Timore del Signore

C’è un moto ellittico che si chiude con l’ultimo dei doni dello Spirito Santo, che ruotano attorno al Sole di Dio come i pianeti.

Il primo è la Sapienza, l’ultimo il Timore del Signore. Abbiamo ricordato all’inizio il principio cardine di tutta la meditazione biblica sapienziale: “Principio della sapienza è il timore del Signore” ed ecco che, una volta giunti alla fine di queste meditazioni, tutto riparte con nuovo slancio dal Timore del Signore, che genera la Sapienza e apre ancora lo spazio nella nostra vita per accogliere lo Spirito Santo, che vuole prendere sempre più dimora in noi.

In quanto dono dello Spirito Santo, il Timore del Signore non è una facoltà solamente umana, ma letteralmente un dono di Dio, una cosa che l’uomo non può darsi da solo e senza la quale non potrebbe mai vivere la stessa qualità dell’incontro con Dio.

Già solo parlare di “incontro con Dio” dovrebbe farci venire le vertigini. Nella Bibbia siamo frequentemente ammoniti sul mantenere consapevolmente la distanza qualitativa fra Dio e noi: chi vede o tocca Dio, muore, ci dice l’Antico Testamento. Chi potrebbe trattare con Dio, senza venire meno?

Al catechismo veniamo istruiti con attenzione sul fatto che il “timore” non è la paura di Dio, il che è giusto quando semplifichiamo le cose per i fanciulli. Ma in un certo senso, il Timor di Dio è proprio anche la paura di Dio, la consapevolezza che Dio è altro da noi, e terribile, e veramente onnipotente. O meglio,

il Timore di Dio è quel dono che ci fa tenere insieme la paura che dovremmo avere, e la meraviglia che effettivamente abbiamo,

nello scoprire l’indicibile condiscendenza di Dio con la quale lui si spoglia della divinità che potrebbe e dovrebbe consumarci e avvicina se stesso e noi.

Infatti Mosè e i profeti sono stati graziati dopo l’incontro con lui. I pastori e i Re Magi hanno contemplato Dio nelle spoglie di un infante piccolo e innocuo. Le donne lo hanno visto morire come noi. L’apostolo Giovanni scrive di avere visto, udito e toccato il Verbo della Vita.

Il Timore di Dio è una facoltà spirituale anti vertigine.

È quel dono speciale, che l’uomo da solo non potrebbe darsi, di tenere insieme la consapevolezza della grandezza di Dio e della piccolezza con cui si avvicina a noi, di concepire in uno sguardo la distanza e la vicinanza, la sua autorità di giudice e il suo amore di padre misericordioso, la durezza che lo legittimerebbe e la tenerezza con cui si legittima realmente.

Come lo stupore è considerato l’inizio della filosofia, così il Timore di Dio può essere considerato il principio della vita spirituale, quando noi attoniti e grati gli domandiamo: “Che cos’è l’uomo, perché te ne curi?!”.

Don Davide




Pietà

La Pietà è il sentimento religioso autentico, l’amore per Dio infuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo. È l’amore di Dio in noi, che rende possibile per noi amare Dio.

In questo senso, la Pietà è davvero il dono per eccellenza. Una cosa che non ci possiamo dare, senza la quale non potremmo mai essere capaci di fare una cosa indispensabile. Stiamo vedendo, infatti, che i doni dello Spirito Santo sono energie che ci abilitano, quando riceviamo l’effusione dello Spirito.

Queste sono anche le parole di Gesù: “Riceverete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi…” (At 1,8).

Il cammino di questo tempo pasquale ci prepara alla Pentecoste, facendo crescere nella nostra interiorità il desiderio di Dio.

Ci sono tre caratteristiche che rivelano il dono della Pietà, e lo distinguono da una falsa religiosità, che frequentemente si insinua e contamina la nostra vita di credenti.

La prima è la comunione. Non c’è vera dimensione religiosa che non abbia a cuore la custodia e la crescita della comunione. Il Diavolo divide, mentre lo Spirito crea la sintonia degli spiriti.

Ognuno e ognuna di noi ha una grazia specifica per aiutare, con i propri carismi, la comunione ecclesiale.

Quando generiamo divisione, puntiamo il dito e siamo autoreferenziali invece che pensare all’edificazione, allora in noi non opera il dono della Pietà, ma una vaga religiosità che non potrà mai esprimere l’amore per Dio ispirato dall’amore di lui in noi.

La seconda è la compassione. La vera Pietà si riconosce quando c’è compassione umana. Il dono della Pietà, infatti, slancia i sentimenti del cuore verso il cielo, ma i sensi del corpo verso la terra. Non si può stare solo lì “a guardare il cielo” (At 1,11). C’è un’umanità quanto mai bisognosa.

Come scriveva meravigliosamente Etty Hillesum: “Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite”.

“Nessuno – infatti – può amare Dio che non vede, se non ama il proprio fratello che vede” (1Gv 4,20).

La terza, infine, è l’affidamento. La Pietà esprime una vita veramente affidata, oseremmo dire consegnata al Padre, come nella bellissima preghiera di fr. Charles de Foucauld: “Padre mio, mi abbandono a te”. È questo il senso delle parole forti di Gesù: “Scacciare demòni, parlare lingue nuove, incantare i serpenti, neutralizzare i veleni e operare guarigioni”.

Significa vivere in un affidamento a Dio talmente consegnato e umile, da accedere alla sua potenza.

La Pietà, in definitiva, è il dono che forse più di ogni altro esprime la vita divina in noi.

Don Davide




Scienza

Le leggi spirituali di tutto ciò che esiste

Comprendiamo il dono della Scienza attraverso un’analogia proprio con la mentalità scientifica.

Il dono della scienza non è quello di Einstein, di Edison, di Cury o di Montalcini. Non è che dopo la Cresima diventiamo tutti scienziati (anche se a qualche studente farebbe bene, per fare meglio i compiti di matematica, di fisica o di biologia) e non basta dire la preghiera allo Spirito Santo per inventare la formula risolutiva della Teoria del Tutto.

