Il catechismo, la parrocchia e la pandemia

Riprende il catechismo

Mercoledì riprende il catechismo, interrotto alla fine di febbraio per l’esplodere della pandemia. Dobbiamo ringraziare tantissimo i catechisti, che in questi mesi hanno fatto un enorme lavoro, sia per tenere comunque i contatti con i bambini e le famiglie, sia per ripensare una forma possibile anche nel corso dell’emergenza sanitaria.

Questo lavoro è progettato anche in vista del futuro del catechismo: una proposta più adeguata alla condivisione dell’esperienza della fede ai nostri giorni.

80 bambini… e i genitori?

I bambini iscritti al catechismo di 3-4-5° elementare sono 80. Il percorso per quelli di 2° è stato pensato diversamente, anche in questo caso nello sforzo di migliorare l’incontro di queste famiglie con la comunità.

80 è un numero grandissimo per le forze della nostra parrocchia. I catechisti fanno tutto il possibile per permettere che il catechismo si svolga e funzioni, tuttavia c’è bisogno che tutta la comunità si senta coinvolta e responsabile.

Sento il bisogno di richiamare soprattutto i genitori di questi 80 bambini. È necessario che qualcuno si senta interpellato a dare la propria disponibilità per fare il catechista. Non può essere sempre e solo un problema degli altri, che si prendono l’impegno di “tenere mio/a figlio/a”. Ciascuno genitore si deve chiedere: “E io? Perché non io?”.

Senza questa disponibilità reale dei genitori, che devono sentirsi partecipi, di quest’impresa (e non solo fruitori o spettatori), non è detto che si riesca a continuare il catechismo per tutto l’anno.

Condizione indispensabile

La condizione indispensabile, per me parroco, è che ci siano almeno 10 catechisti e 10 aiutanti, per fare si che i gruppi siano composti da non più di 8 bimbi ciascuno.

Se questa condizione non si verifica per mancanza di disponibilità, saremo costretti a sospendere il catechismo. I catechisti fanno tutto il possibile, ma non è ammissibile che tutto il peso gravi su di loro.

E la comunità?

Anche la comunità deve sostenere il catechismo, e non soltanto moralmente, oppure dicendo: “se c’è bisogno di qualcosa chiedete”. Ancora di meno c’è bisogno di dare dei consigli, o fare delle osservazioni e delle critiche, senza conoscere l’impegno dei catechisti e senza impegnarsi quotidianamente (come fanno loro) in questa che è una vera e propria “impresa”. Bisogna rimboccarsi le maniche e garantire un vero aiuto, che semplifichi e non complichi.

Magari non ci si pensa, ma fare catechismo in questa condizione significa pensare attività che non richiedano il contatto, giochi divertenti ma distanziati, studiare come gestire il materiale che non può passare di mano in mano ecc… Significa anche acquistare il materiale igienizzante per ogni spazio utilizzato, sanificare tutte le aule (ben 10!) prima e dopo l’incontro, sanificare la chiesa prima e dopo il ritrovo (perché a seguire c’è la messa), riordinare gli spazi se ci sono state altre attività in parrocchia.

Comunicare la fede

Si dice spesso che la cartina di tornasole della qualità di una comunità è proprio la presenza e il rapporto con i bimbi. L’impegno con cui la nostra comunità inizia il catechismo vorrebbe essere testimonianza di questa passione di comunicare la fede, che inizia dai bimbi e non finisce più.

Don Davide




L’anomala normalità

Della compassione come via

L’insegnamento di Gesù, nel vangelo di questa domenica, ruota attorno al tema della compassione. “Il padrone ebbe compassione del servo” e, al termine del racconto, chiede allo stesso servo: “non dovevi anche tu avere compassione del tuo compagno?”.

Questa domenica fa da spartiacque: iniziamo un periodo importantissimo e difficile. Domani riprendono le scuole, con le complicazioni enormi e i rischi inevitabili legati al perdurare dell’emergenza sanitaria. Tuttavia, i nostri ragazzi andranno finalmente a scuola, nel loro luogo più proprio. Era un assenza che durava dal 27 febbraio, una situazione davvero impressionante a pensarla in circostanze normali. Qualcuno ha vissuto i passaggi della fine dei cicli scolastici, che sono tra i più indimenticabili della vita, senza nemmeno potere fare una festa o salutare “in balotta” (come diciamo a Bologna) i propri amici.

