Credo il Natale

Credo che il Natale è la nascita di Gesù, il Figlio di Dio, il salvatore del mondo.

Credo che il Natale vada celebrato con la Chiesa e nella propria comunità. Credo che in questi rapporti, ci sia uno spazio speciale per le famiglie.

Credo il Dio di Gesù Cristo, che abbiamo conosciuto dentro la storia del popolo di Israele, come testimoniano le bellissime profezie di Isaia e di Michea che ascoltiamo in questi giorni. Soprattutto quella di Isaia 2, che vede il giorno in cui si smonteranno i missili e si costruiranno scuole.

Credo che il presepe è un dono che soltanto l’intuizione di uno come Francesco d’Assisi poteva lasciarci. È ancora più bello non solo quando puoi ammirarlo da fuori, o guardarci dentro, ma quando puoi guardare “da dentro” come in quello della nostra parrocchia.

Credo sia bello pure l’albero di Natale, soprattutto quando è fatto con i bambini. E – a proposito – credo ci rendano più lieti anche le lucine e gli addobbi, e tutti i segni di festa che ci sono, perché noi che lo viviamo spiritualmente sappiamo che alla fine il Natale coinvolge tutti. Mi colpisce quando si sentono nei locali le canzoni che parlano di Gesù bambino. E non possono essere ridotte solo a una favoletta, quando senti i cantanti più famosi del mondo che interpretano Silent Night e gridano: “Christ the Saviour is born!”.

Nessuno potrà farci dimenticare il Natale sacro, a meno che non lo lasciamo andare noi stessi.

Tuttavia è necessario che a Natale i negozi e le attività commerciali chiudano, e gli sport si fermino. Magari già dal pomeriggio della Vigilia.

Comunque una gara c’è e ci dev’essere: è quella della solidarietà e sì – certo – credo che siano meglio i panettoni e i pandori solidali, e anche le Stelle di Natale. Credo, però, che la vera solidarietà sia rivolta ad ogni sofferenza del mondo.

Credo che sia vero che a Natale possiamo essere tutti più buoni. Non è automatico, ma la liturgia dice:

“È apparsa la grazia di Dio, che ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani” (Tt 2,11-12).

Credo che solo curando la vita spirituale si possa avere una luce, vedere il cielo aperto e ascoltare gli angeli, ossia Dio che ti guida.

Vedo, infine, in questa notte santa, una donna, un uomo, un bambino e una platea di persone di tutti i generi attorno. Credo che gli uomini non “devono” fare la guerra e che, fin da quella scena, dovesse essere fuori di dubbio e messa in pratica in ogni aspetto la perfetta uguaglianza in dignità e diritti delle donne, nelle loro differenze. Credo che i bambini debbano essere coperti da un magico scudo di paglia, talmente leggero da non sentirlo ma inscalfibile come l’armatura di un mandaloriano, e che chi vorrebbe violarli si scontri con le corna di un toro e il calcio di un asino.

Credo che tutti, proprio ogni persona sia invitata a celebrare Gesù, il Cristo, e che non ci sia anima sulla Terra che non sia sorella di Gesù e Figlia di Dio. È un legame di sangue che si può rifiutare, ma da quella notte la Luce splende e chi vuole l’accoglie.

Don Davide




L’uomo del deserto e il portavoce

Giovanni il precursore è il più grande fra i nati da una donna. Lo Spirito Santo in lui si manifesta ancora prima della sua venuta al mondo, quando è nel grembo materno.

E l’epoca di Giovanni vide un fiorire di gioventù radicalmente votata al Signore. Il luogo della meditazione scelto da Giovanni e da quelli come lui è il deserto.

Persino Gesù si recherà nel deserto per pregare, digiunare e, nell’assoluto silenzio, nella più alta solitudine, unirsi a Dio nella contemplazione.