Tuttavia, il dono della Scienza, analogamente a quanto accade nel metodo scientifico, ci rende “empirici” nella vita spirituale, cioè capaci di sperimentare. Ossia, ci permette di riconoscere il Signore risorto quando noi, come i discepoli, inizialmente non ci accorgiamo di lui, anche se è davanti al nostro naso. Oppure ci fa vedere l’amore dove è presente e il bene quando accade, e ci aiuta ad avere la giusta misura quando ci lamentiamo ma, se mettessimo sul piatto della bilancia le cose positive e quelle negative, vedremmo che il piatto penderebbe comunque dalla parte del bene.

In termini ancora più precisi, il dono della Scienza è quello che ci aiuta a fare una vera «esperienza» spirituale.

Seguendo le letture di questa domenica, possiamo vedere perfettamente il dono della Scienza dove si manifesta: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone…” (At 10,34). Sto rendendomi conto: se fosse espresso in termini scientifici di oggi, Pietro avrebbe detto: “In base a ripetute osservazioni, ho registrato (o «isolato») questo fenomeno…”

E ancora: “I fedeli si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo” (At 10,45). Ma guarda un po’! Le nostre teorie erano diverse, invece al dato sperimentale, lo Spirito Santo fa poi quel che vuole!

E infine: “Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua, questi che hanno ricevuto come nei lo Spirito Santo?” (At 10,47). In altri termini: se la medicina funziona e non ha effetti collaterali, usiamola!

Rimaniamo ancora più stupiti quando procediamo nell’ascolto della parola di Dio: “Chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio” (1Gv 4,7). Qui l’autore della Prima lettera di Giovanni trae non un sillogismo teorico, ma una conseguenza pratica basata sul principio di causa effetto: Dio è amore, se uno ama, è stato generato da Dio e lo conosce (anche se non dovesse conoscerlo ancora «esplicitamente»). Anche questo principio è più incisivo delle teorie e corrisponde più concretamente alla realtà. Come afferma papa Francesco: la realtà è più grande dell’idea (cf. EG).

Infine, come i veri scienziati, che traggono dai loro esperimenti e dalle loro osservazioni una descrizione della realtà: “Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).

Il dono della Scienza ci permette di dire qual è la realtà che conta più di ogni altra: l’amore.

Ancora una volta, come gli scienziati contemporanei riconoscono nella fisica quantistica la trama più profonda della realtà che riesce ad essere osservata (fino ad oggi), una trama per di più “relazionale”, così il dono della Scienza ci aiuta a riconoscere l’amore come la particella elementare, il tessuto di relazioni e la struttura più profonda di tutto ciò che esiste.

Don Davide




Messa 25 aprile

INTRODUZIONE ALLA MESSA 

Celebriamo questa messa per ringraziare del dono del Vangelo, per la fine della guerra e la Liberazione del nostro paese e per la pace. 

Lo facciamo in pieno spirito di partecipazione alla Festa del nostro Paese, e anche alla festa molto sentita che si svolge qui nel nostro quartiere. 

Lo facciamo, soprattutto, in comunione con la Chiesa di Bologna e con la Chiesa italiana attraverso il Cardinale Arcivescovo Matteo Zuppi, che in questo giorno è presso la diocesi di Alba a celebrare nella messa il ricordo di padre Giuseppe Girotti, domenicano, inserito tra i martiri del nostro tempo nell’elenco della Comunità di Sant’Egidio. 

Il 25 aprile 2020 il nostro vescovo ha dichiarato nel suo discorso: 

“Il 25 aprile è una ricorrenza che ha corso il rischio di essere vissuta come una festa di parte, a volte retorica; al contrario, non dobbiamo dimenticare che è la festa di tutti e celebra i valori fondanti del nostro Paese. Dobbiamo essere grati, infatti, a quella generazione che ha vissuto la guerra e combattuto per la Liberazione, perché ci ha regalato la Costituzione e 75 anni di pace. (…) 

Lo spirito della Costituzione è un regalo sofferto e dolorosissimo, ma che ci consegna una visione dello Stato e della politica in grado di unire persone e pensieri anche molto diversi tra loro. Questa è un’eredità preziosissima che è per tutti, questo comune sentire, capace di unire idealità diverse per il bene del nostro Paese e di superare le parti è ciò che ci unisce e rappresenta un’enorme ricchezza perché in grado di dire e dare ancora moltissimo. 

Gli appuntamenti della città degli uomini sono quelli che uniscono tutti. (…) Ricorrenze come la fine della guerra e la Liberazione dell’Italia e dell’Europa dal nazifascismo sono davvero importanti, perché tutti vi si possono riconoscere. (…) 

Credo che il mondo cattolico debba fare uno sforzo perché, dal Vangelo e dalla sua pratica, scaturisca una cultura che spieghi la realtà in cui viviamo e sappia accrescere una conoscenza e una comprensione più profonde e umane del reale. L’odio e il razzismo, che altro non sono che forme di paganesimo emergono quando il cattolicesimo è più debole.”. 

In questo contesto, ricordiamo anche l’Azione Cattolica nazionale che nella giornata di oggi è stata a Roma a incontrare il papa, e soprattutto gli aderenti della nostra parrocchia, un bel gruppo numeroso di giovani che sono andati, e che nei prossimi giorni faranno qualche giorno di ritiro a Spello. 

Preghiamo insieme a loro e anche per loro, perché come abbiamo ascoltato dalle parole del Cardinale, l’impegno cristiano e cattolico plasmi una cultura davvero buona ed evangelica. 

Con queste considerazioni iniziali, chiediamo perdono per tutte le volte che non abbiamo assunto o rispettato la nostra responsabilità di cristiani nel mondo. 

