L’abito nuziale

Se tutti desideriamo il bene, perché non l’accogliamo?

La domanda mi sorge così, ma poi mi accorgo che non è posta bene. In tanti l’accolgono, e sono grati di ogni segnale di bene sulla strada. Ma molti, invece, no.

C’è un’inclinazione ingannevole nell’uomo a desiderare il bene che si vorrebbe e a fare ciò che ce ne allontana.

Perché?

Rimane uno dei misteri più difficili dell’esistenza.

Io credo che sia la questione dell’abito nuziale.

Nella parabola di Gesù, la reazione del padrone è del tutto spropositata. Prima chiama la gente dai crocicchi, poi va in escandescenze per un uomo che non ha il vestito adatto.

È evidente che qui Gesù vuole attirare la nostra attenzione.

Che cos’è questo abito nuziale? È qualcosa che si prepara.

Quando dobbiamo andare a un matrimonio controlliamo se abbiamo qualcosa da metterci. Anche chi sceglie un registro informale, è sicuro di avere qualcosa da indossare di conveniente. Altrimenti lo prepariamo, o lo andiamo a comprare.

L’essenza del bene sfugge a tutti, perciò è una conquista che va preparata. Più precisamente, è un dono che bisogna essere disposti da lungo tempo ad accogliere, come la partita o la gara della vita, che finalmente affronti nella tua condizione atletica migliore.

Nessuno giunge a un appuntamento importante come il matrimonio, improvvisato.

Ogni atleta che stupisce il mondo con un gesto atletico memorabile lo ha lungamente preparato nel nascondimento.

Ogni studioso che raggiunge un traguardo ha speso ore per avvicinarsi a quella conquista.

Questo, purtroppo, vale anche al contrario: quando, ad esempio, si accende una polveriera nel mondo e poi si rimane sgomenti di fronte alla violenza che deflagra.

È per questo motivo che in parrocchia crediamo ancora nel catechismo anche se sembra obsoleto. E per la stessa ragione prepariamo per i bimbi che lo chiedono il doposcuola. Ugualmente curiamo i gruppi degli adolescenti e dedichiamo attenzione ai giovani, e poi a tante famiglie e a tanti amici e amiche della Caritas S. Vincenzo.

Qualcuno potrebbe dire: e gli anziani?

Mi pare che in questo caso gli anziani abbiano più il compito di fungere da saggi, da mentori, da coloro che possono raccontare che un albero buono produce buoni frutti.

Crescere un albero buono non è un gesto unico o un’impresa solitaria. Bisogna avere cura del terreno, ci vuole lo spazio giusto, una collocazione favorevole, il rapporto biologico con le altre piante e il resto della natura circostante, la competenza di potarlo quando necessario, infine, più di ogni altra cosa, ci vuole tempo.

L’abito nuziale è una metafora del tempo.

Può capitare di essere chiamati all’improvviso alla festa del bene: può darsi che sia un invito subitaneo, inedito, del tutto aspettato o immeritato come quello di Matteo, di Zaccheo, la donna samaritana, ma quello che conta è avere preparato il cuore, in recessi magari profondissimi, che solo il Signore conosce.

Penso al ladro sulla croce: una vita di malefatte sfociate in una violenza terribile, probabilmente un omicidio che gli valse la pena di morte, ma forse con quel desiderio di bene e di riscatto che per tutta la sua esistenza non aveva più trovato la strada, fino a quell’ultimo incantevole: “Ricordati di me”. Il ladro – divenuto buono – era sulla croce con l’abito nuziale.

Don Davide




Tutto diverso e piccolo

“Ci sarà un sentiero e un strada” (Is 35,8): di solito si scelgono i tracciati sulle mappe o si percorrono dei tragitti per arrivare a una meta, un luogo. Al termine ci può anche attendere un appuntamento, magari desiderato: l’incontro con un amico o una persona amata.

Oggi certamente la liturgia ci parla di questo itinerario: “ci sarà” (al singolare) un sentiero, inizialmente stretto, forse impervio, che diventerà una strada, prima una mulattiera, poi una strada battuta o addirittura pavimentata, che ci porterà all’incontro con Gesù.

