«Lo mangerete in fretta» (Es 12,11)

Testimonianza di don Davide

Sono cresciuto imparando che preparare e celebrare la Pasqua era realmente la cosa più importante dell’anno. Abitavo a due minuti dalla chiesa, uscivo di casa, svoltavo una strada e mi trovavo di fronte al campo da calcio della parrocchia: il tempo di attraversarlo ed ero arrivato.

Il mio parroco dava il meglio di sé in occasione della Settimana Santa. Come un buon pastore guidava la comunità e noi ragazzi a organizzare, capire e gustare i riti del Triduo. Facevamo le prove dei ministranti e vivevamo le celebrazioni e passavamo il resto della giornata a giocare a calcio in parrocchia. Era un buon compromesso. Solo che alcune volte ci toccava lavarci sommariamente nei bagni della parrocchia per non arrivare inzaccherati alla solennità della liturgia.

Questo senso di qualcosa di sacro, che va custodito, preparato con cura, celebrato meticolosamente e vissuto al meglio mi è rimasto fin da allora. Nemmeno i corsi di Liturgia in seminario hanno aggiunto alcunché a questa consapevolezza.

L’indicazione finale della prima prescrizione della Pasqua ebraica, perciò, mi ha sempre stonato: «Lo mangerete in fretta» (Es 12,11). Con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano… Che razza di modo è di mangiare un agnello, dopo avere riunito tutta la famiglia e magari anche un’altra per condividerlo?

Sì, capivo che c’era tutta la questione di essere pronti ad uscire dall’Egitto… ma insomma – pensavo – “quale fretta d’Egitto! Qui le cose si devono fare bene!”.

Solo quest’anno – pochi giorni fa a dire il vero – ho capito il significato di questo versetto. Tutte queste limitazioni, non potere fare la lavanda dei piedi, il bacio della Croce… mi pesano tantissimo.

Ma la Pasqua non è comoda. La Pasqua «del Signore» (Es 12,11), come nel racconto dell’Esodo, è un atto di emergenza. È un gesto che chiede di andare allo stretto indispensabile delle cose e che parla della libertà del cuore dalla paura.

Anche Gesù l’ha vissuta allo stesso modo. Una situazione di emergenza estrema: fare della propria vita un dono oppure no?

E ora so che per primo io devo lasciare i miei ideali. C’è una Pasqua che è «del Signore» e che ci sorprende. Va ben al di là dei nostri migliori propositi: chiede di raccogliere le emergenze, di farci carico del dolore, di ridare vita dopo la morte. Come in un ospedale da campo che abbia armi spirituali.

«Lo mangerete in fretta» (Es 12,11). Lo farete scomodi.

Il Signore passerà. E la vita potrà non essere un dono, oppure sì.




Le Palme, i mantelli, i tappeti

Mentre Gesù entrava a Gerusalemme, osannato come un re, lo coprivano con rami di palma e lo festeggiavano scuotendo rami di ulivo e stendendo mantelli e tappeti al suo passaggio.

Il vangelo non lo dice mai, ma in quel giorno a ridosso della festa di Pasqua, Gesù deve avere pensato, da buon ebreo osservante, anche ad un’altra festa: quelle delle Capanne, che si celebra molto più avanti, in autunno.

Gli ebrei costruivano capanne con rami di palma e frasche, per ricordare di avere dimorato in capanne, durante il cammino nel deserto, e per celebrare i frutti del raccolto.

Osservando quella folla esultante, Gesù deve avere meditato ancora sulla sua vita itinerante – “il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Lc) – un cammino di uscita da se stesso per amare ogni uomo e ogni donna. Deve avere ammirato, con una certa tenerezza, gli effetti di un primo raccolto, che aveva conquistato tante persone, anche se lo deve avere guardato con quella benevolenza che si ha con i bimbi, quando ti raccontano un traguardo precario e solo iniziale.

Forse, in quel momento, gli è balenata l’intuizione di un altro itinerario, dentro e fuori Gerusalemme: dalla sera dell’ultima cena, attraverso la veglia nel giardino degli ulivi e la notte dell’arresto, poi di nuovo dentro al pretorio, di fronte a Pilato, e ancora fuori, nel luogo della crocifissione.

Una folla di tutt’altro segno.

Questa è la settimana dei paradossi.

