno avuto bisogno ‘di vedere’ oltre per accogliere la pace offerta dal Risorto. State in pace e portatela al mondo come un per-dono, un dono per tutti, un dono perfetto. La pace per voi è uno stato interiore grazie alla Sua presenza nuova, quella che riconcilia gli uomini e il mondo ricapitolando tutte le cose in Lui (v. anche Ef 1). Ecco, adesso è il momento di condividerla con chi incontrate. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date (Mt 10,8). Il mondo cerca la pace e io la offro non solo come assenza di guerra, ma come qualcosa di più (Gv 14,27).

Questo ‘di più’, è quella pace che a volte ci sfugge proprio mentre siamo affaccendati nelle vicissitudini quotidiane, nelle storie delle nostre relazioni, in quelle pause che meglio potrebbero offrici e dare per-dono.

Per-Dono = Dono Perfetto

Perdonarci i sensi di colpa, ad esempio, o perdonare le dimenticanze altrui, è un ottimo inizio. E quando avviene, non siamo forse in pace? Non sentiamo nel nostro corpo una speciale armonia con il nostro cuore e la nostra anima: tutto suona all’altezza giusta della medesima nota.

Di più’ è quel dono gratuito, senza un perché apparente, che ci arriva quando ci facciamo raggiungere dal respiro di Cristo, il suo soffio. Fare all’unisono, almeno un respiro al giorno con lui, specialmente nei momenti più difficili, per ricordarci che Lui è con noi sempre.

Lo Spirito ci guiderà. Noi siamo il suo tempio (1Cor 6,19), quello della nuova creazione, quello ‘ri-fatto’ proprio grazie alla Pasqua di Cristo.

Pace a voi. La pace è in voi.

Anna Maria e Francesco




Desiderio

Alla presenza di Maria Maddalena fuori dal sepolcro il mattino di Pasqua sono associate spesso, nella tradizione cristiana, le parole del Cantico dei Cantici: Il mio amato! L’ho cercato e non l’ho trovato! Dov’è l’amato mio? (cf. Ct 3,1-2)

È un desiderio struggente, che Maria Maddalena – inizialmente – esprime semplicemente come bisogno di rivedere Gesù nella morte, di onorare almeno la sua sepoltura. Sarà poi la voce del Maestro a invitarla a sperimentare qualcosa di più grande, un traguardo inimmaginabile del suo desiderio: riabbracciarlo, saperlo vivo, continuare a vivere l’esistenza con lui.

La Pasqua è caratterizzata da questo desiderio; così, anche il traguardo della resurrezione per ciascuno di noi.

San Paolo, nell’Epistola che si legge durante la Veglia Pasquale, afferma che noi siamo realmente risorti non perché abbiamo già attraversato la morte biologica (“l’ultimo nemico che sarà sconfitto” cf. 1Cor 15,26), ma perché viviamo una vita nuova (cf. Rm 6,4).

Noi possiamo realmente vivere da risorti, e questa possibilità è resa concreta dal desiderio che ci sta davanti.

Il desiderio è una “distanza” non del tutto colmata, ma che ci fa sentire che possiamo vivere qualcosa di buono. Se un desiderio è bello rinforza l’amore, come due innamorati che si corteggiano e si cercano.

La Pasqua si celebra dopo la prima luna piena di Primavera. È legata alla rinascita del tempo e delle stagioni (ricordiamoci che per gli ebrei era il primo mese dell’anno!), al desiderio di uscire dall’Inverno, ma non ancora in un sole pieno di mezzogiorno d’estate. In quel desiderio e primo germoglio di rinascita c’è già tutta la forza della resurrezione.

Associamo a questo desiderio di rinascita, ad esempio, la speranza che la pandemia sia definitivamente superata. Pensiamo: “Chissà se sarà la volta buona?!”. Non è sbagliato. Sappiamo che la Pasqua ha a che fare con questo rinnovamento di tutto il creato, (come si canta nei salmi della Veglia: “Mandi il tuo Spirito Signore e rinnovi la faccia della terra”), e il desiderio che ciò avvenga è esso stesso scritto nei nostri cuori con l’inchiostro della resurrezione.

Ogni anno ci prepariamo alla Pasqua impegnandoci per un incontro più vivo con Gesù, con la speranza che il Vangelo plasmi più significativamente la nostra vita. Ogni anno, se siamo un minimo accoglienti, questa trasformazione accade realmente, per la grazia che scaturisce da questi giorni. La nostra vita si rinnova; il nostro desiderio ci sta ancora davanti, ma celebriamo la Pasqua.

Preghiamo nei giorni santi per tante situazioni che ci stanno a cuore, quelle difficili o speranze belle. È la fiducia nella resurrezione che ci spinge: che qualcosa si sistemi, che una condizione cambi e migliori. Non sono velleità e non siamo smentiti. In questo desiderio, che non è mai completamente realizzato, c’è l’alba della resurrezione.