Anche Giovanni Battista, che fra tutti era quello che aveva le idee più chiare, esita. All’inizio è difficile riconoscere in Gesù i segni grandiosi della salvezza di Dio, della redenzione del mondo.

“Sei proprio tu?” (Mt 11,3) chiede Giovanni.

Dopo la chiarezza straripante di domenica scorsa, viene assalito da un dubbio.

Sembra tutto così diverso, e piccolo…

Anche noi ci accingiamo a celebrare il Natale nella solennità della liturgia, con acclamazioni, formule e preghiere debordanti: “È nato il Salvatore!”, “Oggi la pace viene nel mondo!”, “Tutto è permeato di gioia!” poi guardiamo fuori e ci sembra che non sia proprio così. Oltre alla guerra, continuano altre cose brutte, e poi ci sono tanti dolori, solitudini e preoccupazioni, spesso nascoste.

Ma Gesù conferma Giovanni e noi, indicandoci proprio la direzione giusta e invitandoci a percorrere il sentiero corretto che diventerà una strada.

“Guarda”, dice, “guardate!” I segni dell’amore di Dio sono grandiosi e nascosti allo stesso tempo.

Bisogna saperli e volerli vedere. Bisogna allenare lo sguardo!

Quante volte è capitato che Gesù facesse un miracolo sotto gli occhi di tutti e solo in pochissimi lo riconoscessero, mentre gli altri ne facevano motivo di disputa, o addirittura di scandalo! Così è ancora oggi. Bisogna allenare i riflessi giusti, per cogliere la velocità con cui il regno di Dio si manifesta davanti al nostro naso, e poi scompare altrettanto velocemente se trova qualcuno non pronto o disposto a riconoscerlo.

Il Natale è una grande storia di libertà, interpellata e rispettata.

Perciò, allenati! Guarda. Per tutte le orribili guerre che sono in corso e per i regimi che uccidono i ragazzi, ci sono giovani uomini e giovani donne che hanno il coraggio di rivendicare la libertà. A proteggerci dalla violenza, quanti gesti di tenerezza ci sono? Di fronte alla malattia e alla sofferenza, che hanno un potere schiacciante e vanno rispettate con il massimo rigore, quanti gesti e risorse di cura vengono messi in campo?

Il regno di Dio, per farsi spazio, è anche una questione di decisione, di scegliere cosa guardare, come educare i nostri pensieri, dove orientare la nostra attenzione, su quali sentieri e strade percorrere i nostri passi.

Dipende cosa decidi di guardare, e i tuoi occhi saranno luminosi od oscuri.

Dipende cosa decidi di pensare e i tuoi pensieri saranno orientati al bene o malvagi.

Dipende quali percorsi intraprendi e ti troverai in una terra fertile e buona o in un deserto arido e ostile.

Il regno dei cieli è piccolissimo, ma se lo vedi, è più grande di ogni cosa.

Don Davide




Giunga la gratitudine

“Vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?” (Lc 9,54).

Ma Gesù li rimproverò (cf. Lc 9,55).

Quante volte abbiamo avuto la tentazione di entrare in polemica, in nome della giustizia?

Ad esempio, rispetto all’ultima uscita di Fedez, sul tema della castità: è già la seconda volta che Fedez dice una sciocchezza sui social contro la Chiesa/Vaticano, senza sapere ciò di cui parla.

Adesso mi scoccia, perché i tantissimi ragazzi e le tantissime ragazze che conosco e a cui sono affezionato, per me sono delle persone concrete, non dei follower, e io ho condiviso moltissimo delle loro storie. Non mi sono mai permesso di giudicare le loro esperienze, anche sessuali, e con chi ha voluto confidarsi, ho cercato di aiutarli a vivere bene la loro maturazione in questa dimensione della vita.

Non voglio nemmeno entrare nel merito della questione: se a qualcuno interessasse, potrei fare un trattato, ma una cosa la voglio dire: io non mi sognerei mai di incoraggiare qualcuno a cui voglio bene a fare una cosa bella utilizzando un’espressione volgare, che per di più significa: usare sessualmente una persona per il proprio piacere.

