La fede e la vita

Concludiamo, con questa domenica, l’itinerario pasquale prima delle due grandi feste che chiudono questo tempo di grazia: l’Ascensione (domenica 24 maggio) e Pentecoste (domenica 31 maggio).

I testi della liturgia si aprono con il diacono Filippo che predica la parola di Dio e le folle che ci vengono descritte come unanimi nell’ascolto, perché vedono i segni che accompagnano l’annuncio di Filippo.

Sostiamo su questi due particolari: la coerenza persuasiva di Filippo e le folle unanimi.

Filippo era un uomo noto e stimato, per questo era stato scelto come diacono per il servizio alle mense. Tuttavia, il racconto degli Atti ce lo mostra tutto dedito all’annuncio del vangelo. Proprio per la “coerenza” che lo caratterizza, non abbiamo alcun motivo per pensare che non si sia dedicato al servizio di carità. Anzi, dobbiamo credere che proprio quel servizio fa parte dei “segni” che tutti vedono e ammirano e da esso viene – quasi come forza intrinseca – la necessità di annunciare Gesù.

Questo discorso di Filippo, il suo stile, mette tutti d’accordo. È la migliore concretizzazione dell’invito nella seconda lettura ad essere pronti a rendere ragione della speranza cristiana, con uno stile inoppugnabile.

Domani riprenderanno le messe. Abbiamo vissuto tutta la Quaresima e quasi tutto il tempo di Pasqua senza la celebrazione dell’Eucaristia, ma non senza vivere e testimoniare la nostra fede in molti modi. Ritornare a messa domani (lunedì 18) non può certo essere un “riprendere da dove ci eravamo lasciati”, come se nulla fosse successo.

A me sembra che proprio questa lezione che impariamo dall’esempio di Filippo ci possa aiutare. Tornare a messa è la conseguenza delle nostre azioni, coerenti con la nostra fede. In questo tempo ci abbiamo messo tutta la carità possibile, non da soli e insieme a tanti altri fratelli e sorelle. Ma questo avere partecipato alla crisi del mondo ci fa sentire ancora più l’urgenza di ascoltare la Parola di Dio insieme, di esprimere il frutto della terra, della vite e del nostro lavoro, di annunciare la Pasqua del Signore finché egli venga. La fede che ha sempre i piedi ben piantati nella vita e la vita che sbocca spontaneamente nell’espressione della fede sono per noi due poli inscindibili. Fede e vita, vita e fede. Sempre insieme o accanto a tutti gli uomini e le donne che desiderano considerarsi fratelli e sorelle, o amici. Il collante di tutto è l’amore.

L’amore che per noi cristiani ha la forma concreta dei sentieri che Gesù ci indica. In essi noi riconosciamo di non essere orfani di indicazioni, al contrario, riscopriamo di avere un Padre amorevole e buono, un papà con cui abbiamo un ottimo rapporto, che ci indica le vie della vita.

Don Davide

fede e vita




La strada di casa

Nella pagina dei discepoli di Emmaus è assolutamente centrale il camminare. “È successo di tutto in questi giorni – dicono – anche tante cose brutte…” cose che li spingono a negare l’evidenza della resurrezione; invece, l’importante è che loro, con questo peso nel cuore, continuino a camminare, affinché il Pellegrino Misterioso si metta al loro fianco e si manifesti come il Risorto, vincendo tutte le motivazioni contrarie.

Non è un camminare generico: è il ritorno verso casa. Erano a Gerusalemme e si stanno dirigendo al loro paese: Emmaus. È il camminare come metafora del ritorno a casa. Tutti noi dobbiamo tornare verso casa, perché la nostra cittadinanza è nei cieli (Fil 3,20). Affinché questo non sia un essere strappati alla vita, ma un sapersi accolti in un luogo famigliare e pieno di affetto, il “ritorno a casa” deve compiersi anche lungo il cammino, non solo quando si arriva alla meta.