Il Signore Gesù ci chiamerà oltre. Ci farà vivere, ci farà sentire il suo abbraccio. Con enorme sorpresa ci farà superare soglie che pensavamo mortali.

Lo sentiremo vicino. Anche quando (di nuovo) si sottrarrà ai nostri occhi, non ci sentiremo soli. Seguirà i nostri passi, permettendoci di onorare il dono della vita, fino a che l’ultimo nemico ad essere sconfitto sia la morte.

Don Davide




Nella Passione

Nella Passione secondo Marco, proclamata in questa Domenica delle Palme, si trovano dei versetti inusuali (Mc 14,13-16), in risposta alla domanda dei discepoli che dà inizio agli eventi: «Dove vuoi che andiamo a preparare perché tu possa mangiare la Pasqua?» (Mc 14,12).

“Pasqua” – che in ebraico significa “passaggio” – diventa anche il termine tecnico dell’agnello che si mangia nella cena pasquale. La Pasqua si “prepara” e si “mangia” con le persone care, quelle che si possono chiamare famiglia, in un senso più esteso di quello dei legami di sangue.

Tuttavia, Gesù dà delle indicazioni enigmatiche. I discepoli, bramosi di compiacere il Maestro, sono invitati a seguire una specie di Caccia al Tesoro o di Gioco dell’Oca, per scoprire che non devono fare proprio niente. C’è inoltre un elemento contradditorio: Gesù dice che sarà loro mostrata «al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta» (Mc 14,15) e che lì dovranno “preparare”. Loro «trovarono come aveva detto e prepararono la Pasqua» (Mc 14,16). Ma cosa prepararono, esattamente, se era tutto già predisposto?!

Sappiamo che i discepoli non faranno bella figura: Giuda ha già deciso di tradirlo, gli altri useranno violenza laddove Gesù si consegnerà con un’arrendevolezza sorprendente e, alla fine, anche il più tenace fuggirà via nudo; Pietro lo rinnegherà; sotto la croce, a usare compassione per il suo cadavere ci saranno altre e altri, ma non loro.

Cosa vuole dirci, allora, l’evangelista, riportando queste direttive così misteriose di Gesù? Esse si rifanno a un gesto profetico delle storie dell’Antico Testamento, che Gesù conosceva bene; sono, cioè, non tanto un’indicazione che Gesù dà ai suoi discepoli, ma un’istruzione spirituale che l’evangelista offre ai suoi lettori, a noi, per capire il presente e sapere come vivere quello che sta per accadere.

Nessuno può presumere di entrare nella Passione.

Dentro la Pasqua puoi solo lasciarti condurre.

Il mistero di quello che accade in questi giorni è talmente grande che puoi accoglierlo solo facendoti guidare, seguendo le tracce di una Presenza che si mostra in maniera evidente, ma ti precede e ti sfugge sempre.

In questi giorni, e in queste celebrazioni, possiamo vedere tutto di quello che viviamo: dagli slanci più belli, ai dolori più grandi, passando per le emozioni più intense. Se siamo sensibili, questa densità ci sovrasta.

La Pasqua, in realtà, non dipende da noi.

La “sala” è a un piano superiore – bisogna salire di livello spirituale – è immensa ed è già pronta.

A ciascuno di noi questi giorni regaleranno una scintilla, quella giusta per la nostra vita di oggi. Ci saranno vari incontri che ci condurranno: qualcuno “previsto”, come i riti; qualcuno sorprendente, come un evento inatteso, una coincidenza, una telefonata, una sorpresa.

L’importante è lasciarsi condurre.

Lì, anche se tutto è già pronto, potremo preparar-ci e cenare con lui, il nostro Maestro e Signore: prima della sua morte e dopo la sua resurrezione.

Don Davide




«Lo mangerete in fretta» (Es 12,11)

Testimonianza di don Davide

Sono cresciuto imparando che preparare e celebrare la Pasqua era realmente la cosa più importante dell’anno. Abitavo a due minuti dalla chiesa, uscivo di casa, svoltavo una strada e mi trovavo di fronte al campo da calcio della parrocchia: il tempo di attraversarlo ed ero arrivato.

Il mio parroco dava il meglio di sé in occasione della Settimana Santa. Come un buon pastore guidava la comunità e noi ragazzi a organizzare, capire e gustare i riti del Triduo. Facevamo le prove dei ministranti e vivevamo le celebrazioni e passavamo il resto della giornata a giocare a calcio in parrocchia. Era un buon compromesso. Solo che alcune volte ci toccava lavarci sommariamente nei bagni della parrocchia per non arrivare inzaccherati alla solennità della liturgia.

