Più del Nanga Parabat

Prima parte

L’Ascensione di Gesù evoca una salita al cielo lieve, eterea, senza fatica, mistica. Ma il termine è anche lo stesso delle grandi imprese alpinistiche: l’ascensione all’Everest, al K2, al meno alto ma più terribile Nanga Parbat.

Questo secondo tipo di ascensione richiede preparazione, ritmo e costanza, è sempre lunga e faticosa.

Voglio leggere il mistero dell’Ascensione insieme a quello della Pentecoste, in una inedita meditazione in due puntate:

  1. L’Ascensione, che comprende l’allenamento, la fatica e la gioia di avere raggiunto la cima.
  2. La Pentecoste, che riguarda la seconda parte: il riposo in vetta, il ritorno, il racconto dell’impresa.

Organizzare la propria vita come se fosse una grande impresa alpinistica.

Questo significa ascendere con Gesù, essere quindi resi partecipi della pienezza della gioia pasquale nello Spirito Santo: non verso meravigliose cime montuose, ma puntando alle vette dell’esistenza.

È questo il vero significato, anche nella tradizione spirituale cristiana, della parola “ascesi”.

Allenarsi

Significa rafforzarsi nella vita: abituarsi a sostenere e ad affrontare le difficoltà, non fermarsi appena viene il fiatone, non rinunciare allo sforzo quando fanno male le gambe, esercitare la propria forza di volontà. È desueto questo stile, ma rimane importante se uno vuole “ascendere”.

Altrimenti si può decidere di rimanere alla malga a farsi uno Spritz, perché una Radler sarebbe già cosa troppo da montanari.

Allenarsi significa anche diventare un po’ più leggeri, tonificare i muscoli che sprigionano energia e eliminare i grassi che ci appesantiscono. Fuori di metafora, penso al nutrimento sano: la vita spirituale, le letture, la formazione personale, la preghiera, le buone relazioni: in una parola, le virtù. Al contrario, ci sono la pigrizia, la mancanza di cura di sé e degli altri, la tv spazzatura: ossia l’accidia.

Infine, allenarsi significa selezionare cosa portarsi nello zaino, che non può essere troppo pesante: che cosa ci fa da zavorra, che cos’è essenziale? Mi pare che tra le cose essenziali ci siano l’amore e la dedizione per la famiglia, la condivisione con una comunità di appartenenza, l’impegno onesto, leale e qualificato nel proprio lavoro. Ognuno, invece, deve essere attento a individuare le proprie zavorre.

Fatica

La fatica è un tratto inevitabile di ogni ascensione che si rispetti. Anche gli atleti più allenati, anche quelli che appaiono invincibili nel loro sport, quando compiono un’impresa mettono in campo uno sforzo ineguagliabile, che appunto hanno imparato a sostenere.

Nella parabola della casa sulla roccia, Gesù non dice che questa casa, a differenza dell’altra, non va incontro alla tempesta. Dice che la tempesta arriva comunque, ma la casa con buone fondamenta l’affronta e rimane salda.

La fatica c’è, nella vita di ciascuno. Molti preferiscono tenerla nascosta, invece sarebbe più importante condividerla con qualche persona amica, fidata e cara.

Ci si aiuterebbe. La cosa più importante è non scoraggiarsi, e non pensare che la fatica sia segno di qualcosa di sbagliato: è come reagiamo alla fatica che definisce se siamo nel giusto o nell’errore.

Vetta

Quello che vorrei trasmettere, soprattutto ai ragazzi e ai giovani (ammesso che ci sia qualcuno che legge, nel caso… fateci contenti: date un cenno!), è che per godere le vette il cammino della vita va preparato e strutturato.

Oltre alla scuola e alla cultura, che già è una cosa importantissima, bisogna a tutti i costi acquisire delle competenze emotive, relazionali e spirituali. È bella la spensieratezza, il divertimento, la gioia della giovane età.

Insieme a queste cose stupende, bisogna avere cura di preparare l’appuntamento con le cime.

Ricordo la gita più bella che ho fatto: l’anello alle Tre Cime di Lavaredo, dalla Val Fiscalina. Ho chiesto qualche consiglio e ho studiato le mappe. Poi sono partito presto. Vi dirò, che i panorami delle prime luci sono per me ancora indimenticabili. Per questo vi consiglio di partire “presto”. Ci sono momenti di vera estasi, come l’alba sulla Croda dei Toni. Poi mi sono goduto momenti di svago e di relax: una magnifica colazione con una mezza Sacher senza sensi di colpa.