L’uomo che fa il suo esodo non più nel deserto, ma nella città, e il Dio che viene espulso dal Santuario; l’ “Osanna” e il “Crocifiggilo!”; il Figlio di Dio rifiutato e il “figlio del Padre” (= Bar-abba) redento; l’offerta di sé e la paura; la flagellazione e l’Ecce Homo; la morte e la vita; la notte delle tenebre che risplende come luce.

Entrando a Gerusalemme, Gesù, in realtà, inaugurava la festa di Pasqua, la festa che ricordava l’immolazione dell’agnello e il passaggio del Mar Rosso. Gesù vi entra come Re, per finirvi come Agnello.

In questo abissale e mesto gioco di paradossi, la grande festa cristiana ci ricorda che in un mondo pieno di contraddizioni, dove ancora si fanno le guerre e si uccidono i bambini, nonostante tutto e sempre, con una tenacia irreversibile, noi desideriamo allargare gli spazi dell’amore e servire la vita con gioia pacificata.

 

Don Davide




Le celebrazioni della Settimana Santa

Siamo ancora relativamente lontani da Pasqua, ma vorrei continuare a guardare alle celebrazioni di quei giorni, affinché la consapevolezza dei riti che andremo a celebrare ci aiuti a vivere tempo di Quaresima.

La Settimana Santa, chiamata Grande Settimana nella tradizione orientale, si apre con la Domenica della Passione di Gesù, più conosciuta come Domenica delle Palme. È l’unica domenica dell’anno liturgico in cui l’accento cade principalmente sulla contemplazione e la meditazione della passione e morte di Gesù, piuttosto che sulla sua resurrezione. L’idea – espressa qui in modo necessariamente semplificato – è che chi non partecipa alle celebrazioni del Triduo Pasquale, celebra la passione e morte di Gesù nella Domenica delle Palme e la sua resurrezione nella Domenica di Pasqua, in modo da vivere la celebrazione unitaria del mistero pasquale, che comprende la passione, morte e resurrezione di Gesù.

Questo, in realtà, avviene ad ogni messa: «Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua resurrezione»; ma nelle due domeniche che includono la Settimana Santa in modo più evidente, e ancora di più nel Triduo Pasquale in cui, dopo il “Preludio” del Giovedì Santo, il ritmo della celebrazione diventa addirittura cronologico, scandendo giorno per giorno gli eventi.

Per questo, le celebrazioni della Settimana Santa hanno sempre una duplice connotazione. Da una parte sono giorni in cui si ricordano gli eventi dolorosi della passione e morte di Gesù, dall’altra sono giorni in cui celebriamo con grande entusiasmo (e persino gioia!), l’amore talmente grande e incondizionato di Gesù che ha dato la vita per noi e ci ha dato la vita attraverso la sua resurrezione.

Così la Domenica delle Palme ha sia il carattere festoso dei giorni della salvezza, sia il carattere di meditazione e di ascolto attento del racconto della Passione di Gesù, attraverso la lunga lettura dei Vangeli della Passione.

Il bel gesto della benedizione degli ulivi, con la conseguente processione, è il segno della nostra disponibilità ad accompagnare Gesù in questa settimana. L’ulivo benedetto è un gesto liturgico: indica che nella preghiera condivisa con il popolo di Dio, noi chiediamo la grazia di fare quello che nemmeno i discepoli furono capaci di fare: cioè seguire Gesù fin sotto la croce e poi essere resi partecipi della sua resurrezione. L’ulivo benedetto, quindi, non è un portafortuna, non “porta bene”, e considerarlo un talismano è un modo di profanarlo. Prenderlo al di fuori della celebrazione non conta niente: è come andare in un parco e strappare un ramoscello da un albero. L’ulivo benedetto, invece, può diventare un gesto di comunione, di riconciliazione e di pace, quando chi ha partecipato alla celebrazione ne porta un po’ a chi non ha potuto venire.

Per quanto riguarda la lettura della Passione, la liturgia prevede che ci possa essere molta partecipazione dei fedeli, e che le parti possano essere divise fra molti lettori, per riproporre l’intensità di quei momenti e la forza di quei racconti. La lettura “drammatizzata” diventa così una lettura “liturgica” e ci dice che siamo tutti invitati a entrare nello scenario di quei giorni in cui Gesù ci ha donato la vita.

Don Davide