 

OMELIA

C’è un forte invito alla vigilanza in queste letture, come se non si potesse celebrare la festa di un evangelista senza essere attenti, sobri. Non c’è vangelo dove non si resiste, saldi nella fede, al leone ruggente che vuole divorare le vite. Non c’è possibilità di annunciare il vangelo della vita e del bene se non si sorveglia sulla possibilità che il male prenda piede e dilaghi e divori tutto.

Come sappiamo bene, a Bologna c’è un luogo simbolo del martirio di preti, dei religiosi e delle religiose e delle comunità che erano con loro, a Marzabotto – Montesole. Da molti decenni, ormai, quel luogo è stato riconquistato alla pace, alla preghiera e alla riconciliazione, in una parola al Vangelo, per opera dei monaci e delle monache di don Giuseppe Dossetti e per volontà della Chiesa di Bologna.

La festa liturgica di un evangelista, la festa civile della Liberazione e l’esempio della nostra storia locale ci insegnano che, perché non si ripetano più simili orrori, bisogna vigilare da lontano, perché il leone ruggente, il nemico, il Diavolo, sempre va in giro cercando chi divorare, ed è un attimo che si ceda sul discernimento evangelico.

Penso alla fatica della vigilanza, quando sorgevano il messianismo nazista e le promesse fasciste. La difficoltà di fare discernimento, la fatica di capire dove stava il giusto e lo sbagliato, i gangli del potere, il sacrificio di prendere posizione.

Oggi ricordiamo tante persone divorate dalla furia di quel leone, ma possiamo ricordare ad esempio i giovani della Rosa Bianca, che avevano la lucidità di chiamare Hitler “il Diavolo” e “Satana” nei loro volantini, quando tutti lo acclamavano come condottiero, o alla cosiddetta Chiesa Confessante, che rifiutò gli accomodamenti col potere e nel suo memorabile manifesto dichiarò che di Messia e Salvatore c’era solo Gesù Cristo, il Crocifisso Risorto.

Pensando alla vigilanza, oggi che l’Azione Cattolica italiana è stata in udienza da Papa Francesco, voglio ricordare Tina Anselmi: convinta iscritta all’Azione Cattolica, antifascista per scelta, membra della Resistenza in seguito ad essere stata costretta ad assistere a un rastrellamento, staffetta partigiana, impegnata attivamente perché dopo la Liberazione non ci fossero regolamenti di conti, fiera credente, prima donna Ministra della Repubblica. Nel suo secondo incarico come Ministra, quando era Ministra della Sanità, fu approvata la Legge Istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale. La vigilanza su questo tesoro nazionale che tutto il mondo ci invidia è un modo per evitare che il leone ruggente si insinui, ad esempio nella discriminazione tra la salute dei poveri e quella dei ricchi.

Dunque, si festeggia la Liberazione per vigilare affinché gli orrori delle dittature del passato non si ripetano. E i cristiani sanno che non possono annunciare il Vangelo se non impegnandosi molto perché anche gli orrori delle molte dittature di oggi cessino immediatamente.

Agiamo sapendo che Dio resiste ai superbi (1Pt 5,6), come recita la prima lettura, facendo eco alle parole di Maria nel Magnificat: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili” (Lc 1,51-52).

Oggi, in Italia, ricordiamo il rovesciamento del potere nazista e fascista, e la vittoria di chi ha creduto nella possibilità di superare quella situazione: la guerra, l’usurpazione e l’orrore. Sembrava una lotta troppo umile, fatta di sacrifici militari, di nascondigli e staffette in bicicletta ma alla fine ha avuto la meglio.

Purtroppo sappiamo che non è stato tutto condotto nel bene. Ci sono stati altri crimini, vendette, regolamenti di conti. C’è stato chi si è approfittato dei vuoti di potere e della mancanza di controllo per dare sfogo a una violenza altrettanto crudele e ingiusta. Per questo bisogna vigilare sempre, ed evitare che si ripetano le condizioni per simili disastri strutturali, che poi sono faticosissimi da ricucire nel bene, nell’ordine e nella giustizia.

La Repubblica che ne è uscita e la nostra Costituzione repubblicana sono antifasciste e fondate sull’antifascismo.

Dossetti, che ho ricordato prima, ammoniva che “fascismo è ogni forma di potere che usurpa, discrimina e priva della libertà”. Esiste un fascismo di destra e lo abbiamo tristemente conosciuto. Ma esistono anche un fascismo di sinistra, un fascismo delle idee, un fascismo ecclesiastico, religioso e valoriale. E ancora, un fascismo delle parole, un fascismo degli atteggiamenti e un fascismo nello stile della convivenza.

Purtroppo ci sono ancora tantissimi di questi fascismi qui e in giro per il mondo e tutti questi fascismi generano violenza e rovina.

Per tutti questi fratelli sparsi nel mondo, Gesù ci invita ad annunciare il Vangelo. “Proclamare il vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15) non significa principalmente fare catechesi o proselitismo. Significa offrire soprattutto con l’esempio un messaggio e uno stile che è un’incudine contro tutte le logiche mondane: la privazione della libertà, il potere, la ricchezza, la violenza, la discriminazione, l’egoismo, la mancanza di rispetto e la negazione della convivenza. “Proclamare il vangelo” significa agire attivamente perché trionfi la pace e perché tutte le passioni e le croci del mondo, cioè le torture e le morti procurate, siano definitivamente sconfitte.

Gesù parla di segni chiari, che distinguono chi agisce nel suo nome dai falsi profeti: scacciare i demone del potere e i suoi inganni, che potrebbero sedurre tutti, anche ciascuno di noi, perché non ne siamo immuni; parlare una lingua non violenta (pensate quanto fascismo c’è nelle nostre parole); anticipare i morsi del Serpente con la vigilanza, come si diceva prima e, infine, permette ai cristiani e alla Chiesa, quando sono stati contaminati da qualcuno di questi veleni, di avere l’antidoto nella conversione.