E nella perfetta solitudine del mistico Gesù verrà tentato dal demonio in quella lotta terribile che pone l’uomo, persino il figlio di Dio nella sua natura umana, innanzi alla scelta suprema fra Dio e i beni mondani. Il mistico rinuncia al caos mondano, si ciba di locuste e miele selvatico, diviene anche nella sua figura corporea un essere potentemente spirituale. La sua opera è invisa ai sacerdoti del tempio, poiché coloro che da lui vengono purificati dai peccati mediante il battesimo non sentono più l’esigenza di offrire olocausti. E allora i sommi sacerdoti mandano degli emissari a chiedergli chi egli sia.

Alla domanda Giovanni non si sottrae. Risponde di non essere il Cristo, rivela la sua identità triplice di testimone, profeta e sommo sacerdote del Messia che viene. Di se stesso Giovanni ha tutto: egli è una voce che grida nel deserto. Il deserto che è il luogo fisico e psichico nel quale si è ritirato affinché questa voce, profetica e sacerdotale, non potesse essere confusa con il clamore mondano: grida l’ultimo dei profeti e il primo di una nuova stirpe di sacerdoti, si presenta come il primo uomo chiamato da Dio a seguire una voce, Abramo. Giovanni il precursore, ha dentro di se la parola di quella voce che chiama Abramo, incarna quella voce di totale cambiamento che avrà l’apice del suo compimento in Gesù.

Giovanni sente dentro di sé la voce: “Vattene”. Sono uomini che sentono quel “Vattene nel deserto” esci dalla tua consuetudine, dal rumore mondano, vattene nel luogo del perfetto silenzio della contemplazione dove è Dio.

Chi è oggi l’uomo del deserto?

È quella scandalosa creatura che, con le parole del poeta Massimo Morasso, può essere chiamata “il portavoce”.

Qual è il deserto nel quale l’uomo del nostro tempo può ritirarsi per incontrare Dio?

Nel raccoglimento dentro se stesso, nell’attenzione che è un’attitudine in prima istanza interiore possiamo udire la voce che parlò ad Abramo, identica, nei millenni. L’anima è la depositaria della chiave, è la protagonista onnipotente della chiamata perché è divina. Un’anima digiuna di cibo terreno e per questo più affamata e delle parole dell’Eterno delle verità gloriose dei Cieli. Una volta tornati dal deserto con questo tesoro intangibile di cui l’anima è custode siamo chiamati a diventare, in quanto eredi di Giovanni, il portavoce. Questo è rendere testimonianza alla luce nel nostro tempo. “Vattene nel deserto, abbandona le tue comodità, conoscimi, custodiscimi, diventa il mio portavoce”.

Il Magnificat, la risposta data a Maria a sua cugina Elisabetta che salutandola ha sentito esultare dentro il suo grembo Giovanni: le prime protagoniste e depositarie del più grande mistero che Dio condivide con l’umanità sono due donne in gravidanza. Esse sono la radice della regalità e del sacerdozio, sono portatrici carnali del sacro. Il salmo ci parla di una totale adesione, la totale adesione di Maria al disegno divino che la riguarda. Un’adesione che non chiede garanzie, come è quella di Giovanni. L’uomo che sa affidarsi alla sua anima è, come ricorda san Paolo, un uomo intero. Il dio che chiama Abramo, Giovanni, Elia, Maria, non mente, non è una voce falsa, è una voce affidabile che promette la santificazione dell’uomo in spirito, anima e corpo, nella sua interezza e chiede solo in cambio di astenersi dal male: di amare.