Ci piacerebbe che tutti gli studenti e le studentesse sentissero una speciale vicinanza a quest’esperienza così difficile: una tenerezza per quello che è stato e come l’hanno affrontato, e quasi una commozione a vederli di nuovo varcare i cancelli dei loro istituti, in compagnia degli amici.

Anche il mondo universitario riprende con coraggio le lezioni in presenza. In generale, la fine delle vacanze estive segna inconfutabilmente un confronto con quella “normalità” che, dai mesi della quarantena nazionale, non era più stata piena: un’anomala normalità, nei mesi che ci attendono.

Ugualmente, anche la nostra parrocchia si cimenta con l’orario ordinario delle messe, che non era più stato tale dal 27 febbraio, con la ripresa del catechismo, la programmazione dei gruppi, il tentativo di fare ripartire il doposcuola, l’impegno della San Vincenzo e lo sforzo di non fermare gli aiuti della Caritas.

Vorrei che tutti avessimo uno sguardo di compassione su questi sforzi – nostri, del mondo ecclesiale, e quelli di fuori, dell’impegno della società civile – pensando che ognuno stia provando a fare il meglio che può, con la consapevolezza di sé, la maturità e l’equilibrio che è riuscito a raggiungere fino a quel punto della propria vita.

Questo atteggiamento esige che la compassione entri in circolo. Nelle istruzioni di Gesù, il rimprovero per quelli che arrestano questa circolazione della bontà è severo: “Non dovevi anche tu avere pietà del tuo compagno?”.

Non abbiamo bisogno di durezze, ma di un’umanità tenera.

Non abbiamo bisogno di convinzioni granitiche, ma di cuori aperti.

Non abbiamo bisogno di affermare noi stessi, ma di capire come possiamo fare i passi insieme.

Concretamente, credo che ci siano alcuni atteggiamenti molto pratici che possiamo tenere presenti.
1) Attenzione e delicatezza per chi si sente ancora poco sicuro rispetto alla pandemia e magari affaticato da qualche turbamento o ansia. Non bisogna sminuire affatto questi nostri fratelli e sorelle e non bisogna farli sentire in difficoltà. Occorre fare uno sforzo ulteriore di rispettare le norme sanitarie: l’utilizzo della mascherina, il rispetto della “giusta vicinanza”, il garbo e l’attenzione di mettere a proprio agio l’altro.

2) L’esercizio della comprensione. In parrocchia, a scuola, negli uffici e nei posti di lavoro… sicuramente c’è stato lo sforzo di provare ad affrontare le difficoltà. Anche dove l’organizzazione non fosse perfetta, magari c’era qualcuno che anelava al meglio. Non bisogna “farsi andare bene tutto”, ma provare ad essere radicalmente costruttivi.

3) Una sigla: ARP. Assoluta – responsabilità – personale. Cosa posso fare io? Questa domanda dovrebbe essere come una giaculatoria, o un mantra. Come posso dare una mano? Cosa posso fare io per migliorare la situazione o impedire altre difficoltà. Cosa devo fare io per tenermi centrato, in forma fisicamente e spiritualmente, per essere pronto a fare la mia parte in questa sfida che tutti stiamo vivendo?

Il padrone della parabola risponde a queste domande dicendo: “Io sono ricco e potente, una cosa posso esercitare: la compassione.” E lo fa.

Vale anche per noi.

La compassione è la nostra via.

Don Davide




Riprendere

Quattro parole per darci fiducia:
presenza – comunità – coraggio – ascolto

Cosa significa riprendere?

Che valore ha e che cosa mette in gioco riprendere la vita ordinaria, inevitabilmente caratterizzata dalla riapertura delle scuole e delle università; riprendere la vita lavorativa, dopo la pausa estiva; riprendere la pastorale, che praticamente si è arrestata a inizio marzo, con qualche eccezione che però non può surrogare l’incontro tra le persone?

E cosa chiede a ciascuno di noi lo sforzo di riprendere dopo la terribile esperienza della pandemia e della “chiusura”, consapevoli tuttavia che l’emergenza sanitaria non è alle spalle?

Abbiamo bisogno di incontrarci, di dare ritmo quotidiano alle nostre esistenze e di avere cura dei bimbi, ragazzi e giovani, che sembrano i più colpiti da questa situazione, come se li avesse sfiduciati ancora di più; dobbiamo assolutamente permettere che le loro energie rifioriscano.

La sfida è più che mai impegnativa, perché richiede alcune attenzioni, che decliniamo in quattro parole.