Dopo, anche qualche momento in cui la salita è spianata; una volta arrivato in quota, addirittura qualche passaggio in cui ho mosso i passi in discesa e poi… la sorpresa.

Può capitare che ti accorgi che sei arrivato in vetta quasi all’improvviso, nonostante la metà sia maestosa e impareggiabile come le Tre Cime di Lavaredo, non nel senso che hai finito il percorso, o hai raggiunto il massimo dei traguardi, ma la tua ascensione ti sperimenta una tappa di inedita meraviglia.

Tutto quello che hai fatto fino a quel momento, ne è valsa la pena.

Il percorso non è finito. Ma questa è un’altra storia…

Nella prossima puntata: la Pentecoste! Non perdetevela!

Don Davide




Rebecca e l’Ascensione

In settimana sono passato davanti a un bar alle 18 dove un gruppo di giovani stava facendo aperitivo. Sembravano minorenni, ma questo non coincideva con lo spritz che ciascuno aveva davanti a sé, e parevano sereni e senza tipizzazioni eccessive. Nell’istante di passargli accanto ho intercettato l’unica ragazza presente che diceva: “Cioè, il giorno del tuo compleanno devi bere fino a ubriacarti, questo è fisso. Poi se sei da sola o in compagnia non fa differenza…”

Chiameremo questa ragazza Rebecca.

Io stavo pensando a cosa avrei potuto scrivere per questa Domenica dell’Ascensione e mi sono chiesto: perché Rebecca pensa che ci sia gusto a ubriacarsi, magari anche da sola? Oppure: che cosa cerca, o viceversa, che cosa vuole nascondere?

Non voglio fare il paternalista, ma non posso fare a mano di ritenere che sia un pensiero non elevato. Non voglio giudicare, sto solo raccontando quello che ho ascoltato e la mia reazione emotiva e mi chiedo: come possiamo fare ad “elevare” la nostra vita?

Gesù che “sale” al cielo è una specie di metafora: il messaggio è che Gesù trascende questo mondo, attratto dall’amore del Padre e trasformato dallo Spirito Santo.

Con tutta la sua umanità, Gesù porta la nostra umanità nel regno di Dio. Questo avvenimento è certamente una grazia e un dono di Dio, ma non per questo deve farci stare con le mani in mano o imbambolati a “guardare il cielo” (cf. At 1,11)… Tutto ciò che Gesù ha compiuto, con la sua umanità, è per darci il potere di realizzarlo nella nostra.

Infatti, il mandato Signore ai discepoli è di compiere le sue opere prodigiose attraverso la fede e di farne “di più grandi” (Gv 14,12).

Sta a noi, dunque, accogliere questo dono ed elevarci.

Henry David Thoreau scrisse: “Non conosco nessun fatto più incoraggiante che l’indubbia abilità degli esseri umani ad elevare la propria vita attraverso un impegno consapevole”.

Scrivevo, prima, che Gesù si è elevato nel mondo di Dio, nel reame del divino, per elevarci verso di lui. Elevarsi, per elevare: questo è anche il nostro compito.

Ci sono quattro regni interiori che possiamo elevare: il regno spirituale, il regno dell’anima, il regno corporeo e il regno della nostra mente.

Siamo chiamati ad elevare questi regni interiori con un impegno consapevole. L’amore del Padre ci chiama e ci sospinge, lo Spirito non ci abbandonerà in questo proposito.

Allora, cara Rebecca,

senza biasimo né giudizio, ti auguro di potere fuggire dalla tentazione di trangugiare il vino per stordirti, ma di imparare a gustare la bellezza di riconoscerne i profumi, di rimanere incantata dai riflessi del suo colore rubino, ambrato, rosa o giallo paglierino e di sapere distinguere al primo sorso un Franciacorta da un Valdobbiadene.

Sarei felice se potrai brindare in compagnia, mentre festeggi la tua Maturità o la tua Laurea, o sorseggiarlo nel tuo posto preferito in compagnia della persona che deciderai di amare; e – se ti troverai a bere un calice da sola – spero che tu voglia farlo con un bel libro, ascoltando la tua musica preferita, o semplicemente apprezzando il silenzio e ammirando il panorama che prediligi.

Tutto ciò che vuoi, cara Rebecca, purché ti elevi e non ti abbassi.