Sarah Tardino

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Per tutti sarà Natale

In un’era di attese deluse
e risposte mancate,
mentre millenarie certezze
crollano annichilite
e ideologie di carta
balbettano il nulla,
nel paradosso di esistenziali antitesi
(frenesia di onnipotenza –
proclamata casualità del tutto)
che divorano l’uomo,
nel nostro cuore
che anela all’infinito
grida ancora l’attesa:
“Quando verrai, Signore? Perché indugi?
Grovigli d’ingiustizie
incatenano l’uomo,
soprusi intollerabili ne infrangono
l’innata dignità,
e noi, Tuoi figli,
nell’oscuro crepuscolo del mondo,
non abbiamo più mani
per raccogliere strazi senza voce!”
Ma il tempo del Signore
non contempla ritardi o fallimenti
né facili vendette:
nell’alveo dei millenni
scorre il fiume infinito
di una pietà sapiente
che attende,
con pazienza amorosa,
che ogni tralcio
si riannodi alla vite,
che ogni agnello perduto
sia riabbracciato.
Egli verrà, a illuminar le genti,
incendiando i colori dell’aurora,
a ricomporre stinti frammenti
di storia senza volto
in un mosaico denso
di trama e verità.
Respirando
nel diaframma del mondo,
cooperatori di pietà e giustizia,
ogni sole che sorge
accenda il nostro cuore,
ogni umano dolore
ci appartenga.
Solo così per tutti
sarà Natale.

Carla Roli




L’editto del Re

Perché Gesù, il Signore, è Re dell’Universo?

Perché passa in rassegna il suo regno. E cosa vi trova?

Vi trova guerre, attentati, carestie, inondazioni, pestilenze, violenza. Roba da fare venire i brividi. Sono “giorni nuvolosi e di caligine” (I lettura: Ez 34,14) per il suo regno.

Ma vi trova anche delicatezza, gesti di cura impareggiabili, mani che asciugano lacrime e terreni, mense condivise, costruttori di giustizia e di pace.

Per ogni vita violata, il Signore sa che ce ne sono dieci particolarmente accudite.

L’opposto della perversa logica della vendetta.

In questi casi, cosa fa un re corretto e responsabile, un re buono? L’apostolo Paolo, nella seconda lettura, risponde: “È necessario che egli regni, finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi” (II lettura: 1Cor 15,25).

Perciò il re proclama un editto per sostenere e difendere tutto il bene che c’è e avversare il male con tutti i suoi eserciti, che non sono armati, ma assomigliano più a coloro che fanno le missioni di pace, alla protezione civile, ai volontari che vanno sui luoghi dei disastri ad aiutare a mani nude e cuori pieni.

Questo editto suona così:

  • A chi ha fame, offriamo da mangiare
  • A chi ha sete, diamo da bere
  • Chi è forestiero sia accolto
  • Se ha bisogno di vestiti, diamogli quello che serve (anche dei nostri, che ne abbiamo sempre troppi)
  • Chi ha bisogno di vestiti riceva quelli che necessita (anche dei nostri, che ne abbiamo sempre troppi) 
  • A chi è in carcere, diamo l’opportunità di riscattarsi 

Non appare un decreto impraticabile.

Sicuramente non è difficile da capire, non ci sono ambiguità. Inoltre, mentre il re emana questo editto, ci dà lui stesso un esempio, perché come fa lui, facciamo anche noi: pasce il suo gregge, la pecora affaticata e quella forte, non lascia indietro nessuna.

In questo modo Gesù, mentre scende in mezzo al suo regno, sale sul suo vero trono, per concedere a tutti la grazia della vita.

Don Davide




Cosa fare dei nostri talenti?

Il Vangelo di questa Domenica potrebbe farci pensare che il Signore ci valuti per il risultato che sappiamo raggiungere usando i doni ricevuti, ma non è così, non è una valutazione sul successo e men che meno una questione quantitativa. Lui, che conosce le nostre debolezze e le nostre insicurezze, ci richiede un impegno, la spinta per usare le nostre capacità, con perseveranza, per fare qualche cosa di buono nelle realtà che ogni giorno incontriamo.
Oggi è la Giornata Mondiale dei Poveri, istituita da Papa Francesco che ci esorta a

«Non distogliere lo sguardo dal povero» (Tb 4,7)

La Giornata Mondiale dei Poveri, segno fecondo della misericordia del Padre, giunge per la settima volta a sostenere il cammino delle nostre comunità. È un appuntamento che progressivamente la Chiesa sta radicando nella sua pastorale, per scoprire ogni volta di più il contenuto centrale del Vangelo.