    1. PRESENZA. Non bisogna perdere l’importanza di quella dimensione di meno frenesia di cui l’emergenza ci ha fatto rendere conto, e che ci ha resi più presenti a noi stessi, come quando ci si riprende dopo un risveglio.
    2. COMUNITÀ. Non dobbiamo rinunciare all’incontro con la nostra comunità, per quanto piccola e scalcagnata che sia, e non possiamo accontentarci. Vibra l’urgenza di rianimare la vita di una comunità cristiana in senso evangelico, sfrondando le tante cose inutili e cercando di radicarsi in ciò che fa davvero bene alla vita delle persone.
    3. CORAGGIO. La pandemia non ha avuto solo degli effetti negativi visibili e quantificabili. In molti ha lasciato un senso interiore di disagio, di paura e di ansietà. Non dobbiamo pensare che siano esagerati o che non conti questa dimensione psicologica non conti eccessivamente. È preziosissimo anzi, accorgerci di chi è in difficoltà e aiutarlo, incoraggiarlo, stargli vicino, infondere una nuova fiducia. Possiamo e dobbiamo aiutare tutti a rifare i propri passi sentendosi sicuri, quindi si tratta di garantire la serenità di incontrarsi e fare le cose anche a chi è stato più turbato in questi mesi.
    4. ASCOLTO. Nel silenzio della pandemia, spesso la Parola di Dio ha brillato come luce e risuonato come lettura del nostro vissuto. La comunità cristiana, che ambisce ad incontrarsi dopo una simile terribile esperienza, si deve confrontare all’altezza delle sfide, senza ripiegarsi sulle abitudini e la tradizione.

A tutte e a tutti coloro che si sentiranno motivati a “riprendere”, anche in mezzo a tutte le fatiche e paure, va il nostro autentico grazie.




Il trono della misericordia

Ma alla Santissima Trinità, eterna in se stessa, perfetta senza il bisogno di altro, intimità, relazione e comunione al suo interno, traboccante di amore per la Creazione all’esterno… può interessare qualcosa dei nostri problemi con la pandemia?

La risposta è certamente sì, ma l’idea è che la formulazione del dogma della Santissima Trinità sia un po’ fuorviante. Verrebbe da pensare che una realtà così immensa, sublime e infinitamente oltre ogni dimensione creaturale, sia anche inevitabilmente lontana da noi.

Forse, come un re buono che si chinasse con favore sull’ultimo dei suoi sudditi, potremmo pensare che Dio possa avere compassione di noi, ma appunto in un contesto di infinita distanza che è colmata solo dalla sua compassione. Quanto a noi, la Trinità rimarrebbe totalmente inaccessibile, come quel suddito che non oserebbe alzare lo sguardo al suo re.

Invece, dovremmo pensare che la Santissima Trinità è un grande racconto del Dio vicino.

Per entrare nella storia, e non guardarla solo con benevolenza dall’alto, Dio ho toccato il cuore di alcuni uomini liberi e si è messo in rapporto con un popolo concreto. Ne ha accettato tutte le contraddizioni per educarlo; si è sporcato i piedi su molte rotte, ha camminato con lui, lo ha ripreso infinite volte, fino a che non fosse preparato uno spazio totalmente umano, nel grembo non di un’icona di santità, ma una ragazza vera come tutte le altre ragazze di Nazaret.

Come se il re avesse fatto scambio con l’ultimo dei servi in cucina per condividerne la fatica e conoscerne l’impegno, in Gesù, Dio non si è lavato le mani come Pilato, ma se le è sporcate con le piaghe degli uomini e persino con le loro miserie. E mentre si sporcava le mani, lavava i piedi di coloro a cui veniva in soccorso, perché fosse chiaro a tutti che Dio era al lavoro per permettere a loro di riposare. Eppure, le mani di Dio sono mani trasfigurate: conservano i segni delle piaghe, ma sono mani pulitissime e belle… ci hanno insegnato a impastare la farina, ad accarezzare una pecora intimorita o un leone ammansito, sono le mani che fasciano, che benedicono, che abbracciano, che promettono e che indicano traguardi.

Per essere in noi ad ogni respiro, poi, Dio si è fatto Spirito. Delicatissimo, ma indispensabile. Nascosto quando stiamo bene; evidente quando è più freddo. Quando c’è un inno alla vita nelle nostre esistenze è sempre lo Spirito di Dio che si fa vicinissimo e che guida il futuro.