Torniamo a casa quando decidiamo di amare, quando accettiamo noi stessi scegliendo il bene, la giustizia, il coraggio e l’altruismo. Torniamo a casa quando perdoniamo e siamo perdonati; quando ci riconciliamo. Torniamo a casa quando accogliamo il nostro dovere e quando smettiamo di essere in competizione con gli altri. Torniamo a casa quando invece di lasciarci sopraffare dalle delusioni, facciamo spazio alla speranza.

In questi ultimi anni la Rai ha prodotto due serie su questa idea, una dal titolo esplicito: La strada di casa; l’altra, più recente: Doc. Entrambi protagonisti sono come un Ulisse contemporaneo, che si trova a dovere fare un lungo e difficile percorso, per riscoprire se stesso, gli affetti, la casa, il lavoro e il proprio ruolo. Il fatto che siano di alta qualità e che abbiano avuto un enorme successo, la dice lunga sulla nostalgia di questo “viaggio”.

Sembrerà assurdo che io parli del “ritorno a casa”, in un questo periodo in cui siamo stati costretti a casa da più di un mese. Diremmo piuttosto che abbiamo nostalgia dei parchi, di un viaggio all’estero, del cinema, di una cena con gli amici.

La strada di casa

Ma il cammino di ritorno dei discepoli è qualcosa di molto più profondo, che riguarda le coordinate fondamentali dell’esistenza: “Noi speravamo che fosse lui…”.

Speravamo.

Speravamo che ci fosse un senso definitivo alle cose. Invece ci troviamo qui, precari, con delle delusioni, in mezzo a mille difficoltà… solo col desiderio di ritornare a casa.

Finalmente arrivano a casa.

Questo particolare, ha fatto pensare a qualche interprete che fossero marito e moglie, una coppia. In questa logica, nel testo verrebbe ricordato solo il nome di Cleopa, in quanto permetteva di identificare anche sua moglie. Accettiamo questa suggestione. Arrivano a casa loro e pronunciano quell’invito memorabile: “Resta nella nostra casa, perché è il momento per tutti di tornare a casaanche per te, Gesù. Fa’ che questa sia la tua casa… e tu la nostra.”

In realtà tutte queste cose le dicono col cuore, quel cuore che esplodeva di sentimenti e di emozioni, mentre con le labbra dicono solo l’intuizione ancora non consapevole del tumulto interiore.

Così, Gesù che è stato tanto in casa nostra, in questo periodo, è invitato a sentirla come casa sua. E noi siamo invitati a sentirci a casa non solo con lui, ma in lui. E Gesù, a casa sua, celebra l’Eucaristia con la benedizione del pane e del vino.

Anche in questo caso, dicono gli interpreti che c’è un continuo rimando tra una cena usuale e la cena rituale eucaristica. Non è che Gesù celebri la messa… ma in quei gesti c’è un palleggio come a ping pong fra l’una e l’altra, tra la cena in casa nostra e la benedizione di Gesù sul pane e sul vino in casa sua.

Non c’è un primato.

Tutto parte dal continuare a camminare, dallo stare sempre in cammino con questo desiderio nel cuore di tornare a casa. È un tornare ad incontrare il Risorto e permettergli, in mezzo a tutte le tribolazioni, di farsi riconoscere e di farci divampare il cuore. Non sappiamo se venga prima l’abitare in lui per trovare la strada di casa; o se sia necessario tornare in noi stessi per dimorare in lui. In realtà, lui non bada a queste cose. È il Risorto, varca tutti gli ostacoli – lo abbiamo ricordato più volte – e si fa vicino al cammino di ciascuno di noi, lì dove siamo, così come siamo. E in questo ritorno – nostro e suo – c’è un rimando continuo, tra quello che abbiamo fatto in casa nostra, che è diventata casa sua, e quello che lui vuole fare in casa sua, che diventa casa nostra. Slittiamo impercettibilmente e anche noi senza confini e senza ostacoli da una casa all’altra, da una mensa all’altra, da un ospite amico al fatto di accogliere il Signore Risorto e viceversa, perché solo in questo sconfinamento di ritorno continuo noi possiamo trovare veramente la strada di casa.

Don Davide