Ogni giorno siamo impegnati nell’accoglienza dei poveri, eppure non basta.

Un fiume di povertà attraversa le nostre città e diventa sempre più grande fino a straripare; quel fiume sembra travolgerci, tanto il grido dei fratelli e delle sorelle che chiedono aiuto, sostegno e solidarietà si alza sempre più forte. Per questo, nella domenica che precede la festa di Gesù Cristo Re dell’Universo, ci ritroviamo intorno alla sua Mensa per ricevere nuovamente da Lui il dono e l’impegno di vivere la povertà e di servire i poveri.”
Quanto spesso ci verrebbe da distogliere lo sguardo, e a volte lo facciamo, specie quando chi ci chiede aiuto è insistente, a volte non ci convince e ci fa venire dubbi, …ma sarà vero che ha bisogno, ma non sarà uno stile di vita? È difficile esaminare tutto, è difficile ricordare sempre che abbiamo di fronte un fratello, una sorella che stanno chiedendo innanzitutto la nostra attenzione e ai quali non possiamo negare almeno un sorriso o una buona parola. Ricordo l’esortazione di mons. Antonio Riboldi, Parroco del Belice e poi Vescovo di Acerra:

“non dobbiamo parlare dei poveri, ma essere poveri…” .

C’è proprio la necessità di stare accanto alle persone con un impegno di ascolto e di vicinanza; tante volte ci sentiamo impotenti davanti ai problemi che si presentano, cerchiamo di dare un aiuto concreto, di individuare una via che porti ad una soluzione. Nelle volte in cui non si riesce a compiere il percorso di guarigione o di superamento di una grossa difficoltà si è tentati dallo scoraggiamento o dal pensare che sia stato tutto inutile, ma non è così, e allora capita che sia l’ascoltato che conforta chi sta cercando di aiutarlo perché si è instaurato un dialogo di condivisione che già di per sé ha un grande valore.
Servire i poveri vuol dire innanzitutto affiancarsi nel cammino e condividere il peso della vita; non risolvere miracolosamente i problemi, ma farli sentire non più soli ad affrontarli, consapevoli di avere a fianco qualcuno che si può sempre chiamare nei momenti bui, qualcuno che non giudica, che non si pone più in alto, che apprezza la tua umanità.
Essere amici e fratelli dei poveri è una ricchezza che tutti dovremmo provare.

Antonella e Paolo Nipoti




Il Matrimonio

Che bellezza i matrimoni! 

Mi piace molto andarci fin da piccola: sei insieme a tante persone a cui vuoi bene, c’è solo da festeggiare e perdi la cognizione del tempo mangiando come se non ci fosse un domani! 

Solo cose belle, solo sorrisi, solo sogni realizzati e sogni realizzabili grazie a quella scelta così incoraggiata e condivisa.

La felicità è possibile, almeno quel giorno. 

Nella parabola del Vangelo di oggi c’è uno Sposo e ben dieci ragazze che possono presentarsi tutte all’appuntamento.  

Ma è di un matrimonio che stiamo parlando? O di qualcosa che gli somiglia, ma è ancora di più? 

In questa storia c’è più di una stranezza:  

è lo Sposo che tarda ad arrivare e si fa aspettare anche a lungo; 

– inspiegabilmente la metà delle giovani si comporta come se non si fosse preparata PRIMA a tutto ciò che può succedere. 

Queste cinque donne cosa avevano di più importante da fare quando stavano preparandosi per andare alla celebrazione? Cosa le ha distratte nel momento in cui non hanno portato con sé tutto il necessario, tanto da rischiare di rimanere fuori da quella che poteva essere la festa della vita? 

Queste vergini, come le chiama il Vangelo, sono una metafora della sposa, cioè persone che hanno nel loro futuro la possibilità di incontrare lo Sposo; ma una donna diventa sposa solo quando si innamora. 