Ma Gesù i suoi discepoli addirittura li rimprovera. E io non voglio farmi sgridare da Gesù.

Perciò lascio subito l’agone polemico e volgo lo sguardo altrove.

Mi chiedo come uscire da tale grettezza che ci circonda e genera consenso, e raccolgo dalla liturgia di oggi tre parole:

1)La grandezza

2)La libertà

3)Gesù

C’è la grandezza di chi sa riconoscere i grandi, nel vero senso della parola, come chi fiuta i veri profeti, prima che se ne vadano, e si mette alla loro scuola.

C’è la libertà che ci consegna il Nuovo Testamento, che è la posta in gioco della vita. Noi tendiamo sempre a tornare schiavi di noi stessi, delle nostre paure, delle nostre convenzioni e delle nostre logiche solo mercantili. Mentre la libertà è il grande esercizio per aprirci allo Spirito e giocare su un altro livello.

Infine, c’è Gesù, persona amata e tanto desiderata, che più mi attira a sé, più apre sentieri, sfida la morte e mi fa assaporare il Regno di Dio.

Che cosa sia questo regno di Dio, mi mancano le parole per dirlo. Lo riconosco, però, quando mi sento libero di amare e quando vedo la grandezza dei grandi anche nelle cose piccole, di chi è fedele alla propria responsabilità, di chi è gentile, generoso, buono, altruista.

Quando vedo la grandezza di chi serve; di chi studia per il bene dell’umanità; di chi piega se stesso verso il bene; di chi riconcilia e perdona, di chi educa; di chi fa un passo in più quando potrebbe farne uno in meno.

La riflessione si potrebbe fare lunghissima.

Fiuto che ci sono tantissimi profeti, accanto a me.

Giovani e meno giovani Jedi, che magari non impugnano la spada laser, ma non di meno percorrono le vie della Forza. A tutti costoro, contro ogni grettezza, giunga il grazie della nostra comunità cristiana.

Don Davide

 




Salire di livello (Under 20 testo+video)

Collego l’Ascensione di Gesù al tema vocazionale.

Non alla vocazione nel senso di diventare prete, religioso o religiosa, e neppure penso al sacramento del Matrimonio, ma alla vocazione che riguarda le decisioni nei passaggi importanti della vita dei giovani: tipo la scelta dell’università, o del lavoro, o dove andare a vivere e se sposarsi oppure no.

In questa settimana un’amica mi ha chiesto: “Don, ma come si fa ad essere felici? E come si fa a essere sicuri di fare la scelta giusta?”. Ecco, questo è precisamente il tema vocazionale.

Ascendere significa salire in virtù di una capacità o una forza che si possiede.

La questione è proprio salire di livello nella partita della vita.

È come un videogame: prima giocavi al livello 1, adesso devi sapere che, inevitabilmente, è più difficile, però è anche più bello, la sfida si fa più stimolante, puoi scoprire cose molto più interessanti.

Il problema è che nella vita non hai le vite infinite, o comunque possibilità illimitate di giocare ancora e questo può fare molta paura.

Anche ai discepoli è successo questo. Quando Gesù è asceso, sono anche loro saliti di livello. Cavoli, già si erano presi un bello spavento dopo la sua morte, poi erano stati consolati, ma adesso lui li aveva lasciati di nuovo soli… e, beh l’esperienza dello Spirito Santo che gli avrebbe dato la carica a Pentecoste non l’avevano ancora fatta e… insomma… non deve essere stato per niente facile neanche per loro.

Tra l’Ascensione e la Pentecoste ci sono dieci giorni. Ho molte domande: Cosa hanno fatto in quei dieci giorni? Come hanno vissuto?

Come hanno imparato ad essere felici e come hanno imparato qual era la scelta giusta da fare?

Cosa hanno provato e quali emozioni hanno vissuto?

E che cosa hanno capito dell’esistenza?

Il racconto degli Atti ci dice solo che sono stati insieme, hanno curato la dimensione interiore, e hanno guarito una ferita profonda del passato.