La Santissima Trinità è la storia di Dio con noi, la storia della sua opera con l’uomo, nelle ore del giorno, in attesa di potersi riposare insieme nell’abbraccio l’uno dell’altra. Un esito di intimità, non di distanza, che possiamo custodire nella memoria e nel cuore con queste magnifiche parole del Talmud:

Dodici sono le ore del giorno:
nelle prime tre il Santo,
benedetto egli sia, si dedica alla Torah;
nelle seconde tre giudica tutto il mondo
e quando vede che questo meriterebbe la distruzione,
si alza dal trono del Giudizio
e siede su quello della Misericordia.

Don Davide




Pentecoste

È una Pentecoste molto particolare quella che ci apprestiamo a celebrare, perché piena di contrasti e per questo intensa nel richiamo allo Spirito. 

Il respiro è il grande imputato dell’epidemia: è una malattia che si trasmette per via aerea e colpisce a sua volta le vie respiratorie. Invece, lo Spirito è il respiro che dà la vita.  

Il presidio più sicuro è la mascherina, che però a sua volta affatica il respiro ed appare quasi un bavaglio, copre parte del volto. Invece lo Spirito è l’energia della vita, che ha fatto parlare i discepoli – divenuti apostoli – con coraggio e a viso scoperto. 

Siamo ingabbiati in tanti protocolli, che peraltro ci aiutano a lavorare e ad avere una vita quasi normale. Invece, lo Spirito è libertà. 

Vale la pena rileggere San Paolo: “Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore.” (2Cor 3,17-18) 

 Lo Spirito Santo è proprio questo scarto tra il mondo come è e il mondo come viene trasformato da Dio. Lo Spirito è questo surplus, una forza che non ci appartiene, la Creazione Nuova di Dio che ci viene data realmente, ma in dono.  

Lo Spirito Santo è la riserva, mai consunta, contro tutte le forze di morte.  

Possiamo, appunto, essere preoccupati del respiro volatile che gira nell’aria, essere costretti a coprirci la bocca e parte del volto, irrigidirci nei protocolli: nondimeno, lo Spirito del Signore ci fa respirare a pieni polmoni, ci permette di essere noi stessi e di parlare liberamente con gli amici, ci tiene liberi, anche se fossimo in prigione. 

Non è un invito a trasgredire le regole di prudenza, ma la consapevolezza, che la rivoluzione radicale inizia nel nostro spirito, abitato dallo Spirito di Dio.  

Anche in questo caso possiamo riascoltare le parole di San Paolo, che interpreta perfettamente questa “riserva spirituale” che ci fa vivere: “Siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; feriti, ma non uccisi (…) siamo afflitti, ma sempre lieti; poveri, facciamo ricchi molti; sembriamo gente che non ha nulla e invece possiamo tutto!” (2Cor 4,8-9; 6,9-10) 

PentecosteQuesto vuole dire che non dobbiamo mai abbatterci o sentirci sconfitti: può darsi che siamo tristi, per qualsiasi ragione, ma possiamo tornare ad essere felici; potremmo avere fatto un grave errore, ma non c’è niente di irrimediabile; potrebbe accadere che ci sentiamo in difetto, o che siamo sopraffatti da qualcosa di negativo o dalla nostra debolezza, ma questa situazione non dice la verità della nostra esistenza. 

C’è di più. Questo di più di bene, di amore, di capacità e di dignità ce lo svela lo Spirito che viene ad abitare in noi e, se dovesse mancare qualcosa, lui – con la nostra apertura interiore – è in grado di crearlo e di trasformarci. 

 E anche nel cammino della Chiesa valgono le parole di San Paolo. Abbiamo vissuto una grande tribolazione, insieme a tutti, la vita cristiana è affaticata, disattesa. Le nostre comunità riescono a creare poco coinvolgimento. I giovani spariscono o sono già spariti. 

Ma continua ad esserci una riserva di cuori e di volontà al servizio di Dio, impegnati nella trasmissione della fede, col fuoco della carità per chi è nel bisogno. 

Immagino lo Spirito, in questo giorno di Pentecoste, come nel primo istante della Creazione. Mentre tutto è nel caos, lo Spirito torna a mettere ordine nelle cose e a preparare una comunità che, fraterna in ogni parte del mondo, esprima la lode di Dio.  

Don Davide




Avrete forza dallo Spirito Santo

“Finalmente, Signore! È questo il tempo in cui rimetti a posto le cose? In cui si torna a messa senza mascherina, il catechismo riprende con migliaia di bambini, facciamo l’ER e i campi… ci abbracciamo e ci baciamo!”

“Ma, veramente… – obietta il Signore – io non ho detto questo!