Più di ogni altra cosa, quindi, rimane vero che noi annunziamo Cristo crocifisso, vera sapienza di Dio. Quando guardiamo al Crocifisso, capiamo che – se lo amiamo – possiamo solo metterci accanto a tutti i crocifissi della storia, che sono suoi fratelli e sorelle, per annunciare a loro la resurrezione e a tutti (gli altri e noi stessi) la possibilità di conversione e di redenzione.

 

PREGHIERE DEI FEDELI

Lettore: Preghiamo insieme dicendo: ASCOLTACI, SIGNORE GESÙ. 

  1. Per la Chiesa, perché sia testimone autentica della resurrezione di Gesù, soprattutto operando concretamente per il riscatto delle vite oppresse e proponendo la conversione e la riconciliazione dei cuori. Preghiamo.
  2. Perché noi siamo artefici di pace, con gesti coraggiosi e costruttivi, nelle scelte e nelle parole, nell’impegno sociale, civile e politico e nella solidarietà. Preghiamo. 
  3. Perché apprezziamo il dono della libertà, sappiamo custodirlo, condividerlo e consegnarlo alle nuove generazioni, senza tradirlo con le superficialità e le ideologie. Preghiamo. 
  4. Per tutti coloro che portiamo nella preghiera, per la Diocesi di Venezia che celebra il suo patrono, per chi si è affidato alla nostra preghiera, per chi soffre e chi vogliamo ricordare con affetto: perché tutti possano sentire il conforto dello Spirito e la speranza che viene dal Vangelo. Preghiamo. 

Don Davide: Ricordiamo ora alcuni sacerdoti, a nome di tutti, martiri della violenza nazifascista, con una breve nota biografica: 

Lettore: 

Don Giovanni Minzoni 

Coraggioso, dialogante, diede vita a progetti per i poveri, anziani, giovani e favorì il cooperativismo. Invece di trasformare i bambini della parrocchia in balilla scelse di farne gruppo scout, quando questi insieme a tutte le associazioni venivano chiuse dalle leggi fasciste. Per questi e altri motivi venne in odio ai fascisti e fu ucciso a bastonate il 23 agosto 1923 dagli squadristi agli ordini della milizia di Italo Balbo. 

Don Giuseppe Bernardi e don Mario Ghibaudo 

Furono tra le vittime della prima strage nazifascista in Italia, a Boves. Si adoperarono per la salvezza del paese. Negoziarono con successo la restituzione di due soldati tedeschi catturati da partigiani, ma ciò non servì a salvare il paese che venne incendiato. Anche loro vennero entrambi trucidati e bruciati. Morirono il 19 settembre 1943. 

 Don Giuseppe Beotti 

Aiutò ebrei, partigiani, soldati e feriti a mettersi in salvo e pagò col sangue la decisione di non abbandonare i suoi parrocchiani ai rastrellamenti nazifascisti. Morì il 20 luglio 1944 fucilato facendosi il segno della croce e stringendo il breviario in mano. 

 Padre Giuseppe Girotti 

Padre Giuseppe Girotti venne arrestato da un repubblichino che fingendosi un partigiano gli chiese aiuto. Da tempo aveva iniziato a nascondere e medicare i partigiani e ad aiutare gli ebrei a fuggire. Caduto nella trappola, venne poi consegnato ai nazisti inviato a Dachau. Consumato dal freddo, sporcizia e tifo, fu portato in infermeria e ucciso da un’iniezione di benzina il primo aprile 1945. 

 Padre Placido Cortese 

Padre Placido Cortese fu torturato per giorni interi. Nonostante le atroci torture non rivelò mai i nomi di ex soldati, partigiani, ebrei che aveva aiutato. Morì il 15 novembre 1944 per l’esasperazione dei suoi aguzzini che decisero infine di ucciderlo sparandogli. 

 Don Giuseppe Borea 

Partigiano della Divisione “Val d’Arda” fu catturato dai fascisti e condannato a morte. Davanti al plotone di esecuzione rifiutò sedia e benda e gridò “Offro la mia vita per la pace e la grandezza della Patria”, poi, toltosi il mantello, gridò: “Viva Gesù, Viva Maria, Viva l’Italia.” Colpito da otto pallottole, don Borea fu finito con un colpo alla nuca. 

Tra i tanti, ricordiamo ancora 

  • Don Francesco Delnevo 
  • Don Natale Monticello 
  • Don Pasquino Borghi 
  • Don Giuseppe Morosini 
  • Don Mario Pappagallo 
  • Don Giuseppe Rossi 
  • Don Ernesto Camurati.  

Sono quasi 400 i sacerdoti diocesani e religiosi torturati e uccisi di cui ricordiamo oggi il sacrificio e il martirio. 

Ricordiamo anche i presbiteri che, scampati alla fucilazione, hanno potuto raccontare la loro esperienza partigiana nella Resistenza, testimoniando i valori che campeggiano nella Costituzione repubblicana: 

  • Don Primo Mazzolari 
  • Don Angelo Cocconelli 
  • Don Giulio Malaguti 

Per tutti loro preghiamo. Ascoltaci, Signore Gesù! 

Don Davide




Fortezza

Forti come la roccia, teneri come un abbraccio

Tutta la forza del cristiano dipende dalla sua unione con Gesù. Possiamo e dobbiamo cercarlo nei sacramenti, vivere l’intimità con lui nella preghiera con la Parola e nell’Adorazione, e seguirlo e imitarlo in ogni nostra azione quotidiana. Si tratta di stare attaccati a Gesù, come i tralci alla vite, in modo da godere di quella linfa vitale che irrobustisce e dà vigore.

Senza di lui non possiamo fare nulla, non perché lui sia geloso o ce lo impedisca, ma semplicemente perché non avremmo forza. Senza di lui, i tralci diventano secchi e servono solo per essere gettati nel fuoco.

In questa unione si rende presente e si manifesta lo Spirito Santo, che “rivela nei deboli la sua potenza e dona agli inermi la forza del martirio” (Prefazio dei martiri).