Questo senso di qualcosa di sacro, che va custodito, preparato con cura, celebrato meticolosamente e vissuto al meglio mi è rimasto fin da allora. Nemmeno i corsi di Liturgia in seminario hanno aggiunto alcunché a questa consapevolezza.

L’indicazione finale della prima prescrizione della Pasqua ebraica, perciò, mi ha sempre stonato: «Lo mangerete in fretta» (Es 12,11). Con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano… Che razza di modo è di mangiare un agnello, dopo avere riunito tutta la famiglia e magari anche un’altra per condividerlo?

Sì, capivo che c’era tutta la questione di essere pronti ad uscire dall’Egitto… ma insomma – pensavo – “quale fretta d’Egitto! Qui le cose si devono fare bene!”.

Solo quest’anno – pochi giorni fa a dire il vero – ho capito il significato di questo versetto. Tutte queste limitazioni, non potere fare la lavanda dei piedi, il bacio della Croce… mi pesano tantissimo.

Ma la Pasqua non è comoda. La Pasqua «del Signore» (Es 12,11), come nel racconto dell’Esodo, è un atto di emergenza. È un gesto che chiede di andare allo stretto indispensabile delle cose e che parla della libertà del cuore dalla paura.

Anche Gesù l’ha vissuta allo stesso modo. Una situazione di emergenza estrema: fare della propria vita un dono oppure no?

E ora so che per primo io devo lasciare i miei ideali. C’è una Pasqua che è «del Signore» e che ci sorprende. Va ben al di là dei nostri migliori propositi: chiede di raccogliere le emergenze, di farci carico del dolore, di ridare vita dopo la morte. Come in un ospedale da campo che abbia armi spirituali.

«Lo mangerete in fretta» (Es 12,11). Lo farete scomodi.

Il Signore passerà. E la vita potrà non essere un dono, oppure sì.




Rimanere soli o portare frutto?

La morte non è eliminabile, ma può non essere la fine

In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto (Gv 12,24)”.

Il chicco di grano forse oggi può dire molto poco. Ma proviamo a contestualizzare la metafora in una cultura un po’ più contadina della nostra, ove il valore del chicco veniva colto più facilmente. Il chicco è un frutto del passato, della mietitura scorsa e, quello che verrà seminato, è stato scelto tra gli altri che hanno già raggiunto il loro scopo. Per lui invece, il contadino ha scelto un’altra vita. Caduto in terra, la semina deve avvenire per giusta profondità, né troppo in alto, né troppo in basso; ma nemmeno troppo isolato o intasato fra altri. La semina non è un atto scontato e può avere successo oppure no e richiede tanto discernimento.

È dentro che si rinasce.

Il processo di trasformazione avviene nell’alveo del terreno preposto per ciascun seme. I cristiani spesso hanno visto in questa nuova creazione del seme, la prefigurazione della resurrezione dei credenti, come quella di Cristo: le viscere della terra come il luogo nascosto ai più, ma visibile, a chi se ne intende, del mistero della vita nuova.

Della vita del passato, ci sono molte cose che hanno già dato ed hanno raggiunto il loro scopo: alcune non hanno più alcuna funzione e se vivono, vivono in noi come delusioni o recriminazioni oppure come ricordi (da tenere nel cuore). Altre cose del passato, le utilizziamo come esperienza per migliorare il nostro presente. Ma per il futuro dobbiamo investire in speranza, selezionando i giusti semi che è inutile tenere per noi. Solo se dati producono frutto, molto frutto. Chi tiene per sé ciò che a sua volta ha ricevuto, lo perderà.

Gesù è in alto perché salva dal basso

Gesù, giudicato dagli uomini inadatto alla verità della vita, è stato innalzato per essere visto morente da tutti: ha assunto la morte dell’umanità indicando la via della vita, a partire dalla profondità del dolore umano, producendo frutti che vediamo da millenni e che sperimentiamo nelle nostre esistenze. Ha superato la condanna dei sacerdoti del tempo, diventando segno e paradigma della misericordia di Dio, il vivente per sempre.

Non resta che trovare le sue tracce e affondarci il piede, procedendo un passo alla volta.

Sul suo esempio, ringraziamo il Padre di quanto di buono abbiamo ricevuto e riceviamo, seminiamo quel bene che in abbondanza è già in nostro possesso per i raccolti precedenti. Lo facciamo nei modi che sono possibili oggi, a distanza e con le mascherine. Seminiamo bontà: donare e donarsi è un po’ morire, ma è ciò che dà vita e produce comunità come un bene maggiore per tutti.

Preghiera

Cristo Gesù, non vogliamo solo vederti innalzato, vogliamo seguirti, nelle profondità del mondo, di questo mondo di oggi, pieno di attese e di furbetti, di speranze e di impazienze, di cuori generosi ma anche di tanti solchi segnati dalle sofferenze della vita che attendono il tuo seme e, forse, potrei essere proprio io il tuo seme per loro.