Delusione dei discepoli. “Cavoli, ci avevamo sperato!” esclamano schioccando le dita.

“Quello che vi posso dire – dice il Risorto – è che vi sarà data la forza: sì avrete forza dallo Spirito Santo che vi sosterrà e vi aiuterà ad essere miei discepoli e testimoni anche in questa situazione che continua ad essere complicata.”

Ho riadattato questo dialogo tra i discepoli e Gesù, prima della sua ascensione, immaginandolo contemporaneo.

È un giorno di festa, questo, e strano, perché torniamo a celebrare insieme la Pasqua della settimana dopo quasi tre mesi. Non ci rendiamo mai abbastanza conto di cosa questo abbia significato e di cosa comporterà per il futuro. Basti pensare che dal tempo delle persecuzioni in poi, non era mai accaduto che non si potesse celebrate l’Eucaristia insieme.

È inutile fare finta di niente. Le nostre comunità ne escono e ne usciranno ferite. Al di là della retorica di una certa resilienza, questo fatto avrà conseguenze sulla vita della chiesa nei prossimi anni.

Il grande impianto della chiesa in occidente, che già scricchiolava in molti modi, è parso crollare da un giorno all’altro insieme a quello del mondo.

Tutto chiuso.

E anche adesso che qualcosa sta riaprendo… Come faremo? Le assemblee, le feste, gli incontri, gli abbracci, la vita insieme… Che ne sarà?

Spirito“Tranquilli! – siamo tentati di dire noi, come i discepoli – Ecco è passato! È questo il tempo in cui il Signore ricostituirà il suo regno!”. Il suo regno, che in realtà è il nostro regno, il nostro modo di pensare, sono le sicurezze dei discepoli.

Ma Gesù ci dice: “Tranquilli sì, non perché sarete confermati nelle vostre certezze rassicuranti, ma perché se scegliete di aprirvi allo Spirito, allora scoprirete orizzonti più ampi. Io intanto vin garantisco di esservi vicino, di stare con voi, anche di consolarvi, quando ne avrete bisogno. Per il resto, forse, bisogna accettare che appaiano altre urgenze, altri bisogni su cui riedificare la chiesa e ricostruire la nostra pastorale.”

Oggi abbiamo ripreso o riprenderemo a celebrare la Domenica insieme. Considerato questo sconquassamento, ho sentito l’esigenza di intervenire in modo vistoso sulla liturgia, soprattutto perché i testi possano esprimere il vissuto. Questo non è stato un tradimento della sublimità liturgica, ma lo sforzo di prendere sul serio la presenza concreta del popolo nella celebrazione. Come dirò anche a messa, per adesso vorrei esservi vicino e dirvi una parola affettuosa e di incoraggiamento, come fanno un papà o una mamma, semplicemente, dopo che i figli hanno passato un brutto spavento.

Il peggio magari è alle spalle, ma c’è come un’ombra lunga di quell’inquietudine, e quindi il bisogno di sentirsi garantiti in uno spazio dove si possa tornare sereni.

Don Davide




La fede e la vita

Concludiamo, con questa domenica, l’itinerario pasquale prima delle due grandi feste che chiudono questo tempo di grazia: l’Ascensione (domenica 24 maggio) e Pentecoste (domenica 31 maggio).

I testi della liturgia si aprono con il diacono Filippo che predica la parola di Dio e le folle che ci vengono descritte come unanimi nell’ascolto, perché vedono i segni che accompagnano l’annuncio di Filippo.

Sostiamo su questi due particolari: la coerenza persuasiva di Filippo e le folle unanimi.

Filippo era un uomo noto e stimato, per questo era stato scelto come diacono per il servizio alle mense. Tuttavia, il racconto degli Atti ce lo mostra tutto dedito all’annuncio del vangelo. Proprio per la “coerenza” che lo caratterizza, non abbiamo alcun motivo per pensare che non si sia dedicato al servizio di carità. Anzi, dobbiamo credere che proprio quel servizio fa parte dei “segni” che tutti vedono e ammirano e da esso viene – quasi come forza intrinseca – la necessità di annunciare Gesù.

Questo discorso di Filippo, il suo stile, mette tutti d’accordo. È la migliore concretizzazione dell’invito nella seconda lettura ad essere pronti a rendere ragione della speranza cristiana, con uno stile inoppugnabile.