Don Davide




L’Ascensione

L’ASCENSIONE

Di: Don Tonino Lasconi

 Gesù, lasciando la terra, ha consegnato a noi il compito non soltanto di vivere il suo Vangelo, ma di predicarlo e farlo conoscere con i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre azioni.

“Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto”.

È la chiusura del vangelo di Marco che ci viene proclamata nella Solennità dell’Ascensione. Gesù, prima di lasciare la terra, saluta gli Undici (non c’è Giuda e non c’è ancora il suo sostituto: Mattia), che ci rappresentano tutti e nei quali tutti dobbiamo ritrovarci. Bellissima questa immagine! Gesù chiude la sua esperienza terrena salendo al cielo, cioè rientrando nella sua dimensione divina, e i suoi discepoli partono a portare il vangelo dappertutto. Accadde proprio così e in pochissimo tempo – cosa che gli storici non riescono a spiegare – l’annuncio del Vangelo giunse oltre i confini dell’impero romano.

Quello che accadde “in quel tempo” è ciò che dovrebbe accadere “nel nostro tempo”.

«Ma come può accadere? Noi non stiamo sul monte dell’Ascensione!».
Ogni volta che lasciamo l’incontro con il Signore Gesù, prima di tutto nella Messa dove l’incontro è “reale e fisico”, ma anche negli altri sacramenti, nella preghiera, nonché nelle opere di carità, dovremmo partire e predicare dappertutto, cioè dovunque ci troviamo a vivere e a operare: la famiglia, il lavoro, gli amici… Partire significa passare dall’incontro con il Signore all’incontro con i fratelli. Predicare non vuol dire andare in giro a fare prediche, ma far conoscere attraverso i nostri pensieri, le parole, le azioni il messaggio e la logica del vangelo.

Accade questo?

Certamente! Non mancano mai persone di ogni età e condizione che, mosse dallo Spirito, vivono la fede in modo “missionario”. Però succede troppo poco, perché la fede non viene vissuta come un “mandato missionario”, come una consegna per far conoscere Gesù, ma come un dovere personale da assolvere, offrendo al Signore la Messa, la preghiera, l’opera di carità. In questo modo, la fede viene concepita e vissuta come “spazio ricavato”, spesso frettolosamente e senza gioia, tra attività per le quali il vangelo non è luce ed energia per i pensieri, le parole, le azioni. È praticamente un debito da saldare, non un compito da svolgere. Così dall’incontro con il Signore torniamo a fare quello che abbiamo fatto sempre, e come lo abbiamo sempre fatto.

È necessario tornare al monte dell’Ascensione.

Questa è la grande conversione riscoperta e rilanciata dal Concilio Vaticano II e da numerosi documenti dei Vescovi di tutto il mondo, in primis italiani, che però fa una grande fatica a realizzarsi e ad affermarsi. La Chiesa Italiana, le Diocesi, le Parrocchie devono trasformarsi da luoghi in cui si va a “regolare i propri debiti” con il Signore a “luoghi di incontro” con il Signore, che possano rifornire di nuova energia i doni che lo Spirito ha dato a ciascuno, come ci ricorda San Paolo: «… egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo».

«Ma in quel tempo il Signore “agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano”, nel nostro tempo invece…»
Oggi agisce allo stesso modo anche con noi se andiamo predicare, come conferma la testimonianza di tanti cristiani che, vivendo la fede così, realizzano cose che a noi sembrano impossibili. Gesù, infatti, “seduto alla destra di Dio”, asceso al cielo e tornato nella sua dimensione divina, può essere accanto a noi dovunque e sempre, mantenendo fede alla sua promessa: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).




Ascensione. Essere in Cristo

Caro don Valeriano,

sarebbe giusto che questa lettera aperta, in un’occasione così speciale, fosse indirizzata a te, invece voglio dedicarla alla nostra comunità.

Se non mi sbaglio, secondo le regole della grammatica, nostra è un pronome possessivo, ma in questo caso non indica alcun possesso, bensì appartenenza. È la nostra comunità, nel senso che ne facciamo parte, che le apparteniamo, e come preti prestiamo in essa e per essa il nostro servizio.