Anna Maria e Francesco




Una Pasqua ormai vicina

Ci prepariamo a celebrare la Pasqua, perché siamo alla 4° domenica di Quaresima: ci sarà ancora solo un’altra domenica, poi entreremo già nella Grande Settimana, attraverso la porta di ingresso della Domenica delle Palme.

Celebrare la Pasqua non è solo fare dei riti particolari, ancorché suggestivi.

Celebrare la Pasqua è un’esperienza di comunità, che percepisce l’amore del Padre e la vita di Gesù che entra nelle nostre vite.

La Quaresima è un cammino di umiltà e purificazione. Pensavamo di avere toccato il fondo l’anno scorso, con il lockdown, invece ci troviamo quest’anno a dovere essere ancora più umili: per la stanchezza di questa situazione che ci attanaglia ancora dopo un anno; e perché anche se potremo almeno vivere le celebrazioni, dovremo farlo con molta attenzione, con un rigore esemplare e rinunciando a tanti segni che rendevano speciali questi giorni: la processione degli ulivi, la lavanda dei piedi, il bacio della croce, la processione con il cero pasquale.

Personalmente, anche se potrà sembrare sproporzionato, ritengo che ci voglia molta umiltà per accettare di privare le liturgie pasquali della forza dei loro segni specifici. Tuttavia, siamo chiamati a farlo, consapevoli che il protagonista ancora una volta sarà il Signore e non noi.

 

CELEBRARE LA PASQUA TUTTI INSIEME

Allora ecco che la Pasqua si presenta come un’esperienza di comunità. Siamo spaventati e disorientati dal riaggravarsi della situazione pandemica, tuttavia dobbiamo cogliere la Pasqua come un’occasione di rilancio della nostra vita comunitaria.

Chiedo concretamente ed esplicitamente che chi pensa di essere presente alla Domenica delle Palme e al Triduo Pasquale segnali la sua disponibilità in anticipo, per dare una mano. Servono tante cose: l’accoglienza in chiesa, un po’ di servizio d’ordine, l’aiuto a distribuire l’ulivo, l’igienizzazione alla fine delle celebrazioni, le letture, le preghiere dei fedeli, la disponibilità per cantare, l’aiuto a preparare e organizzare tutte le cose pratiche e tanto altro. Per favore, partecipate da protagonisti e corresponsabili, non da spettatori.

E anche se qualcuno di noi – legittimamente – non si sentirà di prendere parte alle celebrazioni, prendiamoci tutti l’impegno di celebrare la Pasqua insieme alla nostra comunità: unendosi spiritualmente in preghiera, scrivendo un biglietto, facendo una telefonata, e avendo ben chiaro che c’è bisogno che torniamo tutti ad essere presenti e ad incontrarci, che ci diamo un appuntamento, non importa quanto vicino o lontano sia.

Vorrei anche che avessimo una preghiera incessante e una vicinanza reale, nei modi che ci sono possibili, per chi è molto preoccupato per il lavoro e la propria condizione economica, per chi è più solo e per gli ammalati gravi.

 

PERCEPIRE L’AMORE DI DIO

I prossimi giorni siano però anche i giorni in cui ci concentriamo a percepire l’amore di Dio.

Come quando vai a un concerto di un cantante preferito o dell’opera che conosci a memoria, che tendi l’orecchio a cogliere le sfumature e ti entusiasmi durante i motivi prediletti… così dobbiamo tendere a riconoscere l’amore di Dio che si manifesta in tante forme vitali. Gli affetti, gli amici, le cose belle, i traguardi, le ripartenze… la Primavera stessa. C’è un verso bellissimo nel Cantico dei Cantici che dice: “Ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, i fiori sono apparsi nei prati e la voce della rondine ancora si fa sentire nella campagna…” Ogni risveglio di vita ci parla dell’amore di Dio per noi.

 

LA PASQUA DELLA FEDE

Infine, la Pasqua è soprattutto un evento della fede. È l’evento in cui professiamo che la nostra vita, come quella di Gesù, non verrà semplicemente consumata. È l’evento in cui rinnoviamo la consapevolezza del valore della nostra esistenza, e magari ci rimettiamo in un cammino di bene e costruttivo per noi: possiamo riacquisire fiducia in noi stessi, fare qualcosa di buono e di bello che desideravamo fare da tanto, imparare a pregare, stare un po’ di più con la nostra famiglia e con le persone che amiamo, dedicarci a fare qualcosa che ci piace davvero.

Siamo ancora in cammino nella Quaresima, ma come un maratoneta che dopo tanti chilometri vede il traguardo, invece di rallentare, si carica di adrenalina e accelera, così anche noi, avvicinandoci alla Grande Settimana, facciamo ardere ancora di più il desiderio della nostra fede.

Don Davide