Dall’insegnamento di Gesù sulla vite e i tralci, cogliamo anche una sfumatura importante tra la forza e la fortezza. Sicuramente la fortezza ha a che fare con la forza, ma è qualcosa di più. Possiamo giocare con le parole, per capirlo meglio. Una persona può essere forte, senza avere la fortezza. Pensiamo, ad esempio, a quel tipo di edificio che chiamiamo fortezza. Qual è la differenza tra un presidio militare e una fortezza? Il primo può godere di molti armamenti e di vari strumenti offensivi e difensivi, ma non essere sufficientemente robusto da resistere a un assalto strutturale. La fortezza, invece, è concepita con un impianto incredibilmente solido e robusto.

Ugualmente il dono della Fortezza. Esso non ci rende forti di una forza che potremmo usare prepotentemente o violentemente, ma solidi, robusti, capaci di resistere nelle avversità e di portare frutto.

La fortezza è quel dono che rende la nostra casa fondata sulla roccia e il nostro terreno buono.

Il dono della fortezza ci rende duri come la pietra o teneri come l’affetto, gentili o fermi, determinati o condiscendenti.

Ad esempio, come leggiamo nella seconda lettura, il dono della fortezza è quello che ci rasserena in Gesù, senza farci essere troppo indulgenti con noi stessi. Insieme al dono del Consiglio, di cui abbiamo parlato domenica scorsa, ci rende interpreti sensibili e adatti alle situazioni.

La Fortezza è anche il dono che ci aiuta a custodire la purezza: non solo rispetto alla volgarità del mondo, ma anche negli intenti, perché siano trasparenti, nei pensieri, perché non abbiano secondi fini, nelle relazioni, perché siano autentiche e sincere.

Questo tipo di purezza toglie dal nostro spirito le scorie dei materiali poco resistenti, come i vizi, la pigrizia, le cattive intenzioni,

e ci rende forti come una fortezza, appunto, e capaci di portare molto frutto.

Così, possiamo chiedere al Signore il dono di essere una “fortezza” dello Spirito, alcune volte, tenerissima.

Don Davide




Consiglio

Quando veniamo interpellati sul fare il bene

È bello riflettere sui doni dello Spirito Santo nei giorni in cui i nostri ragazzi del catechismo ricevono i sacramenti: la Prima Comunione sabato scorso, la Cresima questo sabato. Ci sentiamo vicini a questi amici, fratelli e sorelle più piccoli, tutti figli della nostra comunità e della Chiesa, che speriamo possano vivere sempre sotto la guida dello Spirito.

Le letture di oggi ci spingono a meditare sul dono del Consiglio.

Una parola per tradurre il Consiglio potrebbe essere Discernimento, proprio come quando si chiede a una persona saggia: “Mi dai un consiglio?”, ossia: “Mi aiuti a scegliere meglio in questa situazione, tra queste possibilità?”.

Dall’esempio di Gesù impariamo intanto qual è il criterio del discernimento: dare la vita. Ossia: offrire la mia vita e portare vita. Sembra difficile, può addirittura spaventare.

Dare la vita non significa annullarsi, non realizzarsi o soffrire.

Pensiamo ad esempio ai ragazzi: si può parlare loro di “dare la vita” come se si trattasse di rinunciare a se stessi o non divertirsi? Tutt’altro.

Conosciamo benissimo le parole di Gesù: “Se uno non rinnega se stesso…” (Mc 8,35) ma qual è il vero significato?

Ascoltiamo Gesù: “Il buon pastore dà la vita per le sue pecore. Il mercenario no” (Gv 10,11). Cogliamo, innanzitutto, la differenza tra appartenersi (il buon pastore) e non appartenere (il mercenario).

Il punto cruciale, infatti, è essere liberi: “Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo” (Gv 10,18). Proprio come quando si fa un dono: se sei innamorato/a davvero, e vuoi fare un bel regalo alla persona che ami, non ti costa farlo, non ti senti spinto da fuori, non badi al prezzo e mentre lo prepari sei pieno/a di energia e di slancio e non pensi al tempo che stai perdendo, perché in realtà stai guadagnando la vita e stai vivendo l’amore.

Il Consiglio ci aiuta a fare della nostra vita un dono, consapevole, libero, mai costretto. Un dono d’amore.

Dagli apostoli impariamo che ci sono due livelli di questo discernimento:

  1. Il primo, riguarda la capacità di riconoscere il bene e non puntare il dito quando questo accade. Pietro, infatti, pieno di Spirito Santo, indica il punto: “Visto che oggi veniamo messi a giudizio sul beneficio recato a un uomo infermo…” (At 4,8). Potremmo prendere a prestito le parole stesse di Gesù: “È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?” (Mc 3,4). Ossia: quando è lecito fare il bene? Dovremmo poter rispondere: sempre.
  2. Il secondo, è riconoscere chi è all’opera e chi testimoniamo: “E cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato…” (At 4,9-10).

Questo è il punto più alto del Consiglio: poter dire “in nessun altro c’è salvezza” (At 4,12),

non perché lo abbiamo sentito dire o imparato da altri, ma perché lo abbiamo sperimentato noi, perché siamo diventati amici di Gesù, siamo stati conquistati dal suo amore e abbiamo scoperto che non significa mettere le sorti della vita in mano altrui, ma vivere in modo da essere felice amando.

Don Davide




Intelletto

Nell’elenco indicato dal profeta Isaia, che è divenuto l’ordine tradizionale con cui si ricordano i sette doni dello Spirito Santo, il secondo è l’intelligenza o intelletto (cf. Is 11,).

L’evangelista Luca, l’autore sia del Vangelo che degli Atti degli Apostoli, per due volte tratta dell’intelletto nella liturgia odierna.

A proposito della condanna di Gesù, l’apostolo Pietro dice ai capi del suo popolo: “Io so che voi avete agito per ignoranza”; invece il racconto evangelico afferma che il Risorto “aprì ai suoi discepoli la mente per comprendere le scritture” (la traduzione precedente diceva: “aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture”.

