Guarire la solitudine

Il Vangelo di Marco ci presenta un’umanità afflitta da molti mali, alcuni più simbolici come una febbre che non ci fa essere attivi, altri più seri come delle vere e proprie malattie mortali. La parola, i gesti e la presenza stessa di Gesù vengono indicati come una liberazione da tutto ciò: appena uscito dalla sinagoga, si sprigiona da lui la potenza del Regno di Dio.

Ascoltando l’amara riflessione di Giobbe nella prima lettura, siamo spinti a riconoscere che c’è un male attuale più di ogni altro: la fatica del vivere, lo smarrimento del senso, la solitudine.

Anche chi – per fortuna o per merito – non conosce queste esperienze e le opprimenti situazioni emotive che provocano deve fare spazio nel proprio intimo e ascoltare il grido di chi ne soffre. È un’empatia necessaria. Ci sono tanti nostri fratelli e sorelle che gemono schiacciati da difficoltà troppo grandi per loro, che si chiedono come Giobbe che senso abbia esistere ed esistere così, e che sanguinano per la solitudine.

L’espressione più estrema di questa esperienza, qualcosa di analogo alle dimesse parole di Giobbe di oggi, è descritta da un grande scrittore e filosofo, che indica senza individuarlo il punto di rottura, quello che lascia molti essere umani come naufraghi solitari nel mondo:

«Ci dev’essere stato un momento di comunione in cui non avevamo alcuna obiezione da fare al mondo; com’è allora che la nostra solitudine è così profonda?

Dev’essere successo qualcosa, ma le radici della deflagrazione ci restano impenetrabili.

Noi ci guardiamo attorno, ma più nulla ci sembra concreto, più nulla ci pare stabile.» (Houellebecq, Cahier).

Oggi la Chiesa Italiana celebra la 43° Giornata per la Vita. A ben guardare, tutte le situazioni difficili o addirittura tragiche per la Vita hanno a che fare con la solitudine e con la fatica del vivere. Assumere la propria responsabilità per la Vita e per aiutare chi è in qualsiasi tipo di crisi significa soprattutto soccorrere questa solitudine, alleviare con dolcezza, amicizia e ogni premura quella sensazione che l’esistenza sia troppo grande e difficile da affrontare.

Il Vangelo risuona come una medicina alla malattia mortale di questo tempo: la solitudine. È importante ricordare che questa cura non avviene solo con l’annuncio della parola, ma anche con gesti concreti e con la presenza, proprio come faceva Gesù.

Per questo l’apostolo Paolo, nella seconda lettura, scrive che annunciare il Vangelo è una necessità che si impone: per quel desiderio di soccorrere coloro che hanno bisogno di essere aiutati a riconoscere o a riscoprire la Vita, propria o altrui, come una benedizione.

Don Davide




L’anomala normalità

Della compassione come via

L’insegnamento di Gesù, nel vangelo di questa domenica, ruota attorno al tema della compassione. “Il padrone ebbe compassione del servo” e, al termine del racconto, chiede allo stesso servo: “non dovevi anche tu avere compassione del tuo compagno?”.

Questa domenica fa da spartiacque: iniziamo un periodo importantissimo e difficile. Domani riprendono le scuole, con le complicazioni enormi e i rischi inevitabili legati al perdurare dell’emergenza sanitaria. Tuttavia, i nostri ragazzi andranno finalmente a scuola, nel loro luogo più proprio. Era un assenza che durava dal 27 febbraio, una situazione davvero impressionante a pensarla in circostanze normali. Qualcuno ha vissuto i passaggi della fine dei cicli scolastici, che sono tra i più indimenticabili della vita, senza nemmeno potere fare una festa o salutare “in balotta” (come diciamo a Bologna) i propri amici.

Ci piacerebbe che tutti gli studenti e le studentesse sentissero una speciale vicinanza a quest’esperienza così difficile: una tenerezza per quello che è stato e come l’hanno affrontato, e quasi una commozione a vederli di nuovo varcare i cancelli dei loro istituti, in compagnia degli amici.

Anche il mondo universitario riprende con coraggio le lezioni in presenza. In generale, la fine delle vacanze estive segna inconfutabilmente un confronto con quella “normalità” che, dai mesi della quarantena nazionale, non era più stata piena: un’anomala normalità, nei mesi che ci attendono.

Ugualmente, anche la nostra parrocchia si cimenta con l’orario ordinario delle messe, che non era più stato tale dal 27 febbraio, con la ripresa del catechismo, la programmazione dei gruppi, il tentativo di fare ripartire il doposcuola, l’impegno della San Vincenzo e lo sforzo di non fermare gli aiuti della Caritas.

Vorrei che tutti avessimo uno sguardo di compassione su questi sforzi – nostri, del mondo ecclesiale, e quelli di fuori, dell’impegno della società civile – pensando che ognuno stia provando a fare il meglio che può, con la consapevolezza di sé, la maturità e l’equilibrio che è riuscito a raggiungere fino a quel punto della propria vita.

Questo atteggiamento esige che la compassione entri in circolo. Nelle istruzioni di Gesù, il rimprovero per quelli che arrestano questa circolazione della bontà è severo: “Non dovevi anche tu avere pietà del tuo compagno?”.

Non abbiamo bisogno di durezze, ma di un’umanità tenera.

Non abbiamo bisogno di convinzioni granitiche, ma di cuori aperti.

Non abbiamo bisogno di affermare noi stessi, ma di capire come possiamo fare i passi insieme.

Concretamente, credo che ci siano alcuni atteggiamenti molto pratici che possiamo tenere presenti.
1) Attenzione e delicatezza per chi si sente ancora poco sicuro rispetto alla pandemia e magari affaticato da qualche turbamento o ansia. Non bisogna sminuire affatto questi nostri fratelli e sorelle e non bisogna farli sentire in difficoltà. Occorre fare uno sforzo ulteriore di rispettare le norme sanitarie: l’utilizzo della mascherina, il rispetto della “giusta vicinanza”, il garbo e l’attenzione di mettere a proprio agio l’altro.

2) L’esercizio della comprensione. In parrocchia, a scuola, negli uffici e nei posti di lavoro… sicuramente c’è stato lo sforzo di provare ad affrontare le difficoltà. Anche dove l’organizzazione non fosse perfetta, magari c’era qualcuno che anelava al meglio. Non bisogna “farsi andare bene tutto”, ma provare ad essere radicalmente costruttivi.

3) Una sigla: ARP. Assoluta – responsabilità – personale. Cosa posso fare io? Questa domanda dovrebbe essere come una giaculatoria, o un mantra. Come posso dare una mano? Cosa posso fare io per migliorare la situazione o impedire altre difficoltà. Cosa devo fare io per tenermi centrato, in forma fisicamente e spiritualmente, per essere pronto a fare la mia parte in questa sfida che tutti stiamo vivendo?

Il padrone della parabola risponde a queste domande dicendo: “Io sono ricco e potente, una cosa posso esercitare: la compassione.” E lo fa.

Vale anche per noi.

La compassione è la nostra via.

Don Davide