Domani riprenderanno le messe. Abbiamo vissuto tutta la Quaresima e quasi tutto il tempo di Pasqua senza la celebrazione dell’Eucaristia, ma non senza vivere e testimoniare la nostra fede in molti modi. Ritornare a messa domani (lunedì 18) non può certo essere un “riprendere da dove ci eravamo lasciati”, come se nulla fosse successo.

A me sembra che proprio questa lezione che impariamo dall’esempio di Filippo ci possa aiutare. Tornare a messa è la conseguenza delle nostre azioni, coerenti con la nostra fede. In questo tempo ci abbiamo messo tutta la carità possibile, non da soli e insieme a tanti altri fratelli e sorelle. Ma questo avere partecipato alla crisi del mondo ci fa sentire ancora più l’urgenza di ascoltare la Parola di Dio insieme, di esprimere il frutto della terra, della vite e del nostro lavoro, di annunciare la Pasqua del Signore finché egli venga. La fede che ha sempre i piedi ben piantati nella vita e la vita che sbocca spontaneamente nell’espressione della fede sono per noi due poli inscindibili. Fede e vita, vita e fede. Sempre insieme o accanto a tutti gli uomini e le donne che desiderano considerarsi fratelli e sorelle, o amici. Il collante di tutto è l’amore.

L’amore che per noi cristiani ha la forma concreta dei sentieri che Gesù ci indica. In essi noi riconosciamo di non essere orfani di indicazioni, al contrario, riscopriamo di avere un Padre amorevole e buono, un papà con cui abbiamo un ottimo rapporto, che ci indica le vie della vita.

Don Davide

fede e vita




Molti posti

Nella “casa del Padre” – dice Gesù – c’è un sacco di posto, che bello! Lì non ci sarà distanziamento fisico che tenga: ci staremo tutti, senza problemi! Ma… poi… ci sarà il “fisico” in cielo? A quanto pare sì, un fisico trasfigurato, ma reale: quello di Gesù che, risorto, mangiava con i suoi discepoli sulle sponde del lago.

StadioLo hanno chiamato (lo abbiamo tutti chiamato) “distanziamento sociale” e anche solo questa piccola nota dovrebbe renderci avveduti della crisi in cui siamo sprofondati! Macché distanziamento sociale! Il distanziamento è stato solo fisico e guai a chi vorrebbe latentemente proporre – quasi come un messaggio subliminale – la frammentazione della società. Il nome più antico del Diavolo, ci insegna Gesù, è Divisore e Menzognero.

Nella “casa del Padre” niente distanza, di nessun tipo! Anzi, dove è Gesù, lì saremo anche noi, come se ci tenesse in braccio, come sue pecorelle.

In questi giorni, questa consapevolezza è la base su cui risuona l’invito di Gesù a “non essere turbati”. Ce ne sarebbero parecchie di ragioni per essere turbati, almeno per me: in primis l’idea di tornare a celebrare la messa, che è fatta di carne e di sangue, in una distanza fisica forzata.

Ma voglio dare credito alla parola di Gesù, non voglio che il mio cuore sia turbato. Desidero avere fede in Dio e fiducia in Gesù, che “nella casa del Padre” c’è posto e la possibilità di essere vicini per tutti. E so che la “casa del Padre” non sarà solo il Cielo, il Paradiso, ma è già oggi quell’edificio spirituale costruito dai legami d’affetto, dalla comunione di intenti, dalla stessa partecipazione alle fatiche di tanti fratelli e sorelle nella fede e non solo, di tanti uomini e donne di buona volontà.

Non sappiamo davvero quale sia la strada: non lo sappiamo per la nostra pastorale, non lo sappiamo riguardo al convivere sociale, non lo sappiamo ancora negli aspetti sanitari.

Il Vangelo ancora una volta ci conferma che non è un problema drammatico essere disorientati e non individuare la meta lontana. Possiamo pensare a Gesù, guardare il suo volto, fare riferimento a lui. Possiamo chiederci: cosa farebbe Gesù qui al mio posto? Quale passo muoverebbe lui, in questo cammino così urgente che devo percorrere? Che scelta percorrerebbe lui, con la sua mitezza, il suo amore, la sua saggezza?

Dobbiamo ancorarci con una certa dose di umiltà e di immediatezza alla sua parola, proprio alla parola di Gesù viva che risuona in quella scritta del Vangelo ed è per questo che vorrei, nei prossimi mesi, suscitare dei piccoli gruppi informali che si trovino a leggere il vangelo per qualche minuto, nei cortili della parrocchia o delle case, per lasciarci guidare da lui. Torneremo su questa possibilità.