Nel linguaggio comune si parla di diversi tipi di intelligenza:

ad esempio l’intelligenza emotiva, o un’intelligenza matematica. Per capire il significato dell’intelletto, dobbiamo pensarlo come l’aiuto dello Spirito Santo per comprendere Gesù e il suo mistero.

Si tratta di mettere insieme tutti gli indizi su di lui, come dei Sherlock Holmes della fede, attraverso tutti i nostri sensi, compresi quelli spirituali ed emotivi, per giungere a dire: “Gesù è vivo, il Signore è veramente risorto!”.

Di conseguenza,

il dono dell’intelletto ci fa vivere sempre nella luce della resurrezione:

plasma il nostro percepire a partire dalle tracce della vita di Dio nel mondo, e ci aiuta a vivere non nelle tenebre del sepolcro, ma nella gratitudine per l’esistenza.

Don Davide




Sapienza

Il primo dei sette doni dello Spirito Santo

Sette domeniche ci accompagnano dalla Pasqua alla Pentecoste. Ho scritto sul sito internet della parrocchia che, nella vita spirituale, questo è il tempo più importante dell’anno, anche se nella formazione cristiana siamo stati abituati a impegnarci particolarmente nella Quaresima. Invece è in questo periodo che la fede cristiana viene illuminata nella sua verità: “Nessun vantaggio per noi essere nati, se Cristo non ci avesse redenti” è scritto nell’Annuncio Pasquale, il grande inno che apre la Veglia Pasquale.

Nell’itinerario di questo periodo approfondiamo la verità della resurrezione, che dà senso al dono della vita di Gesù e nostra, e che sigilla la bontà del Vangelo. Dalla resurrezione di Gesù deriva poi il dono dello Spirito, che anima la vita della Chiesa e la rende testimone efficace del Risorto.

Per questo motivo ho scelto di dedicare le prossime sette domeniche a un percorso di catechesi pasquale, in preparazione alla Pentecoste, attraverso i sette doni dello Spirito Santo. Le domeniche del tempo di Pasqua non sono scandite dall’ordine dei suddetti doni, ma scopriremo che ci sono molti contatti e molte luci che possono derivare da questi collegamenti, che ci aiuteranno a fare un vero percorso spirituale e anche a cogliere, con inedita ricchezza, qualche particolare del Vangelo e degli appuntamenti che vivremo in queste settimane (ad es. i sacramenti del catechismo, la visita della B.V. di S. Luca).

Iniziamo, dunque dal dono della Sapienza che è il primo dei doni dello Spirito, e va a braccetto con l’ultimo: il Timor di Dio.

“Principio della sapienza è il timore del Signore” recita la massima sapienziale più importante di tutta la Bibbia. Il primo e l’ultimo, l’ultimo e il primo dei Sette (guarda caso, il numero perfetto!): la Domenica in Albis – giorno splendente della Pasqua dei neofiti – e la Domenica di Pentecoste – giorno splendente della neofita Chiesa – che annuncia il Cristo senza alcuna paura (il Timore, lo scopriremo, è molto diverso dalla paura!).

Viene in mente l’immagine del serpente che si mangia la coda, antico simbolo dell’Eterno Ritorno, ma qui c’è una differenza sostanziale: Sapienza e Timor di Dio, Pasqua e Pentecoste, non si richiamano in un cerchio chiuso in se stesso, ma piuttosto in un movimento a spirale, dove il cerchio è sempre aperto, sempre un po’ più grande e spinge sempre in alto come un vortice di bene, verso nuovi orizzonti e a un’esplorazione infinita.

Così il dono della Sapienza, a braccetto con il Timor di Dio, ci aiuta a comprendere, nella luce della Pasqua, il nuovo ordine di Dio,

dove la resurrezione sblocca ogni cosa fissa e perduta portando vita, dove il ladro pentito viene accolto nel Regno dei Cieli, la morte è sconfitta dall’amore, la violenza è riscattata dal perdono, i disperati vengono persuasi della speranza, gli sfiduciati della fiducia, ai poveri è annunciata la buona novella e il nostro intimo si apre alla vita spirituale.

La Sapienza viene donata a noi quando abbiamo rispetto dell’opera di Dio e ci accostiamo ad essa con umiltà e fiducia: “Ecco l’opera di Dio: una meraviglia ai nostri occhi!”, esclama un salmo (117,23).

Non basta vedere fisicamente, si tratta di guardare con gli occhi del cuore e dell’amore. Esattamente come è accaduto ai discepoli, che vedevano Gesù risorto e non lo riconoscevano, poi quando cominciavano a guardare con gli occhi del cuore, tutto diventava chiaro.

La Sapienza, dunque, è il dono dello Spirito Santo che ci fa vedere con uno sguardo penetrante la vita risorta nella vita vecchia del mondo.

È il dono che ci rassicura che l’ordine nuovo è quello della resurrezione, e anche se ci sembra che non ci siano pace, amore e armonia, in realtà esse ci sono, sono state seminate nel cuore di chi crede nella resurrezione, e sono destinate a crescere, e – come in un vortice di bene – ad avvolgere tutto.

Don Davide




Omelia Veglia di Pasqua

In questi giorni, la liturgia del Triduo ci ha fatto meditare sul dono della comunità e sulla grazia della verità. 

C’è un terzo dono che ci porta la celebrazione della Veglia Pasquale: il dono della vita. 

Tutti noi siamo qui a celebrare la Pasqua, perché osiamo sperare nella resurrezione. 

Da questo punto di vista siamo più audaci delle donne, che vanno al sepolcro con la sola speranza che qualcuno ne apra l’ingresso, per ungere il cadavere di Gesù. 

Loro non riescono nemmeno a immaginare che Gesù sia risorto, noi invece siamo qui per essere confermati in questa fiducia. 

Non si tratta di crearci una nostra consolazione dai mali del mondo e dalla paura della morte.  

Non vogliamo illuderci e non siamo illusi. 