È profondamente appagante sentire questo “nostra” così vero: in questi giorni mi ha fatto pensare che – al di là di quello che si vede o delle nostre valutazioni pastorali (spesso dettate da un giudizio solo umano e poco capace di riconoscere il corso segreto degli affetti) – in cinquant’anni tanti semi piantati con larghezza portano frutto e crescono. Quello che si raccoglie magari non sono i grandi successi pastorali, o i modelli di una chiesa trionfante, ma la qualità delle relazioni e la consapevolezza del valore di legami umani e spirituali tessuti nel corso di una vita.

È la meravigliosa realtà che Paolo descrive con l’essere in Cristo, ossia quel vincolo di comunione che costituisce la comunità, ben al di là dei legami visibili e ne fa una cellula del Regno di Dio.

Allora riprendo questo testo da capo e ricomincio così:

Cara Comunità,

non so davvero come ringraziarti per l’impegno di questi giorni, e in generale in questo maggio di fuoco.

Come parroco, alcune volte ho lo scrupolo di chiedere troppo. Poi vedo tanto entusiasmo, così tanta disponibilità e provo semplicemente a godermi questo fiume di gratuità che scorre e sana, e disinfetta la vita.

Sapete, alcune volte mi capita ancora di parlare del “parroco” e di pensare a don Valeriano. Non penso che sia mancanza di responsabilità o velleità di sfuggire al mio ruolo, ma solo l’esperienza affettuosa di sentire una presenza affidabile che mi fa compagnia.

Guardando la passione e la partecipazione di questi giorni penso che succeda lo stesso anche a voi e ne sono felice.

Nel riconoscere questi cinquant’anni di dedizione alla chiesa di don Valeriano, io penso anche a ciascuno di voi: ai ragazzi che fanno gli esami, a quelli che hanno assunto i primi incarichi nella nostra comunità, a quelli che hanno compiuto diciott’anni, a chi inizia l’università e a chi la finisce, a chi inizia o cambia il lavoro, a chi si fidanza, chi sceglie di sposarsi, chi vive giorno dopo giorno la sua fedeltà, chi cambia la vita perché sono arrivati dei figli, chi festeggia gli anniversari, o la pensione o, più semplicemente, il raggiungimento di qualsiasi obiettivo, o l’adempimento di un impegno.

Penso ad ogni traguardo, insomma, piccolo o grande, della vita o di questo tempo presente, con la consapevolezza che sono tutti  rispecchiati in quello di don Valeriano e nella grande partecipazione della nostra comunità.

Don Davide




Corpi celesti e corpi terrestri

Oggi, domenica dell’Ascensione, in parrocchia celebriamo il primo turno delle Prime Comunioni. È una coincidenza istruttiva, che unisce il corpo di Gesù che sale al cielo – con la micidiale domanda che pongono tutti i bimbi: “Ma quindi Gesù dov’è adesso? E se è salito al cielo, non cade?!” – e il segno concretissimo della Comunione, cioè di mangiare insieme, ad un’unica tavola, un pane che è in realtà il Corpo di Cristo.

C’è quindi il corpo glorioso di Gesù – che sfida tutte le leggi della fisica – che porta la nostra umanità concreta nella realtà di Dio; e poi ci sono i bimbi con le loro facciotte buffe, i loro sorrisi emozionati e i vestitini eleganti, che sono testimoni del venire di Dio nella realtà umana.

Oggi, quei bimbi sono per tutti – anche per chi celebrerà le altre messe – il segno tenerissimo di Dio che si fa vicino a ciascuno di noi per incontrarci, e che non si formalizza se noi siamo grandi o piccoli, famosi o gente comune, bravi o un po’ più “scapatizzi”.

Quindi ci impegniamo tutti a “fare la Comunione”, nel senso di essere vicini a loro con il nostro esempio, e di essere amici fra noi, di volerci bene, per dimostrare a questi ragazzi che quando Dio passa in mezzo a noi, crea qualcosa di nuovo e di buono, anche nel nostro modo di stare insieme.

La coincidenza tra la festa dell’Ascensione e le Prime Comunioni ci aiuta così a ricordare e celebrare il legame tra la dimensione spirituale della nostra vita e quella concreta: non c’è spiritualità che non plasmi i nostri atteggiamenti, non c’è fede che non si traduca in vita, non c’è amore che non si esprima in gesti concreti. Lo spirito e il corpo vanno sempre insieme, perciò facciamo il proposito, in questo giorno di festa, di rendere “pronto” anche il nostro spirito, e di aiutare questi piccoli, nella loro esistenza, a rendere bella la loro anima, così come oggi sono bellissimi nei loro vestitini e col loro sorriso.

Don Davide