Ora, desidero consegnarvi queste righe bellissime, scritte da San Giovanni Crisostomo, che mettendo insieme la certezza di essere chiesa anche “in pochi”, l’unione spirituale che varca i numeri esigui a cui siamo costretti, il tesoro della Parola di Dio e –

– la presenza accanto a noi del Risorto, compendia tutti i motivi per cui non dobbiamo davvero lasciarci turbare:

“Non senti il Signore che dice: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro»? (Mt 18, 20). E non sarà presente là dove si trova un popolo così numeroso, unito dai vincoli della carità? Mi appoggio forse sulle mie forze? No, perché ho il suo pegno, ho con me la sua parola: questa è il mio bastone, la mia sicurezza, il mio porto tranquillo. Anche se tutto il mondo è sconvolto, ho tra le mani la sua Scrittura, leggo la sua parola. Essa è la mia sicurezza e la mia difesa. Egli dice: «Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20)”.

Don Davide




Perché abbiano la vita

Papa Francesco all’inizio del suo pontificato ci chiese di uscire, di essere una chiesa missionaria. Contestualmente ha usato l’immagine diventata famosa dell’ospedale da campo.

Quest’anno ci siamo confrontati con un’epidemia. Ci siamo trasformati inevitabilmente in un ospedale da campo, ma purtroppo siamo stati costretti a restare in casa. Volenti o nolenti, abbiamo realizzato in questi mesi la seconda proposta del papa, ma non la prima.

staccionataIn questa domenica cominciamo a leggere il discorso di Gesù sul “buon pastore”, nel quale Gesù si ispira alla grande riflessione di Ezechiele: Dio come si prende cura di noi? Dio, ci dice il profeta Ezechiele, lo fa suscitando “pastori” che insegnino la cura reciproca. Ci mette in relazione, ci affida gli uni agli altri… perché nello stile del pastore impariamo a costruire un mondo di cura e di predilezione. Ma ogni tanto – anzi Ezechiele direbbe: ogni spesso – accade che i pastori non facciano i bravi, allora Dio fa in modo che nessuno rimanga senza cura o senza amore. Entra in gioco lui e fa il Pastore direttamente per ciascuno.

Gesù si richiama a questo aspetto: l’amore di Dio, che considera la sua creatura così preziosa, da mettersi in gioco lui stesso e personalmente. Dio Padre lo fa attraverso il suo Figlio. Gesù vuole fare sentire ai suoi discepoli e amici che lui fa esattamente lo stesso e invita tutti quelli che vogliono in qualche modo essere “pastori” a passare da questo modello.

Torniamo ora alla situazione di “chiusura” in cui siamo stati costretti. Il pastore chiama individualmente le sue pecore, ciascuna per nome, poi le conduce fuori. Non è che le conduca proprio, in realtà le spinge.

C’è dunque bisogno di una chiamata personale per ritornare fuori, all’attività missionaria. Non si deve intendere come se Gesù legittimasse il “liberi tutti” alla fine della fase uno della quarantena. Mi sembra più interessante cogliere che è la parola di Gesù che a ciascuno suggerisce cosa dobbiamo fare e come dobbiamo comportarci, per avere quella “spinta” necessaria per fare la nostra parte per ri-uscire fuori… in maniera saggia.

Dopo che le ha spinte, si rimette davanti a loro. Questo pastore ci viene descritto come uno che sta alternativamente dietro e davanti al suo gregge, tutto intorno a lui, come custode. Dobbiamo sapere che lui ci custodisce, non come scusa per essere spregiudicati, ma per avere quella lucida tranquillità di affrontare la nostra “chiamata” nel migliore dei modi.

Se ascoltiamo la sua parola, lui ci guida ad ogni passo, senza bisogno di sapere tutto.

Si tratta di stare nel cammino di fede, in questo viaggio finché il Maestro non ci abbia condotto ad assaporare il gusto della vita.

Don Davide




La strada di casa

Nella pagina dei discepoli di Emmaus è assolutamente centrale il camminare. “È successo di tutto in questi giorni – dicono – anche tante cose brutte…” cose che li spingono a negare l’evidenza della resurrezione; invece, l’importante è che loro, con questo peso nel cuore, continuino a camminare, affinché il Pellegrino Misterioso si metta al loro fianco e si manifesti come il Risorto, vincendo tutte le motivazioni contrarie.