Questa potrebbe essere una risposta. Ma voglio dedicarvi invece una canzone: “Up&Up” dei Coldplay , in modo particolari i versi che dicono: “Sì voglio crescere, / sì voglio sentire, / sì voglio conoscere, / mostrami come guarire. […] Vedi la foresta in ogni seme, / angeli nel marmo in attesa di essere liberati. / Ho solo bisogno d’amore…”

Don Davide




I passi del cammino

Essi lo sanno che lapidare una donna è un atto inconcepibile e sanno che il Maestro non potrebbe mai legittimarlo.

“È giusto?”.

Se dirà di sì: “Vedi, il Maestro legittima una cosa atroce”.

Se dirà di no: “Vedi, il Maestro tradisce Mosè”.

Lo sanno perfettamente anche loro che sarebbe atroce. Ma allora perché lo fanno?

Forse, hanno bisogno di essere liberati.

Sarebbero disposti ad uccidere per le loro prigioni. “Armiamoci di più! Ancora un’altra pietra!”. Non capiscono e non sono in grado di immaginare come fare diversamente.

Ma non c’è nessuna supplica in loro, se non l’ignoranza. “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno.” (Lc 23,34)

La mente è piccolina. La pietra che tengono in mano è il loro cuore.

Da una parte la religione, dall’altra le persone. In cielo Dio, in terra una donna. Come se non potessero stare insieme. Come se fossero dai lati opposti.

Gesù vede tutte le catene, colpevoli e incolpevoli, e scrive: “Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne” (Ez 36,26-27).

Lentamente, si ode lo schianto secco della pietra su pietra e lo spirare del vento, perché si è sciolto il cerchio.

“Eppure vivo” pensa la donna.

“Sì, vivi tu, e adesso anche loro” dice Gesù.

Questo è ciò che accade nel Tempio, nel luogo santo.

Questo è ciò che deve accadere nella Chiesa.

Questi sono i passi del cammino.

Ora è possibile celebrare la Pasqua.

 




La vita in ballo (Under 20)

L’inizio.

C’è qualcosa che ha più fascino degli inizi?

Vi ricordate le vostre prime volte? La prima volta sulla bicicletta, il primo giorno di scuola, la prima volta che avete praticato lo sport che vi appassiona, il primo amore, il primo bacio?

Quando siamo stati chiamati all’esistenza, ci è stato dato un inizio che non avrà più fine: non con le esperienze che si aprono e si chiudono, non con il trascorrere del tempo, non con la morte.

Oggi vi porto a quel tipo di inizio lì: quando qualcuno ti ha comunicato la resurrezione di Gesù (e la tua) o quando tu hai sentito che, nonostante tutte le apparenze e contraddizioni, era vera.

In quel momento una luce è andata a ritroso all’inizio della tua esistenza e ti ha detto: tu esisti.

Prima non c’eri, e adesso sì. Ed è un gran bene che sia così e che questo bene non finisca più.

Non c’è interruzione che possa essere decisiva. “Questa è la fine?” dice il protagonista di uno dei miei libri preferiti, in un dialogo indimenticabile con la ragazza che ama. “No, è l’inizio” risponde lei.

Tu ci sei, la tua esistenza è una stella irreversibile accesa nell’universo. Splendi, a partire dal nucleo per irraggiare all’esterno, per rendere bellissimo e nuovo, con la tua sfumatura, l’eterno.

Don Davide




Un Maestro e gli apprendisti (Under 20)

Spero che le feste di Natale e le vostre vacanze siano andate bene, ma anche se sono state difficili, confido che vi abbiano portato un tesoro di esperienza e che vi abbiano fatto crescere per diventare le persone che volete essere.

Riprendiamo questo appuntamento con la voce dei profeti che consolano e incoraggiano.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha detto parole bellissime per voi.

Per il messaggio di fine anno, che era anche un lascito alla conclusione del suo mandato, è stato come il Maestro Yoda con Luke Skywalker, come Gandalf con Frodo, come Silente con Harry Potter.

Vi riporto per intero la parte che vi ha dedicato.