Le vergini sono dieci, che è un simbolo di pienezza, perché questo incontro gioioso è come un matrimonio tra Dio e ognuno di noi, tra Dio e l’intera umanità. 

L’olio delle vergini vigilanti non rappresenta un dettaglio: è l’Amore, frutto dell’esercizio dell’amare, giorno dopo giorno. 

Per questo quell’olio non si può prestare e non può mancare nelle mani di una promessa sposa, perché rappresenta l’amore che ti ha portato fin lì. Se hai solo quello all’interno della tua lampada, tra poco finirà; e se non hai altro carburante che scaldi il tuo cuore e illumini la tua strada con Lui, allora vuol dire che per te quello è soltanto un incontro come tanti e fra poco qualcos’altro prenderà la tua attenzione, la tua passione e la tua volontà. Ti presenti all’appuntamento, ma in realtà stai ancora decidendo se lo Sposo è la persona giusta a cui affidarsi, se è davvero quello che vuoi. Lo Sposo tarda ad arrivare perché non vuole che sia già tutto stabilito, ma fa in modo che l’attesa e la notte rivelino a noi stessi quanto desideriamo essere davvero felici e quanto siamo disposti a prepararci, ad essere pronte e pronti per questo. 

Il vero Amore non capita, si sceglie in mezzo alle mille altre cose che succedono nella vita:

Dio ci dice che il tempo delle lacrime finirà e che, scegliendo Lui, il nostro destino è una festa senza fine in cui godere la piena felicità. 

Anna Maria D’Antona




Terapia della fraternità

Non siamo figli tutti di un unico Dio? E non siamo così tutti fratelli? Perché agire l’uno contro l’altro?
Le domande sono lecite davanti alla cronaca di tutti i giorni, alle guerre e alle devastazioni, ai contrasti che si possono vivere nel quotidiano con chi ci è vicino.

Nella enciclica ‘Fratelli tutti’ papa Francesco suggerisce una terapia della fraternità

per guarire dalle ferite aperte dalle paure della diversità. L’altro, nella sua differenza con me, sembra alimentare il disagio. Il popolo accanto al mio, nella propria identità appare un pericolo verso la mia esistenza.

Nei decenni scorsi sembrava che l’umanità avesse imparato dai propri errori, dalle guerre mondiali, dai conflitti, ma gli EGO sparsi nel mondo hanno inventato pure una ‘guerra mondiale a pezzi’, proprio mentre la tecnologia tesse la rete del villaggio planetario. Violenze, persecuzioni, migrazioni forzate, dignità umane lese, mirano a prevaricare l’altro e mentre disprezzo l’altro, dimentico me stesso, il mio essere figlio dello stesso Dio, il mio appartenere alla stessa umanità. La differenza dell’altro non è più la mia ricchezza, lo svelamento del mio essere fratello e le paure nutrono il mio andare lontano da tutti e da tutto, isola tra gli isolati.

Il conforto, la cura della fraternità, passa proprio attraverso la misericordia grande del Padre

che non ci vuole tra noi come partner commerciali, ma come ‘fratelli tutti’, perché da soli non ci si salva.

Non ci vuole come coloro che creano gravami interessati per le strade delle nostre relazioni, ma vuole che ognuno occupi il giusto posto, quello dei carismi ricevuti, dei doni personali da condividere, della ricchezza delle proprie qualità da offrirci l’un l’altro come vera terapia, perché siamo tutti fratelli, figli amati dello stesso Dio, alleati fra noi per la pace.

Francesco Paolo Monaco




I sentieri della vita

Se potessimo osare tradurre la prima lettura (Es 22,20-26) di questa domenica in un linguaggio attuale, potremmo e dovremmo scrivere:

“Sono esseri umani, quindi non puoi trattarli male. Sono persone, non è difficile da capire. Il grido di tutti i sofferenti del mondo sale fino a me e io lo ascolto. Io me ne accorgo.”