La resurrezione non è una cosa che ci siamo inventati noi. 

C’è un segnale indicatore molto forte: una pietra rotolata sulla sua guida. 

Ci sono delle pietre che rotolano dal sepolcro.  

Io l’ho visto quest’anno, preparando i 21 catecumeni adulti che hanno chiesto il Battesimo, con le loro testimonianze. Lo sperimento tutte le volte che vado ad accompagnare il weekend di Retrouvaille, quando confesso, quando vedo la grazia sconfiggere il peccato. Lo sento quando l’amore si spande nel mondo come un profumo intenso o quando la gentilezza e la gratuità rischiarano l’ombra di tante difficoltà. 

Ma questo non basta. Rotolare via la pietra è solo il primo passo. 

Poi bisogna vivere. Ritornare sui passi di Gesù, perché ci istruisca di nuovo nel vangelo. Sì, perché il Vangelo noi non lo impariamo in un raro momento di slancio spirituale, ma lo apprendiamo nella vita quotidiana, nella vita di tutti i giorni. 

In realtà, siamo immersi nel Vangelo e nell’amore di Dio, che ne è come il condensato concreto, anche se spesso siamo distratti e non lo vediamo, oppure lo diamo per scontato. 

Ieri abbiamo ascoltato alla fine del racconto della Passione questa affermazione: “Chi ha visto ne dà testimonianza” (Gv 19,35). Permettetemi perciò di applicare un metodo della spiritualità ebraica ai testi che abbiamo ascoltato, e di raccogliere in un piccolo midrash – uno scenario interpretativo – la testimonianza di tre “testimoni oculari” della vita: l’angelo dell’accampamento, la pietra del sepolcro, il giovane. 

L’angelo 

Io ho ricevuto il comando per la strategia di battaglia dal generale degli eserciti celesti. Mi sono mosso per bloccare l’esercito degli Egiziani. Non pensate alla guerra con la vostra sensibilità, io ho compiuto un’azione per separare gli oppressi dagli oppressori, per ostacolare chi fa il male e favorire le vittime. In questo io sono testimone della vita: che il Dio delle schiere schiera la sua forza perché ci sia un argine a tutti gli eserciti della morte. Purtroppo non è una cosa da prendere alla leggera. È una vera battaglia e io la combatto perché gli eserciti delle guerre sprofondino nel caos e risulti salva la vita dei popoli.  

La pietra 

Il mondo che conoscevo è andato sottosopra, quando ho sentito qualcosa che mi spingeva. Non era la solita forza di un uomo o di una leva. Questa volta era lieve, come se io fossi una piuma. Non ho potuto vedere quel che accadeva, ma so che di solito la luce entra attraverso la porta quando è aperta, invece in quel momento uscì. Fu un’eclissi al contrario. Sentii aria fresca che mi accarezzava, come se non avessi più dovuto accogliere la morte. In questo io sono testimone della vita: che ci sono forze, spesso lievi, come la fiducia o una carezza, che muovono macigni bloccati e che nessuna presenza mortifera è autorizzata ad avvelenare il mondo. 

Il giovane 

Non so come io sia arrivato qui, ma so perché ora mi ritrovo qui. Fuori dal tempo e dallo spazio, ero seduto con il capo di Gesù sulle gambe. L’ho accarezzato, come una madre col suo bambino, fino a che ha aperto gli occhi e ha ricominciato a respirare. Il suo sguardo e il soffio della sua vita hanno rinvigorito il mio corpo e reso i miei lineamenti distesi e morbidi. In questo io sono testimone della vita: prima di uscire lui mi ha ringraziato. “Vado a ricominciare tutto” ha detto, “perché tutto possa ricominciare, in tutte le vite. Per questo tu sarai sempre giovane, perché è l’età in cui si inizia”. 

Rendo, allora, anch’io la mia semplice testimonianza al Vangelo e, con esso, alla Vita. 

L’incontro con il Vangelo e il dono della vita mi fanno provare un intenso sentimento di gratitudine e un’emozione fiduciosa di affidamento e di responsabilità. 

Per me, se la vita fosse una sinfonia, sarebbe qualcosa di armonioso, risolto e disteso, con degli intermezzi in maggiore e delle strofe dissonanti, che trasmettono energia e sorpresa. Se fosse musica contemporanea, sarebbe un misto di tutti i generi, dal pop al rock peso, con le barre rap, degli stacchi acustici e indi, e delle improvvisazioni di jazz. 

Se fosse un paesaggio, sarebbe forse un panorama di montagna, con i suoi contrasti tra il verde dei boschi e le rocce maestose, e il cielo che ammanta di pace una valle; oppure il sorgere del sole all’alba, sul mare. 

Nelle persone, per me la vita si esprime nel sorriso dei ragazzi e delle ragazze, nell’affetto di un bimbo, nella premura di una mamma, nella tenerezza di un papà, nella complicità di due sposi e nell’affabilità degli anziani. 

Alla vita penso quando vedo l’albero in fiore di fronte alla mia finestra, in mezzo a tanto cemento, quando una giovane mi racconta che va a fare volontariato, quando scopro che i legami creati sono variopinti e ricchi, e si rigenerano nel tempo come gli alberi a primavera. 

La vita mi insegna il vangelo quando le persone fanno dei sacrifici per amore, dove ci sono le pazienze, la resilienza, la tenacia di non disperarsi e di affidarsi alla provvidenza. 

Il vangelo mi insegna la vita dove c’è impegno per la giustizia, costruzione della pace, cura delle ferite, perdono, superamento tenace di tutte le discriminazioni. 

(Pausa) 

Io ho proposto un piccolo esempio, a servizio della liturgia. Ma tutti dobbiamo chiederci: come rendo testimonianza al Vangelo della Resurrezione? Credo che la cosa più importante sia non cercare lontano. Forse, un giorno, il Signore ci condurrà lontano, ma per adesso si tratta di prendere consapevolezza che siamo già qui, ora, immersi nella Vita.   