Sono stupende. Vale proprio dedicare un minuto per avere l’opportunità di leggerle.

“Pensando al futuro della nostra società, mi torna alla mente lo sguardo di tanti giovani che ho incontrato in questi anni. Giovani che si impegnano nel volontariato, giovani che si distinguono negli studi, giovani che amano il proprio lavoro, giovani che – come è necessario – si impegnano nella vita delle istituzioni, giovani che vogliono apprendere e conoscere, giovani che emergono nello sport, giovani che hanno patito a causa di condizioni difficili e che risalgono la china imboccando una strada nuova.

I giovani sono portatori della loro originalità, della loro libertà. Sono diversi da chi li ha preceduti. E chiedono che il testimone non venga negato alle loro mani.

Alle nuove generazioni sento di dover dire: non fermatevi, non scoraggiatevi, prendetevi il vostro futuro perché soltanto così lo donerete alla società.”




Poveri, Vangelo e Gandalf il Bianco (Under 20 testo+video)

Oggi, per la Chiesa, è la Giornata mondiale dei Poveri.

L’ha voluta papa Francesco, cinque anni fa, perché non ci dimenticassimo di quasi tre miliardi di persone che vivono al limite della dignità umana.

“Povertà” è una parola controversa.

Ci fa pensare a un bisogno di giustizia e al desiderio di un mondo migliore, ma qui nella nostra società, abbiamo sempre la tentazione di pensare che chi è povero abbia delle sue responsabilità.

San Francesco piace a tutti, ma nessuno sceglierebbe di essere povero come lui.

Si tende piuttosto ad ammirare i ricchi, e la parola sobrietà ci mette a disagio, ci inquieta.

Eppure, al fondo delle manifestazioni sul clima, che anche in questi giorni si sono svolte a Glasgow e a Roma, e che trovano grande consenso in tutto il mondo giovanile, c’è il tema della povertà. Saranno i più poveri a subire in proporzione gli effetti più disastrosi dei cambiamenti climatici, ma non solo loro!

Celebrare la Giornata mondiale dei Poveri, imparare essere vicini, amici e fratelli dei poveri, significa risvegliare la nostra coscienza, prendere parte ai cavalieri della luce, in una lotta per la giustizia che sembra impossibile vincere, ma non lo è.

Mi è venuta in mente una scena de Il Signore degli Anelli, quando i pochi sopravvissuti guidati da Aragorn e Re Theoden, decidono di uscire dall’assedio del Fosso di Helm, all’alba. È il gesto estremo di chi si oppone con tutte le sue forze al male, rappresentato dagli orchi. In quel momento disperato, Gandalf il Bianco emerge dal monte. Sembra solo, ma con lui c’è un esercito del bene: pieno di giovani e di coraggio.

Il resto ve lo lascio guardare: QUI

Anche perché sono le immagini che mi evocano meglio la descrizione che fa Gesù nel Vangelo di oggi: un intervento clamoroso di Dio con i suoi angeli per ristabilire il bene e la giustizia.

Immaginatevi la scena vista al cinema davanti a uno schermo più grande della nostra chiesa, con la musica a trascinarti dentro a quella cavalcata dove la Luce arriva ancora prima dei suoi testimoni. Ce n’è abbastanza per pensare e per divertirsi.

Don Davide




Cose grandi e umili

Nella liturgia di oggi c’è un tema di leadership cristiana.

Il profeta Ezechiele propone una parabola al termine di una riflessione che offre un confronto serrato fra Dio e tutti gli altri re e imperatori che hanno preteso di rivaleggiare con il suo potere.

Essi, dice il profeta, sono come alti cedri, maestosi e imponenti, ma il Signore eleva tra questi cedri un ramoscello, una cosa piccola, ancora nascente, la pone sulla cima del monte… perché “sappiano tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore: che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso…” (Ez 17,24).