Questo elenco che nel libro dell’Esodo segue il Decalogo (cf. Es 20,1-17) e lo specifica è davvero impressionante:

1) Non opprimerai lo straniero

2) Non maltratterai le categorie sociali più in difficoltà

3) Condividerai il tuo denaro

4) Non sfrutterai il povero

Ci sarebbe da farne un programma politico, ma i cristiani prima di puntare il dito contro gli altri, devono assumere come propria responsabilità personale una tale radicalità. Dovremmo poter dire:

“Almeno per quanto riguarda me, mi sforzo di seguire questa parola che Dio mi rivolge”.

Gesù dà un’interpretazione rabbinica perfetta della Legge di Mosé, sintetizzandola nel famoso: “Amerai Dio e amerai il prossimo” (Mt 22,37-38). Dio e gli esseri umani. Non si può amare l’uno senza l’altro. E dunque, se si “uccide” l’uno, si “uccide” anche l’altro.

“Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti.” (Mt 22,40)

Per Legge, nella cultura religiosa ebraica, si intende i sentieri per vivere. La Profezia è la costruzione di un mondo inedito di vertiginosa bontà, a partire da oggi.

Ora chiudiamo gli occhi un momento.

Facciamo tacere i tumulti della fretta e degli affanni.

Ricordiamo quello che abbiamo visto nei telegiornali o letto sui quotidiani.

Pensiamo ai nostri giovani e alle nostre giovani, a cui vogliamo bene, e chiediamoci: non abbiamo forse bisogno di ritrovare i Sentieri della Vita? Non abbiamo forse bisogno di rendere vere le visioni dei profeti, dove i missili diventano scuole, le armi nucleari ospedali, gli inquinanti boschi e foreste, a tutti i bimbi e le bimbe è concesso di giocare e di studiare, e nessuno – mai e poi mai – pronuncia il nome di Dio accanto a qualsiasi atto di violenza – anche il più piccolo – su un altro essere umano.

Don Davide




Cuori ardenti, piedi in cammino

Celebriamo la Giornata Missionaria Mondiale per partecipare della missione universale della Chiesa.

Come educare le nostre comunità a questa apertura missionaria universale?

I vescovi ci ricordano che la sensibilità missionaria va educata “fin dalla più tenera età” (Decreto per l’Attività missionaria Ad Gentes del Concilio Vaticano II, n. 38) per creare tra tutti i cristiani del mondo uno spirito di fraternità universale nella preghiera e nella solidarietà, specialmente verso le Chiese più giovani e bisognose di sostegno.

Il mese missionario di ottobre trova dunque il suo apice nella celebrazione della Giornata Missionaria Mondiale che ricorre in questa domenica 22 ottobre.

In questa domenica iniziamo la messa con le famiglie del catechismo in una chiesa che ci ospita, così sperimentiamo il senso di essere in cammino e in comunione con altre comunità e alleniamo anche i più piccoli alla consapevolezza che esiste una Chiesa più grande, che va ben oltre i confini della nostra parrocchia e si unisce spiritualmente a tutti i missionari inviati nel mondo ad annunciare il Vangelo. Ogni comunità che celebra l’Eucarestia contribuisce al sostegno di tutti i missionari sparsi nel mondo e di tutte le comunità più povere di mezzi, quelle che vivono in situazioni di assoluta minoranza e quelle che soffrono controversie e persecuzioni.

Per la Giornata Missionaria Mondiale di quest’anno Papa Francesco ha scelto un tema suggestivo che prende spunto dal racconto dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35):

«Cuori ardenti, piedi in cammino».

Attraverso l’esperienza di questi due discepoli che, nell’incontro con Cristo risorto, si trasformano in attivi missionari, Papa Francesco ci esorta ad essere discepoli-missionari. Infine il Papa ci ricorda l’importanza del mantenere viva la missione con l’impegno di ciascuno e con la preghiera per le vocazioni missionarie: «L’immagine dei “piedi in cammino” ci ricorda ancora una volta la perenne validità della missio ad gentes, la missione data alla Chiesa dal Signore risorto di evangelizzare ogni persona e ogni popolo sino ai confini della terra».