 Don Davide




Omelia Venerdì Santo

Nella prima scena di questo racconto, si fronteggiano Gesù e Giuda. Sono amici, anche se Giuda non è rimasto nel cenacolo fino ad ascoltare le parole di Gesù: “Non vi chiamo più servi, ma amici”. Gesù lo aveva voluto personalmente tra quegli amici che erano destinati per primi a conoscere l’amore di Dio per il mondo, gli aveva lavato i piedi e gli aveva offerto il suo affetto, perché si allontanasse dal suo proposito e si affidasse all’amore. 

Ma, nel momento in cui aveva accolto quel boccone e aveva deciso di andarsene, Giuda era sprofondato nella notte, in balia di Satana. 

Il loro incontro al Getsemani è impressionante. È un posto che Giuda conosce, perché era un luogo di preghiera condiviso. Com’è possibile che si sia tramutato in uno spazio di lacerazione così profonda? 

Gesù è lì con i discepoli. Giuda arriva con il suo seguito. Non è un assalto, ma uno schieramento di due fronti opposti: Gesù davanti ai suoi, Giuda con i soldati e le guardie. 

Dallo scambio che segue, pare che Giuda non riconosca Gesù: Gesù è lì davanti ai suoi occhi, con tutta la loro storia condivisa e chiede: “Chi cercate?” e Giuda parla di lui in terza persona: “Gesù il Nazareno”. 

Come è stato lo scambio di sguardi tra Giuda e Gesù? 

La passione degli uomini e delle donne inizia quando uno non riconosce più l’altro, con il quale ha condiviso una storia insieme e una speranza di bene per il futuro. 

Le croci del mondo cominciano ad essere piantate quando in una coppia che ha deciso un progetto di vita insieme non ci si riconosce più, si diventa avversari e nemici; quando due popoli che parlano una lingua simile come i russi e gli ucraini, o che vivono da decenni nella stessa terra come gli ebrei e i palestinesi, cominciano vedere nell’altro nient’altro che un nemico; quando un essere umano non riconosce più un essere umano, con la stessa dignità e lo stesso bisogno di essere rispettato e amato; quando fra amici si litiga e non ci si riconcilia più, dimenticando tutto ciò che di bene c’è stato. 

Si tratta di non riconoscere la verità sulla nostra vita, sugli incontri che abbiamo fatto e le relazioni che abbiamo costruito. 

Che cos’è la verità? Chiede Pilato a Gesù, ma poi non si ferma ad ascoltare la risposta.  

Che cos’è la verità? È una domanda che sta letteralmente al centro di questo racconto e avrebbe potuto segnare una svolta. Pilato sa che Gesù è senza colpa. Per tre volte lo dice di fronte agli accusatori e per altrettante volte cerca di liberare Gesù, ma alla fine volta lo sguardo dall’altra parte.  

Questo accecamento di fronte alla verità delle cose stordisce tutti quelli che hanno a che fare con Gesù e non si lasciano illuminare dalla luce che potrebbe riportali a se stessi:  

  • Pietro, che nega platealmente di conoscerlo; 
  • i suoi accusatori, che possono voler uccidere ingiustamente un uomo con il consenso dell’Impero, ma non si vogliono contaminare calpestando il cortile del governatore; 
  • i capi dei sacerdoti – la classe dirigente, il governo del popolo – che proclamano di avere come unico re l’Imperatore di Roma. Questa affermazione è un tale infarto teologico, che tutte le Scritture di Israele potrebbero bruciare al sentirla. 

Tutte le croci e la passione del mondo sono simboleggiate nella passione e croce di Gesù, proprio in questo stare di fronte alla realtà, riconoscere la verità… e fare finta di niente. È una obliterazione totale della coscienza e del senso della propria esistenza. 

Di fronte a questo scenario Gesù svela a sua madre e al discepolo la verità della loro esistenza, così che lo stesso discepolo possa finalmente dare testimonianza della verità. 

Qual è, dunque, la nostra verità? È generare ed essere generati. È essere madre e figli e riconoscere la Chiesa, madre e discepola, come lo spazio di comunione dove possiamo rispondere alla nostra vocazione.  

Credo che sia importantissimo sentire questo dovere di generare, ma allo stesso tempo di lasciarsi generare; di proporre un esempio e di lasciarsi educare; di insegnare e di apprendere; di guidare e farsi condurre; di trasmettere vita e accettare che la vita si riceve sempre in dono dagli altri. 

È così che ogni discepolo rende una testimonianza vera dell’amore di Gesù e della rivelazione di Dio. In tutta quella confusione e allontanamento dalla verità di se stessi, il cuore aperto del Crocifisso ci riporta alla possibilità di affermare che questa è la verità, non un’altra: l’amore incondizionato di Dio riversato senza misura su ogni uomo e su ogni donna. 

Fra poco faremo il rito dell’adorazione e, per chi vuole, del bacio della croce. Al termine della processione e del canto vorrei poi lasciare uno momento di silenzio per stare davanti alla croce e chiedere al Signore di aiutarci a fare verità in stessi. 

Che Gesù possa illuminare i nostri sentimenti, rischiarare i pensieri, aiutarci a riconoscere chi siamo, cosa abbiamo costruito, quali sono i nostri desideri profondi. 

Che la sua croce ci aiuti a riconoscere le nostre paure e ad affrontarle, e ad apprezzare il senso della nostra vita e la nostra vocazione. 

Non basteranno questi pochi minuti, ma potrebbero essere un inizio verso un contatto sempre più vero con noi stessi 

C’è un’ultima verità, da scoprire. Gesù viene deposto in un giardino, in una tomba in cui nessuno era stato ancora deposto. Una tomba nuova, che non aveva ancora conosciuto la morte.  

Il giardino richiama il dono della Creazione. Gesù viene deposto in un giardino, in una tomba vergine che rispedirà la morte al mittente, perché sia chiaro a tutti che, in verità, non c’è proprio più posto per la morte in questo giardino. 

Don Davide