Gesù ci propone, innanzitutto, la parabola del seme che cresce da solo, per affermare che il Signore mette in gioco una forza inarrestabile che permette al seme di crescere, anche indipendentemente dall’attività del contadino. In seguito, Gesù introduce una differenza significativa con il riferimento corrispettivo del profeta Ezechiele: il granello di senape non è come il ramoscello del cedro. Il granello di senape cresce e diventa il più grande di tutte le piante dell’orto e gli uccellini possono fare il nido alla sua ombra, nel senso che senz’altro possono trovare un piccolo ristoro, ma certamente non svolazzare e rifugiarsi sotto di esso come sotto il cedro.

Siamo dunque invitati non tanto alle piccole cose, ma a quelle grandi vissute con un atteggiamento umile e prudente: non tante cose, ma una che possa crescere; non la pretesa di essere uno spazio immenso o la presunzione di coinvolgere tutti, ma la disponibilità di fare ombra a chi vuole.

Ci si potrebbe chiedere dove vada a finire lo slancio missionario, la conversione pastorale che papa Francesco ci chiede. Mi sembra che il punto sia la decisione ferma di vivere questo impegno in maniera non autoreferenziale, che vuole dire non nella cornice della nostra visione e del nostro punto di vista, ma col tentativo di cogliere la realtà, le sfumature e le connessioni.

In questo senso, la grandezza della pianta di senape non è di essere immensa, ma di esserci per le altre piante dell’orto: di portare ombra in modo che tutto possa svilupparsi in maniera salutare e giusta, e così di favorire e collaborare con l’energia che Dio mette in ogni cosa che deve crescere.

Don Davide




La consistenza delle parole

Morte, bene, casa, cristiani

In questi giorni abbiamo ascoltato tantissime parole. Quelle che venivano da lontano, confuse e quasi incredibili, che parlavano di un nemico con il nome, ma senza volto, che speravamo di non dovere combattere. Poi quelle autorevoli, di chi è deputato a prendere le decisioni: parole pesanti, che hanno necessitato la nostra obbedienza e di modificare la nostra vita. Infine, anche le parole sciocche, urlate, scomposte e stolte. Per fortuna, quest’ultime non erano da sole: cercavano di oscurare le belle testimonianze, le parole tenere e incoraggianti, quelle di amicizia e di solidarietà, ma hanno perso. 

Per chi si dichiara discepolo del Verbo fatto Carne, è necessario essere attenti alla consistenza delle parole. 

Tra queste, quattro in modo particolare: morte, bene, casa, cristiani. Le prime tre sono sulla bocca di tutti. L’ultima di nessuno, ma non è meno importante. Anzi, proprio il fatto che non venga pronunciata, la rende ancora più preziosa. 

Tante persone morte: “Oggi sono morte n. persone.” In questo caso, la consistenza della parola morte ci rimanda dal numero alle persone. Non c’è un numero di morti; ci sono degli uomini e delle donne morti. “Chi ha pianto per quelle persone?” chiese papa Francesco nella famosa omelia di Lampedusa (08-07-2013). Insieme a quelle persone ci sono delle storie, qualcuno che piange (in quasi tutti i casi senza potere nemmeno celebrare il funerale) che, nella difficoltà, sarà persino segnatda un trauma. 

Dietro a quelle esistenze c’è anche un’infinita bellezza di cura: la fatica e la dedizione del personale sanitario, la solidarietà, la gentilezza di chi accudisce i malati, il gesto di chi ha offerto loro un telefono per chiamare chi non si poteva vedere, magari per l’ultima volta. 

Ogni volta che pronunciamo la parola “morte” dobbiamo sentire un vissuto e tutta la sua consistenza. 

E poi il pensiero della morte. Che arriva invisibile, improvvisa. Che colpisce mentre si pensava di essere invincibili che i nostri stili di vita e la nostra economia fossero immodificabili. La possibilità della morte che terrorizza perché non sai da dove arriva il tocco. 

Il pensiero alla morte, concreta, reale, plausibile, vicina, invadente, è sempre stato, nella tradizione cristiana, una meditazione sapienziale utile per acquistare saggezza. Attenzione, non si intende l’essere avvoltoi o sciacalli in una situazione di sventura: tutto il contrario. Il pensiero alla morte è stato un modo di neutralizzarne la forza orrorifica, per fare diventare la sua considerazione un esercizio per valorizzare e custodire la vita e le sue bellezze nel più puro dei modi.  