Non è un camminare generico: è il ritorno verso casa. Erano a Gerusalemme e si stanno dirigendo al loro paese: Emmaus. È il camminare come metafora del ritorno a casa. Tutti noi dobbiamo tornare verso casa, perché la nostra cittadinanza è nei cieli (Fil 3,20). Affinché questo non sia un essere strappati alla vita, ma un sapersi accolti in un luogo famigliare e pieno di affetto, il “ritorno a casa” deve compiersi anche lungo il cammino, non solo quando si arriva alla meta.

Torniamo a casa quando decidiamo di amare, quando accettiamo noi stessi scegliendo il bene, la giustizia, il coraggio e l’altruismo. Torniamo a casa quando perdoniamo e siamo perdonati; quando ci riconciliamo. Torniamo a casa quando accogliamo il nostro dovere e quando smettiamo di essere in competizione con gli altri. Torniamo a casa quando invece di lasciarci sopraffare dalle delusioni, facciamo spazio alla speranza.

In questi ultimi anni la Rai ha prodotto due serie su questa idea, una dal titolo esplicito: La strada di casa; l’altra, più recente: Doc. Entrambi protagonisti sono come un Ulisse contemporaneo, che si trova a dovere fare un lungo e difficile percorso, per riscoprire se stesso, gli affetti, la casa, il lavoro e il proprio ruolo. Il fatto che siano di alta qualità e che abbiano avuto un enorme successo, la dice lunga sulla nostalgia di questo “viaggio”.

Sembrerà assurdo che io parli del “ritorno a casa”, in un questo periodo in cui siamo stati costretti a casa da più di un mese. Diremmo piuttosto che abbiamo nostalgia dei parchi, di un viaggio all’estero, del cinema, di una cena con gli amici.

La strada di casa

Ma il cammino di ritorno dei discepoli è qualcosa di molto più profondo, che riguarda le coordinate fondamentali dell’esistenza: “Noi speravamo che fosse lui…”.

Speravamo.

Speravamo che ci fosse un senso definitivo alle cose. Invece ci troviamo qui, precari, con delle delusioni, in mezzo a mille difficoltà… solo col desiderio di ritornare a casa.

Finalmente arrivano a casa.

Questo particolare, ha fatto pensare a qualche interprete che fossero marito e moglie, una coppia. In questa logica, nel testo verrebbe ricordato solo il nome di Cleopa, in quanto permetteva di identificare anche sua moglie. Accettiamo questa suggestione. Arrivano a casa loro e pronunciano quell’invito memorabile: “Resta nella nostra casa, perché è il momento per tutti di tornare a casaanche per te, Gesù. Fa’ che questa sia la tua casa… e tu la nostra.”

In realtà tutte queste cose le dicono col cuore, quel cuore che esplodeva di sentimenti e di emozioni, mentre con le labbra dicono solo l’intuizione ancora non consapevole del tumulto interiore.

Così, Gesù che è stato tanto in casa nostra, in questo periodo, è invitato a sentirla come casa sua. E noi siamo invitati a sentirci a casa non solo con lui, ma in lui. E Gesù, a casa sua, celebra l’Eucaristia con la benedizione del pane e del vino.

Anche in questo caso, dicono gli interpreti che c’è un continuo rimando tra una cena usuale e la cena rituale eucaristica. Non è che Gesù celebri la messa… ma in quei gesti c’è un palleggio come a ping pong fra l’una e l’altra, tra la cena in casa nostra e la benedizione di Gesù sul pane e sul vino in casa sua.

Non c’è un primato.

Tutto parte dal continuare a camminare, dallo stare sempre in cammino con questo desiderio nel cuore di tornare a casa. È un tornare ad incontrare il Risorto e permettergli, in mezzo a tutte le tribolazioni, di farsi riconoscere e di farci divampare il cuore. Non sappiamo se venga prima l’abitare in lui per trovare la strada di casa; o se sia necessario tornare in noi stessi per dimorare in lui. In realtà, lui non bada a queste cose. È il Risorto, varca tutti gli ostacoli – lo abbiamo ricordato più volte – e si fa vicino al cammino di ciascuno di noi, lì dove siamo, così come siamo. E in questo ritorno – nostro e suo – c’è un rimando continuo, tra quello che abbiamo fatto in casa nostra, che è diventata casa sua, e quello che lui vuole fare in casa sua, che diventa casa nostra. Slittiamo impercettibilmente e anche noi senza confini e senza ostacoli da una casa all’altra, da una mensa all’altra, da un ospite amico al fatto di accogliere il Signore Risorto e viceversa, perché solo in questo sconfinamento di ritorno continuo noi possiamo trovare veramente la strada di casa.

Don Davide