A cura di Don Davide

[Dalla riflessione di don Giuseppe Pizzoli, Direttore generale Fondazione Missio]

 

Fondazione Missio Ottobre Missionario 2023 (missioitalia.it)

Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2023 | Francesco (vatican.va)




L’abito nuziale

Se tutti desideriamo il bene, perché non l’accogliamo?

La domanda mi sorge così, ma poi mi accorgo che non è posta bene. In tanti l’accolgono, e sono grati di ogni segnale di bene sulla strada. Ma molti, invece, no.

C’è un’inclinazione ingannevole nell’uomo a desiderare il bene che si vorrebbe e a fare ciò che ce ne allontana.

Perché?

Rimane uno dei misteri più difficili dell’esistenza.

Io credo che sia la questione dell’abito nuziale.

Nella parabola di Gesù, la reazione del padrone è del tutto spropositata. Prima chiama la gente dai crocicchi, poi va in escandescenze per un uomo che non ha il vestito adatto.

È evidente che qui Gesù vuole attirare la nostra attenzione.

Che cos’è questo abito nuziale? È qualcosa che si prepara.

Quando dobbiamo andare a un matrimonio controlliamo se abbiamo qualcosa da metterci. Anche chi sceglie un registro informale, è sicuro di avere qualcosa da indossare di conveniente. Altrimenti lo prepariamo, o lo andiamo a comprare.

L’essenza del bene sfugge a tutti, perciò è una conquista che va preparata. Più precisamente, è un dono che bisogna essere disposti da lungo tempo ad accogliere, come la partita o la gara della vita, che finalmente affronti nella tua condizione atletica migliore.

Nessuno giunge a un appuntamento importante come il matrimonio, improvvisato.

Ogni atleta che stupisce il mondo con un gesto atletico memorabile lo ha lungamente preparato nel nascondimento.

Ogni studioso che raggiunge un traguardo ha speso ore per avvicinarsi a quella conquista.

Questo, purtroppo, vale anche al contrario: quando, ad esempio, si accende una polveriera nel mondo e poi si rimane sgomenti di fronte alla violenza che deflagra.

È per questo motivo che in parrocchia crediamo ancora nel catechismo anche se sembra obsoleto. E per la stessa ragione prepariamo per i bimbi che lo chiedono il doposcuola. Ugualmente curiamo i gruppi degli adolescenti e dedichiamo attenzione ai giovani, e poi a tante famiglie e a tanti amici e amiche della Caritas S. Vincenzo.

Qualcuno potrebbe dire: e gli anziani?

Mi pare che in questo caso gli anziani abbiano più il compito di fungere da saggi, da mentori, da coloro che possono raccontare che un albero buono produce buoni frutti.

Crescere un albero buono non è un gesto unico o un’impresa solitaria. Bisogna avere cura del terreno, ci vuole lo spazio giusto, una collocazione favorevole, il rapporto biologico con le altre piante e il resto della natura circostante, la competenza di potarlo quando necessario, infine, più di ogni altra cosa, ci vuole tempo.

L’abito nuziale è una metafora del tempo.

Può capitare di essere chiamati all’improvviso alla festa del bene: può darsi che sia un invito subitaneo, inedito, del tutto aspettato o immeritato come quello di Matteo, di Zaccheo, la donna samaritana, ma quello che conta è avere preparato il cuore, in recessi magari profondissimi, che solo il Signore conosce.

Penso al ladro sulla croce: una vita di malefatte sfociate in una violenza terribile, probabilmente un omicidio che gli valse la pena di morte, ma forse con quel desiderio di bene e di riscatto che per tutta la sua esistenza non aveva più trovato la strada, fino a quell’ultimo incantevole: “Ricordati di me”. Il ladro – divenuto buono – era sulla croce con l’abito nuziale.

Don Davide