“Tutto andrà bene” è la frase che ci si consegna come augurio e come incoraggiamento; lo slogan che si scrive sui post-it attaccati ai campanelli o sulle vetrine dei negozi, o come stickers di Instagram e Facebook. È un pensiero bellissimo, per la tenerezza che esprime e quel senso di cura con cui ci si vorrebbe rassicurare gli  uni gli altri. 

Qui, riscoprire la consistenza della parola bene, significa riconoscere l’appello che ne deriva. 

Per qualcuno, purtroppo, non sta andando tutto bene. Ma questo non toglie la bontà dell’augurio o dell’incoraggiamento. Solamente, ci chiede di comprenderlo meglio e di farne buon uso: non per rassicurarci a basso prezzo o per metterci la coscienza a posto, ma per farci sentire la responsabilità per i fratelli e le sorelle. 

Tutto andrà bene, se ci aiutiamo. Tutto andrà bene, se siamo solidali. Tutto andrà bene, se ciascuno si sforza di fare la propria parte, senza dimenticarsi degli altri. E quando tutto sarà andato bene, non disperdere il tesoro dei legami. 

Non solo restate a casa”, anche nella sua versione #iorestoacasaQuesto restare può essere interpretato più che altro come un tornareCerto, ci siamo sempre stati a casa, ma non con quella sfumatura di intensificazione che è data dal restare e dalla consapevolezza di non avere alternative. 

Le autorità ci hanno portato piano piano ad accettare di stare a casa e non senza qualche resistenza; proprio perché “starci” significava, in realtà, tornarci stabilmente, in modo fisso, creando una consuetudine che non lo era affatto. Gli stessi governanti hanno avuto bisogno – come noi tutti – di focalizzare la necessità di fermarsi davvero. Quindi, tornare a casa anche nel senso di intraprendere quel cammino a ritroso dalla nostra dispersione al luogo domestico, alla permanenza prolungata, a una obbligata riduzione del nostro efficientismo, alla riscoperta del tempo. Per alcuni (chi vive insieme o in famiglia) è tempo di legami strettissimi; per altri (chi vive individualmente) è tempo di grande solitudine. Non dimentichiamoci che “restare a casa” ha tutta la consistenza anche di queste sfide non facili, talvolta difficilissime.  

Tornare a casa è sempre anche metafora di salvezza, come per il figliol prodigo, come per il tanto agognato Giardino di Eden, che aspetta un ritorno e che, paradossalmente, alla fine della Bibbia viene trasformato in una città, una città aperta, dove tutti si possono incontrare senza paura. Tornare a casa è la fine dell’esilio della nostra dimensione spirituale, contemporaneamente è la promessa/premessa della vittoria contro l’emergenza sanitaria, uscita dal nostro spaesamento e prospettiva di un avvenire sereno e pieno di incontri. 

Questa parola nessuno la dice, eppure stiamo assistendo a un evento epocale e fino a solo pochi giorni fa inimmaginabile, il fatto – cioè  che le comunità religiose di tutta la nazione sospendano i loro riti. Non solo i cristiani, ma tutti. Qui, però, parliamo di noi, della consapevolezza di noi cristiani. 

Le campane che si fanno vicine a un popolo che non può muoversi; le candele spente; le chiese vuote. La messa non partecipata. Le preghiere, però, niente affatto mute. 

Chi l’avrebbe detto che ne avremmo sentito la mancanza? Ecco, dirci: “sono cristiana, sono cristiano” ci deve richiamare alla consistenza della nostra fede, a che cosa è importante e decisivo, a cosa ci caratterizza. Proprio questo silenzio grida alla nostra coscienza e consapevolezza. Ci fa compiere una specie di salto evolutivo sulla comprensione dei nostri gesti religiosi e nella qualità della nostra fede.  

Di questi giorni dirsi: “sono cristiana, sono cristiano” ha tutto un altro sapore: ha il sapore amaro di una mancanza difficile; ha il sapore dolce di una sete che sa dov’è la sorgente.